La crisi economico-finanziaria che si è abbattuta prima sugli Stati Uniti e poi sul Vecchio Continente ha avuto diverse ripercussioni globali, ma c’è però un aspetto che colpisce in maniera particolare. Da allora, gran parte della borghesia è scomparsa.
Scomparsa o quasi: il ceto medio è stato il più colpito dalla crisi e, a grandi numeri, si è andato a riposizionare in una fascia sociale inferiore. Dal 1990 al 2013, le persone sotto la soglia di povertà nel mondo sono passate da due miliardi a 767 milioni, cioè dal trentacinque per cento a poco più del dieci: a uscire “vincitori” dalla globalizzazione sembrerebbero dunque i più ricchi e i più poveri. E la borghesia? I perdenti sono le fasce intermedie che hanno perso il lavoro, il reddito, ma soprattutto lo status sociale. Ceto medio vuol dire anche borghesia e borghesia vuol dire anche ceto medio. In Straborghese, libricino di quarant’anni fa, Sergio Ricossa individuò – tra filosofia e goliardia, tra paradosso e polemica – le caratteristiche essenziali del borghese, un dinosauro semi-estinto al giorno d’oggi.
La borghesia, ovvero lo strato sociale entro cui il borghese interagisce, secondo Ricossa è un carattere; innato o da coltivare. Un atteggiamento e un’attitudine. «Non contano i soldi e la posizione sociale», spiega il professore torinese; «si può nascere mezzo borghesi in una famiglia contadina od operaia»: borghesi lo si è nell’anima/o, in sostanza.
L’essere borghesi è uno stile di vita: è l’individuo che, con personale etica e rigore, sceglie questa “modalità” per portare avanti i propri interessi. Nella sua vita il borghese sperimenta, crea, innova: cerca di migliorare l’ambiente attorno a sé e di migliorarsi interiormente; due elementi che renderanno le sue azioni più proficue. Insomma: fa di testa sua, tocca con mano, sperimenta, rischia.
Ricossa mette in guardia chiunque voglia diventare borghese, perché «la borghesia trasforma la vita in una continua competizione». È dunque chiaro che il borghese sia un essere irrequieto: non è calmo, non conosce riposo.
«Il borghese è essenzialmente chi vuole farsi da sé.» Colui che crede nel libero mercato e nella libera competizione tra gli individui, animati dalla voglia di fare, produrre ed inventare.
Il borghese lo si riconosce per l’individualismo, «lo spirito di indipendenza, l’anticonformismo, l’orgoglio e l’ambizione, la volontà di emergere, la tenacia, la voglia di competere, il senso critico, il gusto della vita.» “Gusto della vita” che non vuol dire sprecare o scialacquare le risorse a propria disposizione (il borghese ha rispetto del denaro); «la borghesia odia […] che si sprechi anche solo una briciola.» Specialmente perché sa quanto ci vuole per guadagnarsi ogni singolo centesimo. Il borghese è l’homo ludens, «cioè chi ama vincere, in gara con gli altri o con se stesso.»
Continua Ricossa: «il borghese ha fede in se stesso e poco altro», non si fida molto degli altri, tuttavia non è sospettoso di principio e soprattutto non è in malafede.
Egli «si studia intensamente, si conosce senza ipocrisie, vede le sue debolezze.» Non mente di fronte allo specchio. Il borghese non “si” racconta bugie: cerca di non essere ipocrita – aborrisce l’ipocrisia imperante nella società dei teatrini e dei costumi delle (finte) “buone maniere” –; ha dunque ha un “suo” orgoglio.
Il borghese «morirebbe di fame pur di non chiedere l’elemosina. Perciò il mendicante non lo impietosisce oltremisura» così come «il fallimento altrui non lo disturba» più di tanto. Ben lontano dall’immagine dell’egoismo che gli viene affibbiata dagli invidiosi di turno, il borghese basa la propria etica e convinzione eco-social-politica «sulla responsabilità individuale, sulla colpa individuale e sulla punizione individuale». Il borghese si autoregola ed ha un forte senso del dovere: sa che ad ogni azione o parola corrisponde inevitabilmente una conseguenza; e non fa finta di credere che non sia così.
Il borghese riconosce ed ama il rischio: di far successo e di fallire dopo tanto lavoro, «ma disprezza chi è avanti senza merito, per privilegio, o chi dà via l’indipendenza per avere protezione». In soldoni: adora la meritocrazia e cerca di promuoverla; forte è il suo disprezzo per ciò che è immeritato.
Il borghese «giustifica la sua avidità col merito individuale, [mentre] il collettivista deve inventare il merito collettivo, di razza, di nazionalità, di classe, di corporazione». Il borghese non è razzista, perché non crea classi: crede solo nell’uomo e nel suo potenziale individuale a discapito dello stato sociale, della religione, dell’etnia, del credo politico. Contrariamente a quanto è stato predicato per anni, specialmente a sinistra, il borghese non ha buoni rapporti con l’aristocrazia. Il borghese non è un aristocratico. De facto, non sopporta la nobiltà; l’aristocrazia, dal canto suo, disprezza il borghese perché ha paura di essere spodestata dall’operosità di chi fa la gavetta.
Il borghese è tirchio ed avido? Nient’affatto! A parte che crede nel merito individuale, egli «sente poco la solidarietà in generale, perché pensa che se egli si fa da sé, senza aiuti, tutti debbano farsi da sé. Lottatore, nega tuttavia la “lotta di classe”». Il borghese è un solitario, individualista; «si trova aggredito da ogni parte. Non ha alleati fuori della famiglia, fuori da una piccola cerchia di amici.» Per questo è totalmente un individuo a sé: fondamentalmente è solo.
Il borghese crede nel miglioramento individuale; non è bellicoso e pertanto non è marxisticamente invidioso di chi ha più di lui. «Il borghese è scarsamente missionario: la gente faccia quel che vuole, purché non dia fastidio.» Secondo lui, la tanto celebrata “gente” deve essere quanto più diversificata; gli individui sono tutti diversi ed eterogenei.
Il borghese spende liberamente il danaro che si è conquistato con fatica e sudore, senza dover rendere conto a nessuno; «non agli invidiosi, non ai conformisti, non ai filistei, non agli innumerevoli che pretenderebbero di vivere alle sue spalle.» Inoltre, il borghese pensa che il mercato debba essere fondato sul laissez-faire; un sistema molto democratico per la conquista individuale dei beni: molto più “equo” ed efficiente di uno Stato-imprenditore assistenzialista che concede il razionamento al suddito.
Il borghese, ovviamente, disprezza la burocrazia improduttiva: in questo senso, per lui lo Stato non esiste più di tanto e deve fare poco; tra cui regolare la sicurezza e amministrare la giustizia. Infine, «non è vero che tutti i lavoratori abbiano i medesimi interessi e che il sindacato tuteli gl’interessi di tutti i lavoratori. Un contratto collettivo di lavoro, che trattando tutti allo stesso modo indiscriminato favorisce di fatto i meno produttivi, danneggia i più produttivi.» Il borghese, lo stra-borghese di Sergio Ricossa, conosce e predilige la libertà all’uguaglianza.
Amedeo Gasparini