I nazisti erano socialisti? La risposta nelle parole di Joseph Goebbels

Invecchiando ci si rende conto che alcune cose non cambieranno mai.

Gli appassionati di sport discuteranno sempre  del fuorigioco e di chi sia il miglior pugile di tutti i tempi (Muhammad Ali). Gli appassionati di cinema non saranno mai d’accordo su quale film del Padrino sia il migliore (il primo). E le trombe annunceranno la seconda venuta di Cristo prima che liberali e socialisti si saranno accordati sulla questione: i nazisti erano socialisti?

Quest’ultima questione mi ha sempre lasciato perplesso, lo confesso, e non solo perché la risposta è proprio nel nome: “nazionalsocialismo”. Se si leggono i discorsi e le conversazioni private dei gerarchi nazisti risulta evidente che amavano il socialismo e disprezzavano l’individualismo e il capitalismo.

Nel suo nuovo libro “Hitler’s National Socialism“, lo storico Rainer Zitelmann offre una visione a tutto tondo sulle idee che hanno plasmato uomini come Hitler e Goebbels. Sebbene sia chiaro che essi considerassero il loro socialismo come distinto dal marxismo (e su questo punto ci soffermeremo più avanti), non c’è dubbio che vedessero nel socialismo l’ideologia del futuro e disprezzassero il capitalismo e la borghesia.

Consideriamo, ad esempio, le seguenti citazioni di Joseph Goebbels, il Ministro della Propaganda del partito nazionalsocialista:

  1. “Il socialismo è l’ideologia del futuro.” – Lettera a Ernst Graf zu Reventlow, riportata in “Goebbels: A Biography
  2. “La borghesia deve cedere alla classe operaia […] Tutto ciò che sta per cadere deve essere spinto a terra. Siamo tutti soldati della rivoluzione. Vogliamo la vittoria dei lavoratori sullo sporco profitto. Questo è il socialismo.” – Citato in “Doctor Goebbels: His Life and Death
  3. “Siamo socialisti perché vediamo nel socialismo, cioè nella dipendenza di tutti i compagni gli uni dagli altri, l’unica possibilità per la conservazione della nostra genetica razziale e quindi per la riconquista della nostra libertà politica e per il ringiovanimento dello Stato tedesco”. – Citato in “Perché siamo socialisti?“, Der Angriff, 16 Luglio 1928.
  4. “Non siamo un’istituzione caritatevole, ma un partito di socialisti rivoluzionari”. Editoriale del Der Angriff, 27 maggio 1929
  5. “Il capitalismo assume forme insopportabili nel momento in cui gli interessi personali che serve sono contrari all’interesse della collettività. Esso si fonda sulle cose e non sulle persone. Il denaro è l’asse attorno al quale ruota tutto. Per il socialismo è il contrario. La visione del mondo socialista inizia con la gente e poi passa alle cose. Le cose sono asservite al popolo; il socialista mette il popolo al di sopra di tutto, e le cose sono solo mezzi per un fine”. – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  6. “Nel 1918 il socialista tedesco aveva un solo compito: tenere le armi e difendere il socialismo tedesco” – “Capitalismo“, Der Angriff, 15 luglio 1929
  7. “Essere socialista significa lasciare che l’io serva il prossimo, sacrificare l’io per il tutto. Nel suo senso più profondo, il socialismo è altruismo.” – Note del diario, 1926
  8. “Le linee del socialismo tedesco sono nitide e il nostro cammino è chiaro. Siamo contro la borghesia politica e per un autentico nazionalismo! Siamo contro il marxismo, ma per il vero socialismo!” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  9. “Siamo socialisti perché vediamo la questione sociale come una questione di necessità e di giustizia per l’esistenza stessa di uno Stato per il nostro popolo, non come una questione di pietà a buon mercato o di insulso sentimentalismo. Il lavoratore ha diritto a un tenore di vita che corrisponda a ciò che produce”. – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932
  10. “L’Inghilterra è una democrazia capitalista. La Germania è uno Stato popolar-socialista” – “Englands Schuld” (il discorso non è datato, ma probabilmente è stato pronunciato nel 1939).
  11. “Poiché siamo socialisti abbiamo sentito le più profonde benedizioni della nazione, e poiché siamo nazionalisti vogliamo promuovere la giustizia socialista in una nuova Germania” – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  12. “Il peccato del pensiero liberale è stato quello di trascurare i punti di forza del socialismo nella costruzione della nazione, permettendo così alle sue energie di andare in direzioni antinazionali”. – “Die verfluchten Hakenkreuzler. Etwas zum Nachdenken“, 1932
  13. “Essere socialisti significa sottomettere l’io al tu; il socialismo è sacrificare l’individuo al tutto. Il socialismo è nel suo senso più profondo servizio”. – Citato in “Fuga dalla libertà“, Erich Fromm
  14. “Siamo un partito operaio perché vediamo nella prossima battaglia tra finanza e lavoro l’inizio e la fine della struttura del ventesimo secolo. Siamo dalla parte del lavoro e contro la finanza […] Il valore del lavoro sotto il socialismo sarà determinato dal suo valore per lo Stato, per l’intera comunità” – “Those Damn Nazis: Why Are We Socialists?“, 1932

Queste citazioni rappresentano solo un’infarinatura della concezione di Goebbels del socialismo. Si può notare che per molti versi i nazisti parlavano in modo molto simile a Karl Marx.

Frasi come “siamo un partito operaio“, “l’operaio ha diritto a un tenore di vita corrispondente a ciò che produce“, “il denaro è l’opposto del socialismo” e “siamo contro la borghesia politica” potrebbero essere facilmente estrapolate dai discorsi e dagli scritti dello stesso Marx, ma è chiaro che Goebbels disprezzava Marx e vedeva il suo modello di “nazionalsocialismo” come distinto dal marxismo.

Cosa distingue dunque il nazionalsocialismo dal marxismo? Le differenze principali sono due.

La prima è che Hitler e Goebbels fusero il loro socialismo con il nazionalismo e il razzismo tedeschi, rifiutando lo spirito internazionale del marxismo – lavoratori di tutto il mondo unitevi! – per uno più pratico che enfatizzava il movimento popolare tedesco.

Questa fu un’abile mossa da parte dei nazisti. Come ha sottolineato il premio Nobel per l’economia F. A. Hayek, essa rese il socialismo più appetibile a molti tedeschi che non erano in grado di vedere il nazismo per quello che era veramente:

“La tragedia suprema è che ancora non ci si rende conto che in Germania sono state in gran parte le persone di buona volontà che, con le loro politiche socialiste, hanno preparato la strada alle forze che rappresentano tutto ciò che detestano”, scrisse Hayek in “La via della schiavitù” (1944). “Pochi riconoscono che l’ascesa del fascismo […] non fu una reazione contro le tendenze socialiste del periodo precedente, ma un risultato necessario di quelle tendenze”.

La seconda differenza è che i nazionalsocialisti erano meno propensi a controllare direttamente i mezzi di produzione.

Nel suo libro del 1940 “German Economy“, Gustav Stolper, economista e giornalista austro-tedesco, spiegò che sebbene il nazionalsocialismo fosse anti-capitalista fin dall’inizio, era anche in diretta competizione con il marxismo dopo la Prima Guerra Mondiale. Per questo motivo, i nazionalsocialisti decisero di “corteggiare le masse” da tre diverse angolazioni.

“La prima era il principio morale, la seconda il sistema finanziario, la terza la questione della proprietà. Il principio morale era la comunità prima dell’interesse personale. La promessa finanziaria era rompere la schiavitù dagli interessi. Il programma industriale era la nazionalizzazione di tutte le grandi imprese. Accettando il principio ‘la comunità prima dell’interesse personale’, il nazionalsocialismo enfatizzava semplicemente il suo antagonismo allo spirito di una società competitiva, rappresentato presumibilmente dal capitalismo democratico […]. Ma per i nazisti questo principio significava anche la completa subordinazione dell’individuo alle esigenze dello Stato. E in questo senso il nazionalsocialismo è indiscutibilmente un sistema socialista”.

Stolper, fuggito dalla Germania agli Stati Uniti dopo l’ascesa al potere di Hitler, notò che i nazisti non avviarono mai una nazionalizzazione diffusa dell’industria, ma spiegò che questo non comportò alcuna differenza con il socialismo.

“La nazionalizzazione dell’intero apparato produttivo tedesco, sia agricolo che industriale, fu ottenuta con metodi diversi dall’espropriazione, in misura molto maggiore e su una scala incommensurabilmente più ampia di quanto gli autori del programma del partito nel 1920 probabilmente avessero mai immaginato. Infatti, non solo i grandi trust furono gradualmente ma rapidamente sottoposti al controllo statale, ma anche ogni tipo di attività economica, lasciando solo il titolo di proprietà privata”.

Nel suo libro del 1939 “The Vampire Economy: Doing Business Under Fascism“, Guenter Reimann giunse a una conclusione simile.

Lo storico dell’economia Richard Ebeling osserva che:

“Sebbene la maggior parte dei mezzi di produzione non fosse stata nazionalizzata, era stata comunque politicizzata e collettivizzata sotto un’intricata rete di obiettivi di pianificazione nazista, di regolamenti sui prezzi e sui salari, di regole e quote di produzione e di severi limiti e restrizioni all’azione e alle decisioni di coloro che erano rimasti, nominalmente, i proprietari delle imprese private in tutto il Paese. Ogni imprenditore tedesco sapeva che la sua condotta era prestabilita dallo Stato e collocata all’interno dei più ampi obiettivi di pianificazione del regime nazionalsocialista”.

La documentazione storica è chiara: il fascismo europeo era semplicemente una sfumatura diversa del socialismo, il che aiuta a spiegare, come ha notato Hayek, perché così tanti fascisti erano “ex” socialisti, “da Mussolini in avanti“.

Come Marx, i nazisti detestavano il capitalismo e consideravano la volontà e i diritti individuali subordinati agli interessi dello Stato. Non dovrebbe sorprendere che queste diverse sfumature di socialismo abbiano ottenuto risultati simili: povertà e miseria.

I socialisti continueranno a sostenere che il nazismo non era il “vero” socialismo, ma le parole del famigerato ministro della propaganda nazista suggeriscono il contrario.

(Traduzione dell’articolo Joseph Goebbels’ Own Words Show He Loved Socialism and Saw It as ‘the Future’, J. Miltimore, FEE.org)

Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27