L’Italia e lo Stato nel Terzo Millennio: Quanta spesa pubblica? Esegesi di uno stato snello

Il libro “Lo Stato nel Terzo Millennio” è, a mio parere, uno dei capisaldi del pensiero liberale del nostro secolo. Scritto dal Principe del Liechtenstein, in esso viene descritto uno Stato più leggero, limitato a poche funzioni come il funzionamento delle corti, la difesa e la politica estera, decentrando le restanti funzioni ai privati, alla società e alle comunità locali. Lo Stato, inoltre, sarebbe finanziato solo tramite imposte indirette, lasciando quelle dirette alle comunità locali.

Ma quanto, in effetti, peserebbe lo Stato centrale, a livello economico in un sistema del genere? Proviamo a fare un piccolo calcolo.

Difesa e sicurezza

Quanto spende l’Italia in difesa, ogni anno? Nel 2018 abbiamo speso 21 miliardi di Euro, cifra tra l’altro inferiore al 2% del PIL richiesto dalla NATO. E, in tutto ciò, sono inclusi i Carabinieri.

Bisogna considerare anche la sicurezza: Se lo Stato immaginato da Giovanni Adamo prevede il possibile decentramento anche di questo compito è facile immaginare la necessità, comunque, di avere un corpo di polizia statale, ad esempio per proteggere le frontiere o combattere fenomeni sovralocali quali la criminalità organizzata. Ebbene, lo Stato spende circa 25 miliardi in ciò, contando però anche i già contati Carabinieri e anche altri servizi che sarebbero decentrati o sono computati altrove.

Poniamo di volere un unico corpo statale di polizia che includa gli attuali Carabinieri e metà della Polizia di Stato. Ecco, dovremmo aggiungere 3 miliardi. E se vogliamo anche Pompieri e Protezione Civile statali sono altri 3, aumentando tra l’altro il finanziamento nel mentre. Totale 26 miliardi. (non sono pazzo, sono le approssimazioni a portare a 26)

Politica estera, giustizia e Parlamento

La giustizia, incluso il sistema carcerario, pesa circa 5 miliardi di Euro. Si possono fare passi in avanti, specie nella gestione carceraria, riducendo i costi, ma prendiamo pure il dato intero.

La politica estera, invece, costa circa 3 miliardi, includendo anche gli aiuti internazionali.

E il Parlamento? Il Principe immagina un parlamento monocamerale e ridotto, quindi prendiamo come dato quello del Senato, che costa agli italiani circa 600 milioni di Euro.

Istruzione e welfare

Lo Stato nel Terzo Millennio prevede esplicitamente un sistema scolastico a voucher. Fortunatamente, già sappiamo grosso modo quanto costerà: Con 5000€ l’anno ad alunno fanno 43 miliardi, ai quali vanno aggiunti circa 7 miliardi di finanziamenti alle università, ponendo che vengano mantenuti e non siano adottati sistemi quale l’ISA. In sostanza, il Ministero dell’Istruzione avrà un bilancio di 50 miliardi di Euro, creando tra l’altro una redistribuzione economica verso i comuni che decideranno di aprire scuole e riusciranno ad offrire l’istruzione a meno di quanto ricevano dal voucher.

Il welfare, invece, è tipicamente materia degli enti locali, e lo Stato viene visto come ultima istanza in caso di necessità. In questa ottica, una possibile proposta sarebbe quella di istituire un voucher welfare incondizionato di 1’000€ l’anno: Sarebbero 60 miliardi l’anno, che poi le persone potranno spendere per aderire ad un’assicurazione sociale sanitaria oppure per versarli al proprio ente locale di riferimento ed ottenere dei benefici. Sia chiaro, non sarebbe l’unica fonte di welfare, ma sarebbe l’unico sistema uniforme di welfare. Saranno poi gli enti locali a quantifare la misura rispetto alle esigenze del richiedente.

Il risultato economico

In totale, quindi, avremmo una spesa statale di circa 145 miliardi di Euro l’anno. Poniamo ancora che lo Stato abbia altri 35 miliardi di spesa indifferibile, necessaria e non decentrabile, magari per infrastrutture che debbono essere necessariamente statali. Sarebbe una spesa pubblica di 170 miliardi. Ma dobbiamo anche ridurre il debito pubblico, no? Decidiamo di destinare dunque 20 miliardi di Euro alla riduzione del debito. È poco, perché di questo passo il debito sarebbe estinto in quasi 130 anni.

Un totale, quindi, di 200 miliardi di Euro l’anno. Abbiamo ridotto la spesa statale da quasi il 50% del PIL a poco più del 10%. Abbiamo liberato enormi risorse per le comunità locali e gli individui, ossia le unità base del nuovo sistema.

Ma, soprattutto, lo Stato si finanzierebbe solo con imposte indirette, lasciando quelle dirette solo alle comunità locali. Per la Ragioneria dello Stato nel 2019 lo Stato incasserà circa 250 miliardi di imposte indirette, tolte le quote da destinare all’Unione europea. In sostanza, un avanzo di bilancio di 50 miliardi, includendo anche un bonus “che non si sa mai” da 35 miliardi e un ammortamento del debito da 20 miliardi. Se non lo si volesse usare per il debito si potrebbe, come propone il Principe, distribuirlo alle comunità locali proporzionalmente: 800€ circa per abitante. Milano, per esempio, prenderebbe più di un miliardo ogni anno da questa redistribuzione, il tutto senza contare che la città avrebbe capacità impositiva.

Parliamo, però, di mere ipotesi purtroppo. Cambiando un po’ la Costituzione sarebbe tutto fattibile, per carità, ma ci sarebbe il problema delle pensioni! Infatti quelle in essere devono essere pagate. Se si vuole modernizzare realmente l’Italia il primo passo dev’essere necessariamente fare sacrifici per passare al sistema pensionistico a capitalizzazione, poiché tutto il resto è bene o male decentrabile in breve tempo.

E perché converrebbe

Ma quali sarebbero le conseguenze di un taglio alla spesa così draconiano? Oltre al liberare risorse – cosa che porta quasi sempre a crescita economica – potrebbero non esserci grandi danni per lo stato sociale che, anzi, potrebbe migliorare. Come mai? Perché la gran parte delle risorse oggi stanziate per gli aiuti vanno, in realtà, all’amministrazione che li ottimizzano in maniera inefficiente.

Il welfare vero non sarebbe più appannaggio di un ente magico, che risolve i nostri problemi, ma cooperare per contare l’uno sull’altro. Ciò funziona bene nelle comunità locali, non negli elefantiaci stati nazionali. A fronte di una richiesta di occupazione, perdono di significato i Centri per l’Impiego se gli enti locali dispongono di una lista di chi necessita impiego, o magari attraverso un semplice sistema di rete fra cittadini. Poco burocratico? Sicuramente, ma probabilmente efficace. L’esperienza delle piccole attività e degli artigiani come bar o barbieri insegnano che funziona.

Tutto ciò vale anche per il contrasto alla povertà: Le ricette nazionali devono coniugare troppe esigenze per funzionare bene. Una politica di vicinanza invece funziona meglio. Un comune – o un ente di pari livello – è un’autorità che è in grado di aiutare chi è povero ad un livello più umano che economico. “Toh, tieni 600€ al mese”, chiunque sarebbe capace di farlo a disposizione dei soldi (degli altri) da poter spendere, riuscire a prendere una persona e farla uscire dalla povertà è diverso e richiede una visione umana differente da soggetto a soggetto, una visione che la burocrazia centralizzata non potrà mai avere.

Inoltre, essendo sistema di welfare slegati, ogni comunità può trovare la propria quadra riguardo alla propria situazione specifica: La maniera in cui Venezia contrasta la povertà non creerà un precedente vincolante per Morterone o per Bari, che magari hanno situazioni di povertà completamente diverse.

Non tutte le misure possono essere devolute agli enti locali, che potrebbero creare una situazione troppo dispersive, un esempio è la sanità: avere centinaia di Servizi Sanitari Locali rischia di creare non pochi problemi. Pensate ad un SSL (Sistema Sanitario Locale) composto da pochi comuni che si trova a dover pagare un intervento molto costoso ad un proprio assistito: nonostante in Italia gli interventi chirurgici non abbiano coti esorbitanti, il costo degli interventi a fronte di una bassa quantità di contribuenti nel sistema locale, potrebbe recare qualche grana nel bilancio del Servizio Sanitario Locale.

In questo caso, la soluzione potrebbe essere il modello Bismarck: assicurazioni sociali in leale concorrenza che funzionano a livello nazionale che pagano prestazioni presso strutture che possono essere pubbliche, private o sociali.

Lo Stato sociale prova ad emulare per vie legali il comportamento tradizionale dei piccoli gruppi. Una grande burocrazia è richiesta per gestire e controllare il processo e, al netto degli alti costi, il sistema mette in pericolo la libertà dell’individuo e in una democrazia dà la possibilità ai partiti politici di “comperare” voti con i soldi dei contribuenti.

In questa citazione c’è la spiegazione semplice del perché tale sistema funzionerebbe: Perché è insito nella nostra natura. Siamo propensi ad aiutare il prossimo, ma, come ben è spiegato nel libro, di aiutare una persona a 1000 chilometri di distanza ci importa meno e lo facciamo peggio.

Anche perché è obiettivamente difficile farlo: si immagini come potrebbe un milanese aiutare un disoccupato tarantino con convinzione verso il sistema di contribuzione nazionale? È difficile, ben più difficile che sedersi ad un tavolo e trovare soluzioni per il proprio vicino di casa.

Invece su scala locale tutto ciò diviene più semplice e meno costoso. E, solitamente, quanto più una popolazione ha soldi in tasca tanto più tende a spenderne una parte per aiutarne il prossimo.

Certo, vorrebbe dire togliere lo Stato da settori come le infrastrutture. E se per una qualche ragione un’infrastruttura necessaria non fosse costruita, magari per mancanza di fondi, né dai privati né dalle autonomie? Beh, il sistema è a prova di bomba: Lo Stato destinerebbe, per qualche anno, l’eccedenza che ha dalle imposte indirette alla costruzione dell’infrastruttura. Corrisponderebbe di fatto ad un aumento delle imposte, poiché si ridurrebbero i versamenti alle comunità locali, ma offrirebbe comunque una via per risolvere in via urgente alcune situazioni, che poi si potranno successivamente adattare al decentramento.

In ogni caso, gli enormi vantaggi di un welfare migliore, meno costoso e più vicino al cittadino e di una netta riduzione della spesa pubblica statale supererebbero nettamente i piccoli incidenti di percorso che sono naturali in un sistema decentrato.

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http://www.brunoleoni.it/lo-stato-nel-terzo-millennio

 

Evasione fiscale? La colpa è dello Stato

In questa settimana è tornata, direi con prepotenza, il tema dell’evasione fiscale. Oltre ai soliti slogan “se finalmente pagano tutti, potremo abbassare le tasse”, arrivano nuovi slogan e, soprattutto, nuove proposte.

Il Movimento 5 Stelle è giunto a proporre il carcere per chi non paga le tasse. Non si tratta di qualcosa di basso rilievo, ma di carcere fino a 8 anni con possibilità di confiscare i beni. Quest’ultima misura, oggi, è prevista solo per reati di Mafia. Ma l’interesse di Luigi Di Maio è di estenderlo anche a coloro che non pagano le tasse.

La battaglia all’evasione fiscale è dunque iniziata. Lo dimostrano le stesse parole dell’attuale Presidente del Consiglio:

“Stiamo mettendo a punto gli ultimi dettagli della manovra, le ultime misure, non voglio anticipare ovviamente i dettagli ma ci sta molto impegnando il piano anti-evasione”.

Le cifre dell’evasione fiscale sono spaventose per dimensioni. Si parla di circa 100 miliardi di euro. Le principali evasioni provengono dall’IVA e dall’IRPEF.

Sempre secondo il presidente Conte:

“Essere onesti conviene, recuperare un euro dall’economia sommersa significa poter investire nella scuola pubblica, poter investire negli ospedali, significa poter ridurre le tasse a tutti”.

Eccolo quà. Si torna sempre al punto di partenza. L’immancabile slogan “pagare tutti per pagare meno” è ormai roba diffusa tra i lottatori contro l’evasione fiscale.

Peccato però che questo slogan sia più falso di una banconota di 15 euro. L’impressione è che anche stavolta, il governo di turno, è cieco rispetto all’attuale scenario. Cieco, o meglio, finto-cieco? Forse non è nemmeno corretto definirli ciechi. Forse questa strategia di comunicazione è particolarmente efficace per il socialista di turno.

Attualmente, la realtà italiana è ben diversa da quella raccontata da Conte:

  • Spesa Pubblica: +2.4% rispetto al 2018
  • Pressione fiscale generale pari al 55% (550€ ogni 1000 di PIL finiscono allo Stato)
  • Abbiamo lo stesso PIL pro capite di 15 anni fa
  • Non si riscontrano aumenti significativi di produttività negli ultimi 25 anni
  • Un dipendente costa all’azienda quasi il doppio (rispetto all’effettivo stipendio ricevuto dal lavoratore – ndr)
  • La quota di profitto – che riguarda le società non finanziarie e il reddito da capitale ottenuto sul valore aggiunto prodotto – è al 40,7%, cifra più bassa dal 1999
  • Molti servizi pubblici sono del tutto inefficienti

(Dati raccolti Da Institute Heritage, OCSE, CGIA di Mestre, 2019)

Questi dati, seppur non esaustivi, devono invitarci a fare una riflessione molto seria. Ci sono delle differenze sostanziali tra i dati reali dell’economia italiana rispetto al racconto del Governo. Il Governo di turno racconta l’evasione fiscale come una “mancata solidarietà”, “i cattivi che non vogliono pagare le tasse”, “l’avidità dei ricchi”. In realtà il quadro italiano racconta tutt’altro. Racconta un Paese in estrema difficoltà economica. Le aziende non vanno avanti, ma si trascinano avanti. La produttività è appena sufficiente, i profitti sono appena sufficienti, i redditi degli italiani sono gli stessi.

Il Governo e la stessa OCSE (documento aprile 2019) spiegano come i sussidi alla povertà dovrebbero stimolare la ripresa economica. Allora, Vi pongo una domanda: se in Italia gli occupati sono il 59% (dati ISTAT), il reddito pro capite allo stesso livello del 2004, con una spesa pubblica che nel 2004 incideva del 15% e nel 2019 incide del 26%, con una pressione fiscale generale che nel 1999 era al 49.7% e oggi al 55%, come possiamo pretendere che gli italiani possano resistere economicamente?

Questo è un torto incredibile, perché gli italiani hanno lo stesso guadagno ma sono più poveri per colpa dello stesso Stato. Ma la beffa è presto vicina. Dagli annunci di Conte e Di Maio, l’impressione è che non solo manca l’intenzione di abbassare le tasse, ma prevale quella di aumentare l’interventismo statale (estendendo il reddito di cittadinanza) e quella di istituire uno Stato di Polizia Tributaria.

L’assistenzialismo e i servizi offerti dallo Stato, secondo i socialisti, nascono per “governare e redistribuire la ricchezza”. Ma con questo ritmo rischiamo seriamente di rendere gli Italiani con una ricchezza tra le mani sempre più misera.

Ed è qui che entriamo nel paradosso. Se l’assistenzialismo è per chi non detiene reddito, e chi lo detiene è in ginocchio perché non può più pagarlo, come ne usciamo?

Articolo 81: perché ignoriamo il principio di responsabilità?

Se c’è una cosa che da sempre stimola il dibattito politico e istituzionale italiano è la Costituzione. Non esiste partito politico che non si sia forgiato almeno una volta della retorica del celebre articolo 1: “la sovranità appartiene al popolo!” dicono. E fanno bene.

Peccato che spesso – oltre a dimenticare “i limiti e le forme” che la carta traccia – ci si dimentichi che la nostra Costituzione getti anche le basi per una buona condotta fiscale da parte dello Stato.

Quanti di noi hanno mai sentito nominare nei dibattiti dei salotti televisivi italiani l’articolo 81? Quanti di noi conoscono effettivamente cosa rappresenti questo articolo?

Ecco.

Secondo tale articolo:

 

lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. […] Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale.”

Per Luigi Einaudi «costituisce il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore allo scopo di impedire che si facciano nuove o maggiori spese alla leggera, senza avere prima provveduto alle relative entrate».  

Ma perché è così importante avere un quadro costituzionale ordinato in materia economica? 

Deve essere chiara una cosa. L’ampio grado di discrezionalità che ha guidato la politica economica italiana si è rivelato un disastro. 

La legittimazione dei disavanzi e delle politiche economiche in deficit spending, seguite all’abbandono di una prospettiva costituzionale in materia economica e fiscale hanno condotto alla crescita incontrollata della spesa pubblica e del debito pubblico. Per corroborare questa osservazione basta ricordare come il debito, dopo il definitivo abbandono del principio costituzionale qui discusso, sia passato nell’arco di soli quattro anni (1989-1993) dal 98% del Pil a quasi il 120%.

Ad oggi, la spesa pubblica vale il 47% del Pil del paese e ha toccato la cifra mostruosa di 900 miliardi di euro. Per quanto riguarda il debito pubblico (132% del PIL), invece, siamo preceduti soltanto da USA, Giappone e Francia (parlando in termini numerici e non in rapporto al Pil, che per i suddetti stati è maggiore di quello italiano, ndr).

La possibilità da parte dello Stato di spendere a credito, nota argutamente Antonio Martino, aggiunge un altro metodo di “finanziamento” delle spese a quelli ortodossi ed ostacola la valutazione del costo effettivo delle decisioni di spesa. 

Le conseguenze drammatiche sono il drastico aumento della spesa pubblica «irrazionale» e delle asimmetrie nella percezione di costi e benefici della suddetta.  Aumenta quindi l’incentivo a spalmare i benefici su un ristretto gruppo di cittadini a scapito dell’intera collettività. 

Così facendo, infatti, si evitano tensioni interne grazie alle pressioni dei pochi grandi beneficiari e alla consistente negligenza di una collettività danneggiata da oneri di dimensioni ridotte. 

Ricordando un celebre pamphlet di Bastiat, poi, la seconda asimmetria è causata dal rapporto tra i benefici visibili (ciò che si vede, direbbe il filosofo) e i costi invisibili (ciò che non si vede, poiché non avvertiti direttamente dalla collettività).

La mancanza di una prospettiva costituzionale in maniera fiscale, inoltre, è anche la causa della preoccupante e costante instabilità politica del nostro Paese. 

Ogni governo dura in media 10 mesi, e alle prospettive di una breve vita si affianca la necessità di produrre un beneficio immediato a scapito della collettività del domani. Il deficit spending, insomma il modus operandi di chi ritiene come Keynes che “nel lungo periodo saremo tutti morti”, si traduce praticamente in una imposta sulla collettività del futuro.

E per cosa? Per rallentare ulteriormente la crescita della spesa privata produttiva.

Il disavanzo pubblico sottrae di fatto fondi all’investimento privato (i cittadini che richiedono un prestito sanno di doverlo ripagare, di conseguenza cercheranno di investire i capitali nella maniera migliore) per indirizzarli al consumo, dissipando la capacità produttiva del paese intero.

Le numerose spese per trasferimenti e per gli investimenti delle aziende passive pubbliche, infatti, non apportano nessun miglioramento alla produttività nazionale. Senza considerare poi il rallentamento degli investimenti causato dalla paura dell’aggiunta in futuro di imposte per ripagare il debito spropositato o i relativi e sempre crescenti interessi (proprio quelli che i cultori dell’avanzo primario italiano ignorano).

È così importante, dunque, che i governi seguano una rigida disciplina fiscale e che non si lascino guidare dalla discrezionalità? Decisamente. 

Solo in questo modo, attraverso una norma costituzionale e un vincolo all’arbitrio nelle decisioni di spesa, ci si può aspettare di creare una finanza e un governo responsabili.

Milton Friedman e la (sua) Flat Tax

Era il 1956 quando la mente brillante di Milton Friedman (1912-2006) elaborò l’idea della Flat Tax. Sono passati 63 anni ed oggi la sua proposta politica è diventata oggetto di numerose discussioni in tutte le economie mondiali, seppur con qualche imprecisione. Imprecisioni sia da parte di chi la sostiene, specie in Italia, che da parte di chi non la sostiene.

Questo è un indizio di come già in quell’epoca Friedman prevedeva le pecche, i difetti, i limiti del sistema statalista. In quel tempo, l’Europa era nel pieno del boom economico e l’interventismo statale era considerato un bene, ma lo stesso economista statunitense rilevava quei problemi che oggi sono ormai evidenti, in Italia e nella stessa Europa.

Come tutti sanno, la proposta della Flat Tax è uno dei cavalli di battaglia del partito Lega Nord. Lo stesso Matteo Salvini, oggi viceministro del consiglio, ha inserito la proposta di Friedman come il pilastro portante per assicurare una Pace Fiscale ai cittadini.

A tal proposito, nella proposta leghista si riscontrano alcune piccole ma significative differenze rispetto all’idea originaria. Pertanto, ritengo opportuno parlare della Flat Tax, raccontando semplicemente come lo stesso Friedman se lo immaginava.

Come punto di partenza, non possiamo non parlare della moneta e del suo rapporto con la persona. Per l’economista statunitense, la moneta è un “bene di lusso”. Pertanto, la considerazione di essa cambia a seconda del reddito della persona. Se la persona possiede un basso reddito, la moneta è molto veloce, dinamica. Basti pensare al fatto che il basso stipendio di una persona finisce molto rapidamente tra spese primarie o secondarie. Quando il reddito tende a salire, la moneta inizia ad avere una polifunzione. Non solo sarà utilizzata con lo scopo di soddisfare le spese primarie e secondarie, ma permette anche di fare investimenti oppure di organizzare la moneta in risparmi.

Ebbene, la Flat Tax ha lo scopo primario di permettere alle persone di costruirsi i propri risparmi e investimenti. Non solo, ma se la riforma fiscale venisse fatta con i sani criteri previsti dall’economista, sarebbe una vera e propria svolta per la società italiana. Oggi, la moneta vive un momento non felice. Se prima abbiamo sostenuto che la moneta, per una persona con basso reddito, è veloce e dinamica, nel caso di chi ha un reddito più alto, la situazione diventa preoccupante. Oggi abbiamo un fisco invadente che contribuisce a mortificare le persone da qualsiasi tentativo di risparmio o di investimento. Lo stesso regime progressivo lo dimostra, in quanto chi possiede un reddito maggiore deve pagare un’aliquota più alta, quasi come se fosse un reato guadagnare di più.

Come già accennato in precedenza, la Lega Nord è favorevole alla Flat Tax e già dalla campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo proponeva un’aliquota fissa per le imposte sui redditi delle persone fisiche e delle imprese compresa tra il 15% e il 23%. Ma le intenzioni o gli obiettivi non sono gli stessi. Infatti, non prevale l’intenzione di far respirare le tasche dei cittadini, bensì quella di semplificare il rapporto cittadino-fisco e di diminuire l’evasione fiscale. Della serie “dietro una proposta liberista, si nasconde la stessa logica socialstatalista”.

La Flat Tax non deve essere un diversivo per arricchire diversamente le casse dello Stato. Altrimenti qui rischiamo di andare verso il principio “pagare tutti le tasse per pagare meno”. La Flat Tax deve avere come unico scopo quello di alleggerire gli italiani. Alleggerire per permettere loro dei consumi migliori, dei risparmi certi e degli investimenti stimolanti.

Sul semplificare possiamo, invece, andare tutti d’accordo. Oggi il sistema fiscale in italiano è sempre più garbugliato, confusionario, ma ha la straordinaria dote di costringere l’imprenditore o il libero professionista a chiudere la partita IVA o a trasferirsi altrove. Il lavoratore sente meno questo problema, perché oggi abbiamo la figura del sostituto d’imposta, ossia è il datore di lavoro ad occuparsi delle tasse del suo dipendente. Il Sostituto d’Imposta è la più grande genialità mai realizzata dai socialisti, poiché il lavoratore dipendente non avrà la piena consapevolezza di quanti soldi versa allo Stato ogni mese.

Secondo l’idea di Friedman, l’unica forma di progressività attraverso la creazione di una Flat Tax è attraverso una no tax area e con conseguente eliminazione della politica degli sgravi fiscali. In parallelo, lo stesso economista statunitense ha parlato di Tassazione Negativa di Reddito, specie per coloro che possiedono un reddito al di sotto di una certa soglia.
Altro dettaglio fondamentale, oggi trascurato da chi sostiene la Flat Tax, è che questa riforma può funzionare solo in un regime di bassa spesa pubblica. Da non trascurare se consideriamo che la spesa pubblica in Italia è giunta ad un livello molto più che preoccupante.

Prima di concludere ecco alcune significative affermazioni di Milton Friedman sul tema della Flat Tax

“[…] ciò costituirebbe una difesa contro l’aumento dell’aliquota. Adesso ogni volta che c’è un aumento di aliquota lo si giustifica dicendo che va a colpire qualcun altro. Non si tassa mai sé stessi ma il proprio vicino. In questo modo si nasconde il fatto che alla fine vengono tassati tutti. Con l’aliquota unica, con un’unica percentuale, pagata da tutti ad esclusione di quelli che hanno un reddito inferiore al minimo, sarà molto più difficile ottenere il sostegno popolare per un aumento di aliquota”

“Flat Tax non sostituisce le altre imposte? Certo, non ho mai sostenuto che l’imposta ad aliquota unica potrà, ad esempio negli Stati Uniti, sostituire altre tasse quali l’imposta sulla proprietà. Dubito che vi sarà il sostegno politico alla proposta di sostituire l’imposta sugli alcolici, sul tabacco, sulla benzina. Queste imposte sono di natura diversa fra loro. La tassa sulla benzina, per esempio, è una forma di finanziamento da parte degli utenti per la manutenzione delle autostrade.
Si tratta, se così si può dire, di una tassa per un servizio più che di una comune imposta.”

La Svezia e l’equivoco socialdemocratico

In Italia si parla spesso dei Paesi scandinavi come modelli alternativi, esempi di successo di politiche socialdemocratiche o addirittura socialiste; e recentemente questa moda ha preso piede perfino negli Stati Uniti[1]. Alla base di questi riferimenti c’è sempre la ricerca della mitica “terza via”, che permetterebbe di superare il capitalismo senza gli eccessi e i fallimenti del comunismo[2].

La Svezia, in particolare, è il Paese a cui tutti costoro guardano. “Ecco”, si dice, “una nazione che riesce a crescere e creare benessere per tutti con politiche sociali e attente ai poveri, rifiutando il perfido neoliberismo. Questo è l’esempio che dovremmo seguire. Freghiamocene di austerità, libertà economica e tassazione, a salvarci sarà la spesa pubblica!”.

Ovviamente, la realtà è un po’ diversa: la Svezia non cresce per via della sua alta spesa pubblica, ma al contrario si può permettere quel livello di spesa perché cresce. Sembra un gioco retorico, ma non lo è: la Svezia basa la sua crescita su un modello economico liberale, non su una fantomatica “terza via”.

Gli svedesi hanno dovuto capirlo e impararlo sulla loro pelle. Negli anni ’70 e ’80 la Svezia aveva creato un esteso sistema di welfare, che ancora adesso è in piedi (seppure ridotto). Ma in quegli anni i governi socialdemocratici utilizzarono anche politiche che definiremo per comodità keynesiane, utilizzando regolarmente la spesa pubblica per spingere la propria economia.

Fu in quegli anni che la tassazione svedese crebbe fino a livelli mai raggiunti nel mondo occidentale[3], mentre lo Stato acquistava centinaia di aziende private in crisi e cercava di rilanciarle con soldi pubblici. Nel corso degli anni ’80 lo Stato svedese era arrivato a pesare per oltre il 60% sul PIL del Paese; si sarebbe mantenuto su quei livelli fino a metà anni ‘90.

E quale fu il risultato? Negli anni ‘50 e ‘60 la Svezia aveva conosciuto una rapida e sostenuta crescita economica, fino a diventare il 4° Paese occidentale più ricco, per PIL pro capite, nel 1970. Vent’anni dopo, il Paese scandinavo era invece in profonda crisi: la Svezia era cresciuta di circa la metà rispetto alla media OCSE per tutti gli anni ‘80 e il suo PIL pro capite era ormai il 14° nel mondo occidentale. Il Paese era entrato in una spirale apparentemente irreversibile di spesa pubblica e tassazione crescenti e crescita asfittica.

Quale fu la soluzione del governo Bildt (il primo non socialdemocratico dopo decenni)? Proprio quella indicata dal pensiero liberista standard: privatizzazioni, de-regolamentazioni, calo delle tasse e della spesa pubblica[4].

L’impatto iniziale fu ovviamente molto pesante per la società svedese: disoccupazione e debito pubblico salirono rapidamente, mentre la crescita restava bassa e l’inflazione non accennava a diminuire; il nuovo esecutivo non volle comunque tornare indietro, convinto della correttezza del rimedio.

E in effetti la situazione economica stava cominciando a migliorare quando nel 1994 il governo conservatore cadde e tornarono al potere i socialdemocratici. Quel che successe dopo illustra chiaramente la qualità del dibattito pubblico svedese: il fallimento delle politiche keynesiane dei precedenti decenni era ormai talmente accettato e riconosciuto che il nuovo esecutivo non pensò neanche per un istante di invertire la rotta.

Da allora, le riforme pro-mercato sono proseguite fino ad oggi, sotto governi di ogni colore, creando una delle economie più business friendly al mondo: oggi l’indice Doing Business della Banca Mondiale considera la Svezia come il 12° Paese al mondo dove è più semplice fare impresa[5].

“Miracolosamente”, in seguito a queste riforme la Svezia è tornata a crescere e ad essere il Paese ricco e prospero che già era stato. I suoi tassi di crescita sono regolarmente intorno al 2-3%, quando non più alti, la produttività del lavoro cresce più della media OCSE, disoccupazione e inflazione si mantengono basse[6].

Cosa ci insegna questa storia? Che non esistono ricette speciali o magiche per far crescere un Paese; tutto quello che serve è non soffocarlo di tasse e regole e lasciare libertà di azione agli individui. Questa è la rivoluzione culturale che la Svezia effettuò trent’anni fa – e che noi ci auguriamo anche per il nostro Paese.

 

[1] https://www.huffingtonpost.com/bernie-sanders/what-can-we-learn-from-denmark; https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-01-06/ocasio-cortez

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Terza_via

[3] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[4] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[5] http://www.doingbusiness.org/en/rankings

[6] Dati ricavati da archivi World Bank

Legalize them all: perché droghe libere.

Prima di analizzare le varie conseguenze positive che la legalizzazione di sostanze stupefacenti porterebbe al nostro bel Paese, occorre chiederci una domanda fondamentale: in tutti questi anni il protezionismo, la lotta alle droghe ed i controlli sempre più severi hanno raggiunto il loro obbiettivo? Come vedremo, la risposta è no.

Attenzione: con questo articolo non voglio promuovere nessun uso di sostanze stupefacenti, qualsiasi droga fa male, e ne sconsiglio vivamente l’uso.

Fatta questa doverosa premessa, possiamo iniziare.

È l’uso eccessivo del telefono che causa problemi, non il telefono in se. Lo stesso vale per le droghe, è l’abuso della sostanza che porta a problematiche psicologiche, economiche e sociali serie per l’individuo. La condanna a priori di un qualsiasi oggetto o sostanza è sbagliata. Ragionando in questo modo dovremmo proibire qualsiasi bene poiché, in fondo, anche l’acqua in dosi eccessivi provoca danni.

Il mercato, cioè dove avvengono gli scambi di prodotti, beni e servizi, è soggetto alla legge della “domanda e offerta”. Cioè alla richiesta di un bene (domanda), il produttore risponde creando il bene richiesto (offerta) stabilendo un prezzo che varierà in base alla dimensione della domanda. L’obbiettivo del proibizionismo è, attraverso arresti e sanzioni, l’eliminazione dell’offerta del bene richiesto, per far si che non venga consumato.

Come la storia insegna, però, il protezionismo non ha mai eliminato nulla. Il mercato prosegue lo stesso. L’unica differenza è che lo scambio del prodotto diventa illegale. Semplicemente “dove non c’è mercato, c’è mercato nero” direbbe Alberto Mingardi. Economicamente parlando, quando è presente un’offerta e una domanda, il meccanismo non può essere eliminato dallo Stato.

Non solo il proibizionismo non ha diminuito lo scambio e l’uso di droghe ma lo ha aumentato! 

Un esempio lampante è la proibizione di alcool avvenuta in America dagli anni ’20 agli anni ’30.

Ho fatto i soldi fornendo un prodotto richiesto dalla gente. Se questo è illegale, anche i miei clienti, centinaia di persone della buona società, infrangono la legge. La sola differenza fra noi è che io vendo e loro comprano. Tutti mi chiamano gangster. Io mi definisco un uomo d’affari.

-Al Capone in una celebre intervista

L’uso di alcool è effettivamente diminuito, ma soltanto per i primi 365 giorni. Infatti a partire dal secondo anno in poi dall’entrata in vigore della legge, il consumo è aumentato rispetto a quando fosse legale. La diminuzione del consumo nel primo anno è dovuta semplicemente ad un periodo di assestamento nel quale la criminalità organizzata doveva preparare la propria strategia per la vendita di alcolici. 

Il proibizionismo fu così efficace che il governo fu costretto a rendere di nuovo legale la vendita di alcool provocando, nei 10 anni di protezionismo, danni ingenti che ancora oggi vengono pagati.

Rispetto alla politica intrapresa in America, il governo del Portogallo insieme ad una commissione di esperti decise che, per rispondere all’uso eccessivo di droghe (specialmente di eroina dove il tasso era il più alto di tutta Europa), si dovesse ricorrere alla depenalizzazione del possesso e consumo di droghe.

Dopo 17 anni dalla depenalizzazione, i casi di HIV sono calati drasticamente passando da 1016 e 56 nel 2012, mentre le morti per overdose sono scese da 80 a 16. Inoltre anche il consumo generale di droghe, soprattutto di eroina, è diminuito di ben il 70%, classificando il Portogallo tra i paesi europei con il minor uso di sostanze stupefacenti.

Il punto:

La spiegazione di tutto ciò è semplice: grazie alla liberalizzazione, le droghe vengono studiate e vissute come un problema medico e non giuridico. E a conti fatti la situazione è proprio cosi. Perché imprigionare, riempiendo le carceri ed aumentandone le spese, individui che avrebbero bisogno semplicemente di aiuto? L’assistenza medica è molto più efficace della prigione nel convincere un tossicodipendente a non consumare droghe. È grazie al non avere paura di sanzioni o reclusioni che l’individuo è autonomamente più propenso a chiedere aiuto. Ormai la psicologia lo ha dimostrato da cento anni che le punizioni non portano alcun beneficio.

Per non parlare delle ingenti spese statali che potrebbero essere diminuite. Si stima che tra il 2008 e il 2013 lo stato italiano abbia speso circa 180 milioni di euro l’anno in attività di contrasto alle droghe. Nel 2018 le operazioni anti droga nelle scuole sono costate 500 euro a grammo requisito. Spese decisamente eccessive per delle misure che rappresentano il totale fallimento delle azioni repressive contro questo tipo di sostanze.

Dati ancor più allarmanti si trovano analizzando le spese del sistema giudiziario. Il 35% delle persone che oggi è in carcere, lo è per reati legati alla droga. Oltre infatti a far lievitare il numero di detenuti nelle carceri italiane, contribuendo quindi al grave problema del sovraffollamento, le precedenti legislazioni sarebbero state strutturate per colpire i “pesci piccoli,” senza spaventare le associazioni criminali più organizzate.

Inoltre il proibizionismo causa un enorme problema legato alle sostanze nocive inserite di proposito nelle droghe per aumentarne il peso e massimizzare i profitti sul venduto. Quando l’alcol era illegale, in America, veniva miscelato con l’acquaragia. Ancora oggi hashish e cannabis vengono tagliati con ammoniaca, lacca e piombo. La liberalizzazione porterebbe un innalzamento della quantità e qualità dell’informazione, ma soprattutto un incremento dei controlli sulle sostanze. Per quanto la droga possa far male, va ricordato che migliaia di giovani oggi ne fanno uso ed inconsapevolmente introducono ulteriori sostanze che arrecano demenza, tumori, e altri danni che gli stupefacenti da soli non riuscirebbero a provocare.

Quindi la liberalizzazione porterebbe a:

  • Minor utilizzo di droghe;
  • Riduzione di morti per HIV e overdose;
  • Diminuzione delle spese statali;
  • Indebolimento della criminalità organizzata;
  • Maggior disponibilità di celle carcerarie;
  • Crescita dell’efficienza lavorativa di poliziotti e guardia di finanza;
  • Incremento della qualità delle droghe.

Perché continuare a combattere una battaglia già persa in partenza, quando cambiando mentalità potremmo finalmente raggiungere gli obbiettivi tanto ambiti dalla battaglia alle droghe?

Essere (felicemente) schiavi di se stessi

In questi giorni, si parla tanto di schiavi del lavoro, di dignità, di chiudere la domenica, di chi ha un salario troppo basso. Tutto ciò trascurando il fatto che esistono tantissime persone che decidono di essere padrone del proprio destino. Si tratta di una decisione responsabile, quella di puntare tutto su te stesso e di prendere in mano la tua vita, incurante di ciò che accade intorno a te.

Chi compie questa decisione spesso non rispetta un vero e proprio orario di lavoro, potrebbe lavorare sia in ufficio che a casa, anche solo per la programmazione del lavoro futuro. Ma prima di continuare vorrei riportare queste tre citazioni:

Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza. Steve Jobs

L’ingrediente critico è alzare le chiappe e metterti a fare qualcosa. È così semplice. Un sacco di gente ha delle idee, ma sono pochi quelli che decidono di fare qualcosa a riguardo subito. Non domani. Non la prossima settimana. Ma oggi. Il vero imprenditore è un uomo d’azione. Nolal Bushnell

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa. Peter Ferdinand Drucker

 

A coloro che parlano tanto di dignità e schiavi, siete consapevoli che tante di queste persone che hanno deciso di mettersi in proprio, sono obbligate a lavorare di giorno e pensare di notte?
Forse non sapete che tante di queste persone, che sono ancora agli inizi, si ritrovano costrette a dover far tanti sacrifici?
Questo perché l’imprenditore, il commerciante ed il libero professionista sono spesso (felicemente) schiavi di se stessi, alla ricerca di continue soddisfazioni personali, economiche e professionali.

Non hai datori di lavoro, non hai un giorno prefissato per la bustapaga, devi riuscire a coniugare il tuo guadagno con le tasse da pagare e, se si è imprenditori con dipendenti, pagare gli stipendi. Come detto in precedenza, fare impresa in Italia è roba da eroi e coraggiosi, perché chi ha il capitale da investire viene spesso scoraggiato dall’altissima pressione fiscale, e dalle spese per l’iter burocratico.

Rispetto ai nostri genitori, riscontro nei giovani un’ammirevole volontà di mettersi in gioco, di voler rischiare, di voler tentare una strada alternativa rispetto al declino italiano. Questo è di buon auspicio per tutta la nazione, in chiave futura, in quanto credo che per essere imprenditori non si debba necessariamente aprire un’azienda. Anche un operaio (o un dipendente) potrebbe essere imprenditore di se stesso.

Infatti esserlo non è soltanto una scelta, ma soprattutto un atteggiamento. In Italia ci hanno abituati a “vegetare” nella stessa azienda per 30-40 anni. In futuro sarà sempre più una rarità vedere un dipendente lavorare nella stessa azienda per tutta la vita lavorativa, proprio perché il lavoro diventerà sempre più flessibile e dinamico.

Ciò che stiamo vivendo in Italia è una fase del lavoro flessibile-statica, in quanto si cambia spesso lavoro, ma le retribuzioni sono le stesse, o persino più basse. Oggi riusciamo a raccogliere tante esperienze professionali, ma a questa esperienza non corrispondono stipendi più alti o impieghi più delicati ed importanti. Questo perché i contratti di lavoro tradizionali sono troppo carichi di tasse, sia per l’imprenditore che per il lavoratore, e sono troppo carichi di burocrazia, compresa la presenza (inutile?) dei sindacati.

Pertanto, occorre lavorare affinché il mondo del lavoro diventi flessibile e dinamico, in modo tale che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato sia spinto a non accontentarsi del posto fisso, bensì a tentare qualcosa di nuovo, ed investirci sopra.

Adam Smith diceva che la forza lavoro è la prima proprietà privata dell’uomo, ma di questo parleremo un’altra volta.

Miracolo economico anni ’60? Merito di Einaudi

L’anno scorso (si riferisce al 1959, aggiunta mia) il Daily Mail cominciò a lodare l’Italia parlando di “miracolo economico”. Quest’anno il “Financial Times” dà l’Oscar delle monete alla lira. Grazie a Fellini siamo diventati per il mondo intero il paese della Dolce Vita. Finirà che ci monteremo la testa. Anzi: si monteranno la testa i nostri politici, così pronti a convincersi che la ricchezza privata si produce perché essi possano metterci le mani sopra.

Il Miracolo Economico non è stato miracoloso, ma spontaneo. Non ha seguito lo Schema Vanoni, lo ha travolto.

Così Sergio Ricossa racconta e commenta il miracolo economico italiano degli anni cinquanta-sessanta. Nel titolo, se lo avete notato, ho scritto “grazie Einaudi”. Perché proprio Luigi Einaudi se lui è stato solo il governatore della Banca d’Italia e il Ministro delle Finanze fino al 1948, oltre ad essere stato presidente della repubblica fino al 1955? Perché durante il brevissimo periodo da ministro (con la collaborazione di Donato Menichella, successore di Einaudi al ruolo di governatore della Banca d’Italia), Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, adottando misure parsimoniose sia per quanto riguarda la spesa pubblica e sia per i cittadini, adottando misure anti-inflazionistiche.

I liberisti, guidati da Einaudi, riuscirono a bloccare l’offensiva socialcomunista che avevano un progetto finalizzato a produrre un livello di gettito elevato, utili per il risanamento dei conti pubblici e per porre le basi per una pianificazione economica, in stile Unione Sovietica. Questa pianificazione economica, esattamente, consisteva nell’affidare una parte importante della gestione della ricostruzione alla mano dello Stato per inserire il nostro paese all’interno di un tipo di sistema economico nel quale lo stato potesse esercitare una forma di intervento e controllo piuttosto incisiva.

La strada per la ripresa, secondo il PCI, era quella dell’imposta, attraverso una redistribuzione di ricchezza fra le classi più ricche e le classi più povere e più colpite dalla guerra. Per non parlare, inoltre, dell’idea di istituire una tassazione straordinaria a varie forme di liquidità e titoli di Stato che, solo dal pensiero, provocò talmente terrore alle persone che immediatamente andarono a ritirare i propri depositi bancari e postali.

Einaudi e i liberali erano fortemente contrari e volevano puntare a manovre politiche che riuscissero a tenere buoni i cittadini tenendo a bada l’inflazione e senza penalizzare chi era già stato penalizzato in precedenza (scusate il gioco di parole). Si puntava ad affrontare i problemi in cui si trovavano le finanze statali in gran parte con ordinari strumenti di politica economica e fiscale, e alle difficili condizioni economiche del sistema con strumenti tipici di una politica economica liberale: diminuzione della spesa pubblica, incentivazione del risparmio, libertà di iniziativa privata, aumento del reddito prodotto dalle imprese, innescando così il circolo virtuoso di maggior produzione, maggiori risorse risparmiate, maggiore accumulazione di capitali, maggiori investimenti, maggiore ricchezza, prestiti pubblici, assoluto divieto di emissione di nuova moneta e pressione fiscale non eccessiva.

Un carico fiscale più leggero avrebbe favorito maggiori risorse per la produzione di ricchezza che, una volta aumentata, avrebbe prodotto anche maggiori entrate fiscali ordinarie, contribuendo in tal modo ad una progressiva eliminazione del disavanzo di bilancio. L’obiettivo era anche la stabilizzazione della moneta che, una volta ottenuta, avrebbe permesso di rendere il settore pubblico sempre più minimo, permettendo ai privati di svolgere la parte preponderante nel processo ricostruttivo; quasi come se ci fosse una mano invisibile (come quella auspicata da Adam Smith) che avrebbe garantito l’equilibrio di mercato alle cui leggi anche lo Stato, seppure con compiti suoi propri di rimozione degli ostacoli alla libera iniziativa e di garanzia del suo libero sviluppo, avrebbe dovuto sottostare.

In quel brevissimo periodo, Einaudi non riuscì ad ottenere tutti gli suoi obiettivi (d’altronde non era nemmeno il presidente del consiglio), ma almeno evitò le forti pressioni dei socialcomunisti. Purtroppo anche la pressione e l’influenza liberale dello stesso Luigi Einaudi andò a calare con l’avvicinarsi della scadenza del suo mandato da presidente della repubblica.

In contemporanea, i governanti durante il periodo del miracolo economico italiano si presero i meriti; mi sto riferendo alla Democrazia Cristiana post-De Gasperi primeggiata da persone come Gronchi e Fanfani che sostenevano – rispettivamente – che “l’industria pubblica può sopravvivere senza profitti” e che “se qualcuno ha un problema, lo Stato glielo deve risolvere”. In particolare, vennero dati molti meriti allo Schema Vanoni che puntava alla piena occupazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro. Peccato però che il limite dello stesso schema fosse quello di preoccuparsi che la manodopera fosse abbondante dimenticando – però – che è il capitale favorisce l’occupazione. Pertanto si è preso dei meriti quasi per caso.

In realtà, il vero merito fu di Luigi Einaudi, grazie alla sua azione di stabilizzazione monetaria che attuò dall’estate 1947, salvando l’Italia e gli italiani da un’inflazione che avrebbe provocato dei seri problemi all’economia. Ottenendo questo risultato non provocò direttamente il miracolo economico, ma fu il punto di partenza per qualcosa di spontaneo e straordinario come quello accaduto alla fine degli anni cinquanta e inizio sessanta.

Peccato però che ingredienti come intervento statale in economia per controllare, con il sostegno sindacale e dei consigli di gestione, l’iniziativa privata (pianificazione); nazionalizzazioni; riforma agraria – tutte misure realizzate dal 1955 fino agli anni settanta – non solo resero la Lira sempre più debole, non solo la spesa pubblica sempre più alta, non solo meno ricchezza privata, ma anche un’Italia sempre più povera e mediocre. Ma come insegna, lo stesso Einaudi, se punti sulla spesa pubblica e alla stabilità della moneta, metti in condizione la tua nazione di poter puntare al meglio e alla crescita.

“Il debito pubblico non è importante, in fondo siamo noi i nostri stessi debitori” – Perché Krugman e Keynes si sbagliano

I debiti, alla fine, vanno ripagati

Quando i dirigenti d’affari giapponesi hanno messo in discussione la politica del loro governo di sfrenato uso del debito pubblico come strumento risolutore, il premio Nobel Paul Krugman ha immediatamente scritto un articolo sul New York Times intitolato “La saggezza economica – o la sua mancanza – dei dirigenti d’impresa”. Krugman sostiene essenzialmente che il governo può spendere, spendere e spendere. Può continuare ad accumulare debito senza mai preoccuparsi di ripagarlo perché lo dobbiamo a noi stessi. Accenna anche che chiunque non riesca a comprendere questa semplice nozione non è sicuramente del suo livello intellettuale.

Le conclusioni tratte dall’economista fanno sorgere almeno due domande: il debito pubblico è davvero diverso da quello privato? E siamo davvero noi i nostri stessi debitori? A queste domande le risposte, usando lungimiranza ed onestà, sono: non nel lungo periodo e no, ben diverse da quelle prospettate da Krugman.

Analizziamo la prima risposta, in cui sosteniamo che in un’ottica di lungo periodo il debito pubblico sia uguale a quello privato e che, come tale, vada ripagato: nonostante lo Stato abbia il monopolio della forza e possa rifiutarsi di pagare il debito, i creditori hanno memoria e, delusi dall’impossibilità di vedersi ripagati, non erogheranno più credito a tale scopo, costringendo i governi ad aumentare le tasse o la quantità di moneta per mantenere il livello di spesa pubblica. In entrambi i casi i cittadini perderebbero potere d’acquisto, per la minore disponibilità individuale di risorse (tasse) o per un aumento smodato del livello dei prezzi (inflazione). Basti notare gli esempi di Grecia e Argentina e l’attuale crisi inflattiva del Venezuela.

La seconda risposta è una protesta contro la disonestà dell’asserzione: “siamo noi i nostri stessi debitori”. Ovviamente viene esclusa la realtà, che non tutti i creditori sono cittadini della nazione e che non tutti i cittadini della nazione erogano credito. Nel caso di investitori stranieri assistiamo a ciò che è accaduto in Grecia (ossia il debito è stato riscosso con la forza, costringendo il paese a vendere moltissimi beni pubblici ad imprese straniere), mentre nel secondo caso si omette che la maggior parte degli investitori appartiene a ceti medio-alti, di fatto la necessità di ripagare alti debiti tramite tasse costituisce una redistribuzione di ricchezza dai ceti più poveri a quelli più ricchi. Di fatto la spesa pubblica, nata per appianare le disuguaglianze, finisce per accentuarle.

Infine, una considerazione sul capitale: l’individuo genera capitale tramite tentativi e scoperta imprenditoriale, processi che richiedono tempo e mostrano che il valore non è infinito e non è generabile tramite alcun strumento governativo. L’imprenditore è il responsabile per l’accumulo e la creazione di capitale, quindi di valore. Quando questo processo viene distorto con interferenze governative, il meccanismo si interrompe ed è inevitabile che il processo di crescita e benessere si interrompa con esso, e le generazioni successive ne soffriranno.

Per questi motivi il debito pubblico non è, come distopicamente sostenuto da Krugman, diverso da quello privato e l’ipotesi collettivistica del debito è tanto errata e pericolosa come i collettivismi che hanno portato l’umanità ad indicibili sofferenze.