Qual è il segreto per costruire una società prospera? Una società in un cui la ricchezza sia capillarmente diffusa, in cui l’individuo sia libero di realizzare a pieno il proprio potenziale?
Per secoli, filosofi e scrittori hanno descritto società ideali, utopie, che in genere presentano sempre lo stesso denominatore comune: lo Stato-Leviatano e l’individuo ridotto a uomo-massa. Che si tratti della Repubblica di Platone o della Città del Sole di Campanella, ci viene proposto sempre lo stesso arcaico punto di vista: l’individuo è egoista, corrotto, e solo uno Stato potente può salvarlo da sé stesso.
Ma se invece non fosse così? Se invece fossero proprio i vizi dell’uomo, primo fra tutti l’esecrato egoismo, la chiave per costruire una società più prospera e più giusta?
Questa non è solo una mia radicata convinzione, ma anche quella di Bernard de Mandeville, autore de “La favola della api“, il cui sottotitolo è “Vizi privati e pubbliche virtù“.
In questo breve apologo, Mandeville presenta un florido alveare, palesemente ispirato all’Inghilterra dell’epoca, in cui ogni ape persegue indefessa il proprio tornaconto. La ricerca di lussi sempre più grandi domina l’alveare, stimolando così il commercio, l’industria, la produttività ed il progresso scientifico. Tutte le api si adoperano per elevare la propria condizione, e così facendo sono inconsapevolmente responsabili per il benessere generale dell’alveare.
Alla fine, tuttavia, la prosperità dell’alveare giunge al termine quando il suo “vizio”, per mezzo di Giove, viene rimpiazzato dalla “virtù”. Questa riforma dei costumi abolisce il lusso e l’egoismo, sostituendoli con la frugalità e l’onestà. Insieme al “vizio”, però, viene meno il motore stesso dietro al progresso della società: i traffici commerciali vengono abbandonati, le arti e i mestieri regrediscono, in quanto le nuovi api “virtuose” sono ora soddisfatte di quanto già posseggono, e non si industriano più a migliorare le loro condizioni di vita, paghe della propria “virtù”.
Questo genera una grave crisi che impoverisce l’alveare, portando alla morte di gran parte della sua popolazione, mentre le api sopravvissute si ritrovano a vivere in condizioni miserevoli rispetto al passato.
Come si evince da questo apologo, Mandeville è giunto, precedendo Smith, alle stesse conclusioni dell’economista scozzese. Questo perché il suo oggetto di studio è lo stesso di Smith, vale a dire l’Inghilterra del Settecento, luogo di nascita del capitalismo, della rivoluzione industriale e del Liberalismo.
Proprio la combinazione fra questi 3 fattori ha trasformato in poco più di un secolo l’Inghilterra, da Stato ai margini dell’Europa a prima iperpotenza della storia. Ma l’Inghilterra non è un esempio isolato: in ogni tempo ed in ogni luogo, queste forze hanno cambiato il destino di intere nazioni, a prescindere dalla loro ricchezze naturali: quale altra risorsa ha un Paese come la Svizzera, se non il carattere dei suoi abitanti?
Ma affinché tutto questo avvenga, è necessario un catalizzatore, qualcosa che dia agli individui la forza di andare avanti, incuranti delle sconfitte, senza mai perdere di vista l’obbiettivo finale: quel catalizzatore è, secondo me, una sana dose di egoismo. Non esiste a mio parere religione o ideologia politica in grado di fornire una motivazione più grande dell’amore per sé stessi connaturato in ognuno di noi.
Anzi, non è un caso che dietro a molti dei crimini più orrendi mai compiuti in nome di un credo religioso o politico vi sia un’intenzione altruistica: i nazisti di ieri, così come i jihadisti di oggi, sono mossi dalla certezza di contribuire alla creazione di un mondo migliore, e per questo fine altruistico sono pronti a sacrificare tutto, in primis il loro ego. Il problema è, per dirla con Asimov, che mentre il bene individuale è facilmente osservabile e misurabile, quello collettivo o dell’intera umanità comprende semplicemente troppe variabili, che neanche il cervello positronico di un robot può risolvere, figurarsi quello di un semplice essere umano.
Per questo, penso che l’unico modo per fare il bene sia quello di partire dal livello più basso possibile, non dall’umanità intera, non da una nazione, bensì dalla più piccola e bistrattata delle minoranze, l’individuo, facendoci guidare dal nostro ego verso l’ autorealizzazione.