Intervista ad Alessandro De Nicola: “I 10 comandamenti dell’economia italiana”

Di recente, il Presidente della Adam Smith Society, l’Avvocato Alessandro De Nicola, e l’economista Carlo Cottarelli, hanno pubblicato il libro “I 10 comandamenti dell’economia italiana” curato insieme ad alcuni altri esperti.

I 10 comandamenti/capitoli e i relativi redattori sono:

I – Spendi meno e, soprattutto, spendi meglio (Carlo Cottarelli)

II – Riforma l’Irpef (Dario Stevanato)

III – Pensioni: Non santificare troppe feste (Giuliano Cazzola)

IV – (Stato) medico, cura te stesso (Paolo Belardinelli e Alberto Mingardi)

V – Per un’ecologia dei social media (Franco Debenedetti)

VI -Non adorare il Vitello d’oro: la strana idolatria italiana dello Stato imprenditore (Alessandro De Nicola)

VII – Trasporti: tassa e spendi meno. Puoi e devi (Marco Ponti e Francesco Ramella)

VIII – Rendi l’università più efficiente (Carlo Scarpa)

IX – Non desiderare la rendita d’altri (Simona Benedettini e Carlo Stagnaro)

X – Ricorda di trasformare banche e finanza dopo la crisi (Giuseppe Lusignani e Marco Onado)

E abbiamo colto l’occasione per porgere qualche domanda all’avvocato De Nicola:

Il libro è a cura sua e del Professore Cottarelli, come vi è venuta l’idea di questo libro?

L’associazione che presiedo, la Adam Smith Society, aveva deciso di patrocinare la pubblicazione di un volume nel 2019 e quindi, visto che Carlo Cottarelli è componente del nostro comitato scientifico abbiamo pensato che potevamo giocare un po’ sul titolo del suo libro precedente, “i 7 vizi capitali dell’economia italiana” ed essere propositivi con i comandamenti.

Qual è l’obiettivo del libro? Chi lo leggerà e chi vorrebbe che lo leggesse e che probabilmente non lo farà?

L’obiettivo è di spiegare in modo accurato e supportato da dati, ma intellegibilmente e con un linguaggio adatto anche a non-specialisti, alcuni dei nodi che attanagliano, per la verità da anni, l’economia e la società italiana.

Penso che un pubblico di professionisti, studenti, docenti, persone in genere interessate alla cosa pubblica italiana possano essere interessati al libro ed i riscontri ad oggi sono positivi. Vorrei che lo leggessero molto di più di quello che forse faranno gli studenti dai 18 ai 22 anni che sono in quell’età in cui cominciano seriamente a preoccuparsi del loro futuro lavorativo e quindi necessariamente anche dell’economia italiana.

Ogni capitolo/comandamento è stato curato da un esperto, fra questi ci sono nomi noti ai liberisti come Lorenzo Infantino (Prefazione) e Alberto Mingardi, Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni. In Italia si ha paura del libero mercato e della concorrenza?

In Italia non si conosce e si ha paura del mercato e della libera concorrenza. Se ne ha consapevolmente timore da parte di tutti coloro i quali godono di rendite di posizione, dagli oligopoli pubblici alle corporazioni più varie, notai, taxisti, farmacisti o concessionari balneari.

Lo temono anche quelli che vogliono quieto vivere, come i sindacati della scuola o di dipendenti pubblici e il loro mantra dell’appiattimento a tutti  i costi. Li temono ideologicamente grillini, e catto-comunisti di varie sfumature.

Lo temono inconsapevolmente coloro i quali ne hanno sempre sentito parlare come di elementi che creano ingiustizia e non maggiore benessere, diffusione della conoscenza, incentivo al merito.

Quale dei problemi da voi analizzati è il più predisposto ad un miglioramento? E quale sembra il più irrimediabile se non in peggioramento?

Probabilmente se si abbandona la follia di quota 100 o la si lascia spirare allo scadere del terzo anno, il sistema pensionistico grazie alla legge Fornero potrebbe non peggiorare. Non ho speranze per la sanità e le privatizzazioni.

Tra i giovani italiani vi è consapevolezza del grande fardello per il futuro costituito dal debito pubblico e da quello pensionistico?

Troppo poca. Anche i giovani pensano che sia tutto illimitato. Se gli si chiede se vogliono il sistema retributivo o contributivo sceglieranno il primo, ma se gli si dice “ma per far questo dovremmo tagliare le attuali pensioni?” rispondono indignati di no. Manca troppo la cultura economica, grazie anche a falsi miti generati da dei cialtroncelli che propagano, ad esempio, la stampa di moneta come panacea per tutti i mali.

Passiamo alla (triste) attualità politica italiana, L’accordo PD-M5S si è dunque concluso: cosa si aspetta dalla manovra economica di ottobre?

Mi aspetto che si eviti l’aumento dell’IVA sopprimendo un po’ di tax expenditures (che vuol dire alzare le tasse), qualche aumento di accise, o di tassazione sui beni (mini patrimoniali random) e un posticipo degli investimenti. Forse si risparmia qualcosa con delle misure su quota 100 e RdC, ma non credo molto.

Alle prossime elezioni, c’è la speranza di vedere un candidato/partito che porti con sé un po’ di liberismo?

Matteo (dice scherzando). Di candidati “forti” veramente liberali (moderatamente liberali ce ne sono alcuni) non ce ne sono.

 

Ringraziamo l’Avvocato De Nicola per la disponibilità e gli auguriamo un grande successo per il libro, che potrete trovare sul capitalistissimo e-commerce Amazon.

8 principi liberali per condurre politiche sul lavoro in maniera ottimale

Dato che i liberisti sono sempre additati come quelli contro i poveri, i lavoratori e al soldo del gran capitale e dei poteri forti, esporrò brevemente quali sono solitamente i principi sul quale si dovrebbe basare una politica liberista per il mercato del lavoro:

1) Una persona accetta un lavoro perchè lo trova utile, conveniente e/o più piacevole che non accettarlo. Questo regola la Domanda di lavoro.

2) Un datore di lavoro (non padrone, i lavoratori non sono cose che si posseggono) assume un lavoratore se lo trova utile, conveniente e/o piacevole. Questo regola l’offerta di lavoro.

3) Una assunzione avviene solo se è vantaggiosa sia per l’aspirante lavoratore che per il datore di lavoro.

4) Se ad una persona vengono offerti sussidi che si perdono con l’accettazione di un lavoro, si disincentiva il lavoro regolare e si incentiva nullafacenza e lavoro nero.

5) Se ai datori di lavoro vengono imposti degli oneri extra per l’assunzione di carattere salariale (es. salario minimo e 13sima) e/o contrattuale (es. Art. 18) l’offerta di posti di lavoro regolari cala, soprattutto per le categorie che beneficiano di queste tutele a carico del datore di lavoro (lavoratori dipendenti di solito). Questo calo colpirà soprattutto le categorie meno produttive che smetteranno di essere convenienti per il datore di lavoro.

6) Più si limitano le possibilità di lavoro (lavori domenicale, licenze, ordini professionali) e più si irrigidiscono il mercato del lavoro (con la centralizzazione a livello nazionale dei contratti) più aumentano i disoccupati e meno servizi potranno essere offerti ai consumatori.

7) Molta offerta di lavoro non trova corrispondenza nella domanda di lavoro perchè non ci sono le competenze richieste. Questo è dovuto principalmente ad un articolo della nostra Costituzione che impone il “valore legale del titolo di studio” e limita pesantemente l’offerta formativa e che questa si adatti velocemente alle richieste del mondo del lavoro.

8) Per migliorare le condizioni contrattuali e salariali la via del liberismo, come sempre, è quella di una sana (e lecita) concorrenza. La concorrenza, oltre ad essere fondamentale per la meritocrazia, spinge le imprese a contendersi i lavoratori più appetibili che otterranno stipendi più elevati e spingeranno anche altri volenterosi a migliorare per ottenere un simile trattamento, innescando un circolo virtuoso di cui beneficeranno lavoratori, imprenditori e consumatori.

Per ottenere ciò è necessaria una minore centralizzazione dei contratti ( che limita le condizione ad personam a favore del benessere del lavoratore) e zero leggi che favoriscono la concentrazione di settori dell’economia nelle mani di pochi soggetti (pubblici e privati). Un altro fattore fondamentale per la concorrenza è la mobilità del lavoratore, che è l’esatto opposto di voler fissare una persona al proprio lavoro.

La mobilità è essenziale per potergli permettere di vagliare diverse offerte operative, di rendersi conto del suo effettivo valore di mercato e per poterlo sfruttare nei momenti di contrattazione. La mobilità, oltre ad essere una grandissima libertà, è fondamentale anche per incentivare il lavoratore a migliorarsi per sfruttare le possibilità del mercato del lavoro e ad accumulare nuove esperienze e competenze.

Questi sono i principi liberisti (chi vuole ne metta altri o ne tolga alcuni) per un sano mercato del lavoro. Questo è molto diverso da quello di un governo che non accetta i numeri ottimisti forniti dall’INPS, afferma che Confindustria faccia terrorismo psicologico e che le banche abbiano atteggiamenti mafiosi; e che soprattutto si arroga il diritto di definire che tipi di contratti e lavori siano degni e quali no.

Come rendere sconveniente il lavoro nero

Vi è lavoro nero quando un datore di lavoro non versa i contributi pensionistici e assicurativi per suo dipendente e perciò quando non lo assume regolarmente. In questo articolo non si proporrà una soluzione per quel tipo di lavoro nero che non può non essere tale, cioè quando l’attività economica sottostante è di tipo criminale e perciò impossibile l’assunzione di personale in maniera regolare, ma solo di quando l’attività economica è lecita.

Per spiegarvi la mia idea, vi mostro le conseguenze economiche di quando un imprenditore sceglie di assumere regolarmente o irregolarmente un lavoratore dipendente:

  • Se assume un lavoratore dipendente in modo regolare (ipotizziamo il contratto standard e non stage, tirocinio, apprendistato ecc.), dovrà pagare oltre al salario lordo i contributi pensionistici e assicurativi, il TFR e la tredicesima e assumersi altri impegni di tipo contrattuale (tutele crescenti)
  • Se assume un lavoratore in modo irregolare, a lui dovrà corrispondere solo il salario lordo che in questo caso sarà pari a quello netto; dato che ovviamente il lavoratore non potrà pagarci le tasse e la parte di contributi a suo carico. Oltre a questo, l’imprenditore potrà prendere in considerazione il costo del rischio di essere trovato in flagrante e pagare multe o subire altri tipi di sanzioni non solo economiche.

Vi starete forse chiedendo: come si fa a rendere conveniente assumere un lavoratore se assumerlo in modo irregolare ha molti meno costi? Ottima domanda. L’imprenditore quando assume un lavoratore può detrarre dalla base imponibile (ciò che si moltiplica per le aliquote fiscali per calcolare le imposte da versare al fisco) i suoi costi. Perciò, la differenza fra le due opzioni in questo caso non è uguale ai costi precedentemente elencati, ma si deve prendere in considerazione anche l’aliquota a cui è assoggettata l’impresa. L’IRES in Italia è del 24%, perciò ora vediamo la tabella delle opzioni attuabili dall’imprenditore e dei suoi possibili risultati (Calcolo approssimativo):

Scelta

Salario lordo del lavoratore

Cuneo fiscale lato imprenditore

Tredicesima, TFR, ferie pagate

Risparmio fiscale sulla base imponibile (Totale*24%)

Totale costo

Assunzione regolare

1000

320

270

382

1208

Assunzione irregolare

1000

1000

La differenza è di 208€, pari al 20,8% del salario lordo. I calcoli sono approssimativi perché i costi sono diversi a seconda di tante variabili (costo indiretto in termini di burocrazia), ma comunque verosimili. Come si tutelano gli imprenditori che rispettano le regole? Le soluzioni sinteticamente sono 3: una vigorosa, una drastica e una soft (adatta per la politica) che non risolverebbe appieno il problema ma comunque aiuterebbe.

La prima soluzione vigorosa, semplice quanto impraticabile a livello politico, è il passaggio da un sistema in cui i costi dei contributi sono ripartiti fra imprenditore e lavoratore (in sostanza i soldi escono solo dalla tasca dell’imprenditore) a uno in cui sono tutti a carico del lavoratore, a cui ovviamente si accompagnerebbe un aumento dei salari di pari misura per quelli già in essere. Per gli imprenditori il costo rimarrebbe identico e i lavoratori si renderebbero conto del costo di tutti questi contributi e diventerebbe un’esigenza elettorale anche dei lavoratori la diminuzione del cuneo fiscale.

Oltre a questo, per fare diventare questa una proposta drastica bisognerebbe rendere TFR, 13sima e ferie non obbligatori per gli imprenditori ( assolutamente inverosimile ottenerlo a breve-medio termine). Con ciò, ci dovrebbe essere una cancellazione di tutte quelle forme che prevedono sconti fiscali o particolari condizioni di vantaggio per alcuni imprenditori che causano semplicemente distorsioni della concorrenza fra imprese e fra lavoratori e non creano sana occupazione. I contratti di lavoro così servirebbero solo per definire salario, benefits e responsabilità reciproche (pura illusione), e la burocrazia relativa ai contratti sarebbe praticamente azzerata.

Con queste due soluzioni il costo del lavoro regolare diventa minore di quello irregolare, perciò sarebbe economicamente stupido non assumere un lavoratore quando ce ne è bisogno.

La soluzione soft e non efficace economicamente quanto le altre due (fra poco vediamo perché) è la riduzione del cuneo fiscale. Dato che è soft, sarà ed è quella che viene perseguita politicamente per altre meritorie ragioni (dare più competitività alle imprese italiane). Il problema è che solo per ottenere la parità di costi fra lavoro nero e regolare (presupponendo la parità di salari lordi) bisogna abbassare “eccessivamente” il cuneo fiscale.

Hai detto fino ad ora  di azzerare il cuneo fiscale e adesso ti lamenti che si abbassi eccessivamente? Non esattamente. Il cuneo fiscale ha in buona parte la funzione di pagare assicurazioni e pensioni, per cui se le pensioni e le assicurazioni rimangono pubbliche come ora bisogna che qualcuno le paghi, ed è meglio che ognuno si paghi la sua quando ne ha la possibilità dato che rompere questo legame fra versamenti e pensioni e contributi versati potrebbe far cadere qualcuno nella tentazione di pensioni uguali per tutti o retributive. La parità di costo economico fra lavoratore regolare e irregolare con un IRES al 24% si otterrebbe con un cuneo fiscale più costi accessori (ferie, TFR e tredicesima) pari al 31,6% del salario nominale.

131,6 x (100-24) = 100

Dato che di quel 31,6% , 27 sono già occupati dai costi extra, significherebbe avere un cuneo fiscale del 4,6%, insostenibile per le casse dello Stato. Perciò, o si attua solo in parte questa terza misura, o si fa un mix fra questa misura e quelle precedenti, o il problema rimane.

Alla classe politica l’ardua scelta.