I limiti della Libertà e la nostra responsabilità

Quasi tutti hanno avuto modo di finire il periodo di istruzione obbligatoria e sicuramente tutti hanno avuto la possibilità di finire la Scuola Primaria.

Io ho vividi ricordi di quel periodo, alcuni belli ed altri meno belli.

Mi ricordo bene di come, seduto sul banco, aspettavo costantemente la ricreazione per poter giocare con i miei amici e di quando, invece, speravo che le lezioni delle mie maestre non finissero mai.

Durante le scuole Elementari, mi ricordo che non andavo troppo d’accordo con la mia maestra di Italiano, tanto che la mia mente, quasi, si rifiutava di imparare decentemente i tempi verbali o di scrivere un buon tema.

Per fortuna, con la fine della scuola primaria e l’inizio della Secondaria di Primo Grado, queste lacune si affievolirono e cominciai ad elaborare contenuti molto originali che, a volte, mi diedero la soddisfazione di essere il migliore della mia classe.

Sebbene il mio astio per i tempi verbali non abbia voluto minimamente farsi da parte, durante il mio primo periodo alla scuola elementare ho maturato un profondo interesse per il peso delle parole.

Non mi riferisco a QUALI usare, ma a QUANDO usarle e di come fossero importanti in tal senso le figure retoriche, in particolare gli ossimori.

Riflettiamoci un secondo, quanta curiosità destano nella nostra mente parole messe una accanto all’altra con significati diametralmente opposti? Quanto ci fanno pensare e riflettere frasi come “rumoroso silenzio”, “caos calmo” o altre?

Ma, soprattutto, quand’è che queste parole dal significato contrastante possono andare oltre la semplice retorica e cercare di suggerirci qualcosa su cui bisognerebbe veramente riflettere?

Pensate, ad esempio, ad espressioni come “Assolutismo Illuminato” o a “tacita follia”, o al “tacito tumulto” di Pascoli. Egli utilizzava ossimori e sinestesia più per impressionare il lettore che per innescare nel suo cervello un ragionamento chiaro e razionale.

Quindi, è proprio su questa linea d’onda che mi sono sempre posto una domanda: La libertà, ha dei limiti?

Questo, secondo me, è l’ossimoro più intrigante sul quale si può creare una lucida conversazione tra persone, soprattutto, tra noi liberali.

Libertà è un concetto molto bello e appagante e accostare a questa parola il termine “limiti” sembra quasi annullarne la bellezza. Eppure è così, la libertà è tanto sacra quanto bella, tanto necessaria quanto pericolosa.

Ebbene si, la libertà va maneggiata con cura, è come un’arma o uno strumento potenzialmente pericoloso: essa consente l’opportunità di scegliere tra varie possibilità, in cui nessun genere di risultato è precluso: ne conseguirà che tramite l’uso della libertà avremo accesso ad ogni genere di capolavoro, così come contemporaneamente coesisteremo con la possibilità che, invece, vengano combinati dei guai, talvolta molto gravi.

Ma i primi non possono certo pagare per l’incapacità dei secondi.

Quindi, che fare? Annulliamo il diritto alla Libertà dell’individuo? Niente affatto. Dobbiamo però renderci conto che oltre a persone che possono usare questo mezzo nel migliore dei modi, ce ne possono essere altre capaci di fare dei danni o, talvolta, di far male ad altri con la loro Libertà.

Nasce quindi da questo ragionamento la mia domanda: ESISTONO DEI LIMITI ALLA LIBERTA’?

Dopo parecchie riflessioni, perlopiù interiori, sono arrivato ad una mia personalissima conclusione e la risposta è: SI.

Per quanto possa essere strano da dire o da ammettere, anche la libertà prevede dei limiti dettati, con ogni probabilità, più dalla nostra morale individuale che da enti esterni (come il nostro più acerrimo nemico: lo Stato).

Sia chiaro, ciò che distingue noi Liberali dagli anarchici è la voglia di libertà, pur sottostando a determinate leggi, purché queste non diventino coercitive, o per meglio dire, invadenti. Pensiamo alle allucinanti leggi che vorrebbero porre un controllo sulla libertà d’espressione dell’individuo oppure a quelle che vanno oltre la semplice “regolamentazione” o “tutela”, tanto da minare alle radici la nostra Libertà di parola o di azione.

Detto ciò, mi sono posto quindi un altro problema, logicamente consecutivo: “Quali sono questi limiti? Come possiamo trovarli?”.

Come ho scritto sopra, alcuni potrebbero subito far riferimento a ciò che ho sostenuto prima e affermare: “Le leggi”. Ma per rispondere adeguatamente a questa domanda torna nuovamente in mio aiuto il mio periodo da scolaretto, in quanto proprio in quegli anni mi venne insegnata una lezione molto importante. Ricordo che stavamo facendo una lezione di Educazione Civica (Ore di lezione buttate nella spazzatura) e ad un certo punto nel mio libro di testo vidi l’illustrazione di un bambino che passeggiava per la strada e nel mentre guardava una scritta sul muro che diceva: “La tua libertà finisce laddove comincia la mia”.

Pensiero troppo generico pensai, forse troppo stupido o forse troppo difficile da comprendere per un bambino della mia età.

Eppure, ultimamente quella scritta mi è tornata sempre più in mente e ha destato in me non poche riflessioni.

In fin dei conti, lo diceva anche Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America scrivendo nella Dichiarazione d’Indipendenza Americana:

“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”

La Libertà con la L maiuscola. Mai una frase potrà accogliere meglio nella sua formulazione una parola così bella.

Perché in fondo, tutti noi liberali, al di là delle nostre differenze e delle nostre divergenze abbiamo una cosa che ci accomuna: la sete e la voglia di Libertà.

Essa è come quel caffè amaro, che bevi ogni mattina prima di andare all’Università o prima di andare a lavorare.

Probabilmente lo preferivi dolce, preferivi un aiuto da parte di qualcuno o qualcosa per buttarlo giù appena sveglio. Le prime volte non ti va a genio, eppure, subito dopo si rivela indispensabile, tanto da renderti quasi disgustoso quel sapore dolce, frutto della tua precedente abitudine.

La Libertà è parte imprescindibile del nostro essere, è quella cosa che fa esprimere il meglio o il peggio di noi e di cui nessuna persona sulla terra deve fare a meno.

Secondo Jefferson, siamo liberi di fare tutto; abbiamo la libertà di leggere un libro senza che nessuno ce lo impedisca, abbiamo la libertà di credere nel dio che più ci piace o di esternare come vogliamo il nostro orientamento politico o sessuale.

Eppure, spesso, questa Libertà rischia di estendersi troppo oltre, tanto da calpestare quella di altre persone che ci stanno vicino.

Se ci riflettiamo bene, essere liberi ci dà la possibilità di non sentirci incatenati, di avere la possibilità mentalmente, ma soprattutto fisicamente di fare ciò che più vogliamo. La libertà, quindi, in senso assoluto altro non è che la totale mancanza di vincoli e perciò non esiste legge, entità divina o altro che possa regolarla nell’immediato.

Considerate ad esempio i Nazisti. Hanno avuto la libertà di deportare il popolo Ebraico e di mandarlo a morire nei vari campi di concentramento di Auschwitz-Birkenau o Bergen Belsen. Pensate ai Sovietici o ai Comunisti cinesi, che perseverando in questo orrore si sono sporcati le mani del sangue di oltre cento milioni di persone.

Ritenevano di avere la libertà di farlo, nessuno glielo ha impedito e nessuno ha potuto o voluto fare niente per impedirglielo.

Eppure, la loro libertà è arrivata a calpestare quella di oltre cento milioni di individui che da un giorno all’altro si sono visti privati di quella che potrebbe essere definita come la Libertà più grande: la Libertà alla Vita.

Possiamo prendere in considerazione casi anche meno gravi, il furto ad esempio.

Un ladro ha la libertà fisica di entrare a casa tua, prendersi il tuo bel televisore da 64” e andarsene via senza problemi, eppure nel fare questo egli sta calpestando la tua Libertà di poter vedere qualsiasi cosa tu voglia, tramite il frutto del tuo lavoro e del tuo sacrificio.

Arriva a questo punto la prima considerazione che potrebbe definire DOVE si possa godere la propria libertà, ovvero la proprietà privata.

Spesso mi domando cosa ci differenzi dagli altri animali. Pensate alle Aragoste.

Sto leggendo in questo periodo il famoso libro “12 regole per la Vita” di Jordan Peterson ed è incredibile come egli, nella formulazione della sua prima regola utilizzi l’esempio caratteriale e comportamentale di questi animali per legittimarla.

Non voglio certo farvi un riassunto di quel capitolo, sebbene vi raccomandi sinceramente di leggerlo. Voglio, però, prendere quell’esempio per dirvi come nella mente delle aragoste si sia formato un certo elemento comportamentale per la loro “scalata sociale” e per attaccare, più che per difendere, la libertà dei loro simili.

Qualcuno sarà lì pronto a obiettare il contrario e lo capisco, ma credo che ciò che ci differenzi di più dal mondo animale sia la volontà di non attaccare la libertà di chi ci sta accanto.

 Sebbene qualcuno con una tale attitudine esista, in generale, la nostra volontà rimane sempre quella di difendere la nostra libertà.

Diventa importante in questo modo per ognuno di noi difendere la Proprietà Privata, il frutto del proprio lavoro, nonché ciò che gli appartiene.

Quindi, dov’è che finiscono i nostri diritti, frutto della nostra libertà?
Forse non sono la persona adatta per rispondere a questa domanda, ma in generale mi verrebbe da dire che tutto può dipendere da un punto di vista personale, dalla propria indole caratteriale, dalla propria educazione e probabilmente dalla nostra capacità di comportarci da individui autonomi all’interno di una società composta da migliaia, milioni o miliardi di individui.

In generale potremmo pensare che essa arriva ad essere “troppa” quando facciamo del male fisico a delle persone, violando la loro proprietà corporea; Oppure quando entriamo in casa d’altri privandoli di qualsiasi cosa possa essere di loro proprietà.

Potremmo dunque arrivare a dedurre che la proprietà, di qualsiasi tipo, possa rappresentare una sorta di concretizzazione della nostra libertà e potrebbe diventare un buon punto di inizio per cercare di capire quali potrebbero essere questi limiti.

Ma a questo punto, arriva si presenrta un altro problema: se la Libertà può arrivare ad esprimersi tra le tante forme, anche con la proprietà privata dobbiamo noi preoccuparci della difesa della nostra proprietà?

Se qualcuno mi vuole fare del male, ho il diritto di difendermi? Se qualcuno vuole entrare in casa mia per rubare il mio televisore, ho il diritto di fare il possibile per far si che i miei cari rimangano illesi?

A queste domande, magari, eviterò di rispondere, sia a causa dell’accesa diatriba legale ancora in atto tra i nostri migliori Magistrati, sia perché rimane, a volte  un argomento di discussione tra noi Liberali.

Ma mi permetto di dire allo stesso modo un’altra cosa: il possedimento della libertà, per quanto detto prima, non impone che essa verrà sempre rispettata e non è detto che al mondo non esistano persone volenterose di “espandere” la propria anche a discapito della nostra.

Nasce quindi un altro concetto, che dovrebbe sempre essere scritto indelebilmente nella nostra testa: la responsabilità di ognuno di noi.

Come ho detto prima, se la libertà può essere in qualche modo rappresentata dalla nostra proprietà, ciò non implica che questa rimarrà imprescindibilmente sempre nostra.

Pensiamo a me bambino, a quando tra una lezione e l’altra mi divertivo con i miei amichetti a scambiarmi le figurine di Dragon Ball o di ciò che più andava di moda in quel periodo.

Avevo le mie figurine, erano mie, eppure c’era sempre qualche piccoletto più egoista di me che regolarmente provava a ledere i miei diritti e la mia Libertà tentando di rubarmene qualcuna.

A volta me ne accorgevo, altre volte no, altre volte lasciavo stare. Eppure, accadeva e la mia Libertà veniva violata.

Pensavo fosse un’ingiustizia e probabilmente lo era. Ma era anche colpa mia, perché nel mio esibire le mie figurine non avevo preso le giuste precauzioni affinché queste non venissero sottratte.

Pensavo che l’esistenza sola della libertà fosse indice di inviolabilità della stessa e mi beavo fino a quando non mi vedevo privato della stessa. Non ero stato responsabile, avrei dovuto prendere delle precauzioni.

Voglio portare alla vostra attenzione un evento accaduto durante la partita Lecce-Inter di quest’anno, finita 1-1.Durante quella partita è accaduto un episodio deplorevole, che fa male alla mia gente e non rappresenta minimamente quello che è lo spirito di accoglienza e di calorosità della mia terra.

Come dicevo, ad un certo punto della partita qualcuno in Curva Sud ha pensato bene (si fa per dire) di prendere la sciarpa di un tifoso interista, la cui unica colpa era quella di aver voluto vedere la sua squadra del cuore in mezzo a centinaia di altri tifosi Leccesi e di bruciarla di fronte agli occhi increduli degli altri tifosi.

Ora, non so quali siano state le dinamiche effettive del misfatto, ma mi viene da dire che il tifoso interista aveva la libertà di fare ciò che ha fatto, ovvero vedere la sua squadra del cuore allo Stadio anche se in mezzo a centinaia di tifosi rivali. È ciò che si fa in una società civile, quante volte durante i derby più importanti d’Italia vediamo le tifoserie condividere i medesimi settori nel pieno rispetto reciproco? Eppure, la realtà al Via del Mare è un po’ diversa e questo lo si sa. Molti tifosi vanno allo stadio non perché interessati alla partita, ma perché sono interessati a tutt’altro.

E accade così che un poveruomo che voleva solo vedersi una partita torna a casa sua svilito, amareggiato, magari arrabbiato perché qualcun altro si è permesso di violare la sua libertà, esercitando la forza, umiliandolo e facendogli del male per il solo gusto di farlo.

Ripeto, non so quali siano state effettivamente le dinamiche e forse potrei sbagliarmi. Ma l’uomo stesso che ha subito il danno non è solo una vittima ma anche un responsabile del danno subito.

Può far male dirlo e può far male sentirlo dire, ma egli è responsabile per il solo fatto che non sia stato capace in quel frangente di difenderla. Avrebbe potuto farlo con la forza, in quanto legittima difesa, oppure avrebbe potuto trovare altre precauzioni affinché si potesse vedere la partita senza che nessuno arrivasse a violare la sua proprietà, nonché la sua libertà.

Il punto spesso è questo: viviamo in un paese in cui esistono delle leggi che puniscono (giustamente) determinate azioni, tra cui l’omicidio, il furto o la violenza di ogni tipo e crediamo che la sola esistenza di queste leggi possa in qualche modo difenderci da assassini, ladri e violentatori di ogni tipo. Invece no.

La legge serve per punire, ma durante la messa in atto del reato come può essa difenderci? Pensate che un assassino o un ladro in procinto di compiere un reato si fermino nella loro azione criminosa solo perché esiste la legge? La risposta è no.

Ed è qui, in questo limbo in cui nessuno può difendere noi e la nostra libertà che sale in cattedra la nostra responsabilità.

È lei infatti che ci permette di evitare spesso e volentieri che ci venga fatto del male, è lei che ci dà la possibilità di goderci ciò che è nostro a dispetto di tutti coloro là fuori pronti a togliercela.

È lei, assieme al nostro buonsenso ed alla nostra forza d’animo e fisica che ci permette di fare in modo che la nostra libertà non venga calpestata e usurpata da altri. Quindi, se non siamo in grado di capire fin dove può estendersi la nostra libertà, dovremmo quantomeno imparare a difenderla e a responsabilizzarci. Ciò non toglie che non possano comunque accaderci cose brutte, ma questo è senza dubbio il primo passo per imparare che la libertà altro non è che un valore tanto forte quanto volatile e che da un momento all’altro ci può essere portata via.

Dunque sta solo a noi imparare a difenderla, perché se la libertà passa anche per la nostra proprietà, la difesa della stessa è il primo punto per imparare a comprenderla il meglio possibile.

L’assistenzialismo: come affrontarlo? – Rubrica “Welfare secondo un Liberista”

Nel primo articolo della rubrica “Welfare secondo un Liberista” ci siamo lasciati con un quesito.

Le politiche sociali possono svilupparsi tramite la coesione volontaria dei cittadini, l’autogestione del welfare, l’autogoverno del proprio vicinato o delle proprie cause sociali?

Non esiste risposta migliore se non quella di raccontare, passo dopo passo, come si approccia un liberista rispetto al tema del Welfare. In questo articolo, spiegherò come il liberista vede il tema dell’assistenzialismo.

Si dicono tante grandi bugie sul nostro conto. Un socialista è perfettamente convinto che per un liberista, il povero può morire di fame. Ci disegnano come dei perfetti ricchi borghesi.

Peccato però che non ci sia bisogno di fare troppi esempi su quanti liberali liberisti possiedano un reddito normale, in media con tutto il resto della popolazione. Potrei raccontare la mia vita, il mio percorso di vita.

Ebbene, io provengo da una famiglia, dal punto di vista economico, con qualche debolezza. Quando iniziai il mio percorso universitario, emigrando a Torino, avevo la consapevolezza di non avere alle spalle una famiglia forte. Sicuramente presente, ma non abbastanza da garantirmi una tranquillità economica.

Sono diventato liberista, sicuramente grazie agli studi, ma anche approcciandomi alla vita. Finito gli studi, inizi a lavorare. In quel momento capisci che hai di fronte dei grossi handicap. Essere assunto da un’azienda è molto difficile: in una grossa azienda devi fare i conti con la realtà: da una parte ci sono gli assunti “storici”, gli assunti figli dello Statuto dei Lavoratori, assunti con tanto di contratto indeterminato e protezione in-toto dei Sindacati.

Licenziare non è semplice, ma intanto la crisi è forte. Siamo alla fine del 2015 e l’inizio del 2016. Sembra che ci siano dei risvegli economici, ma è tutta apparenza. Con la crisi sul groppone, con un costo esorbitante del personale, le aziende ricorrono ad altri sistemi: contratti interinali, contratti a collaborazione, i voucher. Trovi di tutto, insomma. Ah si, poi ci sono gli immancabili stage.

Mentre inizio a cercare lavoro, vengo a scoprire di aver perso un treno: nel 2015, esattamente nel primo semestre, arrivano gli sgravi fiscali sui contratti a tempo indeterminato attuati dal Governo; una gran sfortuna, io stavo studiando, ero all’università in quel periodo, ora che ho concluso gli studi, mi rimangono le bricioline. I residui, insomma: grazie governo.

Nel frattempo, anche un mio amico stava cercando lavoro. Mi dice però che si sente molto sconsolato. Lui aveva più di 30 anni e perdeva tanti di quei “privilegi” utili per l’assunzione.

Per farla breve, sono esattamente quattro anni che lavoro. Ho cambiato tante aziende, sicuramente, ma ho sempre lavorato. Nonostante tutto, vuoi per la mia cultura politica, vuoi perché sono ambizioso, ho acquisito una mia filosofia di vita. Penso che alla mia età, giovane, l’unica cosa che posso fare è maturare, crescere, fare gavetta.

Questo non vuol dire vivere senza diritti, ma che alla nostra età abbiamo da dimostrare, non da chiedere. Poi, la vita è una scala sociale. Se sai salire sei stato bravo, altrimenti sei stato scadente.

Per un liberista la frase di Bill Gates, “Se sei nato povero non è colpa tua, ma se muori povero è colpa tua”, è una frase che rientra molto nelle mie dinamiche di pensiero.

Guardiamo la realtà italiana: ho appena fatto un piccolo racconto di come vive un giovane che entra nel mondo del lavoro. Entriamo in un contesto con una marea di “protezioni sociali“. Il difetto principale dell’assistenzialismo è che protegge il passato o il presente, ma non il futuro.

Protegge chi chiede in quel momento una copertura, ma penalizza tutto il resto. Il Governo del 2015 decise per gli sgravi fiscali per i contratti a tempo indeterminato, fu una decisione elettorale, probabilmente, ma che maturò tantissime assunzioni; in quel momento molti giovani non erano disponibili per entrare nel mercato del lavoro ed una volta pronti, i “rubinetti” erano ormai chiusi.

Anche perché l’assistenzialismo non potrà mai garantire una protezione universale, perché il meccanismo lo impedisce. Esattamente, parliamo di un meccanismo che prevede che chi produce reddito “protegga” chi non produce reddito. Ebbene, quando una categoria tende ad essere assistita dallo Stato, i detentori di reddito, esclusi dall’assistenzialismo, devono sobbarcarsi il peso.

Chi sono gli esclusi di oggi? Direi una donna casalinga che ha deciso da poco di immettersi nel lavoro; noi giovani che finiamo la scuola o l’università; chi si ritrova disoccupato a 50 anni.

Ecco, prima ho detto che l’assistenzialismo protegge il presente, ma non il futuro. Ebbene, l’esempio lampante sono il cambio di rotta genitori-figli. Storicamente, dall’ottocento fino a qualche anno fa, i figli tendevano ad essere sempre più ricchi dei genitori. Ebbene, quest’anno e prossimamente, per la prima volta, i genitori saranno più ricchi dei figli. Questo non era mai accaduto.

Ma esiste una categoria di esclusi non annunciata. I detentori di reddito. Cosa succede se chi ha un reddito si ritrova con le stesse difficoltà di chi non possiede un reddito?

Allo stesso attuale, diciamo che si ha ben poco su cui poter sperare. Anche analizzando il mio presente, direi che mi ritrovo in questa situazione: lavoro, ho uno stipendio, ma sono accompagnato da una spaventosa fragilità economica; basterebbe un soffio di vento per passare un mese complicato, eppure, per lo Stato, io non godo di alcun aiuto assistenziale. Al massimo, gli assegni famigliari se hai un figlio. Ma io non ho figli. Altra esclusione.

Alla prossima…

Fascismo ed antifascismo sono la stessa cosa?

Spesso, parlando di politica, si dice che “fascisti ed antifascisti sono la stessa cosa”. Fra chi abbraccia questo pensiero come fosse verità rivelata e chi lo rifugge vi è un dibattito interessante, ma che alla prova dei fatti dimostra come entrambi gli schieramenti abbiano torto.

In teoria sembra un ossimoro…

Ovviamente, verrebbe da dire, se si chiama “antifascismo” è ovvio che sia opposto al fascismo. Ma questo ragionamento aveva valore durante il regime, quando il fascismo era il male al governo e bisognava, uniti, sconfiggerlo.

Oggi le cose sono più complesse. Il fascismo è diviso in varie correnti e vi sono anche numerosi movimenti borderline, non chiaramente attribuibili ad esso.

Da ciò deriva una certa difficoltà a definire obiettivamente cosa sia il fascismo: ci sono fascismi che hanno accettato di buon grado la democrazia, fascismi dichiaratamente antirazzisti e pro-Islam e addirittura fascismi autonomisti!

Ovviamente sussistono alcuni elementi comuni quali la tendenza a volere un’economia socializzata, una proprietà privata che rispetti la funzione sociale e un certo nazionalismo.

…ma alla prova pratica è diverso

Piccolo problema: l’economia socializzata e la proprietà privata dalla funzione sociale mica la vogliono solo i fascisti, ma anche gran parte della sinistra. Quello del rossobrunismo, ossia superare le differenze tra rossi e neri per lottare assieme contro capitalismo e simili, non è di certo un fenomeno nuovo: Togliatti nel 1936 lodò la Rivoluzione Fascista e parlò di Mussolini come un traditore di tali ideali, Bombacci, un gran comunista che creò la propria edizione della Pravda dedicata a Mussolini, venne fucilato addirittura assieme a lui.

In sostanza definire un fascismo a cui opporsi è spesso difficile. Il modo migliore di farlo è sostenere un’ideologia che si opponga ai fondamenti del fascismo. Se si ritiene il fascismo fondamentalmente antidemocratico – quindi un metodo – è sufficiente sostenere qualsiasi ideologia democratica, mentre se si ritiene possibile un fascismo esistente in democrazia la cosa diviene più complessa.

Confusione tra antifascismo e antifa

Fin qui abbiamo, al massimo, mostrato come sia difficile essere antifascisti oggi, ma qualcosa deve aver originato l’equivoco di cui parliamo nel titolo. Questo qualcosa, naturalmente, è il movimento Antifa.

Trattasi di un movimento spontaneo composto principalmente da estremisti di sinistra, e questo movimento spesso adotta metodi e idee fasciste. Violenza – spesso associata a quella dei black bloc -, antisemitismo, rifiuto del capitalismo e della globalizzazione, minacce, distruzione di proprietà e anche peggio.

Non è certo strano che una persona normale e non troppo informata, quando sente per la decima volta in TV che gli Antifa hanno fatto squadrismo per distruggere qualche negozio random per diffondere le loro idee, pensi “sì ma certo, fascisti e antifascisti sono la stessa cosa”.

Ma, come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, l’antifascismo non è un’ideologia a sé bensì l’adesione ad un’ideologia incompatibile col fascismo.

Per concludere

Naturalmente l’opposizione al fascismo non è rappresentata solo da qualche esagitato che si sarebbe trovato molto bene con le squadracce sansepolcriste. Affermare come l’antifascismo sia equivalente al fascismo, senza specificazione alcuna, è quantomeno ingenuo, se non addirittura in malafede.

Viene tuttavia da chiedersi, a più di settant’anni dalla fine del ventennio, se sia così importante la semplice etichetta di antifascismo. Onestamente credo che ormai sia più importante fare opposizione con la proprie idee ai residuati del fascismo piuttosto che opporsi ad un regime ormai morto e sepolto.

Perché sono tutti buoni a dire di voler togliere qualche fascio littorio in giro, ma quanti sarebbero disposti a rimuovere – o quantomeno a modificare radicalmente – i decreti fascisti ancora in vigore? Giusto per citarne alcune:

  • Il TULPS, sviluppato per far funzionare l’apparato di polizia fascista e in larga parte ancora in vigore
  • I vari reati di vilipendio
  • La regolamentazione della professione giornalistica
  • Vari altri decreti, leggi, enti e simili che servono solo a limitare la libertà economica e personale.

Il capitalismo salverà la Chiesa Cattolica (ma non ditelo a voce alta)

Quando penso alla figura del parroco mi viene in mente il curato di campagna che cerca di svincolarsi da loschi figuri che vogliono impedire matrimoni, oppure quelle figure sociali che, dall’alto del loro mandato episcopale, si mettono a gestire tornei di calcetto in oratorio. Tutto bellissimo se non fosse che il parroco moderno fa tutto fuorché questo. La Chiesa Cattolica di oggi vede i parroci che controllano situazioni impegnative, al pari di veri e propri manager d’impresa: asili nido, scuole per l’infanzia, eventi. A livello giuridico sono datori di lavoro: hanno dipendenti e sono penalmente responsabili in caso di problemi legati alla sicurezza delle attività che avvengono negli spazi parrocchiali. Una bella “rogna” che avrebbe portato Don Abbondio a fare, probabilmente, tutt’altro.

Il punto è che, per la Chiesa Cattolica, il prete è rimasto proprio quello di Manzoni nel suo celebre romanzo: senza formazione economica ma solo teologica. Capiamoci, questo non vuole essere in alcun modo un attacco alla Chiesa di Roma, ma un tentativo di far comprendere come l’origine di buona parte dei problemi della vita di una comunità parrocchiale derivi dalla mancanza di una visione imprenditoriale.

Questo articolo ha una sua attualità in quanto, nel padovano, un sacerdote si è dovuto dimettere in seguito a sexy rumors nei suoi confronti. E fin qui niente di sconcertante, i sacerdoti sono uomini e possono (anche se non dovrebbero, per “contratto”) avere queste debolezze; ciò che ha fatto specie è la sua intervista ai giornali locali. Egli sosteneva che dal momento del suo insediamento nel 2017 fossero “scomparsi” dagli uffici tutti i registri che riguardavano 10 anni di gestione economica nonché, l’anno successivo, anche la chiavetta che permetteva i pagamenti digitali, a cui è seguita regolare denuncia contro ignoti. E ancora ha affermato che “c’era un gruppo di persone (parrocchiani laici, ndr) che comandava tutto e decideva ogni spesa, dalle sagre ai contributi per le associazioni, fino alle ristrutturazioni. Bisognava stare alle loro condizioni”. Conclude sostenendo che la sua gestione – più accentrata e volta al controllo diretto delle spese – avesse dato fastidio a qualcuno dando una giustificazione per la diffamazione.

Vera o no che sia la storia, rimane interessante però la metodica con cui le parrocchie ormai vengono gestite: i Consigli Pastorali e i sacerdoti che li presiedono (i CdA per intendersi) sono costituiti da persone non formate in materia amministrativa. Spesso si trovano in posizioni di comando anche personaggi “folkloristici” facenti parte della comunità. Una condizione che pone la Chiesa Cattolica ben lontana da uno standard adeguato di professionalità e necessario per le funzioni che queste organizzazioni svolgono.

Come risolvere questo problema? Il capitalismo e le logiche di mercato – oggigiorno così avversate anche dalla Chiesa di Roma – possono venire in aiuto. Per quale motivo in Vaticano (o nei vari ordini in cui sono divise le varie parrocchie) non si sceglie di pagare dei manager veri, preparati e in grado di fare business plan seri e strutturati, tali che possano assumere dei responsabili HR in grado di capire i limiti delle persone che lavorano in parrocchia? Il modus operandi potrebbe essere quello della Chiesa irlandese, in cui le varie realtà locali funzionano come piccole aziende.

Così facendo, i sacerdoti potrebbero tornare a concentrarsi appieno sui fedeli e sulla teologia, materia per la quale sono dei (certificati) professionisti, lasciando ai manager d’impresa la possibilità di favorire accesso a persone meritevoli nell’organigramma parrocchiale: una parrocchia più funzionale e trasparente è l’immagine di una Chiesa Cattolica inclusiva al passo coi tempi, e lo accetteremmo di buon grado anche senza dover urlare che è merito del liberalismo…c’è ancora tempo per ammetterlo.

Si può essere euroscettici senza essere sovranisti?

Quando pensiamo agli euroscettici, solitamente ci vengono in mente loschi figuri che propongono di uscire dall’Unione per poter tornare ad una valuta sovrana da stampare come i soldi del Monopoli o che parlano di quanto sia cattiva l’Europa a imporci cose brutte come il pareggio di bilancio, il divieto degli aiuti di Stato e la concorrenza.

Qualcuno va delirando e addirittura cita Margaret Thatcher, la stessa Margaret Thatcher che era contraria all’euro per l’Italia perché, parole sue, ha “un’economia inefficiente”.

Verrebbe da dire che un liberale non può che essere europeista, ma non è vero. In questo articolo vedremo come essere euroscettici e sostenere idee liberali non sia affatto in contrasto e ipotizzeremo come e perché un governo liberale possa uscire dall’Unione.

Personalmente, sia chiaro, non ho pregiudizi sull’integrazione europea e difficilmente farei campagna attiva per l’uscita, specie valutando quale sarebbe l’alternativa in Italia. Tuttavia sono fortemente sfiduciato dal progetto europeo formato da Stati. Alla fine l’UE è un club di Stati: loro decidono, loro comandano e danno un contentino democratico col Parlamento europeo.

Se poi certi Stati – *coff* Spagna *coff* – sono disposti ad uccidere pur di non perdere la sovranità, state sicuri che non accetteranno supinamente un progetto che un giorno può svegliarsi e dire “Sai Madrid, domani la Catalogna vota per l’indipendenza e se non lo permetti ti commissariamo”.

L’unica Europa federata che a mio parere potrebbe funzionare veramente come vorrebbero gli europeisti duri e puri è quella dei 1000 Liechtenstein, per citare Hoppe.

Perché uscire?

Torniamo a noi. Per quale motivo un governo liberale potrebbe voler uscire dall’Unione? Le possibili ragioni sono varie.

La prima è commerciare più liberamente. Se è vero che l’Unione europea ha raggiunto grandi obiettivi nel libero commercio, soprattutto quello interno, è anche vero che spesso, grazie all’influenza degli stati centralisti dell’Europa occidentale, tale progresso resta bloccato quando il libero commercio può “danneggiare” l’economia di uno di questi Stati, si pensi a tutte le scuse che la Francia ha inventato per provare a bloccare l’accordo col Mercosur, avverso agli agricoltori francesi.

Grosso modo gli Stati dell’Associazione Europea del Libero Scambio, oggi Svizzera, Liechtenstein, Norvegia e Islanda, commerciano come l’UE oltre che con essa. Ma nulla vieta a questi Paesi di avere più trattati di libero commercio rispetto all’Unione europea. Tant’è che, per esempio, l’equivalente EFTA del CETA è entrato in vigore nel 2009, mentre il CETA nel 2017, e tra l’altro in via provvisoria.

Un’altra possibile motivazione è quella di voler liberalizzare l’agricoltura, come fatto ad esempio in Nuova Zelanda. Nell’Unione europea l’agricoltura è fortemente regolata e uno Stato non può semplicemente dire “da oggi liberalizzo”. I Paesi EFTA invece possono fare quello che vogliono, l’agricoltura è esplicitamente esclusa dai trattati.

Se si vuole una nazione con un modello liberale sulle armi, tra l’altro, uscire dall’Unione è praticamente obbligatorio. Bruxelles odia le armi, c’è poco da fare, e se con gli Stati esterni può fare pressioni come minacciare ripercussioni su Schengen, com’è successo per esempio con la Svizzera, con gli Stati membri può agire molto più incisivamente.

Se un governo liberale volesse un “secondo emendamento” starebbe in pratica dicendo “vogliamo uscire dall’Unione europea”, c’è poco da dire.

Ma si potrebbe voler uscire dall’Unione anche per un mero fatto politico: commerciare e scambiare merci, persone e servizi liberamente con uno Stato non vuol dire per forza volerci stare assieme politicamente. Uno Stato può apprezzare i prodotti ungheresi o i servizi spagnoli e voler fare bonifici a commissioni nazionali verso la Polonia ma non voler aver nulla a che fare con le politiche di dubbia qualità democratica dei due Stati in questione.

Per qualcuno perdere un po’ di rappresentanza potrebbe essere un prezzo accettabile per non essere invischiato nei vari problemi dell’UE.

Come uscire?

Come dovrebbe un governo liberale uscire dall’Unione europea? Oggi abbiamo un solo caso di procedura di uscita dall’Unione, quello inglese, che è stato abbastanza confusionario.

La procedura della Brexit è sicuramente un caso da non imitare. A mio parere la miglior maniera di fare una secessione è quella prevista dalla Costituzione del Liechtenstein: si vota sull’argomento e poi sul trattato.

La legge italiana rende tuttavia difficile votare un referendum del genere perché richiederebbe una legge costituzionale. Farne due potrebbe essere difficoltoso, se quindi un governo avesse un mandato popolare chiaro dovrebbe fare una cosa: andare a Bruxelles e trattare fin da subito.

Le cose da ottenere sarebbero principalmente il poter rimanere nello Spazio Economico Europeo, avere la strada aperta per entrare nell’EFTA, mantenere Schengen e poter rimanere nei progetti europei interessanti e concordati. Se ci sono dei debiti è bene pagarli subito per partire da una posizione migliore.

Una volta concluso il trattato i cittadini voteranno per quel trattato in un referendum. Non voteranno un generico “restare” contro “uscire”, voteranno uno specifico trattato. Se questo trattato vince non è colpa del populismo, di Trump, di Bolsonaro o di chicchessia, semplicemente i cittadini hanno ritenuto quel trattato e le relative implicazioni più vantaggiose dell’appartenenza all’UE.

Poche cose cambierebbero nell’immediato: Gli Stati dell’EFTA – eccetto la Svizzera che non è nello Spazio Economico Europeo – sono praticamente come Stati dell’UE. Ma un governo liberale potrebbe iniziare a cercare nuovi trattati di libero scambio, ridurre l’interventismo in agricoltura, modificare la politica sulle armi o altro che onestamente non mi viene nemmeno in mente.

Se ti fosse venuta voglia, beh, pensaci bene

Magari con questo articolo ti ho convinto che uscire dall’Unione europea è una cosa positiva. Ti invito ad approfondire l’argomento anche consultando altre fonti perché da un articolo divulgativo come questo non è saggio trarre insegnamenti tali da mutare le proprie visioni politiche.

Se sei veramente convinto, beh, valuta bene come schierarti. La posizione liberale euroscettica è profondamente minoritaria.

Tipicamente gli italiani euroscettici lo sono perché credono che il libero scambio, la concorrenza e la libertà economica abbiano danneggiato l’Italia. Sostenere un partito euroscettico italiano, oggi, vuol dire negare ogni singola parola scritta in questo articolo.

Significherebbe stare con l’Italia che sussidia l’agricoltura alla follia, che si chiude su sé stessa per tutelare qualche azienda decadente (dimenticando che le proprie Regioni ricche vivono di export), con il partito unico dell’inflazione, della svalutazione e del debito.

Perché, alla fine, se condividi quello che ho scritto non sei euroscettico, sei semplicemente liberale. Credi in piccoli Stati che commerciano liberamente tra di loro, che di scambiano idee, persone e servizi senza che da ciò derivi necessariamente un’unione politica forte. Un sistema che Thomas Jefferson ben sintetizzava come “Pace, commercio, e onesta amicizia con tutte le nazioni ingarbugliando le alleanze con nessuna”

Ridurre i parlamentari e non la democrazia

Poco tempo fa vi ho parlato dello Stato nel Terzo Millennio in questo articolo. Rileggendo il libro, per migliorare alcuni punti, mi è capitato sotto mano un paragrafo decisamente utile in questi giorni in cui si discute di taglio dei parlamentari, specie quando pochi giorni fa sono state presentate le firme per indire un referendum in materia, di fatto annullando una legislatura di risparmi a causa dei costi della consultazione.

I contrari al taglio fanno notare che ciò vorrebbe dire aumentare il numero di cittadini che eleggono un deputato, un taglio non giustificato dal leggero risparmio portato dalla misura. Da un punto di vista meramente teorico hanno ragione, ma all’atto pratico bisogna considerare due aspetti.

Il primo è che sono già applicate numerose misure per ridurre la rappresentanza democratica e un sistema tendenzialmente proporzionale non aiuta a creare un’identificazione tra deputato e territorio. Queste misure sono le preferenze bloccate o gli sbarramenti che nei sistemi maggioritari escludono le liste più piccole dal riparto dei seggi. In un sistema del genere, alla fine, poco cambia tra avere 630 o 34 deputati: la rappresentanza è solo marginalmente scalfita dall’avere pochi deputati.

Il secondo aspetto da considerare è che, ahinoi, da tempo il Parlamento è essenzialmente un passacarte del Governo, complici anche le alleanze sbilenche dove se non passa una legge si va tutti a casa determinando, di fatto, un ricatto per parlamentari (un bel direttorio servirebbe anche a questo).

Il Parlamento

Il Principe (nel libro Lo Stato del Terzo Millennio, ndr), in gioventù, lavorò nella segreteria di un senatore americano arrivando a conoscere abbastanza bene i meccanismi interni di un Parlamento. E fa notare principalmente due cose:

  • il Parlamento non può essere troppo piccolo, altrimenti i parlamentari non riescono concretamente ad analizzare le leggi e a fare il proprio lavoro. Proprio per questo motivo nel 1988 il Liechtensteien, che si apprestava ad entrare in varie organizzazioni internazionali, aumentò i propri deputati da 15 a 25;
  • un Parlamento troppo grosso è inefficiente: i deputati comunicano male, i dibattiti durano di più e non si elevano qualitativamente. Inoltre la collaborazione tra differenti parlamentari interessati al medesimo argomento diviene più difficile.

Per questa ragione Giovanni Adamo, pur non dandoci una misura di un parlamento giusto, ci dà un consiglio:

Nel dubbio, meglio scegliere il numero più basso.

Tuttavia viene da chiedersi: come si può risolvere il problema della democraticità, sia quella che manca oggi sia quella causata dalla eventuale riduzione? Basta continuare la lettura per avere un’idea: oggi lo Stato centrale fa molto, ma nello Stato centrale abbiamo poco potere decisionale! Il nostro voto conta poco, circa 1/51.000.000 con gli ultimi dati d’affluenza, ed è per un ente che pesa molto nella nostra vita. A queste condizioni è ovvio che nasca il populismo!

Più democrazia può voler dire democrazia diretta

Un giorno prometto che pubblicherò un bell’articolo sul tema, ma basti sapere che la democrazia diretta riduce il potere e il peso dei partiti. Ma senza correttivi, essa rischia di cadere nei due classici problemi della democrazia: quello dell’elevato costo (votare spesso a livello nazionale avrebbe costi molto alti) e quello della dittatura della maggioranza.

Una soluzione a questi problemi è il decentramento: governo di piccole unità locali, affiancate da altre più in alto secondo una logica di sussidiarietà. Questo almeno in principio e per quegli ambiti per i quali è difficile decentrare o privatizzare subito (come i trasporti, quasi sicuramente questi enti sopravviveranno successivamente come confederazioni). Ambiti dove esista democrazia diretta e che si occupino di cose come il welfare o la gestione di servizi pubblici come scuole. Questi rigorosamente in concorrenza.

Su questi enti i cittadini hanno più controllo ed è possibile usare la democrazia diretta in modo più estensivo. In questo modo si riduce la necessità della ben più costosa democrazia diretta nazionale, potendola accorpare ad esempio alle consultazioni nazionali. Sarebbe quindi possibile ridurre il numero dei parlamentari senza intaccare la democrazia, poiché essa sarebbe principalmente in mano alle comunità locali ed ai cittadini. E, inoltre, sarebbe possibile anche eliminare il Senato.

Formalmente, infatti, il Senato dovrebbe rappresentare le regioni. Ma, in pratica, non lo fa, tant’è che per differenziarlo dalla Camera ha un elettorato differente. E se le autonomie fossero responsabili per loro stesse e si fissasse un metodo di finanziamento unico per tutte come, per esempio, la distribuzione pro capite del surplus statale? L’utilità della Camera alta inizierebbe a scemare fino a scomparire.

Bisognerebbe, infine, superare l’idea per cui il Parlamento può modificare la Costituzione di sua sponte senza referendum: ogni modifica costituzionale deve richiedere un referendum confermativo e, per impedire colpi di mano, la maggioranza deve essere raggiunta non solo su base nazionale ma anche delle comunità locali, come accade in Svizzera con la famosa formula “maggioranza di popolo e cantoni“.

In un sistema del genere potremmo accontentarci di una camera di due o trecento persone e la democrazia, infine, ne uscirebbe rafforzata.

La puerilità del dibattito politico economico in Italia

Sfido i lettori a indovinare chi ha pronunciato le frasi di seguito (trovate le risposte in nota):

  1. “Le imprese si reggono sui consumi: perciò sui consumatori dobbiamo fare leva”;
  2. “La manovra ha un piano di investimenti pubblici e di sostegno alle imprese che non ha precedenti rispetto a tutte le altre manovre economiche”;
  3. “È evidente che si può sforare [la regola del 3%]: si tratta di un vincolo anacronistico che risale a 20 anni fa”;
  4. “Dare una mano agli ultimi è anche il miglior modo per rilanciare i consumi”[1]

Viviamo in un Paese dove la polarizzazione politica è sempre più forte e gli elettori si dividono in tifoserie che si guardano con odio reciproco.

Questo rende ancora più sorprendente l’uniformità del dibattito economico italiano. Con pochissime eccezioni, tutti i grandi partiti italiani concordano sulla ricetta da somministrare al Paese: spesa a deficit per rilanciare la domanda interna.

Le citazioni di cui sopra lo dimostrano perfettamente e quasi nessuno propone altre soluzioni. Poi certo, ci sono gradazioni diverse: chi propone più investimenti pubblici, chi sovvenzioni alle imprese, chi minori tasse o sussidi alle fasce più povere, ma la sostanza non cambia.

Tralasciando la propaganda, il ragionamento economico alla base delle proposte è all’incirca il seguente: maggiore spesa pubblica e/o minori tasse significano maggiori consumi; maggiori consumi, grazie al moltiplicatore keynesiano[2], significano maggiore crescita, più che sufficiente a ripagare il deficit accumulato.

Questo ragionamento è prova della profonda ignoranza (o malafede?) dei politici italiani in materia economica. Il moltiplicatore keynesiano non è una bacchetta magica e ha grosse incognite: punto primo, il denaro preso a prestito per finanziare il deficit ha un costo sulle casse dello Stato, in termini di interesse; punto secondo, se il denaro viene prestato allo Stato non può essere prestato ai privati, i cui investimenti dunque si riducono; punto terzo, il moltiplicatore keynesiano si basa sull’aspettativa che il maggior denaro a disposizione dei cittadini sia speso e messo in circolazione nell’economia, ma potrebbe anche essere risparmiato (in effetti è sempre parte speso e parte risparmiato, con proporzioni variabili); punto quarto, chi consuma potrebbe acquistare prodotti importati, diminuendo i benefici per le imprese locali; ed infine, senza investimenti dal lato dell’offerta la produzione non può aumentare né di quantità né di qualità[3].

Insomma, l’effetto positivo, di lungo termine, del moltiplicatore keynesiano non è affatto scontato. A questo aggiungiamo che secondo gli studi più recenti solo raramente, in tempi di recessione profonda, il moltiplicatore è maggiore di 1; più abitualmente non supera lo 0,6[4].

Tradotto, significa che per ogni euro speso, il PIL del Paese cresce di 60 centesimi circa: la strada maestra per accumulare sempre più debito fino ad un inevitabile default.

Ciò che manca nel dibattito politico italiano sono i problemi di fondo dell’economia italiana, riassumibili in un paio di statistiche: siamo all’80° posto per il livello di libertà economica e al 51° per la facilità di fare impresa.

Siamo così in basso[5] perché abbiamo un sistema giudiziario dai tempi lunghissimi e incerti, una tassazione eccessivamente alta, una burocrazia opprimente e una legislazione contorta e difficile da affrontare. Sono tutti problemi ben noti nel nostro Paese e che non si risolveranno certo con altri 2 o 3 punti percentuali di deficit; la domanda allora è un’altra: perché non se ne parla durante il dibattito politico?


[1] 1) Silvio Berlusconi, parlando della futura manovra finanziaria nel Novembre 2008 https://aostasera.it/notizie/news-nazionali/berlusconi-piu-consumi-per-evitare-crisi-finanziaria-estrema/

2) Matteo Salvini, parlando della manovra finanziaria nel Dicembre 2018 https://www.ilmessaggero.it/politica/salvini_diretta_facebook_basta_insulti_minacce-4150917.html

3) Matteo Renzi, Gennaio 2014, proponendo un’alleanza al Movimento 5 Stelle https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/02/renzi-richiama-grillo-caro-beppe-insieme-faremmo-grandi-cose/829856/

4) Alessandro Di Battista, parlando della manovra finanziaria nell’Ottobre 2018 https://www.fanpage.it/politica/di-battista-manovra-di-sinistra-pronto-ad-andarla-a-spiegare-nelle-piazze-italiane/.

[2] Il “moltiplicatore” è un concetto elaborato dal celebre economista inglese John Maynard Keynes, in base al quale un incremento della domanda aggregata porterebbe a un incremento più che proporzionale del reddito nazionale (PIL).

[3] Per approfondimenti, ad esempio http://vonmises.it/2018/06/01/il-moltiplicatore-keynesiano-e-unillusione/; https://www.adamsmith.org/blog/tax-spending/for-every-multiplier-there-is-a-de-multiplier; https://www.cato.org/publications/commentary/faithbased-economics.

[4] Ad esempio si vedano https://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1267.pdf?5ed52b5ab649fecb6236f72c090252f3; https://www.imf.org/external/pubs/ft/tnm/2014/tnm1404.pdf; https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2013/wp1301.pdf;

[5] Per capire meglio la sconfortante situazione, nel confronto con i soli Paesi OCSE (l’organizzazione che raggruppa gli Stati più sviluppati al mondo) siamo rispettivamente 36° e 32° su 37 (fonti: https://www.doingbusiness.org/en/rankings; https://www.heritage.org/index/ranking)

Più Europa non è (sempre) uno slogan liberale

In Italia tutti gli appartenenti alla frastagliata galassia liberale sono convintamente filo-Unione Europea e spesso invocano più Europa come soluzione ai problemi che di volta in volta si discutono.

Cosa significa più Europa?

Analizziamo in breve cosa può significare l’invocazione di più Europa. Chi utilizza questo slogan sostiene in generale che debbano aumentare le materie direttamente gestite dall’Unione Europea, che la legislazione europea debba crescere e intervenire in ambiti sempre maggiori, che le istituzioni europee debbano coordinare e talora dirigere in maniera ancora più decisa le politiche degli stati membri.

Ebbene, tutto ciò non è esattamente in linea con alcuni dei principi fondamentali del metodo liberale.

L’Unione Europea è un’istituzione sovranazionale democratica con finalità politiche, quindi un potere pubblico a tutti gli effetti, per di più caratterizzato da un assetto burocratico enorme e costoso e da una limitata possibilità di controllo “dal basso”, viste le dimensioni continentali.

Una critica liberale

Chiedere più Europa è a mio parere un obiettivo discutibile che sovente si scontra con due principi fondamentali del Liberalismo: la limitazione del potere e la negazione del “punto di vista privilegiato”.

Il principio di limitazione del potere

Riguardo al primo punto, dire acriticamente più Europa equivale a dire più potere pubblico, più intervento pubblico dell’Europa sugli Stati (quindi indirettamente sui cittadini) o direttamente sugli individui. Sia ben chiaro, io non nego che questo sia necessario in qualche settore, anzi sono pronto anche a mettere la firma nero su bianco dove sarebbe necessario questo maggiore intervento.  Per esempio io ritengo che su Difesa, Politica Estera e Immigrazione la sovranità dovrebbe essere attribuita all’Unione Europea in maniera sostanziale.

Ma attenzione a dire più Europa sempre e comunque, perché ogni potere pubblico, anche e a maggior ragione quello europeo, deve essere limitato e controllato, altrimenti, per la legge di gravità del potere, diventa ipertrofico e liberticida.

Cosa succederebbe se creassimo una Unione Europea con grandi poteri in ogni campo e poi alle prossime lezioni europee vincessero forze nazionaliste e illiberali? Avremmo consegnato uno strumento potentissimo nelle loro mani.

Non cadiamo nel rischio di miticizzare l’Unione europea come fanno molti partiti dell’area liberal e socialista. Quando sento frasi del tipo “La nostra stella polare è l’Europa”, mi viene in mente il famoso “sol del avvenir” di Sovietica memoria e questo è solo un esempio della visione dogmatica e teleologica che circonda l’Unione Europea. Insomma, bisogna stare alla larga dall’ideologia secondo la quale ad ogni costo bisogna aumentarne le funzioni e i campi di intervento.

La negazione del “punto di vista privilegiato” sul mondo.

E qui mi ricollego al secondo punto: per tutte le forze Euro-fanatiche l’Unione Europea è diventata il nuovo “punto di vista privilegiato” sul mondo. Un punto di vista elevato, illuminato, infallibile che quindi non si discute ma che al contrario va recepito. Quante volte abbiamo sentito la frase “va recepita la direttiva europea n° 123”. Ormai ci siamo abituati e lo accettiamo acriticamente, come farebbe un funzionario sovietico con una direttiva proveniente “dall’alto”.

Invece un liberale ha il dovere di dubitare, ma soprattutto di rifiutare ogni pretesa di infallibilità e di possedere una conoscenza superiore, privilegiata sulla realtà. Non a caso Bruxelles è popolata da una tecnocrazia autoreferenziale e convinta della propria superiorità intellettuale.

L’UE sta diventando il nuovo “legislatore onnisciente” che tutto conosce, tutto decide e tutto risolve. E invece non è così, un liberale deve rifiutare con forza tale paradigma.

Una Unione “forte ma poco affaccendata”.

Una federazione “leggera” di stati europei serve, serve tantissimo, ce lo richiedono le sfide della modernità e della globalizzazione, ma bisogna evitare di beatificare l’UE ad ogni costo. Io lo dico forte e chiaro, W l’Europa, W l’Euro, abbasso i nazionalismi! Però il super-stato europeo burocratizzato, tecnocratico e illimitato questo no, non lo possiamo proprio accettare! Vogliamo una Europa che sia, come direbbe Roepke, “forte ma poco affaccendata”.

Hitler, Mussolini e l’Islam

Non è un mistero che l’estrema destra non provi esattamente simpatia nei confronti dell’Islam. Anche senza contare i suoi esponenti più radicali (seguaci di teorie complottiste come il Piano Kalergi o l’Eurabia), i più considerano i musulmani come un corpo estraneo nel tessuto sociale dell’Occidente moderno, da isolare o estirpare.

Tutto ciò è assai curioso, se si considera che i padri ideologici dell’estrema destra, Hitler e Mussolini, avevano un rapporto per niente ostile nei confronti del mondo islamico. Anzi, non sarebbe esagerato parlare di un rapporto cordiale, che probabilmente spingerebbe i moderni neofascisti e neonazisti a dare dei “radical chic” ai loro eroi.

I neofascisti, per esempio, saranno sorpresi nello scoprire che il loro Duce si definiva pubblicamente “protettore dell’Islam”, e che avesse l’intenzione[1] di far costruire una moschea a Roma (anche se poi rinunciò per via dell’opposizione del papa).

Ma non è tutto. Mussolini, infatti, era un convinto sostenitore dell’integrazione dei musulmani all’interno della società italiana. A questo scopo in Libia vennero istituite la Gioventù Araba del Littorio, equivalente dell’Opera Nazionale Balilla, e l’Associazione Musulmana del Littorio, sezione locale del Partito Nazionale Fascista.

Mussolini, in effetti, aspirava ad essere non solo il Duce degli italiani, ma anche il Califfo dei musulmani, ed a tale scopo nel 1937 organizzò una cerimonia nel corso della quale ricevette la “Spada dell’Islam”, a simboleggiare la sua pretesa di essere l’erede dell’autorità dei Califfi.

Naturalmente, il Duce non fece tutto questo per soddisfare il suo spirito umanitario. Come il suo collega Hitler, infatti, Mussolini era innanzitutto un uomo pratico. Pertanto, egli sapeva che, dopo le barbarie del sanguinoso conflitto combattuto dall’Italia fascista nei primi anni Trenta per consolidare la sua colonia libica, era necessaria un’opera di pacificazione per trasformare la Libia nella “Quarta Sponda” italiana.

Ma le ambizioni di Mussolini non erano limitate alla Libia. Il suo sogno, infatti, era quello di espandere l’impero coloniale italiano in Nord Africa ed in Medio Oriente, a discapito di Francia e Gran Bretagna. Naturalmente, queste regioni erano a maggioranza araba e musulmana, ed i suoi abitanti erano già ostili al colonialismo anglo-francese.

Mussolini pertanto, mostrandosi come un amico degli Arabi, sperava di conquistarli come alleati, nella sua missione per trasformare il Mediterraneo in un “Mare Nostrum” come ai tempi di Augusto. Inoltre, dal punto di vista personale, l’idea di ottenere nuovi onori e titoli stuzzicava la sua vanità.

Se i neofascisti devono fare i conti con una scomoda verità, la pillola non è certo più dorata per i neonazisti. Questi certo resterebbero scioccati se scoprissero che uno dei più grandi fan del loro Führer era nientemeno che Amin Al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme (massima carica religiosa dell’Islam) dal 1921 al 1948.

Tutte le amicizie, si sa, nascono da interessi comuni. In questo caso, gli interessi comuni che unirono il Führer ed il Gran Muftì furono l’antisemitismo più radicale ed il desiderio di porre fine al dominio anglo-francese sul Medio Oriente.

Amin Al-Husseini, che desiderava l’avvento di un grande Stato panarabo, temeva più di ogni altra cosa che gli Ebrei, con l’appoggio delle potenze europee, si ritagliassero un loro Stato nel mandato britannico della Palestina. Per questo, quando nel 1933 Hitler salì al potere, il Gran Muftì confidò ai suoi seguaci di “intravedere un nuovo, radioso futuro”, e predisse “l’avvento di una nuova era di libertà per i musulmani di tutto il mondo”[2].

D’altro canto, anche Hitler aveva le sue buone ragioni per apprezzare questo alleato ben poco ariano: per il Terzo Reich, il Medio Oriente significava petrolio, di cui la macchina da guerra nazista aveva disperato bisogno. Inoltre, il crollo delle posizioni britanniche in Nord Africa e Medio Oriente avrebbe potuto indurre la Gran Bretagna ad arrendersi.

Da un punto di vista personale, poi, Hitler non era affatto ostile alla religione islamica. Anzi, riteneva che l’Islam fosse ben più adatto alla natura guerriera dei popoli germanici, rispetto alla fiacca tolleranza del cristianesimo[3].

Sfortunatamente per il Führer, e fortunatamente per l’umanità, il Gran Muftì fallì nel suo tentativo di scatenare una jihad contro gli Alleati. Questo però non significa che Amin Al-Husseini non abbia dato alcun contributo alla causa nazista.

Il Gran Muftì, infatti, fu un grande propagandista del Terzo Reich, tanto che già nel settembre 1939, all’indomani dell’invasione della Polonia, Amin al Husseini volle dichiarare pubblicamente il suo sostegno al “meritevole e coraggioso condottiero Adolf Hitler”, incitando “i musulmani a prendere le armi a fianco della Germania nazista”[4].

Sul piano prettamente militare, poi, il Gran Muftì fu attivamente coinvolto nel reclutamento di musulmani nelle armate di Hitler, come nel caso della 13ma Divisione da montagna SS Handzar e della 21ma Divisione da montagna Skanderbeg.

Ai volontari di queste due divisioni venne concesso di praticare una dieta particolare vincolata ai precetti musulmani, di pregare pubblicamente secondo la ritualità, e di festeggiare e osservare le feste e i digiuni imposti dal Corano[5].

Naturalmente, la sconfitta dell’Asse rende impossibile sapere come si sarebbe evoluto il rapporto fra i totalitarismi di destra e l’Islam se l’Italia fascista e la Germania nazista avessero vinto la guerra.

Hitler e Mussolini, infatti, già nella storia reale hanno dimostrato più volte di essere spregiudicati opportunisti (patto Molotov-Ribbentrop docet), usi a tradire o abbandonare gli alleati diventati inutili o scomodi.

Dopotutto, non bisogna dimenticare che anche gli Arabi, con buona pace del Gran Muftì, sono semiti come gli Ebrei. Per questo, è possibile che, una volta vinta la guerra, i nazifascisti avrebbero semplicemente spedito i loro vecchi alleati a raggiungere gli odiati Ebrei nei campi di sterminio.

Tuttavia, è divertente pensare che, in alternativa, se l’Asse avesse vinto la guerra oggi a Roma e a Berlino, dove neofascisti e neonazisti lottano intrepidi per “combattere l’invasione” e “difendere la nostra civiltà, come faceva il Duce/il Führer”, forse si vedrebbero uomini delle SS e gerarchi vestiti di tutto punto pregare in direzione della Mecca al richiamo del muezzin.

[1] https://youtu.be/vHvvuPCHlfo

[2][4][5] https://www.ilvangelo-israele.it/approfondimenti/Hitler-Mufti.html

[3] Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”