Il Superbonus è il fallimento dello statalismo

Quello che è accaduto con il Superbonus rappresenta alla perfezione la morte economica dell’Italia e il fallimento dello statalismo.

Andiamo con ordine.

L’edilizia è una industria morente tenuta in stato vegetativo da una serie di bonus edilizi istituiti negli ultimi quindici anni. Questi bonus sono diventati via via più generosi: il bonus ristrutturazione al 36% e poi al 50%, l’ecobonus al 65%, il sismabonus al 75% e poi all’85%, il bonus facciata al 90% e infine il tristemente famoso Superbonus 110%.

Ciascuno di questi bonus è nato con un duplice obiettivo politico: far ripartire l’edilizia unendo una componente di “utilità sociale” che giustifica il contributo pubblico. E così l’ecobonus è motivato dall’efficienza energetica, il sismabonus dalla sicurezza sismica, il bonus facciate di Franceschini invece da una questione di pura estetica, per la quale abbiamo pagato il 90% dei lavori di abbellimento delle facciate con tinteggiature e cornicette.

Questi obiettivi politici sono sistematicamente stati mancati: in 15 anni gli investimenti con bonus edilizi sono stati irrisori, l’industria delle costruzioni è rimasta in un limbo tra la vita e la morte, e il contributo dato alla riqualificazione energetica, sismica ed energetica del patrimonio edilizio è vicino allo zero. È proprio per questo motivo che il Movimento 5 Stelle ha escogitato il Superbonus 110% nel suo Decreto Rilancio all’indomani della prima ondata pandemica.

Il provvedimento è stato dirompente: i cittadini, appreso che lo Stato avrebbe coperto l’intero importo dei lavori, non hanno esitato a cercare tecnici e imprese in grado di districarsi nel complesso impianto normativo del Superbonus. In due anni, lo Stato italiano si è impegnato economicamente per circa 60 miliardi di euro, una cifra pari a 2-3 finanziarie di medie dimensioni, e questo nonostante il sistema dei crediti di imposta abbia subito pesanti rallentamenti e blocchi ogni due mesi.

Tralasciando le questioni che hanno causato il tracollo del Superbonus, su cui pure ci sarebbe da ridere, proviamo a descrivere i motivi per cui questo provvedimento rappresenta la morte economica del Paese, almeno da un punto di vista liberale.

Ronald Reagan recitava una simpatica massima: “Se un’industria si muove tassala, se continua a muoversi regolamentala, se smette di muoversi sussidiala”.

L’industria delle costruzioni in Italia vive di sussidi statali da 15 anni, e l’unica soluzione che la politica è stata in grado di trovare consiste nell’aumentare la quota di incentivi in carico allo Stato. Nessuna parte politica, a destra e a sinistra, è in grado di esprimere un pensiero volto alla liberalizzazione del settore delle costruzioni, pesantemente condizionato da un apparato normativo mastodontico.

Le norme urbanistiche che oggi regolano la produzione edilizia sono state concepite negli anni ‘60, un periodo di boom demografico, economico ed urbano, ed erano volte a disciplinare il mercato, calmierando la speculazione edilizia. Oggi che viviamo in un periodo di stagnazione economica, quelle stesse norme stanno deprimendo ulteriormente la produzione edilizia.

La mentalità statalista però è così pervasiva che nessuna parte politica è disposta a proporre una deregulation strutturale. Finora hanno giocato sulle percentuali di agevolazione fiscale: togli il 65% e metti il 110%, togli il 110% e metti il 90%. È questo l’apice del pensiero liberale che possiamo aspettarci dalla politica italiana, centrodestra incluso? Si spera di no.

Dal punto di vista dei conti pubblici, effettivamente, lo scenario è inquietante: 60 miliardi di euro spesi per intervenire sul 3% delle abitazioni. E se si prova a misurare l’impatto sulla transizione ecologica ci si rende conto di quanto questo provvedimento sia diventato una macchina brucia-soldi: ipotizzando di aver dimezzato le emissioni CO2 di ogni edificio che ha beneficiato del 110%, e considerato che l’edilizia residenziale conta per il 10% delle emissioni totali dell’Italia, viene fuori che abbiamo complessivamente ridotto le emissioni nazionali circa dello 0,15%. Considerato che l’Italia è responsabile per meno dell’1% delle emissioni a livello globale, si lascia ai lettori il compito di calcolare di quanti gradi abbiamo abbassato le temperature globali spendendo 60 miliardi.

L’aspetto più oscuro della faccenda è però la fotografia del Paese restituita dal Superbonus: l’Italia appare un Paese fatto di case vecchie ed obsolete, i cui proprietari non hanno neanche una frazione delle risorse necessarie per gli adeguamenti strutturali ed energetici, e l’unico modo per far ripartire il settore dell’edilizia è che lo Stato debba coprire l’intero importo dei lavori. Roba che neanche in Unione Sovietica.

Insomma, il problema non è il 110%, il 90%, l’efficienza energetica. Il problema è il declino economico di una delle più grandi potenze industriali al mondo, dovuto al pantano burocratico e tributario a cui ogni attività produttiva è soggetta, e a una classe dirigente completamente assuefatta alle politiche stataliste. Quel che un tecnico di cultura liberale deve chiedere è che il governo tolga di mezzo tutto questo apparato enorme di sussidi, e abbia il coraggio di liberalizzare il settore delle costruzioni. Ciò consentirebbe agli investitori privati di rischiare i propri capitali per realizzare un vero rinnovo del parco residenziale italiano. Purtroppo, gli ordini professionali si uniscono alle richieste di sussidi e tutele da parte dello Stato.

Le nostre città sono cristallizzate da più di mezzo secolo in edifici antiquati che avrebbero bisogno non di un cappotto termico, ma di essere rasi al suolo e ricostruiti. I costruttori dovrebbero essere incentivati non tramite i sussidi, ma tramite dei bonus volumetrici (nuova cubatura) che servano a finanziare le operazioni immobiliari, immettendo così anche una grande quantità di nuovi appartamenti in zone dove c’è particolare richiesta, il che servirebbe a riequilibrare la curva di domanda e offerta, abbassando i prezzi esorbitanti che vediamo da un po’ di anni.

Il valore aggiunto di una operazione immobiliare è la cubatura aggiuntiva che è possibile realizzare: se le norme impediscono di creare una significativa quantità di nuovo volume, è normale che viene meno l’incentivo economico di mercato, e per questo lo Stato ha dovuto introdurre una serie di incentivi economici statali.

In sintesi, l’unica soluzione è lo sviluppo economico a trazione privata. L’Italia è diventata grande quando avevamo il coraggio di investire in modo spregiudicato: da un po’ di tempo abbiamo perduto questo coraggio, e ormai ci limitiamo a politiche di breve respiro volte a spostare da qui a lì un punto percentuale di spesa pubblica. È tempo di costruire l’Italia di domani, partendo da idee coraggiose e abbandonando una volta per tutte lo statalismo.

Più Europa non è (sempre) uno slogan liberale

In Italia tutti gli appartenenti alla frastagliata galassia liberale sono convintamente filo-Unione Europea e spesso invocano più Europa come soluzione ai problemi che di volta in volta si discutono.

Cosa significa più Europa?

Analizziamo in breve cosa può significare l’invocazione di più Europa. Chi utilizza questo slogan sostiene in generale che debbano aumentare le materie direttamente gestite dall’Unione Europea, che la legislazione europea debba crescere e intervenire in ambiti sempre maggiori, che le istituzioni europee debbano coordinare e talora dirigere in maniera ancora più decisa le politiche degli stati membri.

Ebbene, tutto ciò non è esattamente in linea con alcuni dei principi fondamentali del metodo liberale.

L’Unione Europea è un’istituzione sovranazionale democratica con finalità politiche, quindi un potere pubblico a tutti gli effetti, per di più caratterizzato da un assetto burocratico enorme e costoso e da una limitata possibilità di controllo “dal basso”, viste le dimensioni continentali.

Una critica liberale

Chiedere più Europa è a mio parere un obiettivo discutibile che sovente si scontra con due principi fondamentali del Liberalismo: la limitazione del potere e la negazione del “punto di vista privilegiato”.

Il principio di limitazione del potere

Riguardo al primo punto, dire acriticamente più Europa equivale a dire più potere pubblico, più intervento pubblico dell’Europa sugli Stati (quindi indirettamente sui cittadini) o direttamente sugli individui. Sia ben chiaro, io non nego che questo sia necessario in qualche settore, anzi sono pronto anche a mettere la firma nero su bianco dove sarebbe necessario questo maggiore intervento.  Per esempio io ritengo che su Difesa, Politica Estera e Immigrazione la sovranità dovrebbe essere attribuita all’Unione Europea in maniera sostanziale.

Ma attenzione a dire più Europa sempre e comunque, perché ogni potere pubblico, anche e a maggior ragione quello europeo, deve essere limitato e controllato, altrimenti, per la legge di gravità del potere, diventa ipertrofico e liberticida.

Cosa succederebbe se creassimo una Unione Europea con grandi poteri in ogni campo e poi alle prossime lezioni europee vincessero forze nazionaliste e illiberali? Avremmo consegnato uno strumento potentissimo nelle loro mani.

Non cadiamo nel rischio di miticizzare l’Unione europea come fanno molti partiti dell’area liberal e socialista. Quando sento frasi del tipo “La nostra stella polare è l’Europa”, mi viene in mente il famoso “sol del avvenir” di Sovietica memoria e questo è solo un esempio della visione dogmatica e teleologica che circonda l’Unione Europea. Insomma, bisogna stare alla larga dall’ideologia secondo la quale ad ogni costo bisogna aumentarne le funzioni e i campi di intervento.

La negazione del “punto di vista privilegiato” sul mondo.

E qui mi ricollego al secondo punto: per tutte le forze Euro-fanatiche l’Unione Europea è diventata il nuovo “punto di vista privilegiato” sul mondo. Un punto di vista elevato, illuminato, infallibile che quindi non si discute ma che al contrario va recepito. Quante volte abbiamo sentito la frase “va recepita la direttiva europea n° 123”. Ormai ci siamo abituati e lo accettiamo acriticamente, come farebbe un funzionario sovietico con una direttiva proveniente “dall’alto”.

Invece un liberale ha il dovere di dubitare, ma soprattutto di rifiutare ogni pretesa di infallibilità e di possedere una conoscenza superiore, privilegiata sulla realtà. Non a caso Bruxelles è popolata da una tecnocrazia autoreferenziale e convinta della propria superiorità intellettuale.

L’UE sta diventando il nuovo “legislatore onnisciente” che tutto conosce, tutto decide e tutto risolve. E invece non è così, un liberale deve rifiutare con forza tale paradigma.

Una Unione “forte ma poco affaccendata”.

Una federazione “leggera” di stati europei serve, serve tantissimo, ce lo richiedono le sfide della modernità e della globalizzazione, ma bisogna evitare di beatificare l’UE ad ogni costo. Io lo dico forte e chiaro, W l’Europa, W l’Euro, abbasso i nazionalismi! Però il super-stato europeo burocratizzato, tecnocratico e illimitato questo no, non lo possiamo proprio accettare! Vogliamo una Europa che sia, come direbbe Roepke, “forte ma poco affaccendata”.

Lo statalismo è figlio del fascismo

L’Italia è uno dei paesi europei più forti dal punto vista dell’assistenzialismo, delle dimensioni dello Stato, della pressione fiscale, della spesa pubblica e dei sussidi per le aziende.

Secondo l’Istitute Heritage, l’Italia è nella posizione numero 80 dell’Index Of Economic Freedom. L’indice della Libertà Economica è il più famoso indice che classifica tutti i paesi del mondo su fattori come libertà imprenditoriale, di mercato, libertà dalla corruzione, diritti di proprietà, efficienza dell’apparato giudiziale ed ancora libertà fiscale, del mercato del lavoro e livello delle spese governative.

Parliamo di una posizione di classifica assai preoccupante. Consola il fatto che la posizione è inserita in una categoria di nazioni “moderatamente libere”, ma sono maggiori gli aspetti a preoccupare: l’Italia dista solo 15 posizioni e 2,2 punti rispetto alla categoria di nazioni considerate “prevalentemente non libere”. L’Italia è la terza nazione meno libera nell’Europa occidentale, superando solo Croazia e Grecia.

Piaccia o non piaccia, ma esiste una forte correlazione inversa tra libertà economica e statalismo: più il livello di statalismo è forte, minore è la libertà economica. Questo tende a produrre una ricchezza, presumibilmente fittizia. Una ricchezza provocata arbitrariamente dallo Stato, piuttosto che grazie alle logiche di mercato.

Tra i paesi meno liberi o tendenti alla repressione figurano paesi come Russia, Cina, Nord Corea, ma facendo una ricerca approfondita possiamo riscontrare molti aspetti in comune.

Giusto per fare un elenco:
– Tra questi paesi riscontriamo uno Stato di diritto piuttosto debole;
– La magistratura è fortemente politicizzata e debole;
– Il concetto di proprietà privata piuttosto condizionato. In alcune nazioni non esiste la proprietà privata;
– Gli affari economici e imprenditoriali sono strettamente legati con il clientelismo;
– La corruzione è molto forte;
– I burocrati “governano”, godendo di ampia impunità;
– Lo Stato dirige direttamente alcuni settori di mercato;
– L’iniziativa economica, se è libera, è alle condizioni dello Stato;
– Alcuni mercati tendono a liberalizzarsi (vedi Russia), ma i sussidi sono talvolta più incisivi del profitto;

L’Italia non è, oggi, a questi livelli così drammatici. Ma su una cosa possiamo essere tutti d’accordo. In Italia uno scenario simile si è presentato, soprattutto durante o successivamente dopo la crisi del ’29-30, per opera del fascismo. Alla fine degli anni Venti, il governo fascista adottò una serie di misure affinché tutte le imprese private, o comunque quelle decisive a fini strategici, diventassero pubbliche per sopravvivere. Le logiche di mercato vennero messe da parte, e si andò a creare una politica monetaria a circolo chiuso in cui le aziende rimanevano in piedi solo con le droghe (sussidi) statali.

Lo stesso IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, non solo nacque per raccogliere i rottami dell’industria privata, ma esistette fino al 1995 a “governare” il mercato italiano. La stessa IRI che per quasi mezzo secolo fu il principale datore di lavoro d’Italia, in quanto possedeva un numero impressionante di aziende considerate “private”. Si otteneva una ricchezza falsa, priva di fondamento. Ma soprattutto è con il Fascismo che si inizia una non-cultura del profitto e della libera concorrenza.

Ma non limitiamoci all’aspetto meramente industriale ed economico: l’apparato statale costituito dal fascismo all’indomani della crisi economica di fine anni Venti era molto simile all’elenco sopra citato. La stessa Carta del Lavoro, nonostante sia sorta nel 1927 e sia quindi pre-crisi, è la dimostrazione della nascita dello Statalismo in Italia.

Giusto per fare qualche esempio:
– Punto II. Il lavoro, sotto tutte le sue forme, organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali, è un dovere sociale. A questo titolo, e solo a questo titolo, è tutelato dallo Stato.
Il complesso della produzione è unitario dal punto di vista nazionale; i suoi obbiettivi sono unitari e si riassumono nel benessere dei singoli e nello sviluppo della potenza nazionale;
– Punto VII. […] L’organizzazione privata della produzione essendo una funzione di interesse nazionale, l’organizzazione dell’impresa è responsabile dell’indirizzo della produzione di fronte allo Stato […].
– Punto IX. L ‘intervento dello Stato nella produzione economica ha luogo soltanto quando manchi o sia insufficiente l’iniziativa privata o quando siano in giuoco interessi politici dello Stato. Tale intervento può assumere la forma del controllo, dell’incoraggiamento o della gestione diretta.

Anche dal punto di vista burocratico è da considerare l’altissimo tasso di corruzione e clientelismo negli affari interni dello Stato durante gli anni Trenta. Da non dimenticare, ma è superfluo ricordarlo considerando che stiamo parlando di uno Stato Totalitario, lo “schiacciamento” politico nei confronti della Magistratura e uno Stato di Diritto pressoché inesistente.

Possiamo certamente dire che l’Italia ha abbandonato una buona parte del marciume statalista nato con il Fascismo, anche se il percorso è iniziato molto tardi dato che la primissima Italia repubblicana diede continuità al progetto statalista precedente. Sicuramente con la Costituzione si posero le basi per uno Stato di Diritto, per una democrazia, e per la libertà, ma dal punto di vista economico e burocratico la strada è ancora molto lunga.

Da considerare che, anche se negli anni novanta abbiamo abbandonato quel mostro chiamato IRI, recentemente lo Stato sta ancora una volta dimostrando di non comprendere di non potersi permettere di fare l’imprenditore (VEDI Alitalia) e di avere al suo interno una corruzione e clientelismo forti (VEDI la pubblica amministrazione o aziende come Trenitalia).

Questo per capire che il cordone ombelicale con il passato non è stato ancora tagliato. I passi avanti dell’Italia ci sono stati, ma sono deboli e insufficienti. Abbiamo tanto lavoro da fare, ma il timore è che le forze politiche oggi maggioritarie abbiano l’intenzione, per fini differenti, di ripristinare sempre di più quel mostro chiamato Statalismo.

 

Essere (felicemente) schiavi di se stessi

In questi giorni, si parla tanto di schiavi del lavoro, di dignità, di chiudere la domenica, di chi ha un salario troppo basso. Tutto ciò trascurando il fatto che esistono tantissime persone che decidono di essere padrone del proprio destino. Si tratta di una decisione responsabile, quella di puntare tutto su te stesso e di prendere in mano la tua vita, incurante di ciò che accade intorno a te.

Chi compie questa decisione spesso non rispetta un vero e proprio orario di lavoro, potrebbe lavorare sia in ufficio che a casa, anche solo per la programmazione del lavoro futuro. Ma prima di continuare vorrei riportare queste tre citazioni:

Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza. Steve Jobs

L’ingrediente critico è alzare le chiappe e metterti a fare qualcosa. È così semplice. Un sacco di gente ha delle idee, ma sono pochi quelli che decidono di fare qualcosa a riguardo subito. Non domani. Non la prossima settimana. Ma oggi. Il vero imprenditore è un uomo d’azione. Nolal Bushnell

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa. Peter Ferdinand Drucker

 

A coloro che parlano tanto di dignità e schiavi, siete consapevoli che tante di queste persone che hanno deciso di mettersi in proprio, sono obbligate a lavorare di giorno e pensare di notte?
Forse non sapete che tante di queste persone, che sono ancora agli inizi, si ritrovano costrette a dover far tanti sacrifici?
Questo perché l’imprenditore, il commerciante ed il libero professionista sono spesso (felicemente) schiavi di se stessi, alla ricerca di continue soddisfazioni personali, economiche e professionali.

Non hai datori di lavoro, non hai un giorno prefissato per la bustapaga, devi riuscire a coniugare il tuo guadagno con le tasse da pagare e, se si è imprenditori con dipendenti, pagare gli stipendi. Come detto in precedenza, fare impresa in Italia è roba da eroi e coraggiosi, perché chi ha il capitale da investire viene spesso scoraggiato dall’altissima pressione fiscale, e dalle spese per l’iter burocratico.

Rispetto ai nostri genitori, riscontro nei giovani un’ammirevole volontà di mettersi in gioco, di voler rischiare, di voler tentare una strada alternativa rispetto al declino italiano. Questo è di buon auspicio per tutta la nazione, in chiave futura, in quanto credo che per essere imprenditori non si debba necessariamente aprire un’azienda. Anche un operaio (o un dipendente) potrebbe essere imprenditore di se stesso.

Infatti esserlo non è soltanto una scelta, ma soprattutto un atteggiamento. In Italia ci hanno abituati a “vegetare” nella stessa azienda per 30-40 anni. In futuro sarà sempre più una rarità vedere un dipendente lavorare nella stessa azienda per tutta la vita lavorativa, proprio perché il lavoro diventerà sempre più flessibile e dinamico.

Ciò che stiamo vivendo in Italia è una fase del lavoro flessibile-statica, in quanto si cambia spesso lavoro, ma le retribuzioni sono le stesse, o persino più basse. Oggi riusciamo a raccogliere tante esperienze professionali, ma a questa esperienza non corrispondono stipendi più alti o impieghi più delicati ed importanti. Questo perché i contratti di lavoro tradizionali sono troppo carichi di tasse, sia per l’imprenditore che per il lavoratore, e sono troppo carichi di burocrazia, compresa la presenza (inutile?) dei sindacati.

Pertanto, occorre lavorare affinché il mondo del lavoro diventi flessibile e dinamico, in modo tale che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato sia spinto a non accontentarsi del posto fisso, bensì a tentare qualcosa di nuovo, ed investirci sopra.

Adam Smith diceva che la forza lavoro è la prima proprietà privata dell’uomo, ma di questo parleremo un’altra volta.

Un meridionale contro il Parassitismo Sociale

In questo articolo parlerò di Antonio Genovesi (1713-1769), considerato uno dei principali illuministi meridionali del Settecento. Perché parlarne? Partiamo dal presupposto che stiamo parlando di un contesto storico, nel quale il liberalismo, come filosofia politica, era ancora acerbo, soprattutto dal punto di vista economico. Probabilmente era una filosofia maggiormente sviluppata sul piano delle libertà individuali.

Questa premessa era d’obbligo se consideriamo che lo stesso Genovesi, nelle sue opere, alterna idee liberiste con idee mercantiliste. In questo articolo evidenzierò gli elementi liberali più importanti.

Antonio Genovesi è nato nel salernitano ed era una persona piena di speranze, ambizioni e forza di volontà. Viveva in un contesto, come quello del Regno delle Due Sicilie, ostacolato dal connubio tra il feudalesimo radicato sul territorio e la volontà di rinnovamento dello Stato Moderno. Delle sue opere principali, consiglio la lettura dell’opera “Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile” (1766-67).

Nell’opera affronta il rapporto opulenza privata rispetto alla società, sostenendo che gli eccessi non erano un bene per la società. Lui era per un lusso moderato, poiché era non solo importante per il singolo cittadino, ma anche utile per la società stessa.

Con questo Genovesi entra sul dibattito dell’eguaglianza affrontato da Rousseau. Per il meridionale, l’idea dell’eguaglianza era una strada utopistica perché l’uguaglianza non è un processo naturale. Infatti Genovesi si poneva due domande: gli uomini ne sono più felici? E la seconda; lo Stato ne diviene più grande e ricco?

Dalle parole di Genovesi emerge l’intenzione di distinguere l’uguaglianza dalla povertà. Quindi se il primo è utopia, il secondo era più facile da percorrere. Pertanto, lo Stato aveva il compito di correggere le situazioni più gravi e vistose.

Altro aspetto interessante, se consideriamo quel contesto storico e quello attuale, era l’intenzione del meridionale di combattere il Parassitismo Sociale. Perché? Perché Genovesi partiva dal presupposto che il compito principale dell’uomo fosse quello di lavorare per sé, per la propria famiglia e per l’utile comune. Proprio perché era favorevole ad un diffuso medio benessere, il lavoro era la strada per raggiungere tale obiettivo. Per questo motivo, i “privilegi irrazionali” presenti nel territorio e gli abusi feudali erano anacronistici e paralizzavano l’economia. Spettava allo Stato preoccuparsi di rimuovere questi ostacoli e di combattere qualsiasi forma di parassitismo per permettere all’agricoltura, all’industria e al commercio di operare nelle migliori condizioni possibili. Il feudalesimo non era il solo ostacolo dell’economia, ma anche il Clero che, con le sue vaste proprietà immobiliari, con gli ordini religiosi che favorivano il parassitismo e il suo potere giurisdizionale, contribuivano a paralizzare l’economia nel suo complesso.

Per concludere, aggiungo che quando si vuole mettere in discussione un sistema “rognoso e tosto” come quello italiano o come quello meridionale, la prima caratteristica fondamentale è l’ottimismo. Chi pensa che non ci sia alcuna speranza convive con un Pessimismo Cronico, ma chi pensa che ci sia un’alternativa alla realtà in cui viviamo, vuol dire essere ottimisti, proprio come Antonio Genovesi.

Concludo con una citazione, di Winston Churchill.

“L’ottimista vede opportunità in ogni pericolo, il pessimista vede pericolo in ogni opportunità.”

 

Il posto pubblico non deve essere un posto “a vita”

Qualche giorno fa in Sicilia si è verificato uno scontro verbale tra politica e vescovi sulle retribuzioni dei funzionari della pubblica amministrazione della Regione Sicilia. A quanto pare, sarebbero molto più alte rispetto a quelle dei dipendenti pubblici degli Stati Uniti d’America. Questo “scontro” mi ha permesso di fare una riflessione sulla situazione dei dipendenti pubblici, non solo siciliani, ma direi di tutta Italia.

La sensazione è che i dipendenti pubblici vivono in una situazione di “paradiso consapevole ma giustificato”. Cosa vuol dire? Mi riferisco al fatto che, non tanto le forze dell’ordine, piuttosto i dipendenti della pubblica amministrazione e delle aziende statali, in quanto godono di generosi privilegi, hanno il posto a vita (il famigerato Posto Fisso), ma proprio perché tanti ex-politici vivono sulle spalle dello Stato (vedi vitalizi o nomine nei consigli d’amministrazione), si giustificano con il fatto che loro ricevono meno di quello che dovrebbero.

In tutta questa storia, buona parte delle colpe è dei sindacati che sono riusciti nel rafforzare la posizione dei dipendenti pubblici, favorendo lo sport nazionale dell’assenteismo. Infatti, licenziare è una pratica molto complessa.
Ma le colpe sono anche della cultura del welfare in Italia. Nel corso dei decenni, i governanti – nazionali o locali – hanno usato il posto da dipendente pubblico per due motivi. Il primo come “mancia elettorale“, quindi per premiare chi ti permetteva di vincere le elezioni. Il secondo come “rimedio alla disoccupazione”. Questo secondo aspetto non è da sottovalutare se consideriamo che lo Stato è il principale datore di lavoro proprio nelle regioni maggiormente in difficoltà.

Riepilogando, il rapporto governanti-dipendenti della pubblica amministrazione si basa su un reciproco “ricatto”, poiché il primo deve coccolare il secondo per evitare ripercussioni elettorali, perciò quest’ultimo si permette il “lusso” di poter fare tutto quello che vuole.

Chi ci rimette? Ci rimettono i cittadini che pagano le (altissime) tasse per ricevere uno scarso servizio da chi lavora nella pubblica amministrazione. Infatti, il dipendente pubblico non ha alcun incentivo a lavorare bene, se in ogni caso non ha il rischio di perdere il lavoro e riceverà un lauto compenso. E ci rimette anche quel dipendente pubblico onesto che si vergogna dei suoi colleghi.

Come rimediare a questa situazione? Partendo dal presupposto che molte aziende statali dovrebbero essere vendute, bisogna riformare la figura del funzionario nella pubblica amministrazione.

La mia proposta sarebbe quella, con il servizio civile nazionale, di dare la possibilità ai neolaureati in ambiti amministrativi di poter iniziare a fare esperienza sul campo per almeno 3 anni. Licenziare le figure lavorative poco utili e, per chi viene confermato, i contratti dovranno essere a tempo determinato di 3 anni con la possibilità di rinnovo automatico, per favorire il turnover. La retribuzione del dipendente pubblico avrà una parte fissa e una parte a provvigione sulla base delle pratiche gestite. Per qualsiasi pratica avviata dal cittadino, sarà designato un funzionario responsabile che dovrà occuparsi della conclusione della pratica, in modo soddisfacente e in tempi brevi.

Questo perché ritengo che la pubblica amministrazione non debba creare problemi per il cittadino e che il dipendente pubblico debba essere a sua completa disposizione. Non sarebbe malvagio dare l’opportunità di integrare la crescita professionale dei giovani con la possibilità di lavorare a servizio dei cittadini.