Pietre trasformate in pane: il (falso) miracolo Keynesiano – di Ludwig von Mises

Pietre trasformate in pane: il miracolo keynesiano

di Ludwig von Mises

 

I

La tesi fondamentale di tutti gli autori socialisti è che esiste un’abbondanza potenziale di beni e che la sostituzione del socialismo con il capitalismo permetterebbe di dare a ciascuno “secondo i propri bisogni”. Altri autori intendono realizzare questo paradiso con una riforma del sistema monetario e creditizio. Per come la vedono loro, tutto ciò che manca nel sistema economico è più denaro e più credito. Essi ritengono che il tasso d’interesse sia un fenomeno creato artificialmente dalla scarsità, indotta dagli uomini, dei “mezzi di pagamento”.

In centinaia, se non migliaia, di libri e opuscoli rimproverano con veemenza gli economisti “ortodossi” per loro riluttanza a riconoscere che le dottrine inflazionistiche ed espansionistiche siano solide. Tutti i mali, ripetono in continuazione, sono causati dagli erronei insegnamenti della “triste scienza” dell’economia e dal “monopolio del credito” di banchieri e usurai. Liberare il denaro dalle catene del “restrizionismo”, creare denaro libero (Freigeld, nella terminologia di Silvio Gesell) e concedere credito a basso costo o addirittura gratuito, è l’asse portante della loro piattaforma politica.

Queste idee attraggono le masse disinformate. E sono molto popolari tra i governi impegnati in una politica di aumento della quantità di denaro in circolazione e di depositi soggetti a controllo. Tuttavia, i governi e i partiti inflazionisti non sono stati disposti ad ammettere apertamente la loro adesione ai principi degli inflazionisti. Mentre la maggior parte dei paesi imbarcava nell’inflazione e in una politica di moneta facile, i campioni letterari dell’inflazionismo erano ancora rigettati come “eccentrici monetaristi” (“monetary cranks”). Le loro dottrine non venivano insegnate nelle università.

John Maynard Keynes, defunto consigliere economico del governo britannico, è il nuovo profeta dell’inflazionismo. La “rivoluzione keynesiana” è consistita nell’abbracciare apertamente le dottrine di Silvio Gesell. In quanto principale esponente dei geselliani britannici, Lord Keynes adottò anche il peculiare gergo messianico della letteratura inflazionistica e lo introdusse in documenti ufficiali. L’espansione del credito, dice il Paper of the British Experts dell’8 aprile 1943, compie il “miracolo… di trasformare una pietra in pane”. L’autore di questo documento era, naturalmente, Keynes. La Gran Bretagna ha davvero percorso una lunga strada per arrivare a questa affermazione partendo dall’opinione di Hume e Mill sui miracoli.

 

II

Keynes entrò sulla scena politica nel 1920 con il suo libro Le Conseguenze Economiche della Pace. Egli cercò di dimostrare che le somme richieste per le riparazioni di guerra erano di gran lunga superiori a quanto la Germania poteva permettersi di pagare e di “trasferire”. Il successo del libro fu travolgente. La macchina propagandistica dei nazionalisti tedeschi, ben radicata in ogni Paese, si impegnò a rappresentare Keynes come il più eminente economista del mondo e il più saggio statista britannico.

Eppure sarebbe un errore incolpare Keynes per la politica estera suicida che la Gran Bretagna seguì nel periodo tra le due guerre. Altre forze, in particolare l’adozione della dottrina Marxiana dell’imperialismo e della “belligeranza capitalista”, hanno avuto un’importanza incomparabilmente maggiore nella politica di appeasement di quell’epoca. Ad eccezione di un piccolo numero di uomini lungimiranti, tutti i britannici sostenevano la politica che permise infine ai nazisti di dare inizio alla Seconda Guerra Mondiale.

Un economista francese di grande talento, Etienne Mantoux, ha analizzato il famoso libro di Keynes punto per punto. Il risultato del suo attento e coscienzioso esame è devastante per l’economista e statista Keynes. I sostenitori di Keynes non sono riusciti a trovare una risposta efficace. L’unico argomento che il suo amico e biografo, il professor E. A. G. Robinson, poté avanzare è che questo potente atto d’accusa contro la posizione di Keynes venne “come ci si poteva aspettare, da un francese.” (Economic Journal, Vol. LVII, p. 23.). Come se gli effetti disastrosi della politica di appeasement e del disfattismo non avessero toccato anche la Gran Bretagna!

Etienne Mantoux, figlio del famoso storico Paul Mantoux, era il più illustre dei giovani economisti francesi. Aveva già dato preziosi contributi alla teoria economica – tra cui una tagliente critica alla Teoria Generale di Keynes, pubblicata nel 1937 nella Revue d’Economic Politique – prima di iniziare il suo The Carthaginian Peace or the Economic Consequences of Mr. Keynes (Oxford University Press, 1946). Non ha vissuto abbastanza per assistere alla pubblicazione del suo libro. Ufficiale nell’esercito francese, fu ucciso in servizio attivo durante gli ultimi giorni della guerra. La sua morte prematura è stata un duro colpo per la Francia, che oggi ha un gran bisogno di economisti saggi e coraggiosi.

 

III

Sarebbe un errore anche incolpare Keynes per i difetti e i fallimenti delle attuali politiche economiche e finanziarie britanniche. Quando iniziò a scrivere, la Gran Bretagna aveva da tempo abbandonato il principio del laissez-faire. Questo risultato fu raggiunto grazie a uomini come Thomas Carlyle e John Ruskin e, soprattutto, i Fabiani. Quelli nati negli anni Ottanta del XIX secolo e più tardi furono solamente gli epigoni dei socialisti delle università e dei salotti del tardo periodo vittoriano. Non erano critici del sistema di potere come lo erano stati i loro predecessori, ma difensori delle politiche di governi e gruppi di pressione la cui inadeguatezza, futilità e perniciosità diventavano sempre più evidenti.

Il professor Seymour E. Harris ha appena pubblicato un corposo volume di saggi raccolti da vari autori accademici e burocratici che trattano le dottrine di Keynes sviluppate nella sua Teoria Generale dell’Occupazione, degli Interessi e del Denaro, pubblicata nel 1936. Il titolo del volume è The New Economics, Keynes’ Influence on Theory and Public Policy (Alfred A. Knopf, New York, 1947). Che il Keynesismo abbia diritto a essere chiamato “nuova economia” o che non sia, piuttosto, un rimaneggiamento di false credenze mercantiliste più volte confutate e di sillogismi degli innumerevoli autori che volevano far diventare tutti ricchi con la moneta fiat, è irrilevante. Ciò che conta non è se è una dottrina nuova, ma se è sensata.

La cosa notevole di questa raccolta è che non cerca nemmeno di confutare le obiezioni motivate sollevate contro Keynes da seri economisti. L’editore sembra incapace di concepire che qualsiasi uomo onesto e non corrotto possa essere in disaccordo con Keynes. Per come la vede lui, l’opposizione a Keynes deriva “dagli interessi nascosti degli studiosi della teoria più antica” e “dall’influenza preponderante di stampa, radio, finanza e ricerca sovvenzionata”. Ai suoi occhi, i non keynesiani sono solo un branco di sicofanti corrotti, indegni di attenzione. Il professor Harris adotta così i metodi dei marxisti e dei nazisti, che preferivano diffamare i loro critici e mettere in discussione le loro motivazioni invece di confutare le loro tesi.

Alcuni dei contributi sono scritti con un linguaggio dignitoso e sono prudenti, o anche critici, nella loro valutazione dei risultati di Keynes. Altri sono semplicemente esagerazioni enfatiche. Così ci dice il professor Paul E. Samuelson: “Essere nato come economista prima del 1936 è stata una manna dal cielo – certo. Ma non essere nato troppo tempo prima!”. E procede a citare Wordsworth:

“La beatitudine era in quell’alba essere vivi,

Ma essere giovani era un vero paradiso!”

Discendendo dalle nobili altezze del Parnaso verso le valli prosaiche della scienza quantitativa, il professor Samuelson ci fornisce informazioni precise sulla suscettibilità degli economisti al vangelo keynesiano del 1936. Gli studiosi sotto i 35 anni, dopo un certo periodo di tempo, ne coglievano appieno il significato; quelli oltre i 50 anni si rivelavano piuttosto immuni, mentre gli economisti di mezzo erano divisi.

Dopo averci così servito una versione riscaldata del tema della giovinezza di Mussolini, egli ci offre altri slogan ormai superati del fascismo, come ad esempio “l’onda del futuro”. Tuttavia, su questo punto un altro contributore, il signor Paul M. Sweezy, non è d’accordo. Ai suoi occhi Keynes, contaminato com’era dai “limiti del pensiero borghese”, non è il salvatore dell’umanità, ma solo il precursore la cui missione storica è quella di preparare la mente britannica all’accettazione del marxismo puro e di rendere la Gran Bretagna ideologicamente matura per un socialismo pieno.

 

IV

Ricorrendo alle insinuazioni e cercando di rendere i loro avversari sospetti riferendosi ad essi con termini ambigui che permettono varie interpretazioni, i seguaci di Lord Keynes stanno imitando i metodi del loro idolo. Perché ciò che molti hanno definito ammirati come lo “stile brillante” e la “padronanza del linguaggio” di Keynes erano, in realtà, trucchi retorici a buon mercato.

Ricardo, dice Keynes, “fece sua l’Inghilterra tanto quanto la Santa Inquisizione fece sua la Spagna”. Questo è quanto di più aggressivo possa esserci per un paragone. L’Inquisizione costrinse gli spagnoli alla sottomissione col supporto di forze armate e carnefici. Le teorie di Ricardo furono accettate come corrette dagli intellettuali britannici senza che venisse esercitata alcuna pressione o costrizione in loro favore. Ma nel confrontare le due cose completamente diverse, Keynes suggerisce indirettamente che c’era qualcosa di vergognoso nel successo degli insegnamenti di Ricardo e che coloro che li disapprovano sono eroici, nobili e impavidi campioni di libertà come lo erano quelli che combatterono gli orrori dell’Inquisizione.

Il più famoso degli aperçus di Keynes è: “Due piramidi, due messe per i morti, sono due volte meglio di una; ma non così due ferrovie da Londra a York”. È ovvio che questa battuta, degna di un personaggio di una commedia di Oscar Wilde o Bernard Shaw, non dimostra in alcun modo la tesi che scavare buche nel terreno e pagarle con i risparmi “aumenterà la produzione nazionale reale di beni e servizi utili”. Ma mette l’avversario nella scomoda posizione di lasciare un’apparente argomentazione senza risposta o di utilizzare gli strumenti della logica e del ragionamento discorsivo contro una brillante arguzia.

Un altro esempio della tecnica di Keynes è fornito dalla sua maliziosa descrizione della Conferenza per la Pace di Parigi. Keynes non era d’accordo con le idee di Clemenceau. Perciò egli cercò di ridicolizzare il suo avversario dilungandosi ampiamente sul suo abbigliamento e sul suo aspetto che, a quanto pare, non soddisfaceva gli standard stabiliti dai sarti londinesi. È difficile individuare un collegamento fra il problema delle riparazioni di guerra tedesche ed il fatto che gli stivali di Clemenceau “erano di pelle nera spessa, molto buoni, ma di stile campagnolo, e a volte fissati davanti, curiosamente, da una fibbia al posto dei lacci”.

Dopo che 15 milioni di esseri umani erano morti in guerra, i più importanti statisti del mondo si sono riuniti per dare all’umanità un nuovo ordine internazionale e una pace duratura… e l’esperto finanziario dell’Impero britannico era divertito dallo stile rustico delle calzature del primo ministro francese.

Quattordici anni dopo ci fu un’altra conferenza internazionale. Questa volta Keynes non era un consigliere minore, come nel 1919, ma una delle figure principali. A proposito di questa Conferenza Economica Mondiale di Londra del 1933, il professor Robinson osserva che: “Molti economisti di tutto il mondo ricorderanno… la performance a Covent Garden del 1933 in onore dei delegati della Conferenza Economica Mondiale, che doveva la sua concezione e organizzazione a Maynard Keynes”.

Quegli economisti che non erano al servizio di uno dei governi deplorevolmente inetti del 1933 e quindi non erano Delegati e non hanno partecipato alla deliziosa serata di balletto, ricorderanno la Conferenza di Londra per altri motivi. Essa segnò il più spettacolare fallimento nella storia delle relazioni internazionali di quelle politiche neo-mercantiliste che Keynes sosteneva. Rispetto a questo fiasco del 1933, la Conferenza di Parigi del 1919 appare come un evento di grande successo. Ma Keynes non ha pubblicato alcun commento sarcastico sui cappotti, gli stivali e i guanti dei Delegati del 1933.

 

V

Sebbene Keynes considerasse “lo strano e indebitamente trascurato profeta Silvio Gesell” come un precursore, i suoi stessi insegnamenti differiscono notevolmente da quelli di Gesell. Ciò che Keynes prese in prestito da Gesell, così come dalla schiera di altri propagandisti pro-inflazione, non fu il contenuto della loro dottrina, ma le loro conclusioni pratiche e le tattiche utilizzate per minare il prestigio dei loro oppositori. Questi stratagemmi sono:

  • Tutti gli avversari, cioè tutti coloro che non considerano l’espansione del credito come la soluzione a tutti i mali, sono raggruppati insieme e definiti ortodossi. È sottinteso che non ci sono differenze tra loro.
  • Si presume che l’evoluzione della scienza economica sia culminata in Alfred Marshall e si sia conclusa con lui. Le scoperte dell’economia soggettiva moderna non vengono prese in considerazione.
  • Tutto ciò che gli economisti di David Hume fino ai nostri tempi hanno scritto per chiarire i risultati dei cambiamenti nella quantità di denaro e di sostituti del denaro viene semplicemente ignorato. Keynes non ha mai intrapreso il compito impossibile di confutare questi insegnamenti con raziocinio.

Sotto tutti questi aspetti i partecipanti alla raccolta adottano la tecnica del loro maestro. La loro critica mira a un corpo di dottrina creato dalle loro stesse illusioni, che non ha alcuna somiglianza con le teorie esposte da economisti seri. Mettono a tacere tutto ciò che gli economisti hanno detto sull’inevitabile esito dell’espansione del credito. Sembra che non abbiano mai sentito parlare della teoria monetaria del ciclo del commercio.

Per una corretta valutazione del successo che la Teoria Generale di Keynes ha riscontrato negli ambienti accademici, bisogna considerare le condizioni prevalenti nell’ambiente economico universitario nel periodo tra le due guerre mondiali.

Tra gli uomini che hanno occupato le cattedre di economia negli ultimi decenni, ci sono stati solo pochi economisti degni di nota, vale a dire uomini che conoscono a fondo le teorie sviluppate dalla moderna economia soggettiva. Le idee dei vecchi economisti classici, così come quelle degli economisti moderni, venivano caricaturate nei libri di testo e nelle aule, e venivano chiamate con nomi come economia antiquata, ortodossa, reazionaria, borghese o di Wall Street. Gli insegnanti si vantavano di aver confutato per sempre le dottrine astratte della Scuola di Manchester e del laissez-faire.

L’antagonismo tra le due scuole di pensiero aveva il suo fulcro pratico nella gestione del problema sindacale. Quegli economisti denigrati come ortodossi insegnavano che un aumento permanente dei salari per tutti i lavoratori è possibile solo nella misura in cui la quota pro capite di capitale investito e la produttività del lavoro aumentano. Se – per decreto governativo o per pressione sindacale – i salari minimi sono fissati ad un livello più alto di quello a cui li avrebbe fissati il mercato libero, la disoccupazione si traduce in un fenomeno di massa permanente.

Quasi tutti i professori delle università alla moda hanno attaccato bruscamente questa teoria. Per come questi sedicenti dottrinari “non ortodossi” hanno interpretato la storia economica degli ultimi duecento anni, l’aumento senza precedenti dei salari reali e del tenore di vita è avvenuto grazie al movimento sindacale e alla legislazione governativa a favore del lavoro. Il sindacalismo era, a loro avviso, altamente benefico per i veri interessi di tutti i lavoratori e dell’intera nazione. Solo disonesti apologeti degli interessi spietati di insensibili sfruttatori potevano lamentarsi delle azioni violente dei sindacati. La principale preoccupazione del governo popolare, dicevano, dovrebbe essere quella di incoraggiare i sindacati il più possibile e di dare loro tutta l’assistenza necessaria per combattere gli intrighi dei datori di lavoro e fissare salari sempre più alti.

Ma non appena i governi e i legislatori hanno conferito ai sindacati tutti i poteri necessari per raggiungere i loro obiettivi di salario minimo, le conseguenze sono state quelle che gli economisti “ortodossi” avevano previsto: la disoccupazione di una parte considerevole della forza lavoro potenziale si è prolungata anno dopo anno.

I teorici “non ortodossi” erano perplessi. L’unico argomento che avevano avanzato contro la teoria “ortodossa” era il richiamo alla loro stessa fallace interpretazione dell’esperienza. Ma ora gli eventi si svilupparono proprio come la “scuola astratta” aveva previsto. C’era confusione tra i “non ortodossi”.

Fu in questo momento che Keynes pubblicò la sua Teoria generale. Che conforto per gli imbarazzati “progressisti”! Qui, finalmente, trovavano qualcosa da opporre alla visione “ortodossa”. La causa della disoccupazione non erano le inadeguate politiche del lavoro, ma le carenze del sistema monetario e creditizio. Non c’era più bisogno di preoccuparsi dell’insufficienza del risparmio, dell’accumulazione di capitale e dei deficit delle finanze pubbliche. Al contrario. L’unico metodo per eliminare la disoccupazione era quello di aumentare la “domanda effettiva” attraverso la spesa pubblica finanziata dall’espansione del credito e dall’inflazione.

Le politiche che la Teoria Generale raccomandava erano proprio quelle che gli “eccentrici monetaristi” avevano avanzato molto prima e che la maggior parte dei governi aveva sposato durante la Depressione del 1929 e degli anni successivi. Alcuni ritengono che i precedenti scritti di Keynes abbiano avuto un ruolo importante nel processo che ha convertito i governi più potenti del mondo alle dottrine della spesa spericolata, dell’espansione del credito e dell’inflazione. Possiamo lasciare in sospeso questa piccola questione. In ogni caso non si può negare che i governi e i popoli non abbiano aspettato la Teoria Generale per abbracciare queste politiche “keynesiane” – o, più correttamente, geselliane.

 

VI

La Teoria generale di Keynes del 1936 non inaugurò una nuova era di politiche economiche; piuttosto, segnò la fine di un’epoca. Le politiche raccomandate da Keynes erano già allora molto vicine al momento in cui le loro inevitabili conseguenze sarebbero state evidenti e la loro continuazione sarebbe stata impossibile. Anche i keynesiani più fanatici non osano dire che le attuali difficoltà dell’Inghilterra siano effetto di troppo risparmio e di spese insufficienti.

L’essenza della tanto glorificata politica economica “progressista” degli ultimi decenni è stata quella di espropriare parti sempre crescenti dei redditi più alti e di utilizzare le somme così raccolte per finanziare gli sprechi pubblici e per sovvenzionare i membri dei gruppi di pressione più potenti. Agli occhi dei “non ortodossi”, ogni tipo di politica, per quanto manifestamente inadeguata, era giustificata come mezzo per realizzare una maggiore uguaglianza. Ora questo processo è giunto al capolinea.

Con le attuali aliquote fiscali e i metodi applicati nel controllo dei prezzi, dei profitti e dei tassi di interesse, il sistema ha liquidato sé stesso. Neanche la confisca di ogni centesimo guadagnato oltre le 1.000 sterline all’anno fornirebbe alcun aumento percepibile alle entrate pubbliche della Gran Bretagna. Anche i fabiani più rigidi non possono non rendersi conto che d’ora in poi i fondi per la spesa pubblica devono essere presi dalle stesse persone che dovrebbero trarne profitto. La Gran Bretagna ha raggiunto il limite sia dell’espansionismo monetario che della spesa.

Le condizioni in questo Paese [gli Stati Uniti, ndT] non sono sostanzialmente diverse. La ricetta keynesiana per far crescere i salari non funziona più. L’espansione del credito, progettata su una scala senza precedenti dal New Deal, ha ritardato per un breve periodo le conseguenze di politiche del lavoro inappropriate. Durante questo intervallo il governo e i leader sindacali potevano vantarsi dei “guadagni sociali” che avevano assicurato all'”uomo comune”. Ma ora le inevitabili conseguenze dell’aumento della quantità di denaro e di depositi sono diventate visibili; i prezzi aumentano sempre di più. Quello che sta succedendo oggi negli Stati Uniti è il fallimento finale del Keynesismo.

Non c’è dubbio che il pubblico americano si stia distaccando dalle nozioni e dagli slogan keynesiani. Il loro prestigio sta diminuendo. Solo pochi anni fa i politici discutevano ingenuamente l’entità del reddito nazionale in dollari, senza tener conto dei cambiamenti che l’inflazione di tipo governativo aveva portato nel potere d’acquisto del dollaro stesso. I demagoghi specificavano il livello a cui volevano portare il reddito nazionale (in dollari). Oggi questa forma di ragionamento non è più popolare. Finalmente l'”uomo comune” ha imparato che aumentare la quantità di dollari non rende l’America più ricca. Il professor Harris continua a lodare l’amministrazione Roosevelt per aver aumentato il reddito in dollari. Ma tale coerenza keynesiana si trova oggi solo nelle aule scolastiche.

Ci sono ancora insegnanti che dicono ai loro studenti che “un’economia può sollevarsi facendo forza sui propri tiranti ” e che “possiamo farci strada verso la prosperità grazie alla spesa”. Ma il miracolo keynesiano non si materializza: le pietre non si trasformano in pane. I panegirici degli eruditi autori che hanno collaborato alla realizzazione del volume citato non fanno che confermare l’affermazione introduttiva dell’editore secondo cui “Keynes sapeva destare nei suoi discepoli un fervore quasi religioso per la sua economia, che può essere sfruttato efficacemente per la diffusione della nuova economia”. E il professor Harris prosegue dicendo: “Keynes ha avuto davvero una Rivelazione”.

Non serve a nulla discutere con persone che sono spinte da “un fervore quasi religioso” e credono che il loro maestro “abbia avuto una Rivelazione”. Uno dei compiti dell’economia è quello di analizzare attentamente ciascuno dei programmi inflazionistici, quelli di Keynes e di Gesell non meno di quelli dei loro innumerevoli predecessori, da John Law fino al maggiore Douglas. Eppure, nessuno dovrebbe aspettarsi che qualsiasi argomento logico o qualsiasi esperienza possa mai scuotere il fervore quasi religioso di coloro che credono nella salvezza attraverso la spesa e l’espansione del credito.

 

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso.

Articolo originale: https://mises.org/library/stones-bread-keynesian-miracle

I vantaggi del libero scambio – di David Ricardo

[Estratto del Capitolo VII di Principi di economia politica e dell’imposta (1817), di David Ricardo]

In un sistema di commercio perfettamente libero, ogni paese destina naturalmente il suo capitale e la sua manodopera agli impieghi che sono più vantaggiosi per ciascuno. Questa ricerca del beneficio individuale è meravigliosamente correlata al benessere collettivo. Stimolando l’industria, premiando l’ingegno e usando nel modo più efficace le possibilità offerte dalla Natura, essa spinge a suddividere il lavoro più efficacemente e a costi minori; al tempo stesso, aumentando la produzione totale essa diffonde benessere e unisce in un unico e comune legame di interesse la totalità delle nazioni del mondo civilizzato. È questo principio che determina la produzione di vino in Francia e in Portogallo, quella di cereali in America e in Polonia e quella di macchinari e altri beni in Inghilterra.

In uno stesso paese i profitti sono, in generale, sempre allo stesso livello; o si differenziano solo perché l’impiego del capitale può essere più o meno sicuro e adeguato. Non è così quando si confrontano paesi diversi. Se i profitti del capitale impiegato nello Yorkshire dovessero superare quelli del capitale impiegato a Londra, il capitale si sposterebbe rapidamente da Londra allo Yorkshire, e i profitti tornerebbero allo stesso livello; ma se i salari dovessero aumentare e i profitti diminuire per via di una minore produttività delle terre inglesi, causato dall’aumento di capitale e popolazione, non ne conseguirebbe in automatico uno spostamento di questi due (capitale e popolazione) dall’Inghilterra all’Olanda, o alla Spagna, o alla Russia, dove i profitti potrebbero essere più alti.

Se il Portogallo non avesse alcun legame commerciale con altri paesi, invece di impiegare gran parte del suo capitale e della sua industria nella produzione di vini, che scambia per tessuti e macchinari prodotti in altri paesi, sarebbe costretto a dedicare una parte di capitale alla produzione di quelle merci, che otterrebbe probabilmente in qualità e quantità inferiori rispetto ad oggi.

La quantità di vino che il Portogallo darà in cambio di stoffa inglese non è determinata dalle rispettive quantità di manodopera dedicata alla produzione di ciascuna di esse, come sarebbe se entrambe le merci fossero prodotte in Inghilterra, o entrambe in Portogallo.

In Inghilterra, per produrre una certa quantità di tessuto può essere necessario impiegare 100 uomini per un anno; e se si tentasse di produrre la stessa quantità di vino, ne potrebbero servire 120. L’Inghilterra avrà quindi interesse a importare il vino e ad acquistarlo tramite l’esportazione di tessuti.

Per produrre il vino in Portogallo potrebbero bastare 80 persone, e per produrre il tessuto, nello stesso paese, potrebbero essere necessari 90 uomini. Sarà quindi vantaggioso esportare vino in cambio di stoffa. Questo scambio potrà avvenire anche qualora il tessuto importato dal Portogallo potesse essere prodotto lì con minor manodopera rispetto all’Inghilterra. Anche potendo produrre tessuto con il lavoro di 90 persone, lo importerebbe comunque da un paese in cui la produzione richiede 100 uomini, perché sarebbe vantaggioso impiegare il capitale nella produzione di vino, in cambio del quale otterrebbe più tessuto dall’Inghilterra di quanto ne potrebbe produrre dirottando una parte del suo capitale dalla coltivazione della vite alla produzione di tessuto.

Così l’Inghilterra scambierebbe il prodotto del lavoro di 100 uomini per il prodotto del lavoro di 80. Un tale scambio non potrebbe avvenire tra gli individui dello stesso paese. Il lavoro di 100 inglesi non può essere scambiato per quello di 80 inglesi, ma il prodotto del lavoro di 100 inglesi può essere dato per il prodotto del lavoro di 80 portoghesi, 60 russi o 120 indiani. La differenza a questo proposito tra un singolo paese e molti dipende dalla difficoltà con cui il capitale si sposta da un paese all’altro per cercare un’occupazione più redditizia, e dalla rapidità con cui invece passa invariabilmente da una provincia all’altra nello stesso paese[1].

In tali circostanze, sarebbe indubbiamente vantaggioso sia per i capitalisti inglesi sia per i consumatori di entrambi i paesi che il vino e il tessuto fossero entrambi prodotti in Portogallo; e quindi che il capitale e la manodopera inglesi impiegati nella produzione di tessuto fossero trasferiti in Portogallo. In tal caso, il valore relativo di queste merci sarebbe regolato dallo stesso principio che si applicherebbe se l’una fosse prodotta nello Yorkshire e l’altra a Londra; e, in ogni caso, se il capitale fosse libero di spostarsi verso i paesi in cui può essere impiegato più proficuamente, non ci sarebbe differenza nel tasso di profitto, e non ci sarebbe altra differenza nel prezzo reale delle merci che non la quantità supplementare di lavoro necessaria per trasportare le merci ai vari mercati in cui sono vendute.

L’esperienza tuttavia dimostra che la minore sicurezza del capitale, reale o immaginata, quando non è sotto l’immediato controllo del suo proprietario, insieme alla naturale avversione di ogni uomo ad abbandonare il proprio paese di nascita e i propri legami e affidarsi, con tutte le proprie abitudini, a un governo estraneo e a nuove leggi, frena l’emigrazione del capitale (…).

 

Traduzione a cura di Gabriele Pierguidi

Articolo originale: https://mises.org/library/foreign-trade

[1] Risulta quindi che un paese che possiede un vantaggio considerevole in macchinari e abilità e che dunque può produrre merci con minor manodopera dei suoi vicini, potrebbe, in cambio di tali merci, importare una parte dei cereali necessari al suo consumo interno, anche se le sue terre fossero più fertili e i cereali potessero essere coltivati con minor manodopera che nei paesi da cui importa. Due uomini possono entrambi produrre scarpe e cappelli e uno di essi può essere superiore all’altro in entrambe le attività; ma se nel produrre cappelli è più efficiente del suo concorrente del 20% mentre nel fare scarpe gli è superiore del 33%, non sarà interesse di entrambi che l’uomo più capace si dedichi esclusivamente a produrre scarpe, e quello meno abile a fare cappelli?

Gli errori delle politiche contro la disoccupazione – di Friedrich von Hayek

Uno degli ostacoli ad una politica occupazionale di successo è che, paradossalmente, è relativamente facile ridurre rapidamente la disoccupazione, o arrivare quasi a estinguerla, per un breve lasso di tempo. C’è sempre un modo per riportare rapidamente un gran numero di persone al tipo di occupazione a cui sono abituate, senza nessun costo immediato tranne stampare moneta e spendere qualche milione in più. Nei Paesi con una storia monetaria squilibrata questo fatto è noto da tempo, eppure il rimedio non è diventato molto popolare. In Inghilterra invece la recente scoperta di questo farmaco ha prodotto un effetto inebriante; e l’attuale tendenza ad affidarsi esclusivamente al suo uso non è priva di pericoli.

Anche se l’espansione monetaria può dare un rapido sollievo, può produrre una cura duratura solo in misura limitata. Pochi negheranno che la politica monetaria possa contrastare con successo la spirale deflazionistica in cui tende a degenerare ogni piccolo declino delle attività. Ciò non significa, tuttavia, che sia auspicabile che normalmente si forzi l’utilizzo dell’espansione monetaria per creare la massima quantità di occupazione che può produrre nel breve periodo. Il guaio di questa politica è che sarebbe quasi certo aggravare le cause fondamentali o strutturali della disoccupazione e lasciarci alla fine in una posizione peggiore di quella da cui siamo partiti.

 

Aggiustamenti sbagliati

La causa principale di questo tipo di disoccupazione è senza dubbio la sproporzione tra la distribuzione della manodopera tra le diverse industrie e i tassi a cui la produzione di queste industrie potrebbe essere continuamente assorbita. Alla fine di questa guerra ci troveremo, ovviamente, di fronte a un problema particolarmente difficile da risolvere. Tra queste sproporzioni in passato la più nota (e, a causa del suo collegamento con le periodiche recessioni, la più importante) era il cronico sovrasviluppo di tutte le industrie che producevano attrezzature per ulteriori produzioni.

È più che probabile che queste industrie, a causa del modo intermittente in cui hanno operato, abbiano sempre avuto una forza lavoro più grande di quella che potevano impiegare in modo continuativo. Non è difficile creare, attraverso l’espansione monetaria di queste industrie, un’altra esplosione di attività febbrile che creerà temporaneamente condizioni di “piena occupazione” e che attirerà ancora più persone in queste industrie, però così stiamo rendendo più difficile il compito di mantenere un livello di occupazione stabile. Una politica monetaria che mira ad una posizione stabile a lungo termine dovrebbe infatti fermare deliberatamente l’espansione prima che si raggiunga la “piena occupazione” in queste industrie, per evitare una nuova cattiva gestione delle risorse.

Anche se questo è il più importante caso singolo di errato aggiustamento strutturale responsabile della disoccupazione, la depressione ricorrente costituisce solo una parte del nostro problema. La radice della disoccupazione persistente è una minaccia ancora maggiore ed è dovuta in gran parte a distribuzioni sbagliate di tipo diverso, in cui la politica monetaria può fare ancora meno per fornire una cura. Dobbiamo affrontare il fatto che il problema della disoccupazione è in ultima istanza un problema salariale; un fatto che un tempo era ben compreso, ma che una cospirazione del silenzio ha recentemente relegato nell’oblio.

 

Salari e mobilità

La domanda si sposta costantemente verso nuovi articoli e industrie e più rapido è il progresso più frequenti sono tali cambiamenti. Anche se l’aumento della velocità del cambiamento farà necessariamente aumentare il numero di persone temporaneamente senza lavoro, questo non causa per forza un aumento della disoccupazione duratura, o una riduzione della domanda di lavoro nel suo complesso.

Se gli spostamenti nelle industrie in espansione fossero liberi, queste dovrebbero poter assorbire prontamente i lavoratori licenziati altrove. Il nuovo sviluppo che sempre più lo impedisce, e che è diventato la causa più grave della disoccupazione prolungata, è la tendenza di coloro che si sono insediati nelle industrie in espansione a escludere i nuovi arrivati. Se l’aumento della domanda di lavoro in queste industrie non porta ad un aumento dell’occupazione e della produzione, ma semplicemente ad un aumento dei salari e dei profitti di chi è già all’interno, non ci sarà in effetti alcuna nuova domanda di lavoro per compensare la diminuzione generatasi altrove. Se ogni guadagno di un’industria è trattato come appannaggio di un gruppo chiuso, da convertire quasi interamente in salari e profitti più alti, ogni spostamento della domanda deve condurre a disoccupazione di lungo periodo.

L’esperienza molto particolare e quasi unica di questo Paese negli anni successivi all’innalzamento artificiale della sterlina al suo precedente valore in oro ha prodotto una fallace preoccupazione per il livello generale dei salari. Laddove un tale aumento artificiale del livello salariale nazionale è la causa della disoccupazione, la manipolazione monetaria è in effetti il modo più semplice per curarla. Una tale situazione, tuttavia, è del tutto eccezionale e non è probabile che si verifichi se non in conseguenza di fluttuazioni monetarie.

In tempi normali l’occupazione dipende molto di più dal rapporto tra i salari nei diversi settori – o, piuttosto, dal grado di mobilità consentito dalla struttura salariale. In questo caso, la politica monetaria può fare ben poco. Infatti, se Lord Keynes ha ragione nel sottolineare che i lavoratori attribuiscono più importanza alla cifra nominale del loro salario monetario che al salario reale, qualsiasi tentativo di risolvere i problemi di rigidità salariale con l’espansione monetaria non può che aumentare l’immobilità che è il vero problema: se i salari monetari vengono mantenuti stabili nelle industrie in declino, i lavoratori diventeranno ancora più esitanti a lasciarle per abbattere i muri a protezione dei gruppi privilegiati nelle industrie in fase di crescita.

La lotta contro la disoccupazione corrisponde in ultima istanza alla lotta contro il monopolio. C’è bisogno di aggiungere che su questo tema fondamentale non ci stiamo muovendo nella giusta direzione? O che sarebbe un cattivo servizio alla comunità fingere che ci sia una via d’uscita facile che rende inutile affrontare le difficoltà di fondo?

 

Pericoli in vista

È facile capire che i nostri problemi diventerebbero molto più gravi se la moda attuale dovesse prevalere e se diventasse dottrina accettata che la politica monetaria ha il compito di rimediare a qualsiasi danno causato da politiche salariali monopolistiche. Oltre all’effetto sui protagonisti della politica salariale, che vengono così esonerati dalle responsabilità per l’effetto delle loro azioni sull’occupazione, l’accento unilaterale sulla politica monetaria può non solo privare i nostri sforzi di risultati completi, ma anche produrre effetti tanto imprevisti quanto indesiderati.

Se è vero che una politica monetaria intelligente è una conditio sine qua non per prevenire la disoccupazione su larga scala, è altrettanto certo che ciò non è sufficiente. A meno di ricorrere alla costrizione universale, non riusciremo mai a sconfiggere la disoccupazione in modo duraturo finché non riusciremo a rompere le rigidità del nostro sistema economico che abbiamo permesso ai monopoli di capitale e lavoro di creare. Dimenticarlo e affidarsi esclusivamente alla politica monetaria è così pericoloso perché può avere successo abbastanza a lungo da rendere impossibile qualsiasi altro tentativo: più siamo indotti a ritardare gli aggiustamenti più ardui, perché ci sembra di riuscire per il momento a far andare avanti le cose, più grande sarà il settore del nostro sistema economico che potrà essere mantenuto in vita solo grazie allo stimolo artificiale dell’espansione del credito e dei sempre maggiori investimenti pubblici.

È un percorso che ci costringerebbe ad aumentare progressivamente il controllo del Governo su tutta la vita economica, fino ad arrivare allo Stato totalitario.

 

Traduzione a cura di Alessio Langiano

Articolo originale: https://mises.org/wire/hayek-good-and-bad-unemployment-policies

 

Keynes e la falsa fine del laissez faire – di Ludwig von Mises

Questo testo critica un discorso tenuto dall’economista inglese John Maynard Keynes il 23 giugno 1926 all’Università di Berlino. Egli faceva una tagliente critica al liberalismo e al capitalismo; rifiutava la libera proprietà privata dei mezzi di produzione, pur non volendo essere socialista. Raccomandava invece, come soluzione, una via di mezzo tra proprietà privata dei mezzi di produzione, da un lato, e proprietà sociale, dall’altro; che non è altro che la proprietà privata regolata attraverso il controllo sociale. Non sarebbe lo Stato ad assumersi questo controllo; lo farebbero invece ‘organismi societari semi-autonomi inseriti nel sistema statale’, da cui si arriverebbe ad ‘un ritorno ad autonomie indipendenti di stampo medievale’.

Keynes non propone altro che ciò che per decenni, soprattutto in terra tedesca, è stato promosso dalla scienza ufficiale e da tutta l’opinione pubblica come “soluzione alla questione sociale”. Non ci sarebbe motivo di preoccuparsi di questo piccolo opuscolo, perché tutto ciò che presenta è già stato trattato nella letteratura tedesca centinaia di volte, e, se non in miglior modo, sicuramente non peggiore, e comunque più approfonditamente. Ma il titolo che Keynes ha dato alla sua opera (La Fine del Laissez Faire) e le sue seccature epigrammatiche necessitano di una nota critica.

La famosa massima recita, per esteso, laissez faire et laissez passer. Essa si riferiva quindi – innegabilmente senza una coincidenza totale fra esperienza storica e massima – al “faire” (fare) per quanto riguarda la gestione delle merci, ad eccezione del loro spostamento fisico, e al “passer” (passare) per quanto riguarda la libera circolazione di uomini e di merci. In realtà questi due tipi di impresa sono inscindibili, e non è legittimo separarli a piacimento, essendo queste le ramificazioni della stessa ideologia sociale.

Keynes, tuttavia, parla deliberatamente solo di laissez faire. Egli menziona il protezionismo solo di sfuggita (p. 26); sorvolando interamente sulla libera circolazione. È facile capire le basi per una tale autolimitazione. La protezione e l’intralcio al libero scambio internazionale sono, sicuramente, graziosamente medievali, ma i loro pessimi effetti sono oggigiorno così chiari che un riformatore sociale, nel combattere il liberalismo, fa solo che bene a tacere su di essi. Specialmente un anglosassone, che vuole opporsi al liberalismo a Berlino, deve evitare di sollevare tali delicate questioni.

Certamente si trovavano tra coloro che lo hanno ascoltato alcuni che negli ultimi anni sono stati cacciati dalle terre in cui questi avevano vissuto e lavorato; ed altri che desiderano emigrare da un’Europa centrale sovrappopolata e non possono perché i lavoratori delle terre meno popolose si difendono dall’arrivo di concorrenti. E Keynes saprà inoltre certamente che è proprio il protezionismo ad aver messo la Germania e l’Inghilterra in una situazione economica di tale difficoltà.

Se Keynes avesse parlato (veramente) della fine del laissez faire et laissez passer, allora non avrebbe potuto non vedere come il mondo di oggi è malato proprio perché, per decenni, le cose non sono state regolate da questa massima. Chi si rallegra che i popoli si allontanino dal liberalismo, non deve dimenticare che la guerra e la rivoluzione, la miseria e la disoccupazione di massa, la tirannia e la dittatura non sono compagni casuali, ma sono i risultati necessari dell’antiliberalismo che oggi governa il mondo.

Traduzione a cura di Marco Bares

Fonte: https://mises.org/library/mises-keynes-1927

La leggenda del fallimento del capitalismo – di Ludwig von Mises

È ormai comune pensare che la crisi economica degli ultimi anni abbia determinato la fine del capitalismo. Il capitalismo ha fallito, si è dimostrato incapace di affrontare i problemi economici. Dunque, se non vogliamo soccombere, non resta altro che spostarsi verso un’economia pianificata, verso il socialismo.

Questa credenza non è però una novità. I socialisti hanno sempre sostenuto che le crisi economiche sono l’inevitabile risultato del sistema di produzione capitalistico e che quindi non v’è altro modo per risolverle definitivamente se non ricorrendo al socialismo. L’opinione pubblica è oggi più che mai impregnata di idee socialiste [l’articolo risale al 1932, NdT], ciò fa sì che queste opinioni abbiano risonanza diffondendosi a macchia d’olio, ma questo non significa che la crisi attuale sia più grave rispetto a quelle precedenti.

 

I.

Quando ancora non si concepivano scelte di natura macroeconomica, si credeva che chi detenesse il potere fosse in grado realizzare qualsiasi cosa. I sacerdoti, inoltre, esortavano i potenti a governare in maniera giusta, nell’interesse della salvezza delle anime e in vista di ritorsioni nell’aldilà. Il potere dei sovrani era considerato illimitato e onnipotente, nonostante venissero riconosciuti i limiti naturali dell’essere umano e del suo potere terreno.

La nascita della sociologia, straordinaria opera di molte menti illuminate quali David Hume e Adam Smith, ha distrutto questa concezione. Si scoprì che il “potere sociale” era più un concetto astratto che una realtà realmente esistente. Venne quindi riconosciuta una necessaria interdipendenza tra i fenomeni di mercato che il potere temporale non può cancellare. Esso era un fenomeno sociale capace di trascendere dal controllo dei potenti i quali devono sottomettersi ad esso per avere successo, proprio come accade per le leggi di natura. Mai nella storia del pensiero umano e scientifico vi fu scoperta più grande.

Sulla base della conoscenza delle leggi di mercato, è possibile capire in che misura il potere dello Stato e i soprusi nel controllo delle operazioni di mercato impattano sull’economia. L’interventismo fine a se stesso non sempre riesce a soddisfare le aspettative delle autorità e produce esiti non preventivati. È quindi futile e dannoso per chi lo esercita. La dottrina liberale respinge l’interventismo come superfluo, vano e controproducente, piuttosto si basa sui risultati del pensiero scientifico. Ciò al fine di configurare le proprie azioni in modo da raggiungere gli obiettivi prefissati, non solo per arrivare ad un risultato fine a se stesso.

Il liberalismo non vuole interferire nelle questioni scientifiche; vuole che la scienza sia il punto di riferimento del comportamento umano. Si basa sulla ricerca scientifica per fare in modo che ogni membro della società sappia come raggiungere in modo efficace i propri obiettivi. I partiti politici si differenziano non per il fine a cui tendono, ma per il modo in cui tentano di raggiungere il bene comune. I liberali promuovono il sistema di proprietà privata dei mezzi di produzione come il modo migliore per creare ricchezza e benessere per tutti. Inoltre si oppongono al socialismo e all’interventismo in quanto improduttivi, nonostante quest’ultimo sia considerato un valido sistema dai suoi sostenitori perché a metà strada tra il capitalismo e il socialismo.

La visione liberale è stata aspramente criticata. Eppure gli oppositori del liberalismo non sono riusciti a confutare né la teoria su cui si fonda né la sua validità. Inoltre non sono nemmeno riusciti a controbattere con argomentazioni logiche alle critiche dei liberali, hanno semplicemente sviato il discorso. I socialisti pensavano di riuscire a sottrarsi a questa critica e giustificarsi dicendo che Karl Marx non aveva mai trattato veramente il tema dell’efficacia di una politica socialista. Dunque non hanno fatto altroché lodare l’impero socialista del futuro come un paradiso terrestre, ma si sono rifiutati di discutere i dettagli del loro programma.

Gli interventisti hanno optato per una strategia diversa. Hanno negato la validità universale della teoria degli economisti con una giustificazione assai scarna. Incapaci di controbattere logicamente l’economia classica, non potevano appigliarsi ad altro se non al “sentimentalismo morale” di cui si parlava durante l’Assemblea costitutiva dell’Associazione Economica Tedesca di Eisenach. Contro la logica pongono l’etica, contro il ressentiment della teoria e le sue argomentazioni pongono il richiamo alla volontà dello Stato.

Gli economisti avevano già previsto le conseguenze dell’interventismo e del socialismo statale e collettivista esattamente nel modo in cui si sono verificate. Ma ovviamente sono stati ignorati. Da cinquanta o sessant’anni gli Stati europei hanno adottato politiche anticapitalistiche e antiliberali. Più di quarant’anni fa, Sidney Webb (Lord Passfield) scriveva: “Possiamo affermare con certezza che la moderna filosofia socialista non è altro che l’attenta e precisa omologazione ai precetti della società, già parzialmente applicati in maniera involontaria. La storia economica di questo secolo è costellata di innumerevoli progressi compiuti grazie al socialismo”.[1] Quanto detto si è verificato all’inizio del suddetto processo e in Inghilterra, dove il liberalismo ha contribuito a reprimere politiche anticapitalistiche. Da allora la politica interventista si è espansa. Ormai tutti credono che viviamo in un’epoca di “economia vincolata” che darà vita a una florida comunità socialista.

Ora che si è verificato esattamente ciò che gli economisti avevano previsto, ora che i risultati della politica economica anticapitalista sono diventati palesi a tutti, ovunque riecheggia il grido: questo è il declino del capitalismo, il sistema capitalista ha fallito!

Il liberalismo non può essere incolpato per nessuna delle scelte delle istituzioni che ad oggi controllano la politica economica. Si oppone difatti alla nazionalizzazione delle imprese, poiché provoca ingenti danni al bilancio pubblico ed è anche la causa di una sporca corruzione. Inoltre il liberalismo si oppone alle politiche di contrasto alla libertà di impresa e di iniziativa personale, all’assegnazione del potere statale ai sindacati, ai sussidi di disoccupazione che contribuiscono solo ad allargare il fenomeno della disoccupazione. Si schiera poi contro la previdenza sociale, che trasforma gli assicurati in provocatori, delinquenti e nevrotici; contro i dazi doganali (e di conseguenza anche contro i monopoli), contro le restrizioni alla libertà di circolazione, contro la sovratassazione e l’inflazione, contro gli arsenali, contro la colonizzazione, contro l’oppressione dei popoli stranieri, contro l’imperialismo e contro la guerra. Si è ostinatamente opposto alla politica inflazionistica.

Infine, non è stato il liberalismo a schierare truppe armate che aspettano solo il momento giusto per far scoppiare una guerra civile.

 

II.

Per giustificare la responsabilità del capitalismo, per almeno una parte delle questioni trattate si afferma che imprenditori e capitalisti non siano più liberali ma interventisti e statalisti. Questo presupposto è vero, ma le conclusioni avanzate sono errate. Tali conclusioni si basano sull’erronea concezione marxista secondo cui, nel periodo di massimo splendore del capitalismo gli imprenditori sono riusciti a tutelare i propri interessi di classe attraverso il liberalismo mentre ora, nel periodo di declino del capitalismo, si sono affidati all’interventismo. Ciò dovrebbe dimostrare che l’interventismo è storicamente necessario e parte integrante del capitalismo moderno.

La visione dell’economia classica e del liberalismo come ideologia borghese (nel senso marxista del termine) è però una delle tante dottrine distorte del marxismo. La verità è che anche gli imprenditori vengono influenzati dalle idee del momento, per questo nell’Inghilterra del 1800 gli imprenditori erano liberali mentre nella Germania del 1930 sono interventisti, statalisti e socialisti. Gli imprenditori nel 1800 non avevano meno tornaconti personali, tutelati dall’interventismo e messi in discussione dal liberalismo, rispetto al 1930.

Oggi, il grande imprenditore è spesso definito “capitano d’industria”. Tuttavia nella società capitalista non esistono “capitani d’industria”. E’ proprio questa la differenza caratteristica tra l’economia socialista e quella capitalista. In quest’ultima il proprietario dei mezzi di produzione segue unicamente i mutamenti nel mercato. L’abitudine di definire “capitani d’industria” i capi di grandi imprese lascia intendere che queste posizioni non vengono conquistate mediante il successo imprenditoriale, bensì attraverso altro.

In uno stato interventista non è necessario che un’impresa riesca a soddisfare le richieste dei consumatori per avere successo, è più importante invece il rapporto con il governo in modo tale da trarre vantaggio dagli interventi varati da quest’ultimo. Più dazi sui prodotti dell’impresa o meno dazi sui semilavorati che essa lavora possono fare al differenza nella gestione dell’impresa. Un’impresa, per quanto bene possa essere gestita, deve necessariamente fallire se non riesce a tutelare i propri interessi in relazione alla fissazione dei dazi doganali, delle retribuzioni dinanzi all’Organo di conciliazione e presso le autorità antitrust. È più essenziale stringere i giusti contatti che produrre merce di valore.

Dunque non sono richiesti uomini capaci di gestire un’impresa e che siano in grado di dare al mercato esattamente ciò che esso richiede, bensì emergono coloro che fanno gli interessi della stampa e dei partiti politici, soprattutto quelli estremisti, in modo tale da guadagnarsene i favori. Ciò si riflette nel comportamento di quei direttori generali che contrattano più spesso con i funzionari di Stato e i leader politici che con i consumatori o i fornitori.

Dato che le aziende si preoccupano di ricevere favori politici, a loro volta si impegnano per fare favori ai politici. Non c’è una grande azienda che negli ultimi anni non abbia speso ingenti somme di denaro in investimenti realizzati per fini politici, dai quali non era previsto un profitto, bensì addirittura una perdita. Per non parlare delle detrazioni per scopi esterni alla gestione dell’impresa, destinati ad esempio a finanziamenti politici, fondazioni di previdenza sociale e altri ancora.

Ad oggi si cerca sempre più spesso di sottrarre al controllo degli azionisti la gestione delle banche centrali, delle grandi industrie e delle società per azioni. Gli statalisti si sono dimostrati favorevoli a questa “tendenza delle grandi società a nazionalizzarsi”, ovvero la scelta di gestire le imprese trascurando gli interessi degli azionisti e il loro “massimo profitto possibile”. Ciò simboleggia il superamento del capitalismo.[2] Nel corso della riforma del diritto societario tedesco sono emersi tentativi di anteporre agli interessi patrimoniali degli azionisti l’interesse e il benessere delle società, dunque “la loro superiorità economica, giuridica e sociologica e la loro indipendenza dalla mutevole maggioranza degli azionisti”[3]

Oggi, sostenuti dallo Stato e dall’opinione pubblica, entrambi profondamente interventisti, i dirigenti delle grandi società si sentono così potenti da non ritenere necessario prestare attenzione agli interessi degli azionisti. Ciò avviene soprattutto nei Paesi in cui lo statalismo ha un impatto maggiore – ad esempio negli Stati nati dopo la caduta dell’Impero austro-ungarico – e in cui le imprese private si disinteressano della produttività tanto quanto le società pubbliche. Il risultato è il collasso. Secondo la teoria più accreditata, le imprese troppo grandi non possono essere gestite solamente seguendo il criterio della produttività.  L’unico risultato che però può scaturire da una gestione di questo tipo è il fallimento dell’impresa, in quanto si rinuncia alla produttività. Allo stesso tempo, la teoria esige l’intervento dello Stato nell’amministrazione delle grandi imprese, per evitare che falliscano.

 

III.

È comunque vero che il socialismo e l’interventismo non sono ancora riusciti a distruggere del tutto l’economia capitalista. In tal caso in tutta Europa, dopo secoli di benessere e prosperità, si sarebbe verificata una nuova fame di massa. Eppure intorno a noi il capitalismo avanza sempre di più, basti pensare alla nascita di nuove industrie, all’espansione di quelle già esistenti e al miglioramento dei loro mezzi di produzione. È proprio ciò che resta dell’economia capitalista nella nostra società che ha permesso tutti questi progressi economici. Nonostante ciò, l’economia capitalista è costantemente ostacolata dalle autorità interventiste, di conseguenza si perde una considerevole parte dei profitti per lasciare spazio alla scarsa produttività delle imprese pubbliche.

La crisi odierna è la crisi dell’interventismo e del socialismo statale e collettivista, in altre parole la politica anticapitalista. Non si può negare che la società capitalista sia controllata dai meccanismi del mercato. I prezzi di mercato corrispondono alla quantità di domanda e offerta e determinano l’entità della produzione. In definitiva, ciò che dà valore all’economia capitalista è il mercato. Quando viene meno la funzione regolatrice della produzione propria del mercato, dunque il governo interferisce con prezzi, salari e tassi d’interesse, si genera una crisi.

Non è stato Bastiat a fallire, ma Marx e Schmoller.

 

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso

Fonte: https://www.misesde.org/2020/08/die-legende-vom-versagen-des-kapitalismus/?fbclid=IwAR2eErmVHcY208mgGZvxrsxY7-X50yXatwQuseRiW7NKGflPqzxs5yNUnL0

 

 

[1] Vgl. Webb, Die historische Entwicklung (Englische Sozialreformer. Eine Sammlung „Fabian Essays“ her. v. Grunwald, Leipzig 1897) S. 44.

[2] Vgl. Keynes, Das Ende des Laisser-faire, München und Leipzig 1926, S. 32 f. 3

[3] Vgl. Passow, Der Strukturwandel der Aktiengesellschaft im Lichte der Wirtschaftsenquete, Jena 1930, S. 4.

 

Come nasce uno stato di polizia: lo Schutzhaft nella Germania nazista

PROLOGO

Nel maggio del 1933, nell’ufficio del responsabile prussiano alla detenzione preventiva Hans Mittelbach si presentò una donna brandendo della biancheria intrisa di sangue che suo marito, Erich Mühsam, le aveva spedito dal campo di concentramento di Sonnenburg. Mittelbach era ben consapevole delle condizioni di Mühsam.

Questi era stato arrestato nella notte del 28 febbraio 1933, qualche ora dopo l’incendio del Reichstag. Quella notte, come tanti altri comunisti, socialisti e liberali, era stato sorpreso nel sonno dalla polizia o dai gruppi paramilitari associati al NSDAP e condotto in vari luoghi di detenzione, legale o extralegale, fino al famigerato campo di concentramento di Sonnenburg. Mühsam era un noto anarchico e al suo arrivo a Sonnenburg le SA gli diedero il benvenuto a bastonate.

Le violenze proseguirono anche nei giorni successivi e furono gravi al punto che Mittelbach, nell’aprile del 1933, si recò in visita al campo per chiedere agli ufficiali di evitare maltrattamenti ai prigionieri. La richiesta fu vana.

Dopo le denunce della moglie di Mühsam, Mittelbach si recò di persona a prendere il prigioniero per condurlo nel carcere di stato a Berlino dove il trattamento sarebbe stato sicuramente migliore poiché gestito da uomini della polizia. Purtroppo per Mühsam, la carriera del suo salvatore finì di lì a poco, si crede proprio a causa della sua “indulgenza”.

Mühsam fu spostato al campo di Oranienburg, dove le SS lo strangolarono con una corda da bucato e gettarono il corpo nelle latrine fingendo un suicidio. Era il 9 luglio 1934. La cosa sorprendente di questa storia è che tutto ciò che accadde era perfettamente legale e persino costituzionale. Vediamo come.

«LE EMERGENZE SONO SEMPRE STATE IL PRETESTO CON CUI SONO STATE EROSE LE LIBERTÀ INDIVIDUALI»

L’incendio del Palazzo del Reichstag, l’edificio che ospitava la camera bassa del parlamento tedesco, avvenne la sera del 27 febbraio 1933, a un mese dall’insediamento del governo presieduto da Adolf Hitler. L’attentato, per il quale fu accusato un comunista, fu il pretesto per ricorrere alla decretazione d’emergenza prevista dalla costituzione di Weimar all’articolo 48, comma 2:

Il presidente [del Reich] può prendere le misure necessarie al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica, quando essi siano turbati o minacciati in modo rilevante, e, se necessario, intervenire con la forza armata. A tale scopo può sospendere in tutto o in parte la efficacia dei diritti fondamentali stabiliti dagli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124 e 153.

I diritti fondamentali menzionati sono l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio, la segretezza delle comunicazioni, la libertà di stampa, di riunione, di associazione, e il diritto alla proprietà privata.

Dopo l’incendio, il governo di Hitler si rivolse immediatamente al presidente del Reich Hindenburg, un vecchio generale in pensione, per chiedergli di approvare quello che passò alla storia come “decreto dell’incendio del Reichstag”, con il quale si disponeva che tutti i diritti fondamentali erano sospesi fino a nuove disposizioni.

Il decreto divenne una sorta di carta costituzionale del Terzo Reich, «giustificando ogni sorta di abuso di potere, compresa la negazione della libertà personale senza supervisione dell’autorità giudiziaria né appello»[1].

SCHUTZHAFT

«Dalla prospettiva del campo non si capiva secondo quale sistema (se poi ce n’era uno) fossero eseguiti gli arresti, ancor meno, in base a che cosa si stabiliva la durata della custodia preventiva e la scelta dei rilasci. […] Questa incertezza […] ha giocato un grosso ruolo e ha reso particolarmente difficile la nostra esistenza. […] Solo il fatto che la custodia preventiva era inflitta senza limitazione di tempo fino a un nuovo riesame dell’arresto fa capire che [essere] oggi in Germania detenuto politico in custodia preventiva è molto, molto peggio che essere qualunque criminale condannato ad una precisa limitazione di libertà, perché questo sa la durata del suo arresto»[2].

Così il socialdemocratico Gerhart Seger descriveva la condizione di totale incertezza in cui versavano i circa 200.000[3] prigionieri politici in “custodia preventiva” nel 1933.  La custodia preventiva (schutzhaft) era uno strumento preventivo-repressivo di polizia per arrestare chi fosse considerato un pericolo senza ricorrere agli strumenti giudiziari.

La costituzione di Weimar prevedeva che la libertà personale fosse inviolabile, ma il decreto dell’incendio dei Reichstag aveva sospeso quell’articolo della costituzione: nessun cittadino era al sicuro dagli abusi dei vari corpi di polizia o dei gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista; nessuno era garantito contro un arresto arbitrario; la libertà aveva smesso di appartenere al singolo cittadino e apparteneva allo Stato.

Era sufficiente che ci fosse un sospetto, una denuncia anonima, e chiunque poteva essere posto in custodia preventiva. Molti degli arresti avvenuti nella notte tra il 27 e il 28 febbraio 1933 colpirono anche persone che non avevano alcun legame con l’attentato al Reichstag. Mühsam fu arrestato soltanto perché era un noto anarchico.

Altri furono arrestati solo perché comunisti o appartenenti ad altri partiti che potevano avere a che fare con l’incendio. «Alla polizia politica fu data la possibilità di agire in modo preventivo contro ogni minaccia allo Stato: in altre parole, agli organi di polizia fu concesso di arrestare e detenere in custodia preventiva, per un tempo di fatto indeterminato, personalità politiche non ancora processate o di assegnarle al confino per un tempo sì determinato, ma facilmente prorogabile»[4].

Le persone sottoposte a questa misura cautelare «non conoscevano i veri motivi in base ai quali era stato deciso il loro destino»[5] né erano messe al corrente di quando (e se) sarebbe mai terminata la loro detenzione. Era loro impedito anche di ricorrere alla giustizia per chiedere un rilascio.

L’intervento di un avvocato fu ammesso «solo per redigere istanze scritte in rappresentanza del colpito, ma non fu permesso ovviamente che gli avvocati o chiunque altro prendessero visione degli atti e delle pratiche della polizia politica. I permessi di visita degli avvocati e a chi incaricato della tutela degli interessi dello Schutzhäfling non erano concessi “se lo scopo politico-poliziesco della custodia preventiva [era] messo a rischio”»[6].

Il ricorso ai tribunali era invece assolutamente inutile, poiché la polizia poteva porre in custodia preventiva anche chi fosse stato assolto, “correggendo” in questo modo ogni decisione “sbagliata” dei tribunali. Nonostante i tribunali fossero quasi del tutto “nazificati”, lo strumento dello schutzhaft era comunque preferibile: offriva una procedura più snella e veloce; era più “silenzioso” rispetto a un processo penale; non aveva bisogno di prove ma poteva colpire virtualmente chiunque con il solo pretesto della prevenzione e della difesa del popolo e dello Stato.

Lo schutzhaft era lo strumento per eccellenza dello stato onnipotente del primo dopoguerra. «La libertà dell’individuo era prevista solo in funzione dello Stato»[7], che aveva il compito di difendere l’unità e la forza vitale del popolo; in altre parole, aveva il compito di epurare chiunque esprimesse opinioni o compisse atti pericolosi per l’unità nazionale.

La scienza giuridica tedesca andò avvicinandosi lentamente alla necessità, «di natura tutta etico-biologica, di difendere la comunità e la sua purezza razziale»[8]. In questa ottica, lo strumento dello schutzhaft non aveva soltanto la funzione di prevenire i reati isolando gli individui pericolosi, ma uno scopo molto più ampio di escludere per sempre dalla società gli individui che non potevano farne parte poiché la loro stessa esistenza biologica poteva minarne le basi.

Slavi, ebrei, zingari, omosessuali, intellettuali dissidenti, disabili, erano tutte persone che potevano anche non aver compiuto alcun reato e violato alcuna legge, ma dovevano essere allontanate dalla comunità perché portatrici di un patrimonio culturale e genetico nocivo.

Non è affatto strano che, fino alla conferenza di Wannsee del 1942, i nazisti non avessero ancora deciso cosa fare con tutti i prigionieri dei campi di concentramento. Alcuni gerarchi, come Hans Frank, appoggiavano addirittura l’idea di deportare tutti gli ebrei sull’isola di Madagascar, purché lasciassero la comunità tedesca.

I luoghi di detenzione degli schutzhäftling erano notoriamente i campi di concentramento, anche se agli inizi del 1933 i nazisti non avevano ancora pianificato la costruzione di un arcipelago di campi. La necessità nacque quando gli arresti divennero così tanti da non poter essere più gestiti dalle carceri di stato, e si dovette ricorrere a stipare i detenuti in altre strutture.

Inizialmente si preferirono strutture preesistenti come ex carceri, ex fabbriche, edifici abbandonati, persino scantinati. Questi luoghi potevano essere gestiti indifferentemente sia da personale carcerario facente capo ai vari ministeri, sia da personale extralegale come le SS o le SA, i due gruppi paramilitari del partito nazionalsocialista.

Il trattamento dei detenuti poteva variare in base al luogo in cui venivano assegnati. Le prigioni statali, almeno nel 1933, erano ritenute i luoghi più sicuri e tollerabili.

«Nonostante le molte difficoltà, la maggioranza dei prigionieri in detenzione preventiva trovava sopportabile la vita all’interno delle prigioni e delle Case di lavoro. Generalmente venivano tenuti separati dal resto della popolazione carceraria, a volte in grandi stanzoni comuni. Le celle singole erano semplici ma non spartane, di solito dotate di letto, tavolo, sedia, scaffale, lavello e un secchio che fungeva da latrina. Il cibo e la sistemazione erano perlopiù adeguati, nonostante il sovraffollamento, e siccome di norma ai prigionieri non veniva chiesto di lavorare, i detenuti trascorrevano il tempo chiacchierando, leggendo, facendo esercizio fisico, lavorando a maglia e giocando a scacchi»[9].

La relativa pace di questi luoghi durò poco, poiché già nel 1934 molte prigioni statali passarono sotto la gestione delle SS, trasformandosi nello stesso inferno che si viveva nei campi. D’altronde, come si è sottolineato, nessuno dei detenuti aveva diritti: anche il magro pasto giornaliero e il secchio da usare come latrina erano su gentile concessione delle autorità

La popolazione locale era consapevole delle violenze che si consumavano nei campi fin dalla loro nascita nel 1933. Non era raro che i prigionieri riuscissero a fuggire e raccontare ciò che avevano subìto, ma l’atteggiamento generale era per lo più di indifferenza o, al massimo, di insofferenza verso la convivenza con gli uomini delle SS e delle SA che raggiungevano le città vicine ai luoghi di detenzione per divertirsi.

Ad esempio, nell’Emsland «I dettagli sugli eccessi delle SS si diffusero fra la popolazione locale e presto raggiunsero il ministero dell’Interno prussiano, che alla fine intervenne. Il 17 ottobre 1933 ordinò che tutti i prigionieri politici di spicco e gli ebrei fossero immediatamente portati fuori dai campi dell’Emsland»[10].

In altri casi, come l’episodio descritto in apertura, i parenti delle vittime apprendevano tramite la corrispondenza degli abusi all’interno dei luoghi di detenzione e protestavano infruttuosamente con le autorità, ma diffondevano anche le storie fra conoscenti e amici. Era raro trovare qualcuno che non avesse udito almeno una storia del genere già nel 1933.

UNA CURIOSA FUGA

Hans Beimler era un attivista del KPD, il Partito Comunista Tedesco, e aveva preso parte a numerosi scontri con i gruppi paramilitari di destra durante i turbolenti anni della repubblica di Weimar.

Era ben noto agli uomini delle SA e delle SS, quindi quando fu condotto nel campo di concentramento di Dachau il 25 aprile 1933, le guardie lo accolsero con bastonate e scudisciate. Poi lo condussero nella sala delle torture, dove per giorni subì violenti pestaggi da parte delle guardie del campo.

Lo scopo era indurre Beimler al suicidio, così da non far ricadere la colpa della sua morte sulle autorità del campo. Ma Beimler era un osso duro, così l’8 maggio 1933 le SS gli insegnarono a fare un cappio con le lenzuola e gli diedero un ultimatum: se non si fosse impiccato da solo, il giorno dopo ci avrebbero pensato loro, e sarebbe stato molto peggio.

Il mattino successivo, le guardie entrarono nella cella di Beimler e trovarono un’amara sorpresa: il prigioniero era scomparso. Non è chiaro come fuggì dal campo, ma riuscì a raggiungere la Cecoslovacchia «da dove mandò una cartolina alle SS di Dachau: “Baciatemi il culo”»[11].

Ma, molto più importante, Beimler scrisse «uno dei primi fra i sempre più numerosi racconti di testimoni oculari riguardo ai campi nazisti come Dachau»[12] che fu pubblicato a puntate su un giornale svizzero e fatto circolare segretamente in Germania.


[1] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016.

[2] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 137

[3] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 33

[4] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 99

[5] CAMILLA POESIO, In balia dell’arbitrio. Il confino fascista e la Schutzhaft nazista, in Paradigma lager. Vecchi e nuovi conflitti del mondo contemporaneo, a cura di S. Casilio, L. Guerrieri, A. Cegna, Clueb, Bologna 2010, p. 142

[6] CAMILLA POESIO, Il confino di polizia, la «Schutzhaft» e la progressione erosione dello Stato di diritto, in Il diritto del duce. Giustizia e repressione nell’Italia fascista, a cura di Luigi Lacchè, Roma 2015, p. 101

[7] Ibidem, p. 103

[8] Ibidem, p. 104

[9] NIKOLAUS WACHSMANN, KL. Storia dei campi di concentramento nazisti. Mondadori. Milano 2016, p. 37

[10] Ibidem, p. 54

[11] Ibidem, p. 27

[12] Ibidem, p. 27

Pianificazione, scienza e libertà [Nature, no. 3759 (November 15, 1941), p. 581–84]

Gli ultimi dieci anni hanno visto in Gran Bretagna la grande rinascita di un movimento che da almeno tre generazioni contribuisce in modo decisivo alla formazione dell’opinione pubblica e all’andamento degli affari pubblici in Europa: il movimento per la “pianificazione economica”. Come in altri Paesi – prima in Francia e poi in particolare in Germania – questo movimento è stato fortemente sostenuto ed anche guidato da uomini di scienza e ingegneri.

Questa visione è riuscita ormai a conquistare l’opinione pubblica a tal punto che il fronte degli oppositori è rappresentato quasi solo da un piccolo gruppo di economisti. Ad essi tale movimento pare non solo proporre mezzi inadeguati per i fini a cui mira, ma appare anche come la causa principale di quella distruzione della libertà individuale e della libertà spirituale che è la più grande minaccia della nostra epoca. Se questi economisti hanno ragione, vi è un gran numero di uomini di scienza che si sforza inconsapevolmente di creare condizioni politiche di cui dovrebbero essere i primi ad avere paura. Lo scopo di queste righe è quello di delineare le argomentazioni su cui si basa questa visione.

Anche una breve dissertazione sulla “pianificazione economica” è incompleta senza una precisa definizione della parola “pianificazione”. Se il termine fosse preso nel suo senso più generale ed inteso come disegno razionale delle istituzioni umane, non ci sarebbe ragione per discutere sulla sua auspicabilità. Ma sebbene la popolarità della “pianificazione” sia almeno in parte dovuta a questa connotazione più ampia della parola, essa viene ora generalmente usata in un senso più ristretto e specifico. Descrive solo uno dei diversi principi che potrebbero essere deliberatamente scelti per l’organizzazione della vita economica: quello della direzione centrale di ogni attività economica, come opposta alla sua direzione da parte della forza della competizione.

Pianificare, in altre parole, significa oggi che non solo il tipo di sistema economico da adottare deve essere scelto razionalmente, ma che è oltremodo auspicabile orientarsi verso un sistema basato sul controllo “consapevole”, o centralizzato, di tutte le attività economiche. Ciò si evince, ad esempio, anche dalle parole che il professor P.M.S. Blackett usa quando spiega che “lo scopo della pianificazione è in gran parte quello di superare i risultati della concorrenza”. Questo uso ristretto del termine intende ovviamente suggerire che solo questo tipo di organizzazione economica è razionale, e solo essa può dunque essere definita pianificazione. È questa una tesi che gli economisti rifiutano.

La spiegazione completa che dimostra l’inefficienza del sistema della pianificazione intesa come direzione centralizzata dell’economia non può essere riassunta in poche frasi. Ma il succo è abbastanza semplice: il sistema della concorrenza e quello dei prezzi rendono possibile l’impiego di una quantità di conoscenza effettiva che non potrebbe mai essere raggiunta o avvicinata senza di essi. È certamente vero che il dirigente di un sistema pianificato centralmente può avere più conoscenze di qualsiasi altro singolo imprenditore sotto il sistema della concorrenza. Ma egli non potrebbe mai concentrare nel suo piano tutte le conoscenze combinate di tutti i singoli imprenditori, che vengono invece utilizzate in un contesto concorrenziale. La conoscenza più significativa non è infatti la comprensione delle leggi generali, ma la conoscenza degli eventi particolari e delle circostanze mutevoli del momento – una conoscenza che solo l’uomo fisicamente inserito in un determinato contesto può possedere.

Solamente un sistema di decentralizzazione delle decisioni favorisce il pieno sfruttamento della conoscenza. Non è possibile scindere lo schema generale del piano e il dettaglio dell’esecuzione – o almeno non è stato ancora mostrato alcun modo per una efficace divisione delle due parti. Questo in virtù del fatto che le caratteristiche generali non sono altro che il risultato di un’infinità di particolari, e non esistono principi che, senza arrecare conseguenze negative, possano essere stabiliti indipendentemente dal particolare. Tuttavia, affinché in un sistema decentralizzato le singole decisioni si adattino reciprocamente l’una all’altra, è naturalmente essenziale che il singolo imprenditore venga a conoscenza il più rapidamente possibile di qualsiasi cambiamento rilevante delle condizioni che influiscono sui fattori di produzione e sulle merci di cui si occupa.

Questo è esattamente ciò che fornisce il sistema di prezzi, se il sistema della competizione funziona correttamente. Si tratta infatti di un sistema in cui ogni cambiamento di condizioni e di opportunità viene registrato in modo tempestivo e automatico, in modo che il singolo imprenditore possa desumere, per così dire, da pochi indicatori e in cifre semplici, gli effetti più importanti di tutto ciò che accade nel sistema per quanto riguarda i fattori e le merci di cui si occupa.

Questo metodo di risoluzione per mezzo di decentramento automatico di problemi che altrimenti sarebbero al di là delle possibilità della mente umana, dovrebbe essere accolto come una straordinaria invenzione – se fosse stato ideato deliberatamente. Paragonato ad esso, il metodo più ovvio di risolvere i problemi per mezzo di una pianificazione centrale risulta incredibilmente goffo, primitivo e di portata limitata.

È davvero curioso il fatto che quegli economisti socialisti che hanno studiato attentamente i problemi pratici di un’economia socialista abbiano più di una volta rivalutato la concorrenza e il sistema dei prezzi come la soluzione più efficiente – solo che sfortunatamente questo sistema non può funzionare senza la proprietà privata. Per quanto riguarda l’atteggiamento generale nei confronti del sistema dei prezzi, è un peccato che non sia stato deliberatamente inventato, ma che si sia sviluppato spontaneamente molto prima della scoperta del suo funzionamento. Ciò che è avvenuto appare in contrasto con il profondo istinto dell’uomo di scienza, e in particolare dell’ingegnere, nel credere che tutto ciò che non è stato deliberatamente costruito, ma che è invece il risultato di una naturale evoluzione più o meno accidentale, non possa essere il metodo migliore per un fine umano. In verità la tesi non è che questo sistema così adatto alla civiltà moderna si sia sviluppato spontaneamente, come per miracolo, ma piuttosto che la divisione del lavoro, che è alla base della civiltà moderna, si è sviluppata su larga scala solo perché l’uomo si è imbattuto nel metodo che l’ha resa possibile.

A volte si sostiene – spesso sono le stesse persone che con la loro propaganda contro la competizione hanno contribuito in larga parte alla sua progressiva soppressione – che, sebbene tutto ciò sia sostanzialmente vero, e sebbene sarebbe auspicabile mantenere la competizione se solo ve ne fosse la possibilità, fattori tecnologici lo impediscono, e che quindi la pianificazione centrale è diventata inevitabile. Questo, però, è solo uno dei tanti miti che, come quello della “potenziale abbondanza”, vengono ripetuti da un’opera di propaganda a un’altra fino ad essere considerati come fatti accertati, anche se hanno poca attinenza con la realtà.

Non c’è spazio qui per dilungarsi a riguardo, ci basti citare la conclusione a cui è giunta la più completa indagine recente in merito alla questione. Questo è ciò che il rapporto finale dell’indagine sulla “Concentrazione del potere economico” dell’American Temporary National Economic Committee ha da dire sul punto:

“A volte si afferma, o si presume, che la produzione su larga scala, nelle condizioni della moderna tecnologia, sia talmente più efficiente della produzione su piccola scala che la concorrenza deve inevitabilmente cedere il passo al monopolio, dato che le grandi imprese escludono i loro rivali più piccoli dal campo. Ma tale generalizzazione trova scarso sostegno in qualsiasi prova che sia a nostra disposizione in questo momento”

In effetti, pochi tra coloro che hanno osservato lo sviluppo economico negli ultimi vent’anni circa possono dubitare del fatto che la progressiva tendenza al monopolio non è il risultato di una forza spontanea o inevitabile, ma l’effetto di una politica volutamente promossa dai governi, ispirata all’ideologia della “pianificazione”. Ciò che sorprende è la vitalità della concorrenza, che nonostante i persistenti tentativi di soppressione, rialza sempre la testa – anche se puntualmente deve scontrarsi con nuove misure volte a soffocarla.

È preoccupante che in questa situazione si trovino così spesso uomini di scienza e ingegneri alla guida di un movimento volto solamente a sostenere la scellerata alleanza tra le organizzazioni monopolistiche del capitale e del lavoro, e che per ogni cento uomini di scienza che attaccano la concorrenza e il “capitalismo” se ne trovi a malapena uno che critica le politiche restrittive e protezionistiche che si mascherano da “pianificazione” e che sono la vera causa della “frustrazione della scienza”. Questo atteggiamento comune ad alcuni scienziati non può essere semplicemente ricondotto ad una particolare propensione per tutto ciò che è stato concepito coscientemente e contro tutto ciò che si è sviluppato in maniera naturale, a cui ho già accennato. Ciò è dovuto in parte all’antagonismo di tanti scienziati naturali nei confronti dell’insegnamento dell’economia, i cui metodi appaiono loro insoliti ed estranei, e di cui ignorano spesso risultati o, come il professor L. Hogben, che attaccano con violenza come “spazzatura medievale insegnata come economia nelle nostre università”.

Questa controversia sui metodi adatti allo studio della società è ormai datato e solleva problemi estremamente complessi e difficili. Ma poiché il prestigio di cui godono gli scienziati naturali presso il pubblico è così spesso sfruttato per screditare i risultati dell’unico sforzo sistematico e continuo per accrescere la nostra comprensione dei fenomeni sociali, questa disputa è una questione di sufficiente importanza da rendere necessarie alcune riflessioni in questo contesto.

Nel caso in cui vi fosse motivo di sospettare che gli economisti persistono nelle loro indagini solo per inerzia e nell’ignoranza dei metodi e delle tecniche che in altri campi si sono dimostrate efficaci, potrebbero sollevarsi seri dubbi sulla validità delle loro argomentazioni. Ma i tentativi di far progredire le scienze sociali con una più o meno stretta imitazione dei metodi delle scienze naturali, lungi dall’essere nuovi, sono stati una caratteristica costante per più di un secolo.

Le stesse obiezioni contro l’economia “deduttiva”, le stesse proposte per renderla finalmente “scientifica”, e, bisogna aggiungere, gli stessi errori caratteristici e primitivi a cui gli scienziati naturali che si avvicinano a questo campo sembrano essere inclini, sono stati ripetuti e discussi più e più volte da generazioni successive di economisti e sociologi e non hanno portato proprio da nessuna parte. Tutti i progressi compiuti nella comprensione dei fenomeni economici sono stati ottenuti grazie a quegli economisti che hanno pazientemente sviluppato tecniche a partire dalle singole problematiche. Ma nei loro sforzi sono stati costantemente messi in discussione da illustri fisici o biologi che si sono pronunciati in nome della scienza a favore di schemi o proposte che non meritano una seria considerazione. Un sociologo americano ha recentemente lamentato che “uno dei peggiori esempi di mentalità non scientifica è spesso un eminente scienziato naturale, cioè un fisico o biologo che parla di questioni sociali” esprimendo un’opinione comune a tutti gli studenti di questioni e problematiche sociali.

Dal momento che la disputa sulla pianificazione centrale è così strettamente legata alla disputa sulla validità scientifica dell’economia, era necessario fare brevemente riferimento a queste questioni. Ma questo non deve distoglierci dal nostro tema principale. L’inferiorità o la superiorità tecnica della pianificazione centrale rispetto alla concorrenza non è l’unico problema, e nemmeno quello principale. Se il grado di efficienza economica fosse l’unico argomento in ballo in questa controversia, i pericoli di un errore risulterebbero modesti rispetto a ciò che sono realmente. Ma così come la presunta maggiore efficienza della pianificazione centrale non è l’unico argomento utilizzato in sua difesa, così le obiezioni vanno ben oltre la sua reale inefficienza.

Bisogna infatti ammettere che se volessimo rendere la distribuzione dei redditi tra individui e gruppi conforme a un qualunque standard assoluto prestabilito, la pianificazione centrale sarebbe l’unico modo per raggiungere questo obiettivo. Si potrebbe sostenere – ed è stato sostenuto – che varrebbe la pena sopportare una minore efficienza se si potesse ottenere così una maggiore giustizia distributiva. Tuttavia gli stessi fattori che rendono possibile in un tale sistema il controllo della distribuzione del reddito necessitano l’imposizione di un ordine gerarchico arbitrario che governi lo status di ogni individuo e il ruolo di quasi tutti i valori umani.

Insomma, come è ormai sempre più generalmente riconosciuto, la pianificazione economica è la diretta causa della soppressione, conosciuta come “totalitarismo”, della libertà individuale e della libertà intellettuale. Come è stato detto recentemente su Nature da due eminenti ingegneri americani, “lo Stato fondato sull’autorità dittatoriale… e l’economia pianificata sono essenzialmente una cosa sola”.

Le ragioni per cui l’adozione di un sistema di pianificazione centrale produce necessariamente un sistema totalitario sono abbastanza semplici. Chi controlla i mezzi deve decidere quali sono i fini da conseguire. Al giorno d’oggi il controllo dell’attività economica significa controllo dei mezzi materiali per quasi tutti i nostri fini, dunque anche controllo su quasi tutte le nostre attività.

La natura della precisa scala di valori che deve guidare la pianificazione rende impossibile l’impiego di metodi democratici. Il dirigente di un sistema pianificato deve imporre la sua scala di valori, la sua priorità di obiettivi, che, per riuscire a portare a compimento il piano, deve includere una gerarchia dove lo status di ogni persona è ben definito.

Per permettere al piano di avere successo, o di sembrare di averlo, è necessario convincere il popolo che gli obiettivi scelti sono quelli giusti. Ogni critica al piano o all’ideologia che lo sottende deve essere trattata come un sabotaggio. Non può esservi alcuna libertà né di pensiero né di stampa, dove è necessario che ogni cosa sia dominata da un unico sistema di pensiero.

Il socialismo può volere, in teoria, accrescere la libertà, ma in pratica ogni forma di collettivismo non fa altro che applicare quei tratti caratteristici che fascismo, nazismo e comunismo hanno in comune. Il totalitarismo non è altro che un collettivismo sistematico, caratterizzato dall’esecuzione spietata del principio che “il bene comune viene prima dell’individuo” e dall’assoggettamento di tutti i membri della società ad una singola volontà che si suppone rappresenti il “bene comune”.

Richiederebbe troppo spazio mostrare nel dettaglio in che modo un tale sistema provoca un controllo dispotico in ogni sfera della vita, e come in particolare in Germania due generazioni di pianificatori hanno preparato il terreno per il nazismo. Ciò è già stato dimostrato altrove. Né è possibile dimostrare qui perché la pianificazione tende a produrre un forte nazionalismo e conflittualità internazionale o perché, come i redattori di uno dei più ambiziosi lavori cooperativi sulla pianificazione ebbero modo di scoprire con profondo rammarico, “la maggior parte dei ‘pianificatori’ sono accesi nazionalisti”.

A questo punto è bene trattare un più immediato pericolo che l’attuale andamento provoca in Gran Bretagna; quello della crescente divergenza fra i sistemi economici britannico e statunitense, che minaccia di rendere impossibile ogni reale collaborazione economica tra i due Paesi, una volta finita la guerra [l’articolo è del 1941, NdT]. Negli Stati Uniti l’attuale evoluzione è ben descritta dal programma per il ripristino della concorrenza presentato dal presidente Roosevelt nel discorso al Congresso dell’aprile 1938, che, nelle parole del presidente, si basa sull’idea “non che il sistema della libera impresa privata a scopo di lucro abbia fallito in questa generazione, ma che non sia stato ancora provato”.

D’altro canto, per quanto riguarda la Gran Bretagna nello stesso periodo si potrebbe giustamente dire che “ci sono molti segnali che i leader britannici si stanno abituando a pensare in termini di sviluppo nazionale per mezzo di monopoli regolamentati”. Ciò significa che stiamo percorrendo la stessa traiettoria avviata dalla Germania e che gli Stati Uniti stanno abbandonando perché, come afferma il rapporto sulla “Concentrazione del potere economico” a cui il discorso del presidente ha dato adito, “l’ascesa del centralismo politico è in gran parte il risultato del centralismo economico”.

L’alternativa non è, ovviamente, il laissez-faire, per come questo termine fuorviante e vago viene solitamente interpretato. Molto deve essere fatto per assicurare l’efficacia della competizione; e molto può essere fatto al di fuori del mercato per completare l’opera. Ma tentando di soppiantarla ci priviamo non solo di uno strumento che non può essere rimpiazzato, ma anche di un organismo senza il quale non ci può essere libertà per l’individuo.

In questo caso nulla può essere più degno di studio e considerazione della storia intellettuale della Germania nelle ultime due generazioni. È bene rendersi conto che le caratteristiche che l’hanno resa ciò che oggi è sono in gran parte le stesse che l’hanno resa così ammirata e che ancora oggi esercitano il loro fascino; e che la corruzione della mentalità tedesco è avvenuta in gran parte dall’alto, dai più influenti intellettuali e scienziati.

Alcuni uomini, indubbiamente notevoli a modo loro, resero la Germania uno Stato costruito in maniera artificiale – “organizzato pezzo per pezzo”, come ripetevano con orgoglio i tedeschi. Questo ha permesso al nazismo di proliferare e di trovare fra i suoi principali sostenitori i rappresentanti della scienza organizzata. Fu proprio l’organizzazione “scientifica” dell’industria che portò alla creazione deliberata di giganteschi monopoli e ne promosse l’inevitabile crescita 50 anni prima che ciò accadesse in Gran Bretagna.

La stessa dottrina sociale che al giorno d’oggi è così popolare tra alcuni uomini di scienza britannici cominciò a essere diffusa dalle loro controparti tedesche negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. La sudditanza degli uomini di scienza nei confronti di tutto ciò che fosse dottrina ufficiale cominciò con il notevole sviluppo della scienza finanziata a livello statale, che è l’oggetto di tanta glorificazione oggi in Gran Bretagna. La causa di cotanto disprezzo nei confronti della libertà e la sua soppressione a cui oggi assistiamo è il risultato di quello Stato in cui tutti aspirano al posto da dipendente statale e in cui tutte le attività a scopo di lucro vengono disdegnate.

Concludo con un’illustrazione di quanto ho detto circa il ruolo di alcuni dei grandi uomini di scienza della Germania imperiale. Il famoso fisiologo Emil du Bois-Reymond fu uno dei leader di un movimento volto a estendere i metodi delle scienze naturali ai fenomeni sociali, oltre che uno dei primi e più grandi sostenitori dell’opinione, ormai estremamente popolare, che “la storia delle scienze naturali è la vera storia dell’umanità”. È Inoltre colui che pronunciò quella che è forse la più vergognosa affermazione mai fatta da un uomo di scienza a nome dei suoi colleghi: “Noi, l’Università di Berlino”, proclamò nel 1870 in un discorso pubblico in qualità di rettore dell’Università, “acquartierati davanti al palazzo del Re, siamo, in dall’atto della nostra fondazione, la guardia del corpo intellettuale della casa degli Hohenzollern”.

La fedeltà degli scienziati-politici tedeschi si è da allora spostata altrove, ma il loro rispetto nei confronti della libertà non è aumentato. Eppure il fenomeno non è confinato solo alla Germania. Il signor J.G. Crowther non ha forse, in un libro dalla visione così simile a quella di du Bois-Reymond, cercato recentemente di difendere l’inquisizione perché, a suo avviso, “è utile alla scienza quando tutela una classe in ascesa”? Da questo punto di vista, chiaramente, tutte le persecuzioni degli uomini di scienza da parte dei nazisti dopo la loro ascesa al potere potrebbero essere giustificate – non erano essi in fondo una “classe in ascesa”?

Fonte: https://mises.org/library/planning-science-and-freedom

Traduzione a cura di Laura Pizzorusso

Crisi identitarie, errori e scomuniche della sinistra occidentale

Da anni il populismo di destra, il cosiddetto sovranismo, ha preso le redini della scena politica mondiale: arrivato al potere in diverse realtà sociali (locali e nazionali), lo sciovinismo ultra-conservatore (ma ultra-statalista nel dirigismo economico e nel bastone per quanto riguarda sicurezza ed immigrazione) sembrerebbe molto più appealing di tutte le forme di progressismo riciclato. In altri termini, nella promessa pauperista del “più sicurezza”, “più Stato”, “più isolazionismo”, i partiti demagogici e populisti di destra hanno più successo dei loro cugini di sinistra. Come mai questi ultimi, nonostante posseggano l’ampio arsenale retorico di populismo, sembrano in perenne crisi? Perché dalla fine della Guerra Fredda i partiti di sinistra – sia nella loro versione populista che in quella moderata – si sono via via eclissati in Occidente?

Ilvo Diamanti e Marc Lazar (Popolocrazia) spiegano che «è prassi comune associare il populismo all’estrema destra. Nella maggior parte dei media, viene fatto probabilmente per semplificazione. Nel mondo della politica viene fatto soprattutto dalla sinistra, che lancia […] un anatema contro qualsiasi movimento o leader che si appella al popolo su basi che non le vanno a genio, e cerca così di riattivare a fini strategici la potente arma della mobilitazione antifascista per vincere le elezioni o per minimizzare l’ampiezza di una disfatta elettorale.» A parte lo stantio appello antifascista – che non fa altro che svilire il concetto – sono poche le idee che i movimenti di sinistra hanno portato nel dibattito pubblico degli ultimi anni; d’alta parte, l’atteggiamento di scomunica nei confronti dell’avversario politico ha sempre trovato riscontri a sinistra. Il tutto parte dal fatto che da tre quarti di secolo la sinistra, specialmente quella italiana, (si) è costretta a «campare di Antifascismo» per dirla con Giampaolo Pansa. Un Fascismo del tutto immaginario: un comodo feticcio.

A sinistra si crede sempre di disporre del “monopolio del bene”. Nel Novecento erano i proletari, i poveri, i cosiddetti ultimi, ma via via, come scrive Luca Ricolfi (Sinistra e popolo), «proprio perché aveva cessato di occuparsi seriamente degli ultimi, la sinistra è stata costretta a cambiare pelle, puntando buona parte delle sue carte su temi soft, o non strettamente economici: diritti dei gay, coppie di fatto, quote rosa, aborto, fecondazione assistita, ambiente, riscaldamento globale, pena di morte, indulto, amnistia, depenalizzazione dei reati minori, eutanasia, testamento biologico, linguaggio sessista, omofobia, alimentazione corretta, diritti degli animali […] Proprio perché non si occupava più di operai, braccianti e disoccupati nativi, alla sinistra non è parso vero di avere a disposizione degli “ultimi” di cui farsi paladina.» Da qui l’attenzione nei confronti dei migranti e la strumentalizzazione dei medesimi; questo, un fenomeno che dunque non appartiene solo alla destra populista.

Il monopolio e il fascino che i movimenti cosiddetti progressisti esercitavano nei confronti delle classi operaie – il più delle volte mai veramente aiutate da chi a parole diceva di difenderle – sembra essersi recentemente spezzato a favore di altri movimenti (verdi e populismo di destra, ad esempio). I movimenti della sinistra occidentale si sono progressivamente staccati dal loro elettorato di riferimento: non stupisce dunque che il mondo progressista si sia rivolto ad altri soggetti. Continua Ricolfi: «la sinistra ha bisogno, un assoluto bisogno, degli immigrati e delle politiche dell’accoglienza perché i migranti, in quanto deboli e ultimi per definizione, sono l’unico segno rimasto della sua vocazione a occuparsi di chi sta in basso. I migranti sono la sua patente di progressismo, la sua assicurazione contro il naufragio della propria identità.»

La sinistra di oggi scomunica i volgari, si autoproclama nobile minoranza eletta; proprio come le élite del passato che tanto criticavano. La sinistra di oggi risulta arrogante e scollata dalle esigenze dei più e questo viene percepito dall’elettorato. La sinistra di oggi riconosce di aver perso la presa sulla società, ma comunque si sente moralmente superiore rispetto alla plebe. La sinistra di oggi è assolutamente autoreferenziale, parla – tre quarti di secolo dopo – di totalitarismo di destra, giustificando il Comunismo “occidentale” all’acqua di rose. La sinistra di oggi è ossessionata dal Fascismo, facendo finta di non sapere che non c’è alcun Fascismo alle porte; il Fascismo è un atteggiamento di intolleranza, violenza e annichilimento della libertà, corroborato dal dirigismo statalista: proprio come lo è il suo genitore, il Socialismo. La sinistra di oggi offende la memoria della Resistenza (un patrimonio nazionale e politicamente eterogeneo, non l’arma della superiorità morale). La sinistra di oggi ammira Sergio Marchionne; quello che, seguendo una certa retorica di qualche anno fa, stava nel “salotto borghese”, frequentava gli ex presidenti americani e i big del tech.

Arrivata al potere negli anni Novanta (dopo un breve revival negli anni Settanta), la sinistra occidentale ha incassato i dividendi delle politiche neoliberiste, poi prolungate nel tempo e nello spazio per non scomparire politicamente. In altri termini, la sinistra della Terza via, la New Left, la Neue Mitte, ha cavalcato il potente equino neoliberale, salvo poi mandarlo al macello: perduta l’identità sotto le macerie del Muro di Berlino (che a sinistra tutti hanno tollerato e/o hanno fatto finta di non vedere per quasi tre decenni), la sinistra ha deciso che per rimanere a galla fosse necessario abbracciare il grande nemico: non solo copiare grossolanamente, ma anche dilatare deleteriamente le idee di Milton Friedman, salvo poi prenderne tatticamente le distanze e parlare di “neoliberismo”. A parte che una volta arrivata al potere in Occidente non ha (fortunatamente) stabilito il Socialismo che hanno predicato nei decenni passati, la sinistra post-comunista occidentale ha operato una virata culturale identitaria ed economica importante che è stata percepita dal suo elettorato come inaccettabile.

In quella che scienziati politici come Timothy Snyder e Ivan Krastev hanno definito la “politica dell’imitazione”, la sinistra ha continuato a praticare (a suo modo) politiche liberiste iniziate dai conservatori liberali e ha abusato della deregulation (che, se troppo estesa e smoderata, non ha fa che danneggiare le classi operaie). Perso dunque il proprio elettorato di riferimento, la sinistra di oggi racconta storielle e filastrocche sui migranti; non vede i disagi delle masse che si sentono tradite dalla gauche au caviar e oggi votano i movimenti della destra xenofoba. Molti leader a sinistra non solo hanno conti milionari in banca e sono sempre pronti per la photo-opportunity, ergendosi a guru e guide morali. Per dirla con Sergio Ricossa (Straborghese) a sinistra «amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive, e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra essere sopportabile solo se lo si guarda dall’alto di un palco ben isolato ed elevato.»

Il concetto di sicurezza a sinistra sembra non trovare ospitalità: il che, intendiamoci, non vuol dire che a sinistra si è per il Far West o l’incitamento alla violenza. Di nuovo un illuminante Ricolfi: «per offrire protezione, bisognerebbe riconoscere l’esistenza di un pericolo. E la sinistra questo passo non pare in grado di compierlo. Anzi, con i suoi politici, i suoi giornalisti, i suoi intellettuali […] la sinistra impegna le sue migliori energie comunicative per dissolvere i problemi che la gente normale percepisce come tali […] La gente pensa che gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che […] gli immigrati sono una straordinaria occasione di arricchimento culturale. La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che l’Europa […] è la soluzione. La gente pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le spiega che […]  l’Islam non c’entra nulla».

Distanza dal senso comune, indifferenza verso i fatti e gli “ultimi” che una volta diceva di proteggere, sentimento di superiorità morale, la convinzione di essere sempre “la parte migliore del paese”: il tutto portato avanti con lo strumento della scomunica morale dell’avversario. Dall’alto di un trono immaginario e sacerdotale, la sinistra non solo ha perso la sua “vocazione” operaista (se mai l’abbia avuta), ma si è spinta a nascondere a se stessa le proprie inadeguatezze e al contempo ha dipinto l’avversario politico (che le ha rubato il monopolio sullo scontento) come male irrimediabile. I partiti della sinistra occidentale si sono autodefiniti progressisti, ma non hanno capito le svolte storiche imposte dalla globalizzazione; si sono malamente riciclate; hanno abbracciato il grande nemico neoliberale; sono diventate elitarie. Hanno perso la loro identità.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

Il flagello dell’Africa: breve storia del socialismo africano

[vc_row][vc_column][vc_column_text css=”.vc_custom_1617042617398{margin-bottom: 0px !important;}”]

Negli anni Sessanta, milioni di africani guardavano con ottimismo al loro futuro: erano gli anni della decolonizzazione, dell’indipendenza, della libertà. Dopo aver conquistato il diritto all’autogoverno, una nuova generazione di leader africani guardava fiduciosa verso l’avvenire, certa di poter costruire un’Africa migliore, in grado di relazionarsi da pari a pari con il resto del mondo.

Così non è stato. Mezzo secolo dopo, molte nazioni africane si presentano persino più povere di quanto non lo fossero sotto il dominio europeo. Violenza, corruzione, instabilità, miseria, morte: per milioni di africani, è questa la realtà della loro vita. La domanda quindi sorge spontanea: cosa è andato storto?

 

Damnatio memoriae

Naturalmente, non esiste una risposta semplice: questo fallimento è il risultato della combinazione di diversi fattori (i danni a lungo termine del colonialismo, tensioni etniche e religiose, ingerenze delle potenze straniere), ma uno spicca su tutti gli altri: l’abbandono, da parte delle élite al potere nei diversi Paesi africani, dei principi del libero mercato e della democrazia liberale.

Una volta conquistata l’indipendenza, molti dei nuovi leader africani decisero di voltare le spalle a qualsiasi testimonianza del passato coloniale. Ad essere rimossi, modificati o distrutti, però, non furono solo edifici ed emblemi: anche le idee furono sottoposte alla damnatio memoriae.

Per questi leader africani capitalismo, libero mercato e democrazia liberale erano idee degli odiati ex-padroni, quindi intrinsecamente malvagie[1]. Pertanto, era inevitabile che questi politici, nello scegliere secondo quali principi guidare lo sviluppo delle loro nazioni, venissero attratti dall’ideologia della potenza che, negli anni Sessanta, si presentava come l’antitesi dell’Occidente imperialista: l’URSS, e quindi il socialismo sovietico.

 

Un’Africa socialista

Sarebbe riduttivo affermare che il socialismo sovietico abbia attecchito bene nelle nuove nazioni africane: piuttosto, sarebbe più corretto dire che è divampato come benzina sul fuoco dell’indipendenza.

In Tanzania, Julius Nyerere fondò lo sviluppo del Paese sulla dottrina della “Ujamaa”(famiglia estesa), un misto di socialismo sovietico e valori tradizionali africani[2]. In linea con questi principi, la prima Costituzione della Tanzania affermava che “lo Stato ha il compito d’impedire l’accumulo della ricchezza, incompatibile con una società senza classi”.

In Ghana, il Presidente Nkrumah fissò come obiettivo ultimo del suo governo il controllo totale dell’economia da parte dello Stato[3]. Per raggiungere tale scopo, le imprese private vennero nazionalizzate, perfino prezzi e salari vennero stabiliti a tavolino dal governo centrale.

In Guinea, per realizzare il “marxismo in panni africani”, il governo di Sékou Touré varò misure estremamente severe, tra cui: divieto di qualsiasi attività commerciale non approvata dal governo, monopolio statale del commercio con l’estero, pena di morte per il contrabbando[4].

Questi sono solo alcuni esempi. Infatti, vicende simili riguardarono anche lo Zimbabwe di Mugabe, il Mali di Keita, l’Etiopia di Mengistu e tante altre nazioni africane. Perfino in quelle dichiaratamente “capitaliste”, come la Nigeria, uno Stato forte, che quindi interviene pesantemente in economia, venne considerato come uno strumento utile all’indipendenza nazionale[5].

 

Il socialismo africano fra teoria e pratica

Il socialismo africano, sebbene si proponesse come una “Terza via” alternativa non solo al capitalismo, ma anche al socialismo di stampo sovietico[6], nei fatti riprendeva gli aspetti fondamentali di quest’ultimo, in particolare il sistema politico monopartitico e l’economia pianificata.

In tutte le nuove repubbliche socialiste, pertanto, non esistevano né partiti di opposizione né vincoli al potere del governo: tanto nel Ghana di Nkrumah quanto nello Zimbabwe di Mugabe, l’unico partito legale era quello del Presidente, che governava con pieni poteri.

Come in ogni Stato socialista che si rispetti, poi, l’economia era pianificata: com’è stato già detto in precedenza, i leader socialisti africani fecero grandi sforzi per eliminare qualsiasi impresa privata, e quindi autonoma rispetto al governo centrale.

Tutto questo ebbe due gravi conseguenze: in primo luogo, stroncò nei cittadini di questi Paesi qualsiasi aspirazione imprenditoriale, sostituendola con una mentalità che vede lo Stato come l’unica istituzione in grado di creare ricchezza (mentre in realtà può solo ridistribuirla, di solito male).

In secondo luogo, l’accentramento del potere: in ognuno di questi Stati, il regime socialista al potere favorì lo sviluppo di una burocrazia pesante ma influente, la cui prosperità crebbe in modo inversamente proporzionale a quella della nazione. Ancora oggi, in gran parte del continente, sono solo pochi funzionari politici e militari a beneficiare delle ricchezze dell’Africa, mentre ai loro concittadini restano le briciole.

 

Quali risultati?

Bisogna precisarlo: Nkrumah, Nyerere, Touré e gli altri leader della loro generazione, con tutta probabilità, erano (almeno all’inizio) in buona fede. Probabilmente, prima che subentrasse l’attaccamento agli agi ed ai vantaggi del potere, erano sinceramente spinti dal desiderio di aiutare i loro concittadini e migliorare i loro Paesi d’origine. Ma, come diceva Karl Marx stesso, la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni.

La Tanzania, quando Julius Nyerere salì al potere, aveva un PIL paragonabile a quello della Corea del Sud di allora. Negli anni seguenti, la fallimentare collettivizzazione dell’agricoltura, imposta secondo i principi della Ujamaa, ha condannato il Paese a decenni di stagnazione economica[7]. Oggi, la Tanzania è uno dei Paesi africani più poveri.

In Ghana, quasi tutte le imprese nazionalizzate dal governo di Nkrumah fallirono sotto il peso della corruzione e della gestione inefficiente[8], il che portò l’economia del Paese al collasso. Alla fine, Nkrumah stesso venne deposto.

Lo Zimbabwe, un tempo noto come “il granaio dell’Africa”, sprofondò in una grave crisi alimentare quando Robert Mugabe espropriò le terre dei contadini bianchi (che vennero espulsi dal Paese) per ridistribuirle fra i suoi sostenitori (che di agricoltura ne sapevano poco o niente)[9].

Quando i leader che hanno fatto la storia del socialismo africano salirono al potere, ai loro concittadini promisero indipendenza, prosperità e progresso. Invece, quando se ne sono andati, hanno lasciato loro in eredità Paesi dipendenti dagli aiuti internazionali, caduti in miseria e con poche prospettive per il futuro.

 

Quale futuro per l’Africa?

Quando (o meglio, se) i Paesi devastati dal socialismo africano riusciranno a recuperare decenni di sviluppo perduti, è impossibile dire con certezza. Tuttavia, ci sono segnali incoraggianti.

Innanzitutto, fra il 1996 ed il 2016, il numero di Paesi africani dichiaratamente socialisti è calato drasticamente, mentre il grado di libertà economica è aumentato in tutto il continente (da 5.1 su 10 a 6.15 su 10, secondo il Fraser Institute)[10]. Tutto questo soprattutto perché, dopo il crollo dell’URSS, i regimi socialisti in Africa hanno perso gli aiuti economici sovietici, crollando a loro volta.

Gli effetti benefici della liberalizzazione dell’economia non hanno tardato a manifestarsi: negli ultimi vent’anni, nell’Africa subsahariana, il PIL è triplicato (quello per capita è raddoppiato), la mortalità infantile si è dimezzata e la vita media si è allungata di dieci anni[11].

Una nuova era per l’Africa, di vera prosperità e di vera pace, potrebbe essere aperta dalla nascita dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA). Si tratta di un’area di libero scambio creata nel 2018 che, ad oggi, comprende 29 dei 55 membri dell’Unione Africana.

Secondo le stime dell’ONU, l’AfCFTA potrebbe potenzialmente incrementare di oltre il 50% il commercio fra i diversi Paesi africani in soli pochi anni, generando ricchezza che andrebbe a sollevare dalla povertà estrema milioni di africani[12].

Naturalmente, niente è scolpito nella pietra. Il 21esimo secolo potrebbe essere il secolo della riscossa dell’Africa, in cui i danni inflitti dal colonialismo e dal socialismo verranno superati ed il continente potrà finalmente relazionarsi da pari a pari con il resto del mondo, come si sperava già nel 1960.

Oppure, al contrario, i progressi degli ultimi vent’anni potrebbero essere solo temporanei, e questo sarà il secolo in cui si compirà la tragedia finale dell’Africa, un continente reso sterile dalla sua stessa mentalità collettivista.

Una sola cosa è certa: qualsiasi sarà il futuro dell’Africa, esso è nelle mani degli africani. Nelle mani dei suoi politici, che dovranno essere lungimiranti. Nelle mani dei suoi imprenditori, che dovranno affrontare mille ostacoli per riportare la prosperità. Nelle mani dei suoi elettori, che non dovranno ripetere gli stessi errori già ripetuti ormai fin troppe volte.

[1]https://www.africanliberty.org/2019/03/14/how-socialism-destroyed-africa/

[2][3][4][5]https://youtu.be/ZUBXW6SjuQA

[6]https://www.britannica.com/topic/African-socialism

[7][8]https://mises.org/wire/africas-socialism-keeping-it-poor

[9]https://youtu.be/XB9vMcMXs6s

[10][11][12]https://fee.org/articles/what-can-we-expect-from-africa-in-the-2020s/

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Intervista a Giancristiano Desiderio

Per il blog dell’Istituto Liberale ho avuto il piacevole compito di intervistare Giancristiano Desiderio, scrittore e giornalista campano, che ha da poco pubblicato un interessante saggio dal titolo “Croce ed Einaudi. Teoria e pratica del liberalismo”, edito da Rubbettino.

Partendo da quest’opera cercheremo poi di allargare il nostro sguardo su tematiche che il Prof. Desiderio ha dimostrato di avere a cuore e che toccano da vicino la sensibilità dei liberali. Infine, ci soffermeremo su alcuni aspetti filosofici del liberalismo di Benedetto Croce, punto di riferimento del nostro autore, confrontati con quelli di un altro grande pensatore liberale del Novecento.

Prof. Desiderio, il suo libro dà una lettura nuova e per così dire “conciliante” di quello che lei chiama discussione e non polemica tra Croce ed Einaudi. Ci spiega cosa l’ha spinta a soffermarsi su un tema già così ampiamente dibattuto in passato?

Sì, è vero: quando si parla di Croce ed Einaudi si nomina sempre la loro polemica e si sottolinea il momento del disaccordo piuttosto che la loro intesa. E’ probabile che ciò dipenda dalla storia politica del liberalismo italiano.

Infatti, se si leggono direttamente le fonti, ossia gli scritti dei due grandi uomini di pensiero e di azione, si potrà constatare che il filosofo e l’economista discussero con l’evidente intenzione di intendersi a partire da un problema comune: la difesa della libertà dalla mentalità autoritaria e totalitaria dei tempi che vivevano e contro la quale lottavano.

In realtà, io non do una lettura accademica del rapporto tra Croce ed Einaudi e privilegio il problema della loro discussione. Si può notare, inoltre, che mentre l’amicizia tra Croce e Gentile porterà a incomprensioni e inimicizia, la collaborazione tra Croce ed Einaudi ci consegna una vera cultura della libertà di cui il nostro Paese oggi ha un disperato bisogno.

Il sito che pubblicherà questa intervista ha un’impostazione liberista, per la quale le libertà economiche rappresentano un presupposto fondamentale per la libertà “tout court”. Ci può chiarire il ruolo del liberismo nella concezione di Benedetto Croce? Perché ritiene scorretto riscontrare in questa visione un’apertura allo statalismo?

Il problema di Croce era questo: pensare la libertà con la libertà stessa per non farla dipendere né da un’economia, né da uno Stato, né da una chiesa, né da un partito. La sua “religione della libertà” è proprio questo: la libertà come fondamento della storia umana.

La critica che muove al liberismo è la critica che muove a chi pensa lo stesso liberismo non come scienza economica o azione utile ma come sistema morale. Ciò che Croce vuole evitare, e Einaudi esprime il suo accordo, è una sorta di marxismo capovolto.

Croce, del resto, è il pensatore dell’Utile e non potrebbe mai pensare ad una soppressione del pensiero economico che, invece, si limita a concepire nella sua distinzione. La “religione della libertà” è l’inverso dello statalismo e funziona come una messa in fuorigioco o di decostruzione della mentalità totalitaria.

Lei ricostruisce nel suo libro il rapporto di reciproca stima e fratellanza tra Croce ed Einaudi, quasi a sottolineare i notevoli punti di convergenza rispetto a quelli di divisione. Entrambi inoltre si impegnarono attivamente per la ricostituzione del Partito Liberale. Guardando alla realtà di oggi, non pensa che l’Italia abbia dimenticato la lezione e l’esempio di questi due grandi uomini?

Einaudi e Croce collaborarono tanto sul piano della conoscenza e dello schiarimento dei concetti di liberismo e liberalismo quanto sul piano dell’azione e della rifondazione politica del partito liberale. Che la cultura italiana abbia dimenticato la loro lezione è indubbio: in Italia prevale una mentalità statalista sia nella vita economica che in quella culturale e morale.

Sia per Croce che per Einaudi la cultura era indipendente ed autonoma rispetto alla sfera dello Stato. Einaudi arrivò a non votare l’articolo 33 della Costituzione che prevede l’esame di Stato e Croce è il maggior rappresentante della cultura libera ossia non organizzata in istituzioni. In fondo, si tratta di due eretici a tutti gli effetti soprattutto perché furono non solo antifascisti ma anche anticomunisti.

Personalmente consiglio a tutti la lettura della sua opera, specialmente a giovani liberali (e non liberali naturalmente) che vogliono approfondire le motivazioni etiche del liberalismo, le quali prevalgono in entrambi i protagonisti del Suo libro.

Per chi volesse approfondire segnaliamo inoltre l’ultimissima fatica del nostro autore “Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce II.  Parega e Paralipomena”, edito da Aras, secondo volume della biografia di Benedetto Croce.

Ma veniamo ora a un’ altra opera che lei ha pubblicato qualche anno fa e che proprio in questi giorni di emergenza coronavirus appare di stringente attualità: “L’individualismo statalista. La vera religione degli italiani”. Ci può spiegare in breve la Sua tesi e se eventualmente crede che questo atteggiamento sia riscontrabile anche nella maniera in cui l’Italia ha affrontato il COVID-19?

La tesi è semplice: nella cultura italiana il cattolicesimo e il comunismo hanno toccato l’anima più profonda degli Italiani perché hanno offerto l’idea che lo Stato possa essere una sorta di istituzione salvifica che chiede l’anima per salvare il corpo. Ma si tratta di uno scambio illecito perché Parigi non vale e non può valere una messa.

Se si è disposti a fare questo scambio ci si priva degli anticorpi necessari – la cultura, il pensiero, il giudizio, la conoscenza, la storia, la scienza – per limitare il potere e si coltiva l’idea perversa di usarlo indebitamente per i propri fini.

Si tratta di miopia perché non solo non si ottengono vantaggi propri ma si corrompe anche lo stesso potere statale che così risulterà assente nel momento della necessità. Non è forse accaduto proprio questo nell’esperienza tragica dell’epidemia del Covid-19?

Un altro tema che da sempre La appassiona è quello della scuola e dell’istruzione. Ci spiega il suo punto di vista sul sistema educativo italiano?  Quale deve essere a Suo parere la principale preoccupazione di un liberale nell’affrontare il tema della scuola?

Se si vuole capire qualcosa della crisi irreversibile della scuola italiana è necessario rivolgersi alla cultura liberale. Luigi Einaudi sapeva molto bene che la riforma più importante da fare era l’abolizione del valore legale dei titoli di studio per ridare nuovamente valore proprio allo studio, alla scuola, all’università.

Il valore legale del diploma e della laurea sono un autentico veleno che è stato immesso nel sistema dell’istruzione. Quando nel 1969 si uscì dal sistema della scuola di Gentile rimase in piedi proprio il valore legale del diploma che indirizzò, come una sorta di bussola nascosta, la scuola di massa.

Oggi è necessario ripensare la storia della scuola italiana. Se lo si facesse si vedrebbe che non c’è altro da fare che passare dal modello della “scuola di Stato” al modello della “scuola libera”. La differenza è chiara: mentre il primo modello, con il valore legale dei titoli di studio ossia con il monopolio, vieta il secondo modello, il secondo modello ossia la scuola libera non elimina il primo ossia la scuola di Stato.

La riforma da fare, dunque, è nei fatti stessi, è un’esigenza della stessa storia della scuola italiana. Inoltre è anche, come si dice, a costo zero! Basterebbe sostituire gli esami di licenza con gli esami di ammissione e lasciare gli esami di Stato solo come esami extra-scolastici per le abilitazioni. Perché non lo si fa? Per due motivi: per ideologia e per ignoranza.

Per concludere vorrei affrontare un tema più specificatamente filosofico: diversi studiosi hanno riscontrato nell’idea crociana di “accadimento” una sostanziale affinità con l’idea hayekiana di “ordine spontaneo”. Lei concorda? E sempre restando su Hayek, l’austriaco individua nell’abuso della conoscenza, ovvero nella “presunzione fatale” di possedere un sapere superiore e totale sulla realtà, la causa delle maggiori tendenze illiberali e totalitarie. Lei ritiene che anche in questo si riscontra un’importante affinità con i presupposti gnoseologici del pensiero di Benedetto Croce?

Le affinità tra Croce ed Hayek sono molte e sono giustificate soprattutto dalla cultura storica. L’accadimento non è il frutto di un progetto o di una conoscenza elaborata da una mente o da un professore o da un computer ma è il risultato delle libere azioni degli uomini che nessuna conoscenza può predeterminare.

Le forme di totalitarismo sono sempre il frutto di un abuso della conoscenza con cui si tenta di giustificare il potere. La filosofia di Croce è per sua intima natura anti-totalitaria perché la sola forma di conoscenza umana è semplicemente il giudizio storico.

Perché alla fine dei conti il potere va limitato? Perché nessuna conoscenza può giustificare un potere senza limiti. Ma è proprio quanto cercano di fare le ideologie che ritengono di possedere una conoscenza straordinaria con la quale, come diceva Marx, risolvere l’enigma della storia. Con questa presunzione fatale negano la libertà per garantire sicurezza. Ma è un inganno perché se si nega la libertà non si avrà mai sicurezza. La classica trappola per topi.