Guerra dei dazi: attacco al mercato o lotta al comunismo?

Premessa:

Il punto di questo articolo non è difendere il protezionismo come strumento di politica commerciale. Da un lato puramente economico, i dazi e le barriere all’importazione sono sempre una cattiva idea; in vero questo articolo non ha lo scopo di promuovere pratiche protezioniste ed in nessun caso le associa all’ideologia liberale; tuttavia si vuole constatare in quale misura questo strumento possa dimostrarsi efficace o meno in quanto deterrente diplomatico, verificandone i metodi di utilizzo come arma di negoziazione.

Perché in questo caso, la guerra commerciale potrebbe non essere una cattiva idea?

Gli argomenti a favore della guerra commerciale di Trump contro la Cina sono fondamentalmente 2:

  1. In primo luogo, la Cina adotta da anni tutta una serie di pratiche commerciali abusive, ed in generale ha infranto a più riprese le regole commercio internazionale stabilite dal WTO;
  2. In secondo luogo, ci sarebbero ragioni più di carattere ideologico, legate ad esempio alla lotta al comunismo, molto in stile Reagan.

Politica commerciale cinese, cosa non va?

Sono ormai molti anni che la Cina mantiene un modello economico ibrido tra socialismo e capitalismo, da loro stessi definito “socialismo con caratteristiche cinesi” che in realtà non è nient’altro che un modello di dittatura mercantilista in puro stile fascista.

Questo fatto è stato finora abbastanza ignorato, poiché la Cina garantiva un alto tasso di crescita e quindi una alta attrattività degli investimenti, nonostante tutti i problemi che il loro modello di crescita chiaramente comporti.

Nell’ultimo periodo tuttavia, il consenso sul fatto che le pratiche commerciali cinesi siano un problema sta notevolmente crescendo sia a Washington sia all’interno della World Trade Organization (WTO), l’organizzazione mondiale del commercio che si occupa appunto di stabilire le regole del commercio internazionale.

Dal 2004 al 2018, gli States hanno presentato al WTO 41 denunce contro la Cina. Questo sta a significare che il problema della politica commerciale cinese non è un problema recente, ma bensì un problema ormai di lunga data.

Quali sono quindi i principali abusi della Cina in materia di commercio internazionale?

Ci sono fondamentalmente 2 aree in cui la Cina infrange in maniera più o meno esplicita le regole del WTO. Queste sono:

  1. Le pratiche in materia di rispetto della proprietà intellettuale;
  2. La manipolazione del tipo di cambio.

Ci sarebbero anche molte altre aree da esplorare, tra cui la mancanza di trasparenza della governance cinese, il finanziamento e la crescente collaborazione con vari regimi autoritari (come ad esempio il Venezuelano), oppure i più recenti problemi legati ad Hong Kong.

Ciò nonostante, ci concentreremo solo sui problemi che la stessa amministrazione Trump ha maggiormente denunciato.

Le pratiche cinesi in materia di “Intellectual Property Rights”.

Questa è area è forse il punto più forte delle accuse del governo americano nei confronti della Cina.

Secondo un report del 2018 del “US Trade Representative”, le pratiche abusive in materia di IP avvengono già da lunga data. Già ben prima dell’ingresso della Cina nel WTO nel 2001, il governo cinese avrebbe imposto alle compagnie occidentali che volessero fare business in Cina, di trasferire forzatamente la loro tecnologia alle compagnie cinesi.

Queste pratiche sarebbero poi continuate anche dopo il 2001, con modalità meno esplicite e più sofisticate, come ad esempio attraverso l’obbligo da parte delle compagnie occidentali di formare joint-ventures con partner locali cinesi.

Le compagnie coinvolte in questo tipo di abusi, potrebbero utilizzare il WTO come strumento di risoluzione di questa tipologia di problematiche. Molti abusi non verrebbero tuttavia denunciati, poiché le compagnie coinvolte preferirebbero risolvere questo tipo di faccende in privato, in maniera tale da non rischiare di perdere l’accesso al mercato cinese.

Ci sono stati però, dei casi molto importanti in cui le compagnie si sono invece rivolte al WTO, come ad esempio, nel caso della giapponese “Kawasaki Heavy Industries Ltd.” produttrice del famoso “bullet train”. Questa fu per l’appunto costretta nel 2004 a formare una joint venture con un produttore locale cinese. 7 anni dopo, nel 2011, la Cina avrebbe poi fatto richiesta di un brevetto relativo ad un treno ad alta velocità, che secondo la compagnia giapponese, sarebbe stato copiato dal loro modello originale.

Il fatto che le pratiche cinesi in materia di IP siano un problema, viene confermato da un sondaggio della CNBC di quest’anno, nel quale è stato chiesto a 23 corporations americane se ritenessero di aver subito furti di IP da parte di competitors cinesi. 7 compagnie su 23 hanno confermato di aver subito nell’ultimo anno furti di IP da parte di competitors cinesi.

E quando parliamo di IP, parliamo di una gigantesca porzione del valore delle corporations americane. Basti pensare che circa l’80% del valore delle compagnie che compongono S&P 500 è dato dai cosiddetti “intagile assets”.

Uno studio fatto dalla “Commission on the Theft of American Intellectual Property” ha recentemente stimato che il costo del furto cinese dell’IP americana oscillerebbe tra i 225 e i 600 Miliardi di USD all’anno.

Su questo punto poi, si è espressa persino l’unione Europea, la quale nel 2018 ha presentato una denuncia formale al WTO, argomentando che il governo cinese forzerebbe le compagnie straniere a trasferire la loro IP ai loro rispettivi partner cinesi.

Alcuni liberali, potrebbero asserire che il problema non sussiste realmente, poiché in fin dei conti “Copyright is theft”.

Tuttavia, anche se ritenessimo il copyrighting come una pratica illegittima, molte delle pratiche dal governo cinese relative a questa area resterebbero comunque intollerabili anche dal punto di vista liberale, come ad esempio l’obbligo imposto alle compagnie straniere a cooperare con partner locali cinesi in modo da poterne estrapolare le informazioni tecnologiche.

Le problematiche con la politica monetaria cinese

A livello internazionale il valore della moneta è determinato dal mercato cambiario. Dal 2005 tuttavia, il valore della moneta cinese, il Renminbi, più comunemente chiamato Yaun, non viene determinato dal mercato, ma bensì in maniera unilaterale dal regime monetario cinese. Questo porta a chiedersi se la Cina possa essere catalogata come “currency manipulator”.

Al riguardo ci sono opinioni contrastanti legate principalmente alla definizione di “currency manipulator”, la quale pare essere soggetta ad ampie interpretazioni. Ad essere onesti, queste accuse sono state recentemente dismesse dal Fondo Monetario Internazionale, il quale ha escluso che la Cina rientri all’interno di questa categoria.

Tuttavia, uno studio del “Mosbacher Institute for Trade, Economics, & Public Policy” del 2018, sembra indicare il contrario. In questo studio si evince che la Cina manipola il tipo di cambio in modo da favorire il proprio export nei confronti degli USA.

Nel grafico di seguito, si osservano le fluttuazioni di vari tipi di cambio nominali di diversi paesi in relazione con gli Stati Uniti. Come possiamo notare, il tipo di cambio ha oscillazioni notevoli e molto pronunciate in quasi tutti i paesi osservati, mentre lo Yuan cinese resta sempre molto stabile e lineare. Inoltre, dopo il 2005, il trend dello Yuan è chiaramente in discesa.

Come si può vedere nel grafico successivo, la svalutazione dello Yuan in seguito al 2005 ha notevolmente favorito l’export cinese nei confronti di quello U.S.A., creando un enorme trade-deficit per gli Stati Uniti.

Anche lo stesso Ministro del tesoro statunitense, Steven Mnuchin, pare essere della stessa opinione. A inizio agosto di quest’anno, è stato lui stesso ad accusare apertamente la Cina di “currency manipulation” e a interpellare il Fondo Monetario internazionale per risolvere la questione.

La risposta al quesito se la Cina manipoli effettivamente la propria valuta, potrebbe quindi stare nel mezzo. Seguendo gli standard del IMF, sembrerebbe che la Cina non sia catalogabile come “Currency manipulator”.

Pare indubbio però, che ci sia un forte intervenzionismo monetario da parte della Cina, e anche se questo in realtà rende i prodotti cinesi più economici, beneficiando quindi il consumatore americano, esso crea anche tutta una serie di problematiche per gli stessi produttori americani.

In un contesto di mercato normale, beni e servizi più economici non sarebbero un problema, ma anzi una vera e propria manna dal cielo. In questo caso tuttavia, i prodotti cinesi sono mantenuti artificialmente economici, e ciò comporta uno svantaggio competitivo sleale nei confronti dei produttori americani, pagato tra l’altro dalla popolazione cinese, attraverso l’erosione del valore della propria moneta e di conseguenza attraverso l’erosione del loro potere d’acquisto.

In conclusione, possiamo dire che questo punto è forse il più debole tra quelli menzionati dal governo Trump, ma pare avere comunque una certa validità.

Le ragioni di carattere ideologico

Di seguito, discuteremo la parte forse più “romantica” della vicenda trade war.

Come vedremo di seguito, Donald Trump ha già copiato molteplici aspetti del governo Reagan. E se con la trade war, Donald stesse replicando anche la lotta al comunismo, tanto cara al buon vecchio Ronald?

Stiamo assistendo a un revival dell’era Reagan?

Che Trump sia un grandissimo fan di Reagan è indubbio.

Fin dalla campagna elettorale, con quel “Make american great again”, si capiva la grande ammirazione dell’attuale presidente americano nei confronti della sua controparte degli anni ‘80, tanto amato da noi liberali (e tanto odiato dalla sinistra).

Quali furono i pilastri su cui poggiava l’azione del governo di Ronald Reagan?

I pilastri del governo di Ronald Reagan furono fondamentalmente 3:

  1. Grande stimolo fiscale, attraverso taglio massivo della tassazione (Tax cut);
  2. Deregulation;
  3. Lotta al socialismo/comunismo.

Ci sono similitudini tra l’era Trump e Reagan?

Le similitudini tra i programmi dei due governi sono sorprendenti.

Ripassiamo i punti che abbiamo sopramenzionato:

Per quanto riguarda il tax cut, questo è stato approvato da Trump nel 2017, proprio ad inizio mandato;

Per quanto riguarda la deregulation poi, questo è stato un punto altrettanto importante durante l’ultimo governo: “Abbiamo tagliato 13 leggi per ogni nuova legge creata”, dichiarava lo stesso Trump ad una convention della Heritage Foundation lo scorso luglio.

Per completare il quadro quindi manca solo la lotta al comunismo.

La tesi quindi è:

E se il presidente americano, attraverso la trade war con la Cina, avesse uno scopo che va aldilà della mera parte economica?

Non credo di essere l’unico liberale al quale preoccupi l’ascesa nella scena internazionale di una nazione governata da una dittatura d’ispirazione comunista. Mi viene da pensare quindi, viste le chiare origini liberali dell’attuale presidente americano, che questa preoccupazione possa essere condivisa da egli stesso.

Perché una trade war quindi?

Nell’era Reagan, il focus principale della lotta al comunismo era sul piano militare. La strategia con cui i sovietici cercavano d’influenzare lo scenario internazionale, si basava proprio sulla potenza militare, più che su quella commerciale.

Oggi come oggi, la strategia cinese ha un focus diverso, che punta molto di più ad accrescere la propria potenza e influenza internazionale attraverso la leva commerciale.

Basti vedere ad esempio, la recente “Belt and Road Initiative” (BRI), un piano a livello globale, focalizzato principalmente in investimenti pubblici infrastrutturali, che coinvolge oltre 152 paesi nel mondo.

L’idea del BRI è quella d’incrementare il volume degli scambi commerciali cinesi, ricreando – avvalendosi di una moderna rete di trasporti – la storica via della seta. Di seguito una mappa che spiega i principali collegamenti che il BRI potenzierebbe.

Con un piano d’investimenti pubblici così massivo, possiamo solo immaginare l’immenso numero di rischi ad esso legati.

Perciò, in un periodo dove il fascio-comunismo cinese sta cercando di scalzare gli Stati Uniti dalla scena internazionale, e con esso tutti i principi liberali che gli U.S. rappresentano, la trade war di Trump per colpire al cuore il piano di espansione globale di Pechino, non sembra poi essere del tutto fuori dal mondo.

 

Fonti: