La Thatcher e l’ambiente

Solitamente Margaret Thatcher, specie negli ambienti di sinistra, viene dipinta come una nemica dell’ambientalismo, principalmente a causa di due citazioni note, ossia:

Il riscaldamento globale fornisce un’enorme scusa per il socialismo globale

Un uomo che si trova a 26 anni su un bus può considerarsi un fallimento

 

Se la prima citazione è sicuramente della Baronessa sulla seconda c’è, invece, molta incertezza, sia negli anni sia nell’attribuzione. Ponendo che sia vera, sarebbe comunque chiaramente un riferimento al capitalismo popolare tanto caro a Maggie: nel favorire il possesso individuale, all’epoca, sarebbe stato quasi impensabile non avere un’automobile.

 

Sulla prima citazione, comunque, non possiamo che dare ragione alla lady di ferro: solo pensando alle tanto discusse manifestazioni Fridays for Future abbiamo potuto vedere numerosi slogan anticapitalisti, canzoni come Bella Ciao che, per quanto strutturalmente apolitiche, sono state usate come mezzo politico.

Ormai è palese come i movimenti anticapitalisti usino come grimaldello per le proprie idee la tutela dell’ambiente. Ed è a ciò, non alla tutela dell’ambiente, che la Thatcher si oppose.

Infatti Margaret Thatcher sostenne fermamente, addirittura davanti alle Nazioni Unite, la volontà di salvare il Pianeta ma che, soprattutto, il capitalismo sia perfettamente in grado di farlo. La sua logica è semplice: per attuare misure utili per l’ambiente bisogna avere il benessere per farlo, e solo un sistema economico capitalista lo garantisce.

È necessaria una continua crescita economica per poter pagare la protezione dell’ambiente. Non possiamo saccheggiare il pianeta oggi e lasciare le conseguenze ai nostri figli domani

Margaret Thatcher

I regimi socialisti, infatti, sono tipicamente molto poco interessati all’ambiente e preferiscono raggiungere obiettivi produttivi o la glorificazione dell’ideale.

Chi ha, nel nome dell’ideale, fatto scoppiare una centrale nucleare inquinando mezza Europa? Chi ha prosciugato il lago d’Aral? Chi ha diffuso armi chimiche nell’ambiente? Non qualche cattivone Paese capitalista, ma l’Unione Sovietica.

Tutto ciò per il semplice fatto che al burocrate medio di uno Stato socialista non importa nulla dell’ambiente, ma solo dell’ideologia. A dimostrarlo è, ad esempio, la cittadina di Dzeržinsk, tristemente nota come la più inquinata al mondo a causa delle industrie pesanti sovietiche della zona.

E qui Margaret Thatcher ha ragione: se nel capitalismo ci possono essere problemi ambientali che, comunque, col benessere prodotto si possono provare a risolvere, il comunismo è un disastro economico annunciato e, se tutela l’ambiente, è solo perché fa vivere i propri cittadini in estrema povertà.

Dal Fascismo a Putin, il nostro è vero amore

Mentre in TV e sui social si parlava soltanto di Bibbiano, del figlio di Salvini e dell’assassinio del poliziotto per mano di due americani, sembra che ancora una volta ci si sia dimenticati dello scandalo più importante che non solo dovrebbe causare rabbia e scalpore, ma soprattutto paura: i rapporti tra Italia e Russia

In men che non si dica tutto è stato dimenticato: i finanziamenti illeciti e la felicità nel volto di Putin mentre affermava come i rapporti tra i due paesi proseguissero in modo ottimale. 

Purtroppo l’oblio della memoria in Italia non stupisce. La penisola è piena di cittadini che sostengono senza alcun rimorso (e senza aver studiato la storia, a quanto pare) come Mussolini abbia “fatto anche cose buone”, come dare vita al sistema pensionistico o rendere tutti più ricchi. Queste, naturalmente, sono falsità.

Nessuno sembra ricordare il delitto Matteotti, la repressione della libertà d’espressione e di stampa o la propaganda fascista che inebriava la mente dei bambini con preghiere e lodi al duce. Infatti, esattamente come ai tempi degli Atzechi e degli Egiziani, durante il fascismo il dittatore veniva visto come una sorta di semidio.

Si è totalmente dimenticata anche la povertà di quel periodo causata dalla pessima politica economica del governo fascista. Nessuno parla di come fu introdotta, ad esempio, la tessera del pane o tessera annonaria, che limitava la quantità acquistabile di beni primari (pane, farina, olio) a causa della grandissima crisi.

Così come ci si è dimenticati dell’Italia Fascista, con una rapidità disarmante oggi ci si dimentica della Russia: un regime oligarchico nel quale pochi potenti possiedono ricchezza e potere, mentre al popolo vanno le briciole. 

Le costanti del regime putiniano sono corruzione, dispotismo, repressione e assassinio politico. Non a caso oltre 150 giornalisti, tra cui Alexander Litvinenko, Anna Politkovskaja, Boris Nemcov, Stanislav Markelov, Sergej Magnitskij, sono stati uccisi solamente per aver reso noto il clima che si respira nella nazione che oggi tanto si acclama in Italia.

La Russia, infatti, è una dittatura: come tale, la libertà di espressione, economica e d’informazione sono solo illusorie. Questa Russia in Italia sembra piacere. In fondo, i cittadini italiani vedono Putin come un grandissimo statista che ha portato la Russia alla grandezza.

Ma se ci trovassimo in qualsiasi altro Paese democratico, le reazioni ai rapporti e agli scandali politici italo-russi sarebbero esattamente contrarie dando spazio ad una ferma opposizione politica, culturale e mediatica da parte della società che si rifiuterebbe di trovare affinità con una dittatura oligarchica antidemocratica.

Tutti gli altri Paesi sembrano tenere alla loro libertà politica e sociale, tranne l’Italia. Appena si percepisce l’idea dell’uomo tutto d’un pezzo, austero e potente, si rimane meravigliati; come un bambino di fronte al mago che tira fuori il coniglio dal cilindro.

Sembra sempre emergere quel substrato culturale fascista degli anni ’20 del “ducetto” che guida la nazione, portandola agli albori di un tempo e facendole guadagnare il rispetto dell’intera comunità globale.

Non a caso i partiti politici sovranisti e populisti italiani, nei vari discorsi costituiti da retorica spicciola ed esclamazioni roboanti, inneggiano sempre a “riportare l’Italia come un tempo” quando “i valori venivano rispettati”.

Sembra essere opinione comune che la nazione non tornerebbe a crescere con una ricetta di riforme economiche e sociali quali una diminuzione della tassazione, un maggiore spazio ad aziende private ed imprenditori ed una privatizzazione di tutte quelle realtà semi-pubbliche che ancora oggi sono in piedi grazie alle tasse dei cittadini.

Al contrario, tornerebbe a farlo grazie ad un singolo uomo che, con rigidità e carisma da leader, permetterà (non si sa come e quando) finalmente alla nazione di tornare al mos maiorum di un tempo. Insomma: Caput Mundi e non più fanalino di coda.

Esattamente questa è l’ideologia che oggi predomina in Italia: una visione semi-fascista della realtà dove i cittadini trasferiscono tutti i loro grandi sogni e le loro preoccupazioni ad un singolo uomo, con la speranza che finalmente un giorno faccia diventare l’Italia ricca di cultura, capitale e benessere sociale: in sostanza la nuova Cuccagna del Medioevo.

Ecco perché oggi si adora Putin: perché si amano i dittatori. Ciò che servirebbe è una forte resistenza intellettuale e politica, capace di attuare un’iconoclastia per svegliare il popolo di una nazione che, dopo Mussolini, non ha mai smesso di credere al mito del Duce.

APPROFONDIMENTI BIBLIOGRAFICI

Il Fascismo eterno, Umberto Eco, La nave di Teseo: https://www.amazon.it/fascismo-eterno-Umberto-Eco/dp/8893442418/ref=sr_1_1?adgrpid=58091645688&hvadid=255187445268&hvdev=c&hvlocphy=20520&hvnetw=g&hvpos=1t1&hvqmt=e&hvrand=9964737245923107530&hvtargid=aud-607158361173%3Akwd-402295763479&hydadcr=28428_1717388&keywords=il+fascismo+eterno&qid=1565539330&s=gateway&sr=8-1

21 lezioni per il XXI secolo, Yuval Noah Harari, Bompiani: https://www.amazon.it/lezioni-secolo-Yuval-Noah-Harari/dp/8845297055/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&keywords=21+lezioni+per+il+21esimo+secolo&qid=1565539433&s=gateway&sr=8-1

Perché il Fascismo attira cosi tanto, Ted Talk, Yuval Noah Harari: https://www.youtube.com/watch?v=xHHb7R3kx40

Otto milioni di biciclette. La vita degli italiani nel Ventennio, Romano Bracalini,  Mondadori: https://www.amazon.it/milioni-biciclette-degli-italiani-ventennio/dp/8818032313/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=ÅMÅŽÕÑ&crid=2T9HEFRZN0KP9&keywords=otto+milioni+di+biciclette&qid=1565539691&s=gateway&sprefix=otto+milioni+di%2Caps%2C202&sr=8-1

Putin e gli omicidi politici: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2017/10/18/putin-gli-omicidi-politici/

Il labirinto di Putin. Spie, omicidi e il cuore nero della nuova Russia, Steve Levine, Il Sirente: https://www.amazon.it/labirinto-Putin-omicidi-cuore-Russia/dp/8887847177

Articolo 81: perché ignoriamo il principio di responsabilità?

Se c’è una cosa che da sempre stimola il dibattito politico e istituzionale italiano è la Costituzione. Non esiste partito politico che non si sia forgiato almeno una volta della retorica del celebre articolo 1: “la sovranità appartiene al popolo!” dicono. E fanno bene.

Peccato che spesso – oltre a dimenticare “i limiti e le forme” che la carta traccia – ci si dimentichi che la nostra Costituzione getti anche le basi per una buona condotta fiscale da parte dello Stato.

Quanti di noi hanno mai sentito nominare nei dibattiti dei salotti televisivi italiani l’articolo 81? Quanti di noi conoscono effettivamente cosa rappresenti questo articolo?

Ecco.

Secondo tale articolo:

 

lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico. […] Il contenuto della legge di bilancio, le norme fondamentali e i criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito del complesso delle pubbliche amministrazioni sono stabiliti con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, nel rispetto dei princìpi definiti con legge costituzionale.”

Per Luigi Einaudi «costituisce il baluardo rigoroso ed efficace voluto dal legislatore allo scopo di impedire che si facciano nuove o maggiori spese alla leggera, senza avere prima provveduto alle relative entrate».  

Ma perché è così importante avere un quadro costituzionale ordinato in materia economica? 

Deve essere chiara una cosa. L’ampio grado di discrezionalità che ha guidato la politica economica italiana si è rivelato un disastro. 

La legittimazione dei disavanzi e delle politiche economiche in deficit spending, seguite all’abbandono di una prospettiva costituzionale in materia economica e fiscale hanno condotto alla crescita incontrollata della spesa pubblica e del debito pubblico. Per corroborare questa osservazione basta ricordare come il debito, dopo il definitivo abbandono del principio costituzionale qui discusso, sia passato nell’arco di soli quattro anni (1989-1993) dal 98% del Pil a quasi il 120%.

Ad oggi, la spesa pubblica vale il 47% del Pil del paese e ha toccato la cifra mostruosa di 900 miliardi di euro. Per quanto riguarda il debito pubblico (132% del PIL), invece, siamo preceduti soltanto da USA, Giappone e Francia (parlando in termini numerici e non in rapporto al Pil, che per i suddetti stati è maggiore di quello italiano, ndr).

La possibilità da parte dello Stato di spendere a credito, nota argutamente Antonio Martino, aggiunge un altro metodo di “finanziamento” delle spese a quelli ortodossi ed ostacola la valutazione del costo effettivo delle decisioni di spesa. 

Le conseguenze drammatiche sono il drastico aumento della spesa pubblica «irrazionale» e delle asimmetrie nella percezione di costi e benefici della suddetta.  Aumenta quindi l’incentivo a spalmare i benefici su un ristretto gruppo di cittadini a scapito dell’intera collettività. 

Così facendo, infatti, si evitano tensioni interne grazie alle pressioni dei pochi grandi beneficiari e alla consistente negligenza di una collettività danneggiata da oneri di dimensioni ridotte. 

Ricordando un celebre pamphlet di Bastiat, poi, la seconda asimmetria è causata dal rapporto tra i benefici visibili (ciò che si vede, direbbe il filosofo) e i costi invisibili (ciò che non si vede, poiché non avvertiti direttamente dalla collettività).

La mancanza di una prospettiva costituzionale in maniera fiscale, inoltre, è anche la causa della preoccupante e costante instabilità politica del nostro Paese. 

Ogni governo dura in media 10 mesi, e alle prospettive di una breve vita si affianca la necessità di produrre un beneficio immediato a scapito della collettività del domani. Il deficit spending, insomma il modus operandi di chi ritiene come Keynes che “nel lungo periodo saremo tutti morti”, si traduce praticamente in una imposta sulla collettività del futuro.

E per cosa? Per rallentare ulteriormente la crescita della spesa privata produttiva.

Il disavanzo pubblico sottrae di fatto fondi all’investimento privato (i cittadini che richiedono un prestito sanno di doverlo ripagare, di conseguenza cercheranno di investire i capitali nella maniera migliore) per indirizzarli al consumo, dissipando la capacità produttiva del paese intero.

Le numerose spese per trasferimenti e per gli investimenti delle aziende passive pubbliche, infatti, non apportano nessun miglioramento alla produttività nazionale. Senza considerare poi il rallentamento degli investimenti causato dalla paura dell’aggiunta in futuro di imposte per ripagare il debito spropositato o i relativi e sempre crescenti interessi (proprio quelli che i cultori dell’avanzo primario italiano ignorano).

È così importante, dunque, che i governi seguano una rigida disciplina fiscale e che non si lascino guidare dalla discrezionalità? Decisamente. 

Solo in questo modo, attraverso una norma costituzionale e un vincolo all’arbitrio nelle decisioni di spesa, ci si può aspettare di creare una finanza e un governo responsabili.

Cinque ragioni per preferire il sistema pensionistico a capitalizzazione

Oggi il sistema pensionistico in Italia, così come nella gran parte del mondo, è a ripartizione: chi lavora oggi paga per chi è pensionato oggi. Il sistema funzionava bene quando venne creato: la gente non viveva a lungo, quindi c’erano tantissimi lavoratori che potevano pagare la pensione ai pochi anziani in vita.

Oggi le cose sono cambiate: per ogni pensionato ci sono solo 1,4 lavoratori. E infatti il sistema pensionistico a ripartizione fa sempre più acqua da tutte le parti: tra riforme contabili come quella Fornero (che non è una riforma liberista, è una semplice riforma contabile) e aumenti sempre più necessari dell’età pensionabile, che sono tuttavia avversati dalla classe politica, il sistema va in buona parte a debito. Per capirci, in Italia spendiamo 280 miliardi l’anno in pensioni. Un po’ meno della metà, 110 miliardi, viene dalla fiscalità generale.

Ma esiste un’alternativa? Certo, il sistema a capitalizzazione individuale. In questo sistema la pensione non è altro che un investimento sicuro, garantito e a lungo termine che il lavoratore fa: quando arriva l’età pensionabile può disporre dei propri soldi o acquistare con essi un’assicurazione a vita. Lo Stato non si occuperebbe di tutti ma solamente degli indigenti.

E quali sarebbero i principali vantaggi? Vediamone cinque.

Sono soldi vostri

Nell’attuale sistema i soldi della vostra pensione non sono vostri. Se non avete risparmi e contate solo sulla pensione state, in sostanza, vivendo di un qualcosa che traballa fortemente.

I soldi che mettete in un fondo pensione sono, invece, vostri. Hanno chiaramente alcuni vincoli ma sono soldi vostri. Non dipendete da nessuno, se non da voi stessi, dal vostro impegno e da ciò che avete messo via.

Creano lavoro e valore

I soldi attualmente spesi in pensioni sono solitamente a basso rendimento: i pensionati di solito spendono poco e conservano molto.

In un sistema a capitalizzazione, invece, i soldi difficilmente verrebbero lasciati fermi: Verrebbero investiti, in modo da farli aumentare. E, spesso, gli investimenti creano lavoro e valore.

Increduli? In Cile i risparmi pensionistici costituiscono il 20% del PIL, arrivando in certi momenti della storia cilena al 70%, e hanno fornito molto denaro utile, assieme alle riforme liberiste, per passare da povero paese a Stato più ricco del Sudamerica.

I politici non possono giocarci

I pensionati sono, forse, la lobby elettorale più forte di questo Paese: non c’è un singolo partito in Parlamento che non moduli le proprie proposte con particolare riguardo per questa categoria.

I pensionati devono la propria ricchezza allo Stato e, di media, come ogni persona ne vogliono di più. Solo che questo volerne di più qualcuno lo pagherà, e questo qualcuno è chi paga le tasse e lavora.

Come già detto nel sistema a capitalizzazione i soldi sono i vostri: avete risparmiato molto? Avrete una pensione più alta. Avete comperato una casa bella risparmiando sui contributi? Avrete una pensione più bassa e, in caso, una casa da vendere. Avete speso tutto al bingo e avete una pensione appena appena sufficiente a vivere? Affaracci vostri.

Sia chiaro, non è che la pensione a capitalizzazione impedisce di comperarsi i voti di chicchessia. Rende, però, più difficile farlo.

Più libertà di scelta

La concorrenza porta a libertà di scelta. Oggi che il sistema pensionistico è uno e statale non c’è flessibilità: si va in pensione tutti allo stesso modo e, al massimo, c’è qualche finestra di prepensionamento.

Ma se c’è concorrenza i fondi pensione dovranno fare qualcosa per accaparrarsi la clientela. E ciò vorrà dire provare ad offrire tassi d’interesse migliore, consulenze buone e puntuali, informazioni e app migliori ma soprattutto più opzioni.

Immaginate prenotare un appuntamento col proprio consulente INPS per cambiare il proprio regime pensionistico con uno più fruttifero, ma un pelo più rischioso, e nel mentre annunciare di voler ridurre il contributo per qualche anno per poter pagare una casa più grande scegliendo di investire meno su un dato servizio accessorio (reversibilità se il fondo non è più ereditabile o contributo a spese sanitarie, per esempio). Impensabile, no? In fin dei conti, il sistema INPS è “uno e indivisibile”, paghi quello che ti dicono e ricevi ciò che ti dicono.

Ma in un sistema che dà libertà di scelta chi sceglierebbe un fondo così rigido? Nessuno. Quindi la situazione che ho descritto, che applicata all’INPS causerebbe quasi ilarità, è decisamente possibile in un sistema a capitalizzazione.

Altro punto è la possibilità di lavorare liberamente nel mondo: Se l’Europa Unita scegliesse tale modello non sarebbe più un problema lavorare un anno in Italia, tre in Slovacchia, due in Austria e sei mesi in Germania: ciò che versate non deve fare giri complicati tra le varie agenzie nazionali ma sarà versato direttamente nel vostro conto, dove frutterà.

È più semplice avere una pensione

In un sistema privato è più semplice avere una pensione. Pensate ad uno scenario relativamente comune, anche se ultimamente meno diffuso rispetto al passato: una donna che, lavorando, si sposa e quando nasce il primo figlio lascia il lavoro. Ha versato alcuni anni di contributi, ma se smette di contribuire perderà quegli anni. Sembra un ricatto e, in effetti, lo è.

E pensiamo che, sfortuna voglia, questa donna che ha lasciato il lavoro a 30 anni continui a versare e a 65, il giorno della prima pensione venga tirata sotto da un’auto e muoia: ha perso tutti i soldi versati.

In un sistema a capitalizzazione ciò non succederebbe, essendo i soldi della donna: potrebbe ritirarli o continuare a versare una somma ridotta fino ad ottenere una pensione ridotta per integrare quella del marito.

Idem vale per gli universitari: invece di una complicata procedura di riscatto possono semplicemente aprire il proprio conto, versarci qualche soldo ogni mese – prendendolo dalle mance o da qualche prestazione occasionale – per avere già qualche soldo via quando inizierà a lavorare e a versare completamente.

Sia chiaro, si può fare già oggi, ma è un sistema complementare rispetto a quello ufficiale, che resta ingessato dallo statalismo (e che obbliga ad versare comunque una parte consistente del reddito personale – ndr). Perché mantenere questi limiti, allora?

Guerra dei dazi: attacco al mercato o lotta al comunismo?

Premessa:

Il punto di questo articolo non è difendere il protezionismo come strumento di politica commerciale. Da un lato puramente economico, i dazi e le barriere all’importazione sono sempre una cattiva idea; in vero questo articolo non ha lo scopo di promuovere pratiche protezioniste ed in nessun caso le associa all’ideologia liberale; tuttavia si vuole constatare in quale misura questo strumento possa dimostrarsi efficace o meno in quanto deterrente diplomatico, verificandone i metodi di utilizzo come arma di negoziazione.

Perché in questo caso, la guerra commerciale potrebbe non essere una cattiva idea?

Gli argomenti a favore della guerra commerciale di Trump contro la Cina sono fondamentalmente 2:

  1. In primo luogo, la Cina adotta da anni tutta una serie di pratiche commerciali abusive, ed in generale ha infranto a più riprese le regole commercio internazionale stabilite dal WTO;
  2. In secondo luogo, ci sarebbero ragioni più di carattere ideologico, legate ad esempio alla lotta al comunismo, molto in stile Reagan.

Politica commerciale cinese, cosa non va?

Sono ormai molti anni che la Cina mantiene un modello economico ibrido tra socialismo e capitalismo, da loro stessi definito “socialismo con caratteristiche cinesi” che in realtà non è nient’altro che un modello di dittatura mercantilista in puro stile fascista.

Questo fatto è stato finora abbastanza ignorato, poiché la Cina garantiva un alto tasso di crescita e quindi una alta attrattività degli investimenti, nonostante tutti i problemi che il loro modello di crescita chiaramente comporti.

Nell’ultimo periodo tuttavia, il consenso sul fatto che le pratiche commerciali cinesi siano un problema sta notevolmente crescendo sia a Washington sia all’interno della World Trade Organization (WTO), l’organizzazione mondiale del commercio che si occupa appunto di stabilire le regole del commercio internazionale.

Dal 2004 al 2018, gli States hanno presentato al WTO 41 denunce contro la Cina. Questo sta a significare che il problema della politica commerciale cinese non è un problema recente, ma bensì un problema ormai di lunga data.

Quali sono quindi i principali abusi della Cina in materia di commercio internazionale?

Ci sono fondamentalmente 2 aree in cui la Cina infrange in maniera più o meno esplicita le regole del WTO. Queste sono:

  1. Le pratiche in materia di rispetto della proprietà intellettuale;
  2. La manipolazione del tipo di cambio.

Ci sarebbero anche molte altre aree da esplorare, tra cui la mancanza di trasparenza della governance cinese, il finanziamento e la crescente collaborazione con vari regimi autoritari (come ad esempio il Venezuelano), oppure i più recenti problemi legati ad Hong Kong.

Ciò nonostante, ci concentreremo solo sui problemi che la stessa amministrazione Trump ha maggiormente denunciato.

Le pratiche cinesi in materia di “Intellectual Property Rights”.

Questa è area è forse il punto più forte delle accuse del governo americano nei confronti della Cina.

Secondo un report del 2018 del “US Trade Representative”, le pratiche abusive in materia di IP avvengono già da lunga data. Già ben prima dell’ingresso della Cina nel WTO nel 2001, il governo cinese avrebbe imposto alle compagnie occidentali che volessero fare business in Cina, di trasferire forzatamente la loro tecnologia alle compagnie cinesi.

Queste pratiche sarebbero poi continuate anche dopo il 2001, con modalità meno esplicite e più sofisticate, come ad esempio attraverso l’obbligo da parte delle compagnie occidentali di formare joint-ventures con partner locali cinesi.

Le compagnie coinvolte in questo tipo di abusi, potrebbero utilizzare il WTO come strumento di risoluzione di questa tipologia di problematiche. Molti abusi non verrebbero tuttavia denunciati, poiché le compagnie coinvolte preferirebbero risolvere questo tipo di faccende in privato, in maniera tale da non rischiare di perdere l’accesso al mercato cinese.

Ci sono stati però, dei casi molto importanti in cui le compagnie si sono invece rivolte al WTO, come ad esempio, nel caso della giapponese “Kawasaki Heavy Industries Ltd.” produttrice del famoso “bullet train”. Questa fu per l’appunto costretta nel 2004 a formare una joint venture con un produttore locale cinese. 7 anni dopo, nel 2011, la Cina avrebbe poi fatto richiesta di un brevetto relativo ad un treno ad alta velocità, che secondo la compagnia giapponese, sarebbe stato copiato dal loro modello originale.

Il fatto che le pratiche cinesi in materia di IP siano un problema, viene confermato da un sondaggio della CNBC di quest’anno, nel quale è stato chiesto a 23 corporations americane se ritenessero di aver subito furti di IP da parte di competitors cinesi. 7 compagnie su 23 hanno confermato di aver subito nell’ultimo anno furti di IP da parte di competitors cinesi.

E quando parliamo di IP, parliamo di una gigantesca porzione del valore delle corporations americane. Basti pensare che circa l’80% del valore delle compagnie che compongono S&P 500 è dato dai cosiddetti “intagile assets”.

Uno studio fatto dalla “Commission on the Theft of American Intellectual Property” ha recentemente stimato che il costo del furto cinese dell’IP americana oscillerebbe tra i 225 e i 600 Miliardi di USD all’anno.

Su questo punto poi, si è espressa persino l’unione Europea, la quale nel 2018 ha presentato una denuncia formale al WTO, argomentando che il governo cinese forzerebbe le compagnie straniere a trasferire la loro IP ai loro rispettivi partner cinesi.

Alcuni liberali, potrebbero asserire che il problema non sussiste realmente, poiché in fin dei conti “Copyright is theft”.

Tuttavia, anche se ritenessimo il copyrighting come una pratica illegittima, molte delle pratiche dal governo cinese relative a questa area resterebbero comunque intollerabili anche dal punto di vista liberale, come ad esempio l’obbligo imposto alle compagnie straniere a cooperare con partner locali cinesi in modo da poterne estrapolare le informazioni tecnologiche.

Le problematiche con la politica monetaria cinese

A livello internazionale il valore della moneta è determinato dal mercato cambiario. Dal 2005 tuttavia, il valore della moneta cinese, il Renminbi, più comunemente chiamato Yaun, non viene determinato dal mercato, ma bensì in maniera unilaterale dal regime monetario cinese. Questo porta a chiedersi se la Cina possa essere catalogata come “currency manipulator”.

Al riguardo ci sono opinioni contrastanti legate principalmente alla definizione di “currency manipulator”, la quale pare essere soggetta ad ampie interpretazioni. Ad essere onesti, queste accuse sono state recentemente dismesse dal Fondo Monetario Internazionale, il quale ha escluso che la Cina rientri all’interno di questa categoria.

Tuttavia, uno studio del “Mosbacher Institute for Trade, Economics, & Public Policy” del 2018, sembra indicare il contrario. In questo studio si evince che la Cina manipola il tipo di cambio in modo da favorire il proprio export nei confronti degli USA.

Nel grafico di seguito, si osservano le fluttuazioni di vari tipi di cambio nominali di diversi paesi in relazione con gli Stati Uniti. Come possiamo notare, il tipo di cambio ha oscillazioni notevoli e molto pronunciate in quasi tutti i paesi osservati, mentre lo Yuan cinese resta sempre molto stabile e lineare. Inoltre, dopo il 2005, il trend dello Yuan è chiaramente in discesa.

Come si può vedere nel grafico successivo, la svalutazione dello Yuan in seguito al 2005 ha notevolmente favorito l’export cinese nei confronti di quello U.S.A., creando un enorme trade-deficit per gli Stati Uniti.

Anche lo stesso Ministro del tesoro statunitense, Steven Mnuchin, pare essere della stessa opinione. A inizio agosto di quest’anno, è stato lui stesso ad accusare apertamente la Cina di “currency manipulation” e a interpellare il Fondo Monetario internazionale per risolvere la questione.

La risposta al quesito se la Cina manipoli effettivamente la propria valuta, potrebbe quindi stare nel mezzo. Seguendo gli standard del IMF, sembrerebbe che la Cina non sia catalogabile come “Currency manipulator”.

Pare indubbio però, che ci sia un forte intervenzionismo monetario da parte della Cina, e anche se questo in realtà rende i prodotti cinesi più economici, beneficiando quindi il consumatore americano, esso crea anche tutta una serie di problematiche per gli stessi produttori americani.

In un contesto di mercato normale, beni e servizi più economici non sarebbero un problema, ma anzi una vera e propria manna dal cielo. In questo caso tuttavia, i prodotti cinesi sono mantenuti artificialmente economici, e ciò comporta uno svantaggio competitivo sleale nei confronti dei produttori americani, pagato tra l’altro dalla popolazione cinese, attraverso l’erosione del valore della propria moneta e di conseguenza attraverso l’erosione del loro potere d’acquisto.

In conclusione, possiamo dire che questo punto è forse il più debole tra quelli menzionati dal governo Trump, ma pare avere comunque una certa validità.

Le ragioni di carattere ideologico

Di seguito, discuteremo la parte forse più “romantica” della vicenda trade war.

Come vedremo di seguito, Donald Trump ha già copiato molteplici aspetti del governo Reagan. E se con la trade war, Donald stesse replicando anche la lotta al comunismo, tanto cara al buon vecchio Ronald?

Stiamo assistendo a un revival dell’era Reagan?

Che Trump sia un grandissimo fan di Reagan è indubbio.

Fin dalla campagna elettorale, con quel “Make american great again”, si capiva la grande ammirazione dell’attuale presidente americano nei confronti della sua controparte degli anni ‘80, tanto amato da noi liberali (e tanto odiato dalla sinistra).

Quali furono i pilastri su cui poggiava l’azione del governo di Ronald Reagan?

I pilastri del governo di Ronald Reagan furono fondamentalmente 3:

  1. Grande stimolo fiscale, attraverso taglio massivo della tassazione (Tax cut);
  2. Deregulation;
  3. Lotta al socialismo/comunismo.

Ci sono similitudini tra l’era Trump e Reagan?

Le similitudini tra i programmi dei due governi sono sorprendenti.

Ripassiamo i punti che abbiamo sopramenzionato:

Per quanto riguarda il tax cut, questo è stato approvato da Trump nel 2017, proprio ad inizio mandato;

Per quanto riguarda la deregulation poi, questo è stato un punto altrettanto importante durante l’ultimo governo: “Abbiamo tagliato 13 leggi per ogni nuova legge creata”, dichiarava lo stesso Trump ad una convention della Heritage Foundation lo scorso luglio.

Per completare il quadro quindi manca solo la lotta al comunismo.

La tesi quindi è:

E se il presidente americano, attraverso la trade war con la Cina, avesse uno scopo che va aldilà della mera parte economica?

Non credo di essere l’unico liberale al quale preoccupi l’ascesa nella scena internazionale di una nazione governata da una dittatura d’ispirazione comunista. Mi viene da pensare quindi, viste le chiare origini liberali dell’attuale presidente americano, che questa preoccupazione possa essere condivisa da egli stesso.

Perché una trade war quindi?

Nell’era Reagan, il focus principale della lotta al comunismo era sul piano militare. La strategia con cui i sovietici cercavano d’influenzare lo scenario internazionale, si basava proprio sulla potenza militare, più che su quella commerciale.

Oggi come oggi, la strategia cinese ha un focus diverso, che punta molto di più ad accrescere la propria potenza e influenza internazionale attraverso la leva commerciale.

Basti vedere ad esempio, la recente “Belt and Road Initiative” (BRI), un piano a livello globale, focalizzato principalmente in investimenti pubblici infrastrutturali, che coinvolge oltre 152 paesi nel mondo.

L’idea del BRI è quella d’incrementare il volume degli scambi commerciali cinesi, ricreando – avvalendosi di una moderna rete di trasporti – la storica via della seta. Di seguito una mappa che spiega i principali collegamenti che il BRI potenzierebbe.

Con un piano d’investimenti pubblici così massivo, possiamo solo immaginare l’immenso numero di rischi ad esso legati.

Perciò, in un periodo dove il fascio-comunismo cinese sta cercando di scalzare gli Stati Uniti dalla scena internazionale, e con esso tutti i principi liberali che gli U.S. rappresentano, la trade war di Trump per colpire al cuore il piano di espansione globale di Pechino, non sembra poi essere del tutto fuori dal mondo.

 

Fonti:

 

 

 

Sicurezza: monopolio di Stato o partnership?

Il Presidente Mattarella, nel promulgare la (scarna) riforma della legittima difesa approvata qualche settimana fa in Parlamento, ha inviato un messaggio alle Camere che, in sintesi semplice, difende il primato statale nella sicurezza.

Ma oggi è davvero il modello più efficiente?

A mio parere no. Infatti il modello di Stato unico esercente della sicurezza probabilmente aveva senso anni fa, quando il crimine era cosa più rara, meno violenta e non esisteva un pericolo terrorismo come quello odierno.

Oggi, tuttavia, con una sempre maggiore decentralizzazione, il rischio è che lo Stato non possa garantire nemmeno volendolo, coi fondi che ha, una sicurezza dignitosa. Infatti sono all’ordine del giorno notizie di crimini vari come aggressioni, rapine e furti in casa.

Lo Stato potrà mai difenderci totalmente da ciò? No, perché la totale sicurezza richiederebbe di annichilire totalmente la libertà, come ben disse Benjamin Franklin con la celebre frase “un popolo che sacrifica la libertà per briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza

Totale sicurezza richiederebbe, infatti, una totale presenza dello Stato, in sostanza uno Stato totalitario. Non a caso, oggi, uno degli Stati più sicuri al mondo è la Corea del Nord.

Si può parlare di ragionevole sicurezza che lo Stato può garantire. Ma ha un costo. L’Italia, ad esempio, ha un alto numero di agenti di polizia per abitanti, con un costo elevato, circa 600.000€ l’anno per agente, eppure non offre un servizio di eccellenza.

In effetti, garantire un servizio di polizia in via esclusiva ha una complessità non da poco: devi avere abbastanza agenti in strada, incluse quelle più piccole, per rendere poco appetibile il delinquere;  ma anche abbastanza agenti per indagare sui reati commessi, intervenire in urgenza in caso di necessità e per gestire i detenuti.

Alcuni di questi compiti sono, ovviamente, fattibili solo per una forza dell’ordine organizzata. Ma se vedessimo nei cittadini non dei sudditi che devono essere difesi solo ed esclusivamente dalle forze dell’ordine ma come dei soggetti in grado di difendersi e collaborare con le forze dell’ordine?

In tal modo da monopolio si passerebbe a partnership: La Polizia collabora coi cittadini, ad esempio con corsi di  autodifesa, ed interviene in casi di emergenza e per indagare sui reati.

Ma, come già spiegavo in un altro articolo, non si può fare questo discorso senza parlare di riforma della legge sulle armi.

Alcuni reati, infatti, non si fermano con le belle parole ma con le armi, letali o meno. Un aggressore si ferma con lo spray al peperoncino, un invasore con i proiettili di gomma e un terrorista con un proiettile ben piazzato.

Certo, si possono attendere le forze dell’ordine, ma nel frattempo magari l’aggressione è diventata stupro, l’invasione omicidio e l’irruzione terrorista strage.

Semplicemente: la Polizia deve arrivare e, nel mentre, il cittadino è inerme difronte a banditi illegalmente armati. E un terrorista non ha problemi ad uccidere decine se non centinaia di persone inermi mentre la polizia armata arriva.

L’errore, qui, è confondere la sicurezza collettiva (servizi segreti, ordine pubblico e simile), che è giusto che sia affare di un’entità collettiva come la Polizia, con quella individuale, che non può sempre rispondere ai tempi di un’entità collettiva. È quindi necessario dare gli strumenti all’individuo per difendersi da solo, un concetto ben diverso, sia chiaro, dal farsi giustizia da solo.

Intervista ad Alessandro De Nicola: “I 10 comandamenti dell’economia italiana”

Di recente, il Presidente della Adam Smith Society, l’Avvocato Alessandro De Nicola, e l’economista Carlo Cottarelli, hanno pubblicato il libro “I 10 comandamenti dell’economia italiana” curato insieme ad alcuni altri esperti.

I 10 comandamenti/capitoli e i relativi redattori sono:

I – Spendi meno e, soprattutto, spendi meglio (Carlo Cottarelli)

II – Riforma l’Irpef (Dario Stevanato)

III – Pensioni: Non santificare troppe feste (Giuliano Cazzola)

IV – (Stato) medico, cura te stesso (Paolo Belardinelli e Alberto Mingardi)

V – Per un’ecologia dei social media (Franco Debenedetti)

VI -Non adorare il Vitello d’oro: la strana idolatria italiana dello Stato imprenditore (Alessandro De Nicola)

VII – Trasporti: tassa e spendi meno. Puoi e devi (Marco Ponti e Francesco Ramella)

VIII – Rendi l’università più efficiente (Carlo Scarpa)

IX – Non desiderare la rendita d’altri (Simona Benedettini e Carlo Stagnaro)

X – Ricorda di trasformare banche e finanza dopo la crisi (Giuseppe Lusignani e Marco Onado)

E abbiamo colto l’occasione per porgere qualche domanda all’avvocato De Nicola:

Il libro è a cura sua e del Professore Cottarelli, come vi è venuta l’idea di questo libro?

L’associazione che presiedo, la Adam Smith Society, aveva deciso di patrocinare la pubblicazione di un volume nel 2019 e quindi, visto che Carlo Cottarelli è componente del nostro comitato scientifico abbiamo pensato che potevamo giocare un po’ sul titolo del suo libro precedente, “i 7 vizi capitali dell’economia italiana” ed essere propositivi con i comandamenti.

Qual è l’obiettivo del libro? Chi lo leggerà e chi vorrebbe che lo leggesse e che probabilmente non lo farà?

L’obiettivo è di spiegare in modo accurato e supportato da dati, ma intellegibilmente e con un linguaggio adatto anche a non-specialisti, alcuni dei nodi che attanagliano, per la verità da anni, l’economia e la società italiana.

Penso che un pubblico di professionisti, studenti, docenti, persone in genere interessate alla cosa pubblica italiana possano essere interessati al libro ed i riscontri ad oggi sono positivi. Vorrei che lo leggessero molto di più di quello che forse faranno gli studenti dai 18 ai 22 anni che sono in quell’età in cui cominciano seriamente a preoccuparsi del loro futuro lavorativo e quindi necessariamente anche dell’economia italiana.

Ogni capitolo/comandamento è stato curato da un esperto, fra questi ci sono nomi noti ai liberisti come Lorenzo Infantino (Prefazione) e Alberto Mingardi, Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro dell’Istituto Bruno Leoni. In Italia si ha paura del libero mercato e della concorrenza?

In Italia non si conosce e si ha paura del mercato e della libera concorrenza. Se ne ha consapevolmente timore da parte di tutti coloro i quali godono di rendite di posizione, dagli oligopoli pubblici alle corporazioni più varie, notai, taxisti, farmacisti o concessionari balneari.

Lo temono anche quelli che vogliono quieto vivere, come i sindacati della scuola o di dipendenti pubblici e il loro mantra dell’appiattimento a tutti  i costi. Li temono ideologicamente grillini, e catto-comunisti di varie sfumature.

Lo temono inconsapevolmente coloro i quali ne hanno sempre sentito parlare come di elementi che creano ingiustizia e non maggiore benessere, diffusione della conoscenza, incentivo al merito.

Quale dei problemi da voi analizzati è il più predisposto ad un miglioramento? E quale sembra il più irrimediabile se non in peggioramento?

Probabilmente se si abbandona la follia di quota 100 o la si lascia spirare allo scadere del terzo anno, il sistema pensionistico grazie alla legge Fornero potrebbe non peggiorare. Non ho speranze per la sanità e le privatizzazioni.

Tra i giovani italiani vi è consapevolezza del grande fardello per il futuro costituito dal debito pubblico e da quello pensionistico?

Troppo poca. Anche i giovani pensano che sia tutto illimitato. Se gli si chiede se vogliono il sistema retributivo o contributivo sceglieranno il primo, ma se gli si dice “ma per far questo dovremmo tagliare le attuali pensioni?” rispondono indignati di no. Manca troppo la cultura economica, grazie anche a falsi miti generati da dei cialtroncelli che propagano, ad esempio, la stampa di moneta come panacea per tutti i mali.

Passiamo alla (triste) attualità politica italiana, L’accordo PD-M5S si è dunque concluso: cosa si aspetta dalla manovra economica di ottobre?

Mi aspetto che si eviti l’aumento dell’IVA sopprimendo un po’ di tax expenditures (che vuol dire alzare le tasse), qualche aumento di accise, o di tassazione sui beni (mini patrimoniali random) e un posticipo degli investimenti. Forse si risparmia qualcosa con delle misure su quota 100 e RdC, ma non credo molto.

Alle prossime elezioni, c’è la speranza di vedere un candidato/partito che porti con sé un po’ di liberismo?

Matteo (dice scherzando). Di candidati “forti” veramente liberali (moderatamente liberali ce ne sono alcuni) non ce ne sono.

 

Ringraziamo l’Avvocato De Nicola per la disponibilità e gli auguriamo un grande successo per il libro, che potrete trovare sul capitalistissimo e-commerce Amazon.

Cinque ragioni per abolire la scuola di Stato

“L’istruzione non dovrebbe seguire logiche di mercato, è un bene primario che deve restare sotto il controllo dello Stato”. Quante volte avete sentito questa frase discutendo di privatizzazioni? Beh, io tante, soprattutto perché difendo la libertà di scelta in materia di istruzione da vari anni.

Restando in tema attualità, ho sentito spesso dire che la regionalizzazione della scuola, prevista in alcune iniziali bozze dell’accordo sull’autonomia differenziata tra le Regioni del Nord che hanno fatto richiesta e lo Stato, sarebbe il primo passo verso la privatizzazione definitiva della scuola.

Mi chiedo, dove sarebbe in tutto ciò il problema? Tutti i discorsi pro scuola pubblica e statale sono basati sull’assunto che l’istruzione non sia un qualcosa di mercatizzabile e che quindi debba essere fornita dallo Stato.

Tutto ciò non è, però, semplicemente vero: Il mercato può tranquillamente occuparsi d’istruzione. In realtà già lo fa, solo che chi sceglie di affidarsi ad esso, nella gran parte dei casi, paga due volte: Per l’istruzione statale e per la propria.

Soprattutto, introdurre la concorrenza nell’istruzione non può che avere effetti positivi. In questo articolo vedremo cinque aspetti positivi e, anche, gli aspetti negativi.

Costi minori

Quanto costa istruire uno scolaro, in Italia? Ai genitori, direttamente, poco, ma allo Stato tanto: più di 8’000€ l’anno. Ovviamente finanziati con le imposte generali.

Allora, come mai la scuola privata normale è in grado di fare la medesima cosa con, al massimo, 5’000€? Magari, nel mentre, ottenendo pure un profitto.

Se decidessimo di introdurre un voucher scuola da 5’000€, che è una cifra alta e in linea di massima riducibile, risparmieremmo 23 miliardi ogni anno. Questo è, per capirci, quanto serve ad evitare l’aumento IVA nel 2020.

Starebbe poi alla classe politica decidere come usare quei 23 miliardi: se reinvestirli nella scuola, ridurci il debito o usarli per ridurre le tasse, ma sta di fatto che sprecare 23 miliardi ogni anno non è socialismo, non è attenzione alla giustizia sociale: è semplicemente stupido.

Più libertà di scelta e qualità

La concorrenza, solitamente, crea qualità. Nel caso della scuola la concorrenza può riguardare il metodo didattico, la comunicazione, le risorse, gli orari, il sostegno personale e tanto altro. In un sistema del genere si deve offrire un’istruzione a misura di individuo per ottenere i soldi del voucher.

Esiste quindi una concorrenza che porta l’individuo – lo studente – a beneficiare di una libertà di scelta maggiore: nuovi metodi didattici, orari, disposizione dell’orario didattico, focus su alcune o altre materie, immersione linguistica, scuole comunitarie e tanto altro, cose che persino non possiamo immaginare, visto che in un sistema del genere potenzialmente chiunque può aprire una scuola e provare ad attirare alunni con metodi che ritiene migliori e sarà il mercato, non un burocrate a Roma, a premiarlo.

Un pubblico migliore

Di per sè avere scuole appartenenti ad enti pubblici non è affatto un male, a patto che siano istituite da enti vicini ai cittadini come i comuni o simili. Solo in tal modo, infatti, il cittadino potrà rendersi conto di ciò che sta accadendo e decidere se, ad esempio, vuole assumere più personale o aumentare i sussidi oltre al voucher scuola. Soprattutto, la concorrenza tra comuni renderà la scuola migliore, visto che il pagamento, essendo ad alunno, permette l’accesso anche ad allievi esterni al comune che per una qualche ragione preferiscano istruirsi in tale comune.

Studi mostrano come la scuola pubblica, quando messa in competizione col privato, migliori in qualità. Inoltre, cosa non da ignorare, una scuola ben gestita e di qualità può divenire una fonte di finanziamento per il comune, visto che si può stabilire come l’ente locale abbia il pieno diritto di conservare il voucher anche se spende meno di quanto esso sia.

Più speranza per le minoranze linguistiche

Da lombardofono non posso non parlare di questo aspetto: oggi in Italia quelle poche lingue regionali che hanno la benedizione di Roma non prosperano quando lo Stato interviene ma quando esso se ne sta ben lontano.

Immaginate questa situazione: un sindaco, sostenitore della diversità linguistica, decide di introdurre l’immersione linguistica (se non sapete cosa sia potete leggere questo mio articolo) nella scuola del comune. Inizialmente c’è scetticismo – tanta gente ha pregiudizi sulle lingue regionali per ragioni culturali – ma qualcuno si iscrive ai corsi immersivi.

L’immersione ha effetti positivi: gli studenti immersi hanno una maggiore competenza nella lingua straniera e i genitori dicono che, di media, si mostrano più curiosi. Le iscrizioni aumentano e anche altri comuni creano le loro sezioni immersive.

In pochi anni esistono varie scuole immersive in quella regione, il modello viene anche copiato da altre regioni e diventa più interessante anche per i privati e le istituzioni no profit, ma nel mentre, non essendo intervenuta una coercizione di Stato, continuano ad esistere scuole esclusivamente in lingua italiana per chi ne ha bisogno o le preferisce. Nel caso ve lo stesse chiedendo, un bilinguismo di massa italo-inglese sarebbe molto più arduo. Ma, in tale sistema, potrebbe esistere comunque, essendovi libertà di scelta.

Favorisce la mobilità sociale

La libertà di scelta sulla scuola favorisce la mobilità sociale per un semplice fatto: la scuola italiana, dovendo soddisfare tutti, è per forza di cose mediocre. C’è un occhio di riguardo per chi ha bisogni speciali per disturbi didattici ma nessuno per chi ha necessità particolari per altre ragioni come particolari talenti in altri campi sportivi o scientifici, ben noto è il caso di una geniale ragazza ai massimi livelli nella robotica osteggiata dalla scuola pubblica per le proprie assenze.

Capito? La “scuola di tutti”, da buon prodotto del socialismo, se sei troppo bravo prova a metterti i bastoni tra le ruote. In fin dei conti è ben noto come si impari di più in un austero liceo della città fondata dai lombardi come avamposto contro il Marchese del Monferrato che al MIT.

In un sistema di libertà di scelta ciò non accadrebbe e non accadrebbe non solo per i geni o per chi può permettersi un’istruzione privata ma anche per il figlio dell’operaio che, per una ragione o per l’altra, non si trova con la scuola pubblica.

Un ragazzo che magari oggi, solo per l’ottusità del sistema di scuola statale, andrebbe in qualche istituto regionale a imparare un lavoro pagato in modo mediocre in un sistema di libertà di scelta potrebbe scegliere, senza costi aggiuntivi, un istituto adatto a lui e cercare un’istruzione migliore.

Ma, come dice il sempre brillante Giovanni Adamo II, nel sistema di scuola pubblica il benessere dei docenti è molto più importante di quello degli alunni. Ribadisco, impedire a un giovane di avere una buona istruzione adatta a lui solo perché ha genitori non facoltosi è socialismo, è attenzione all’uguaglianza e alla giustizia sociale? No, è solo crudele.

I difetti?

Ci sono, ovviamente, dei difetti.

Ad esempio i politici non avrebbero più la possibilità di comperare voti di centinaia di migliaia di persone solo promettendo loro concorsi d’assunzione, visto che ad assumere sarebbero i privati o, al massimo, i comuni.

Inoltre sarebbe più difficile fare populismo scolastico, proponendo ad esempio nuove materie o corsi obbligatori con scopi etici o politici più che didattici.

I sindacati dei docenti perderebbero gran parte del proprio potere politico e dovrebbero ridimensionarsi per diventare assistenti dei docenti nella compilazione di documenti, nel rapporto con le istituzioni e col datore di lavoro.

I docenti migliori sarebbero premiati e incentivati a continuare nel loro lavoro visto che docenti migliori portano alunni, e quindi soldi, alle scuole mentre quelli peggiori verrebbero via via esclusi.

Soprattutto, molte più persone potrebbero accedere ad una preparazione scolastica adatta alle proprie esigenze.

Mi dite che non sono difetti ma, anzi, pregi? Sono perfettamente d’accordo con voi. Eppure per gli statalisti a oltranza sono difetti ed ha perfettamente senso buttare 23 miliardi l’anno per un’istruzione che funziona, parafrasando un motto socialista, “per i pochi, non per i molti”.

L’Amazzonia brucia, e non è colpa di Bolsonaro

In questi ultimi giorni i comodi salotti degli ambientalisti d’Europa sono stati agitati e sconvolti da un’allarmante notizia, l’Amazzonia, il “polmone verde del mondo” sta bruciando ad un ritmo preoccupante. I colpevoli? Molti. Quel fascista del presidente brasiliano Bolsonaro, il cambiamento climatico, il capitalismo, il patriarcato bianco eterosessuale, il neoliberismo, la famiglia Rothschild e Donald Trump sono stati tutti avvistati sul luogo del misfatto armati di taniche di benzina e fiammiferi, intenti a bruciare la più grande foresta del mondo per costruire la loro nuova villa con piscina.

L’Amazzonia vista in questi giorni da Brasilia

Ironia a parte, il dibattito sul tema si è subito caratterizzato per il livello di disinformazione totale; e mentre i luoghi comuni piovevano sui social come grandine ad Agosto, chiunque abbia tentato – anche vagamente – di dissentire è stato immediatamente additato come: fascista, nazista, servo del capitale, eccetera. Cos’è dunque che è sfuggito riguardo al delicato problema della deforestazione e degli incendi in Brasile?

È un’emergenza straordinaria?

No.

Secondo i dati della INPE (Istituto Nazionale di Ricerche Spaziali), che da anni monitora l’avanzamento del disboscamento e il numero incendi nell’Amazzonia, il numero di incendi che ha colpito quest’anno l’Amazzonia fino al 27 di agosto è assolutamente nella norma.

Si noti invece il preoccupante picco avvenuto negli anni 2000 – 2007, quando al potere c’era il socialista Lula del Partito dei Lavoratori (stranamente di boicottaggi e attacchi internazionali allora però non se ne videro). In quegli anni il Brasile affrontò davvero una situazione di emergenza nazionale, caratterizzata però da un numero di incendi doppio rispetto al 2019.

Se andiamo ad osservare la serie storica dei dati sul numero di incendi in un anno, i risultati sono simili: il 2019 non si dimostra un anno particolarmente preoccupante, per ora (anche se il picco del numero di incendi si registra tra agosto e settembre). Si noti che i dati sono aggiornati al 27 di agosto 2019, quindi includono tutto il periodo della fantomatica “emergenza”.

Inoltre, potrebbe essere ulteriormente utile andare a confrontare il dato di agosto 2019 con la media del numero di incendi nello stesso periodo, con il massimo e con il minimo.

Come si può vedere, il numero di incendi in Brasile nel mese di agosto 2019 è addirittura inferiore alla media.

Il numero di incendi in Brasile, in particolare in Amazzonia, è tuttavia effettivamente aumentato rispetto all’anno scorso. Questo è innegabile.

Questo aumento, significativo, ma non eccezionale, ha tuttavia una spiegazione scientifica ben precisa, che i canali di informazione mainstream spesso si “dimenticano” di menzionare. Il 2019 è stato caratterizzato dal fenomeno climatico noto come El Niño, ovvero un aumento della temperatura della fascia equatoriale dell’Oceano Pacifico. Tale fenomeno comporta una riduzione delle precipitazioni nel bacino dell’Amazzonia, quindi una maggiore siccità. Di conseguenza la regione diventa molto più sensibile e soggetta ad incendi.

Come si può notare dal grafico, negli ultimi anni in cui si è verificato El Niño (2007, 2010), il numero di incendi è considerevolmente aumentato in Brasile. Il 2019 non è ancora finito, ci avviciniamo infatti al mese critico di settembre, ma ad oggi il trend nel numero di incendi non è allarmante.

E si noti ancora come, nonostante El Niño, il numero di incendi verificatisi prima del mese di agosto 2019 resti decisamente inferiore rispetto al 2007 e al 2010.

Per concludere, vorrei sottolineare come questa situazione di fantomatica “emergenza” non stia colpendo solo il Brasile, ma anche alcuni dei paesi confinati tra cui soprattutto Bolivia e Paraguay.

Bensì, buona parte degli incendi in Amazzonia ha origine proprio al confine della Bolivia, dove i narcotrafficanti sfruttano la siccità della stagione calda (agosto-settembre) per dare alle fiamme ampie porzioni di foresta per poi costruirci piste di atterraggio clandestine da cui far decollare illegalmente i carichi di cocaina.

Proprio la Bolivia infatti in questi giorni sta affrontando una situazione di reale difficoltà. Il numero di incendi che ha colpito il paese fino al 27 di agosto è infatti ben superiore alla media stagionale:

Tuttavia, la comunità internazionale non si è scagliata contro l’eco-socialista Morales né ha lamentato come le sue azioni mettano a repentaglio il “polmone verde” del mondo, ignorando tra l’altro che sia stato proprio lo stesso Morales ad aver aperto alla deforestazione dell’Amazzonia boliviana, con un decreto sovrano di inizio luglio 2019.

C’entra la deforestazione?

No.

La cosa più fastidiosa del dibattito di queste ultime settimane è stata la quantità di fake news circolate in giro. Si è sentito di tutto:

“Bolsonaro ha dato il via ad una massiccia deforestazione”

“Bolsonaro ha emanato decreti per lo sfruttamento dell’Amazzonia”

“Bolosnaro è stato personalmente visto munito di motosega nell’Amazzonia ad abbattere alberi per farci stuzzicadenti”

In primis, da quando è entrato in carica Bolsonaro non ha modificato le normative ambientali brasiliane, che anzi restano le più rigide al mondo.

Basti pensare che in un paese ricoperto al 65% da vegetazione e foresta tropicale chiunque acquisti una certa quantità di terreno in Amazzonia è obbligato per legge a mantenere inviolato l’80% della sua proprietà. Vuol dire che il suddetto contadino potrà coltivare o lavorare solo il 20% del terreno che acquista, pena la confisca del terreno stesso da parte dello Stato.

In secondo luogo, la deforestazione nella foresta amazzonica (salvo piccole fluttuazioni su base annuale) è diminuita progressivamente nel corso degli anni. Di seguito sono riportati gli ultimi 20 anni di dati dell’INPE:

Ora, i dati sulla deforestazione non tengono conto della superficie di foresta tropicale persa a causa degli incendi. Ma per fortuna l’INPE ci fornisce anche quelli (purtroppo solo dal 2002, ma aggiornati a fine luglio 2019):

Come si può vedere il 2019 non risulta particolarmente preoccupante né per quanto riguarda la deforestazione né per quanto riguarda gli incendi. Certamente ci si aspetta che la serie negativa aumenti con i dati definitivi di agosto e di settembre, ma come già evidenziato dai dati precedenti sul numero di incendi, nulla fa presagire un anno straordinariamente negativo.

Si noti quindi il totale di superficie di foresta persa per deforestazione e incendi fino a fine luglio 2019:

Certo, quel dato aumenterà. La stagione secca è appena iniziata, ma di nuovo non c’è alcuna evidenza empirica che supporti l’esistenza di una qualche emergenza. Si confronti il 2019 con altri due anni caratterizzati da El Niño, il 2007 e il 2010.

Per concludere, si noti come dal 1977 ad oggi (la deforestazione è aumentata vertiginosamente fino al 2004) la superficie coltivata del Brasile non sia aumentata più di tanto. Mi domando allora se le “lobby dei germi di soia” non stiano allora forse bruciando e coltivando l’Oceano Atlantico.

L’Amazzonia è il “polmone verde” del pianeta?

No.

In questi giorni si è diffusa forse la più grande di tutte le bufale sull’Amazzonia: quella per cui questa contribuirebbe da sola alla produzione del 20% dell’ossigeno del pianeta. Tralasciando il fatto che la maggior parte dell’ossigeno della Terra (il 50-70%) è prodotto dalla fotosintesi delle alghe oceaniche, l’Amazzonia, che non è una foresta in crescita, produce tanto ossigeno quanto ne consuma per i naturali processi di decomposizione; molto probabilmente essa è – al netto della quantità d’ossigeno richiesta -addirittura una consumatrice di O2, ovvero consuma più ossigeno di quel che produce, rilasciando CO2 nell’atmosfera.

E la Francia?

Il più acceso critico nei confronti del Brasile e del presidente Bolsonaro è stato proprio il presidente Francese Emmanuel Macron, il quale a colpi di tweet ha accusato la sua controparte un po’ di tutti i mali di questo mondo.

Sempre Macron ha invocato quindi una risoluzione globale al problema, in un tentativo alquanto interessante di mettere il Brasile sotto pressioni internazionali.

Il paladino dell’ambiente cade in doppio errore pubblicando dati falsi e una foto non di quest’anno

Non mi spingo oltre per non dare troppa attenzione a chi non ne merita. Vorrei solo ricordare che la Francia – un paese che riceve 7 miliardi di finanziamenti europei all’agricoltura – nella figura del proprio presidente, potrebbe stare reagendo in modo poco entusiasta all’accordo UE – MERCOSUL, che allentando i dazi tra i due blocchi commerciali, permetterà ai prodotti agricoli brasiliani di invadere gli scaffali dei supermercati francesi a prezzi più competitivi.

Quindi?

Per concludere, la situazione è seria dal momento che probabilmente quest’anno si assisterà ad un aumento del numero di incendi.

Tuttavia, non è una situazione straordinaria né di emergenza. Il disboscamento è aumentato nel mese di luglio rispetto allo stesso mese del 2018, ma resta assolutamente in linea con i dati degli anni precedenti. La superficie totale di Amazzonia persa fino a fine luglio tra incendi e disboscamento è assolutamente sotto la media, soprattutto considerando il fattore El Nino, mentre i dati di agosto (aggiornati al 26) sul numero di incendi confermano la realtà di una situazione assolutamente nella media.

Le uscite infelici di Bolsonaro sono indifendibili, ma altrettanto indifendibile è la disonestà intellettuale di una classe politica europea, che dopo aver conquistato lo sviluppo economico disboscando il 70% delle foreste nazionali, vuole andare a fare la morale ad una nazione ricoperta al 65% da foresta tropicale e vegetazione, basandosi su: notizie false, tendenziose, e luoghi comuni.

Il Brasile resta una delle nazioni con le regolamentazioni ambientali più severe di questo mondo. Bolsonaro non ha ancora tentato di modificarle, e anche qualora volesse (e in tal caso ci sarebbe da chiedersi perché non l’ha ancora fatto) avrebbe bisogno dell’appoggio del parlamento, cosa tutt’altro che scontata. In Brasile di fascismi non se ne vedono, e la democrazia funziona come dovrebbe. In Europa, forse, un po’ meno.

Fonti:

http://queimadas.dgi.inpe.br/queimadas/portal-static/estatisticas_paises/ (Brasile)

http://queimadas.dgi.inpe.br/queimadas/portal-static/estatisticas_paises/ (Bolivia)

https://www.forbes.com/sites/michaelshellenberger/2019/08/26/why-everything-they-say-about-the-amazon-including-that-its-the-lungs-of-the-world-is-wrong/amp/?__twitter_impression=true

https://rainforests.mongabay.com/amazon/deforestation_calculations.html

https://rainforests.mongabay.com/amazon/deforestation-rate.html

http://www.ciflorestas.com.br/cartilha/reserva-legal_qual-deve-ser-o-tamanho-da-reserva-legal.html

https://qz.com/1694263/the-amazon-rainforest-wildfires-will-worsen-this-year/

https://sharebolivia.com/morales-promulga-decreto-que-autoriza-desmonte-de-bosques-en-santa-cruz-y-beni/

La concorrenza fiscale fa bene

È una proposta ormai ricorrente, da parte della sinistra europea, quella di limitare la concorrenza fiscale tra Stati.

Per chi non lo sapesse, per concorrenza fiscale sì intende la possibilità per gli Stati che partecipano a uno stesso mercato di farsi concorrenza sulle tasse e le imposte in modo da attrarre più contribuenti. È un modello applicato, tra l’altro, in Stati prosperi come la Svizzera o addirittura il piccolo Liechtenstein.

Voler imporre un’aliquota minima obbligatoria per le imprese, nel caso della proposta del PD il 18%, è un’idea sbagliata per due principali motivi:

Il primo è che premia gli Stati spendaccioni e che non sanno curare i conti pubblici. In sostanza stiamo andando a dire agli Stati che sanno gestirsi che devono alzare le tasse perché ci sono Stati che amano fare spesa pubblica inutile. È una totale deresponsabilizzazione di Stati ed elettori, che non avranno alcuna convenienza a comportarsi responsabilmente dato che Mamma Europa sarà sempre pronta a rendere gli Stati spendaccioni concorrenziali a forza. Una cosa che ricorda molto l’idea sovranista per cui gli Stati sono liberi di fare tutto il debito che vogliono e la colpa dei fallimenti è dell’Europa e dei mercati.

Il secondo è che una mossa del genere rischia di aumentare l’euroscetticismo e la concorrenza extra UE.

I cittadini degli Stati dell’UE più virtuosi inizierebbero a vedere l’UE come un mezzo al servizio degli Stati più spendaccioni dando il via libera ai locali partiti euroscettici. E, valutando che l’UE spesso bacchetta gli Stati meno virtuosi per il debito, non ci sarebbe nemmeno un guadagno d’immagine presso gli Stati meno virtuosi.

Ma, soprattutto, esistono Stati extra-UE ma nel mercato unico. Questi Stati hanno una buona discrezionalità nell’applicare i regolamenti UE. Con Stati UE come il Lussemburgo, i Paesi Bassi o l’Irlanda fuori gioco sarebbe possibile per gli Stati dell’EFTA/SEE rifiutare quella normativa e accaparrarsi il mercato, magari con qualche norma ad hoc.

La concorrenza sleale può, però, esistere

Esiste un caso in cui la concorrenza fiscale può essere sleale. È infatti possibile fare patti fiscali tra aziende e Stati. La ratio della norma è chiaro: Semplificare l’imposizione fiscale per aziende molto articolate e dove il calcolo effettivo sarebbe oneroso.

Tuttavia in certi casi gli accordi sono estremamente vantaggiosi per le aziende, arrivando ad aliquote molto più basse rispetto a quelle applicate di solito.

In tal caso la concorrenza è sleale soprattutto verso i propri cittadini: Immaginate di pagare un’imposta aziendale del 15% ma sapere che Google paga il 3%.

L’aliquota minima europea, comunque, non è la soluzione a tale problema dato che limita principalmente le imprese oneste e non queste situazioni borderline.