Scuola libertaria, e dopo il voucher?

Ho pubblicato articoli sul tema istruzione dal mio punto di vista liberale classico, e mi è sempre dispiaciuto non potervi offrire anche la visione dei libertari. Fortunatamente ora, grazie a Mises.org, posso proporvi la traduzione di un articolo libertario del 2000 a cura di William Anderson sul lasciare l’istruzione al mercato. Pur non condividendone totalmente i contenuti l’ho trovata una lettura interessante che vi lascio volentieri.

I voucher scuola sono un punto caldo dell’attuale campagna elettorale e mettono contro democratici e repubblicani, con i primi che sostengono che danneggerebbero la scuola pubblica e i secondi che credono siano necessari per migliorare l’istruzione, specie per i più poveri. Come normale nel nostro panorama politico, sbagliano entrambi i lati.

I contrari ai voucher cadono quasi sempre in due categorie: i primi temono che siano una minaccia allo status quo della pubblica istruzione, visto che sempre più genitori iscriverebbero i propri figli nelle scuole private avendo i fondi per farlo, i secondi vedono invece nei voucher un cavallo di Troia che permetterebbe al governo di regolare le scuole private.

Essendo convinto che le scuole pubbliche siano viziate ogni oltre possibile sistemazione, per me è benvenuto ogni cambiamento che possa favorire la fine di questo mostro che danneggia le nostre libertà mentre svuota i nostri portafogli. Quindi, se credessi che i voucher fossero effettivamente capaci di danneggiare l’establishment delle scuole pubbliche, li sosterrei nonostante i miei timori.

In ogni caso, chi vede i voucher come un cavallo di Troia ha ragione, ma si perde un punto importante: i voucher non sono altro che una forma di “socialismo di mercato”. Vogliono giocare al mercato usando hardware socialista, una cosa che però in URSS ha mostrato di non funzionare e che quindi fallirebbe anche qui.

Il primo campione dei voucher fu Milton Friedman che li propose nel suo libro del 1962 “Capitalismo e Libertà” come maniera per migliorare l’istruzione per i giovani. Li ha poi riproposti nel suo “Liberi di Scegliere”, un best-seller, divenuto poi una serie di successo sulla televisione pubblica americana. I voucher, argomentava, creerebbero un mercato competititvo in un settore oggi dominato dal governo.

Le sue critiche della scuola pubblica sono fondamentalmente accurate. Le scuole pubbliche sono un monopolio intrusivo e ingombrante, come tutti i monopoli statali, e dunque falliscono quando si tratta di istruire bambini e ragazzi. Contro il monopolio Friedman e altri, soprattutto vari editorialisti neoconservatori del Wall Street Journal, propongono il già citato modello a voucher. A detta loro permettere ad ogni famiglia di usare il voucher per pagare la retta di una scuola privata darebbe ai figli l’opportunità di frequentare una scuola di qualità al posto di una decadente scuola pubblica.

L’idea sembra essere meritoria a prima vista, ma in verità ha vari problemi. Prima di tutto, come fatto notare da molti critici conservatori e libertari, i voucher – essendo finanziati dalle tasse – permetterebbero allo Stato di regolare le scuole private nella stessa maniera in cui regola gli istituti che, già oggi, ricevono sussidi statali. Dunque, il settore potrebbe trovarsi paralizzato e schiacciato molto presto dal governo. 

Ma passiamo alla seconda obiezione: l’obiettivo del voucher è quello di “creare un mercato” dove tale mercato non esiste. Purtroppo, come fatto notare molte volte da Murray Rothbard e da Ludwig von Mises, un mercato è impossibile senza veri diritti di proprietà. I voucher sono finanziati dallo Stato, coi soldi dei contribuenti. Non sono più privati di un’autostrada o del Ponte di Brooklyn.

Il problema della proprietà privata è importante: senza tali diritti il programma a voucher opererebbe a volontà degli enti statali, che potrebbero cambiarne i termini a loro piacimento. Un governo potrebbe dare un voucher senza farsi troppe domande, quello dopo potrebbe chiedere “responsabilità” o abolire direttamente il programma, se così chiedesse il sindacato dei docenti.

In sostanza, a differenza dell’apparato attuale, dove il governo fa pagare delle tasse per l’istruzione ma lascia comunque liberi di utilizzare quanto risparmiato per un’istruzione privata (d’altronde, miei soldi = mia proprietà), in un sistema del genere sarebbe lo Stato a pagare. Uno Stato che potrebbe limitarne l’uso su pressione di gruppi di interesse che non sono certamente interessati ai diritti delle famiglie.

Come fatto presente sempre da Rothbard e Mises, senza diritti di proprietà, il calcolo economico è una simpatica commedia degli errori. Ciò porterebbe a tre probabili scenari:

  1. La nuova domanda nel settore delle scuole private porterebbe ad un aumento delle rette, impedendo comunque a molte famiglie di mandare i figli nella scuola preferita e con politici che possono usare gli eventi per parlare di speculazione e proporre nuove regolamentazioni, spesso non necessarie e non sagge
  2. La nuova domanda porterebbe a varie start-up dell’istruzione: alcune assolutamente legittime, altre losche, i cui crimini porterebbero i politici a colpire duro sul settore privato, anche quello legittimo
  3. L’oligopolio: come mostrato da vari economisti le aziende già presenti sul mercato sono in grado di prendere in mano rapidamente il processo regolatorio, lasciando fuori i piccoli concorrenti. 

L’ultimo scenario è molto probabile in caso di adozione massiccia dei voucher: in principio scuole pubbliche e sindacati resisterebbero all’introduzione, ma prima o poi si renderebbero conto che i flussi di danaro permettono loro di avere più potere sulle operazioni delle scuole private.

Così, sorgerebbero alleanze tra questi ultimi e le scuole private più importanti, che non desiderano competere con piccole istituzioni, portando a regolamentazioni in grado di danneggiarle o portarle al fallimento.

In altre parole, il voucher sembra un’ottima idea ed è proposto in buona fede da chi vuole davvero mettere in discussione il monopolio statale sull’istruzione, ma i programmi a voucher hanno troppi problemi intrinseci. Non creano vere condizioni di mercato perché non sono proprietà privata. Esattamente come il socialismo di mercato di Lange sono misure a metà che, alla fine, metterebbero in trappola le scuole private più di quanto lo siano oggi.

Scuole pubbliche: rendiamole private

Il nostro sistema di istruzione primaria e secondaria dev’essere radicalmente cambiato. Tale necessità deriva soprattutto dai problemi che l’odierno sistema ha, ma è stata rafforzata dalle conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche e politiche degli ultimi anni. Rivoluzioni che promettono un futuro migliore per il mondo ma anche un aumento dei conflitti sociali derivanti dall’allargamento della differenza stipendiale tra i più abili e i meno abili.

Una ricostruzione del sistema istruzione ha il potenziale di ridurre nettamente i conflitti sociali e, al contempo, rafforzare la crescita e il miglioramento della qualità di vita reso possibile dalle nuove tecnologie e dall’allargamento del mercato globale.

A mio parere tale cambiamento si può ottenere solo privatizzando larga parte del sistema educativo, ossia permettendo ad un’industria privata e for-profit di svilupparsi e di permetterle di offrire i propri servizi educativi in competizione con i servizi pubblici.

Sicuramente questa transizione non può avvenire dal giorno alla notte, dovrà essere graduale. Il migliore modo per permetterla è instaurare un sistema a voucher che permetta ai genitori di scegliere liberamente la scuola per i propri figli.

Vari tentativi sono stati fatti per introdurre dei voucher, ma nessuno di questi è arrivato ad un sistema voucher universale, soprattutto grazie al potere di lobbying dei sindacati dei docenti, tra i più potenti del Paese.

Il deterioramento dell’istruzione

La qualità dell’istruzione è in netto calo rispetto a qualche decennio fa. Non esiste ambito nel quale gli abitanti delle zone più povere siano svantaggiati quanto quella dell’istruzione. Tra le ragioni, oltre al declino di certi quartieri, il progressivo accentramento delle competenze sull’istruzione che ha permesso ai sindacati di aumentare il proprio potere.

Più è passato il tempo più il sistema è peggiorato accentrandosi. La competenza per le scuole è passata dagli enti locali allo Stato. Ad oggi più del 90% dei nostri ragazzi va in una cosiddetta “scuola pubblica”, che più che pubblica è un feudo privato di burocrati e sindacalisti. I risultati li conosciamo tutti: alcune scuole pubbliche di buona qualità nelle zone ricche, scuole scadenti nelle zone povere, con una crescita di violenza, studenti e docenti demoralizzati e performance in calo.

Questi cambiamenti nel sistema scolastico hanno reso più chiara la necessità di una riforma, ma hanno anche aumentato gli ostacoli verso di essa. I sindacati sono assolutamente contrati a qualunque misura che riduca i loro poteri e sono disposti a moblitare tutte le loro forze contro di esse.

La nuova Rivoluzione Industriale

La ricostruzione del sistema scolastico è resa più urgente dalle ultime due rivoluzioni avvenute nelle passate decadi, quella tecnologica – in particolare di metodi di trasmissione di dati molto più efficienti – e quella politica che ha aumentato la portata di quella tecnologica.

La caduta del Muro di Berlino è stato l’evento più simbolico di questi avvenimenti, ma non è stato il più importante. Per esempio in Cina il comunismo non è né morto né collassato ma dal 1976 il premier Deng Xiaoping avviò delle riforme di mercato che aprirono la Repubblica Popolare al mercato internazionale. Simili accadimenti hanno portato molte più persone nel Sud America a vivere in Paesi definibili come democrazie liberali e non come autocrazie militari. Democrazie che vogliono a tutti i costi entrare nei mercati internazionali.

La rivoluzione tecnologica permette ad una compagnia in una qualsiasi parte del mondo di usare risorse da tutt’altra parte, producendo in un’altra parte ancora e vendendo ancora da un’altra parte. Ormai è impossibile parlare di un’auto americana o di un’auto giapponese, ad esempio, e ciò vale per tantissimi prodotti.

La possibilità di lavoro e capitale di un posto di collaborare con lavoro e capitale di tutt’altro posto ha avuto un enorme effetto anche prima della rivoluzione politica. Ha significato una quantità enorme di capitale di Paesi ricchi disposta a collaborare col lavoro di Paesi più poveri, portando ad una collaborazione non solo economica ma di formazione, di condivisione di conoscenze e anche di tecniche.

Prima della rivoluzione politica il collegamento tra lavoro e capitale in tutto il mondo ha avviato una forte espansione del mercato internazionale, la nascita di nuove multinazionali e una crescita prima inimmaginabile nelle cosiddette Quattro Tigri dell’Asia, mentre in America il primo a beneficiarne fu il Cile, seguito rapidamente da altri paesi.

La rivoluzione politica, però, ha rafforzato quella tecnologica in vari modi. Per prima cosa ha allargato nettamente il lavoro a basso costo – non necessariamente di bassa qualità – che può collaborare con capitale e lavoro dei Paesi più avanzati. La caduta della Cortina di Ferro ha aggiunto a tale mercato mezzo miliardo di persone, la Cina un miliardo, tutte persone ora libere, almeno parzialmente, di intraprendere azioni capitaliste con altri individui in tutto il mondo.

Per seconda cosa questa rivoluzione politica ha squalificato l’idea di pianificazione centrale e ha aumentato la fiducia per i mercati, rafforzando scambi e collaborazione internazionale.

Queste due rivoluzioni hanno portato ad una “seconda rivoluzione industriale” paragonabile a quella avvenuta circa 200 anni fa, avvenuta anch’essa grazie all’avanzamento tecnologico e alla libertà di scambio. In questi 200 anni il mondo è cresciuto più dei precedenti duemila. E il record potrà essere battuto nei prossimi secoli se useremo al massimo le nuove opportunità.

Differenze di stipendi

Queste due rivoluzioni gemelle hanno portato a stipendi maggiori per tutte le classi sociali nei Paesi in via di sviluppo mentre i risultati sono più controversi nei Paesi ricchi. Infatti, per varie ragioni, gli stipendi dei più abili crescono mentre quelli dei meno abili tendono ad avere una pressione sugli stipendi verso il basso. E siamo dunque arrivati ad avere grandi differenze tra gli stipendi di chi guadagna di più e di chi guadagna di meno.

Se lasciamo procedere tutto ciò senza controllo rischiamo di avere gravi conseguenze sociali, con parti del Paese in condizioni da Terzo Mondo e altre in estrema ricchezza. In sostanza è la ricetta per un disastro sociale e le pressioni per impedirlo con mezzi protezionistici e simili saranno sempre più forti.

Istruzione

Ad oggi il nostro sistema scolastico è complice di tale possibile disastro sociale. Eppure è potenzialmente la più grande forza che abbiamo a disposizione per evitarlo.

Sia chiaro: la predisposizione individuale gioca un ruolo importantissimo nel definire le opportunità aperte per ogni individuo. Ma non è nemmeno l’unica cosa che conta, come dimostrano numerosi esempi. Sfortunatamente, però, il nostro sistema scolastico fa poco per permettere sia ad individui predisposti che non predisposti, favorendo dunque i primi per le loro abilità innate e contribuendo a una “stratificazione sociale”.

C’è grande spazio di manovra per migliorare il nostro sistema scolastico, che probabilmente è tra le attività più arretrate in questo Paese. Insegniamo ai ragazzi come lo facevamo 200 anni fa: un docente davanti a un mucchio di studenti in una stanza chiusa. L’arrivo dei computer ha migliorato la situazione, ma molto poco. Non sono praticamente mai usati in modi nuovi e visionari.

Credo che l’unico modo per avere un gran miglioramento del sistema sia quello di privatizzarlo finché una considerevole parte dei servizi di istruzione sia fornita agli individui da imprese private. Solo una mossa del genere indebolirebbe a sufficienza l’attuale establishment educativo in maniera da poter apportare i necessari cambi sostanziali. E nulla costringerebbe le scuole pubbliche a mettersi in ordine più del dover trattenere la propria clientela. Nessuno può predire la direzione che un vero libero mercato educativo prenderà.

Sappiamo però dall’esperienza quanto possa essere creativa la libera impresa, quanti nuovi servizi e prodotti possa introdurre e come abbia come supremo obiettivo la soddisfazione del cliente, ed è ciò che serve nell’istruzione. Ben conosciamo la rivoluzione che ha avuto l’industria telefonica aprendosi alla concorrenza oppure, tornando un po’ indietro nel tempo, come il fax abbia minato così tanto il monopolio della posta di prima classe portando poi alla nascita dei corrieri privati.

Le scuole private frequentate oggi dal 10% sono spesso scuole di élite molto costose che rappresentano una minima porzione della popolazione ma esistono anche molte scuole cattoliche che fanno concorrenza al governo con costi bassi, spesso grazie anche a personale volontario e donazioni di mecenati. Queste scuole danno un’istruzione migliore ad una certa parte della popolazione, ma non sono ancora in grado di portare a cambiamenti innovativi. Per quello serve un sistema privato molto più forte. Il problema è come arrivarci.

I voucher non sono di per sé un fine, sono un mezzo per favorire la transizione dallo Stato al Mercato. E la situazione descritta più volte nell’articolo ne rende l’applicazione urgente.

I voucher, però, possono promuovere una rapida privatizzazione solo se costituiscono un reale incentivo per gli imprenditori ad entrare nel settore. Ciò richiede che il sistema a voucher sia universale, ossia aperto a chiunque oggi abbia diritto a frequentare una scuola statale, e che il costo – seppur potenzialmente minore rispetto a ciò che lo Stato spende oggi – sia sufficiente a coprire le spese di una buona istruzione. Se il voucher è costituito in questo modo ci saranno anche numerose famiglie disposte ad aggiungere qualcosa per avere un’istruzione ancora migliore. Ma, come accade in tutte le industrie, presto l’innovazione del prodotto “premium” arriverà anche al prodotto base.

Perché ciò accada, però, è essenziale che la libertà di impresa non sia minata, che non vi siano limiti alla capacità delle scuole di sperimentare, esplorare e innovare. Se ciò accade tutti, eccetto una piccola percentuale di persone con privilegi acquisiti, vinceranno: studenti, genitori, insegnanti, contribuenti, specie coloro che vivono in grandi città dove l’istruzione privata avrebbe costi esorbitanti mentre quella pubblica è scadente.

La comunità del business ha grande interesse nell’allargare la platea di cittadini ben istruiti e mantenere una società libera con mercati aperti e in espansione in tutto il mondo. Entrambi gli obiettivi verrebbero favoriti da un sistema a voucher.

Per concludere, come in ogni ambito dove vi sia stata una massiccia privatizzazione, la privatizzazione della scuola produrrebbe una nuova impresa capace di tratte profitto e di essere molto attiva dando a molte persone talentuose una vera opportunità di entrare nel mondo dell’insegnamento, persone che oggi sono disincentivate dallo stato pietoso di molte delle nostre scuole.

Questa non dovrebbe essere una questione in mano allo Stato centrale. L’istruzione dovrebbe restare un affare primariamente locale. Il sostegno alla libertà di scelta crescerà e non potrà essere tenuta a bada per sempre dagli interessi dei sindacati e dei burocrati. Penso che prima o poi si arriverà, da qualche parte, a un punto di rottura che porterà ad un percorso generale di voucherizzazione per quanto si dimostrerà efficiente.

Per fare in modo che una maggioranza del pubblico sostenga tali misure dobbiamo strutture la proposta in questo modo:

  • Sia semplice da comprendere per un elettore
  • Garantisca che non aumenti la tassazione ma che, possibilmente, la riduca

Questo articolo è una traduzione di un saggio del 1995 di Milton Friedman a cura di Brian Sciretti. Se ti è sembrato relativo alla situazione italiana non c’è da sorprendersi. Il sistema descritto da Milton Friedman funzionerebbe altrettanto bene anche in Italia.

N.B. Per praticità i nomi delle autonomie americane sono stati tradotti in modo generico.

Cinque ragioni per abolire la scuola di Stato

“L’istruzione non dovrebbe seguire logiche di mercato, è un bene primario che deve restare sotto il controllo dello Stato”. Quante volte avete sentito questa frase discutendo di privatizzazioni? Beh, io tante, soprattutto perché difendo la libertà di scelta in materia di istruzione da vari anni.

Restando in tema attualità, ho sentito spesso dire che la regionalizzazione della scuola, prevista in alcune iniziali bozze dell’accordo sull’autonomia differenziata tra le Regioni del Nord che hanno fatto richiesta e lo Stato, sarebbe il primo passo verso la privatizzazione definitiva della scuola.

Mi chiedo, dove sarebbe in tutto ciò il problema? Tutti i discorsi pro scuola pubblica e statale sono basati sull’assunto che l’istruzione non sia un qualcosa di mercatizzabile e che quindi debba essere fornita dallo Stato.

Tutto ciò non è, però, semplicemente vero: Il mercato può tranquillamente occuparsi d’istruzione. In realtà già lo fa, solo che chi sceglie di affidarsi ad esso, nella gran parte dei casi, paga due volte: Per l’istruzione statale e per la propria.

Soprattutto, introdurre la concorrenza nell’istruzione non può che avere effetti positivi. In questo articolo vedremo cinque aspetti positivi e, anche, gli aspetti negativi.

Costi minori

Quanto costa istruire uno scolaro, in Italia? Ai genitori, direttamente, poco, ma allo Stato tanto: più di 8’000€ l’anno. Ovviamente finanziati con le imposte generali.

Allora, come mai la scuola privata normale è in grado di fare la medesima cosa con, al massimo, 5’000€? Magari, nel mentre, ottenendo pure un profitto.

Se decidessimo di introdurre un voucher scuola da 5’000€, che è una cifra alta e in linea di massima riducibile, risparmieremmo 23 miliardi ogni anno. Questo è, per capirci, quanto serve ad evitare l’aumento IVA nel 2020.

Starebbe poi alla classe politica decidere come usare quei 23 miliardi: se reinvestirli nella scuola, ridurci il debito o usarli per ridurre le tasse, ma sta di fatto che sprecare 23 miliardi ogni anno non è socialismo, non è attenzione alla giustizia sociale: è semplicemente stupido.

Più libertà di scelta e qualità

La concorrenza, solitamente, crea qualità. Nel caso della scuola la concorrenza può riguardare il metodo didattico, la comunicazione, le risorse, gli orari, il sostegno personale e tanto altro. In un sistema del genere si deve offrire un’istruzione a misura di individuo per ottenere i soldi del voucher.

Esiste quindi una concorrenza che porta l’individuo – lo studente – a beneficiare di una libertà di scelta maggiore: nuovi metodi didattici, orari, disposizione dell’orario didattico, focus su alcune o altre materie, immersione linguistica, scuole comunitarie e tanto altro, cose che persino non possiamo immaginare, visto che in un sistema del genere potenzialmente chiunque può aprire una scuola e provare ad attirare alunni con metodi che ritiene migliori e sarà il mercato, non un burocrate a Roma, a premiarlo.

Un pubblico migliore

Di per sè avere scuole appartenenti ad enti pubblici non è affatto un male, a patto che siano istituite da enti vicini ai cittadini come i comuni o simili. Solo in tal modo, infatti, il cittadino potrà rendersi conto di ciò che sta accadendo e decidere se, ad esempio, vuole assumere più personale o aumentare i sussidi oltre al voucher scuola. Soprattutto, la concorrenza tra comuni renderà la scuola migliore, visto che il pagamento, essendo ad alunno, permette l’accesso anche ad allievi esterni al comune che per una qualche ragione preferiscano istruirsi in tale comune.

Studi mostrano come la scuola pubblica, quando messa in competizione col privato, migliori in qualità. Inoltre, cosa non da ignorare, una scuola ben gestita e di qualità può divenire una fonte di finanziamento per il comune, visto che si può stabilire come l’ente locale abbia il pieno diritto di conservare il voucher anche se spende meno di quanto esso sia.

Più speranza per le minoranze linguistiche

Da lombardofono non posso non parlare di questo aspetto: oggi in Italia quelle poche lingue regionali che hanno la benedizione di Roma non prosperano quando lo Stato interviene ma quando esso se ne sta ben lontano.

Immaginate questa situazione: un sindaco, sostenitore della diversità linguistica, decide di introdurre l’immersione linguistica (se non sapete cosa sia potete leggere questo mio articolo) nella scuola del comune. Inizialmente c’è scetticismo – tanta gente ha pregiudizi sulle lingue regionali per ragioni culturali – ma qualcuno si iscrive ai corsi immersivi.

L’immersione ha effetti positivi: gli studenti immersi hanno una maggiore competenza nella lingua straniera e i genitori dicono che, di media, si mostrano più curiosi. Le iscrizioni aumentano e anche altri comuni creano le loro sezioni immersive.

In pochi anni esistono varie scuole immersive in quella regione, il modello viene anche copiato da altre regioni e diventa più interessante anche per i privati e le istituzioni no profit, ma nel mentre, non essendo intervenuta una coercizione di Stato, continuano ad esistere scuole esclusivamente in lingua italiana per chi ne ha bisogno o le preferisce. Nel caso ve lo stesse chiedendo, un bilinguismo di massa italo-inglese sarebbe molto più arduo. Ma, in tale sistema, potrebbe esistere comunque, essendovi libertà di scelta.

Favorisce la mobilità sociale

La libertà di scelta sulla scuola favorisce la mobilità sociale per un semplice fatto: la scuola italiana, dovendo soddisfare tutti, è per forza di cose mediocre. C’è un occhio di riguardo per chi ha bisogni speciali per disturbi didattici ma nessuno per chi ha necessità particolari per altre ragioni come particolari talenti in altri campi sportivi o scientifici, ben noto è il caso di una geniale ragazza ai massimi livelli nella robotica osteggiata dalla scuola pubblica per le proprie assenze.

Capito? La “scuola di tutti”, da buon prodotto del socialismo, se sei troppo bravo prova a metterti i bastoni tra le ruote. In fin dei conti è ben noto come si impari di più in un austero liceo della città fondata dai lombardi come avamposto contro il Marchese del Monferrato che al MIT.

In un sistema di libertà di scelta ciò non accadrebbe e non accadrebbe non solo per i geni o per chi può permettersi un’istruzione privata ma anche per il figlio dell’operaio che, per una ragione o per l’altra, non si trova con la scuola pubblica.

Un ragazzo che magari oggi, solo per l’ottusità del sistema di scuola statale, andrebbe in qualche istituto regionale a imparare un lavoro pagato in modo mediocre in un sistema di libertà di scelta potrebbe scegliere, senza costi aggiuntivi, un istituto adatto a lui e cercare un’istruzione migliore.

Ma, come dice il sempre brillante Giovanni Adamo II, nel sistema di scuola pubblica il benessere dei docenti è molto più importante di quello degli alunni. Ribadisco, impedire a un giovane di avere una buona istruzione adatta a lui solo perché ha genitori non facoltosi è socialismo, è attenzione all’uguaglianza e alla giustizia sociale? No, è solo crudele.

I difetti?

Ci sono, ovviamente, dei difetti.

Ad esempio i politici non avrebbero più la possibilità di comperare voti di centinaia di migliaia di persone solo promettendo loro concorsi d’assunzione, visto che ad assumere sarebbero i privati o, al massimo, i comuni.

Inoltre sarebbe più difficile fare populismo scolastico, proponendo ad esempio nuove materie o corsi obbligatori con scopi etici o politici più che didattici.

I sindacati dei docenti perderebbero gran parte del proprio potere politico e dovrebbero ridimensionarsi per diventare assistenti dei docenti nella compilazione di documenti, nel rapporto con le istituzioni e col datore di lavoro.

I docenti migliori sarebbero premiati e incentivati a continuare nel loro lavoro visto che docenti migliori portano alunni, e quindi soldi, alle scuole mentre quelli peggiori verrebbero via via esclusi.

Soprattutto, molte più persone potrebbero accedere ad una preparazione scolastica adatta alle proprie esigenze.

Mi dite che non sono difetti ma, anzi, pregi? Sono perfettamente d’accordo con voi. Eppure per gli statalisti a oltranza sono difetti ed ha perfettamente senso buttare 23 miliardi l’anno per un’istruzione che funziona, parafrasando un motto socialista, “per i pochi, non per i molti”.