Pillola – la visione liberale della libertà

Poiché solo il liberalismo anglosassone convenzionalista ed evoluzionista costituisce una tradizione liberale omogenea e coerente con se stessa, è legittimo ricercare in esso il concetto liberale della libertà. Agire in questo modo significa però circoscrivere la propria ricerca in essa e non nella tradizione costruttivista continentale.

Questo comporta rifiutare la tipica distinzione continentale (ma soprattutto italiana, in cui il celebre Benedetto Croce indicava per “liberalismo” il liberalismo politico e per “liberismo” il liberalismo economico, terminologia che – intenzionalmente o meno – attribuisce chiaramente maggiore importanza alla dimensione politica della concezione liberale) tra liberalismo politico e liberalismo economico intesi da essa come scindibili.

Per la tradizione inglese, invece, i “due liberalismi” sono inseparabili. Ciò perché il ruolo del governo come agente limitato a imporre il rispetto delle norme di condotta generali (fulcro della tradizione inglese) toglie al governo il diritto/potere di internarsi in queste norme e coordinare e dirigere le attività economiche degli individui liberamente associati.

Se, al contrario, il governo avesse questo potere, esso sarebbe dotato di un potere arbitrario e discrezionale, il quale culminerebbe nel controllo economico quindi nella limitazione di tutte quelle altre libertà – di carattere anche non economico – che il liberalismo si propone di garantire come proprio principio. La libertà nella legge implica che gli individui siano anche economicamente liberi, poiché quando si controllano i mezzi economici si controllano, essenzialmente, gran parte dei mezzi attraverso cui gli individui giungono ai propri fini soggettivi.

Accettando quanto detto sopra, può apparire che tra le due correnti liberali sopracitate, sulla materia della libertà individuale, dunque anche del rispetto della libertà personale, sussista una differenza importante. Nell'”epoca d’oro” del liberalismo, libertà individuale significava in sostanza ciò che in storia delle idee viene denominata libertà negativa, ovvero libertà dalla coercizione arbitraria, quindi libertà da i governi illiberali.

Ma per degli uomini che vivono in società la protezione da tale coercizione significava comunque l’imposizione di un vincolo a tutti gli individui, di una limitazione che li privasse, quindi, di applicare coercizione sugli altri. La libertà di ogni individuo in una società avrebbe dunque potuto essere realizzata solo se la libertà di ciascuno non fosse andata oltre ciò che era compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri.

La concezione della libertà da parte di un liberale, che dunque si conforma come libertà nella legge, richiede una legge che limiti la libertà di ciascuno allo scopo di garantire la medesima libertà a tutti (uguaglianza formale, isonomia). Dunque la libertà liberale non coincide con la “libertà naturale” o la “libertà spirituale soggettiva”, ma con una libertà eguale per ogni individuo quando è in società con altri individui, limitata dalle norme indispensabili alla garanzia di se stessa.

In questo senso il liberalimo è da distinguersi chiaramente dall’anarchismo e deve riconoscere che, se tutti devono essere liberi, la coercizione non può essere totalmente eliminata, ma solo ridotta al minimo indispensabile affinché un individuo o un gruppo di individui qualsiasi non possano esercitare oppressione a danno di un altro individuo o gruppo di individui.

Si trattava di una libertà entro una sfera limitata da norme conosciute che permetteva agli individui di non subire coercizioni, finché si fosse mantenuta appunto entro tali limiti. Violare queste norme avrebbe poi potuto significare la perdita di tale libertà garantita da coloro i quali si uniformavano ad esse.

Questa libertà, inoltre, poteva essere garantita solo a chi fosse in grado di osservare le norme intese a garantirla. Soltanto l’individuo adulto e sano di mente, interamente responsabile delle proprie azioni, era considerato legittimo fruitore di tale libertà. Per chi non fosse tale, come i minori e gli psicologicamente invalidi, sarebbero state applicate norme speciali di tutela della libertà.

Questa libertà che sarebbe stata valida solo in quanto esercitata da chi consapevole di sé li avrebbe anche resi, moralmente, responsabili della propria sorte. Ciò in virtù del fatto che il governo dovesse garantire la libertà di ogni individuo senza però intervenire nella sua sorte, nelle conseguenze delle sue azioni.

Questo “sistema” di governo era considerato eccelso per due motivi: primo, il governo avrebbe garantito il massimo vantaggio a tutti, secondo, utilitaristicamente, esso avrebbe spinto/incentivato ogni individuo a essere produttivo al massimo delle sue capacità in ogni sua particolare situazione, ovvero a dare il meglio di sé sempre, che avrebbe risultato in un maggiore benessere collettivo rispetto a qualsiasi diretto intervento del governo.

La concezione liberale della libertà è stata, storiograficamente, definita come negativa, e giustamente. Esattamente come la giustizia o la pace, essa si conforma come un bene in quanto assenza di male: la condizione di pace è un tale in quanto assenza di guerra, la condizione di giustizia è tale in quanto assenza di torto, la libertà è tale se considerata come assenza di coercizione arbitraria.

Si riteneva, però, che sarebbero divenuti disponibili maggiormente dei mezzi per raggiungere diversi fini privati: la libertà negativa, infatti, prevede l’assenza della maggior parte dei vincoli governativi alle attività dei privati individui, sebbene alcune funzioni essenziali di comune necessità fossero accettate come eccezione alla regola nel campo della realtà quotidiana (ex. esercito di difesa, misure cautelari per guerra o epidemie).

Ad ogni modo, nessun supposto vantaggio che l’intervento del governo avrebbe apportato nel campo sociale sarebbe stato circoscritto nel paradigma della libertà negativa liberale; questo sarebbe stato legittimo solo quando, appunto, circostanze strettissime l’avessero invocato.

Il declino di questa concezione di libertà, quindi dell’intero liberalismo, si può datare circa a fine Ottocento, quando essa è stata reinterpretata come libertà come disponibilità, dunque libertà positiva. Ciò ha comportato il declino del liberalismo non in quanto una qualche altra forza politica si è appropriata di tale definizione di libertà, che già esisteva ai tempi della teoria della democrazia radicale di Rousseau, ma in quanto essa è diventata, commettendo un enorme errore, la definizione della libertà liberale. Definizione che oggi è totalmente maggioritaria; lo Stato sociale è ormai una prerogativa di ciò che oggi viene definito “Stato liberale moderno”.

La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci

Perché socialismo, fascismo, comunismo e tutti gli altri statalismi, pur con le loro differenze, sono parimenti pessime idee? Cosa separa nettamente queste ideologie dal Liberalismo? Un socialista, certo, non ha esattamente gli stessi ideali ed obiettivi di un fascista, e lo stesso vale per un fascista ed un comunista.

Tutti e tre, però, condividono uno stesso principio chiave: il potere nelle mani giuste è il bene supremo, quindi anche la violenza è un bene se il suo scopo è dare potere a coloro che lo meritano.

Per il fascista, che vuole garantire il potere della sua nazione, la violenza è un legittimo strumento politico. Una nazione potente, infatti, non ha paura di combattere guerre per imporre la propria egemonia sulle altre nazioni. Allo stesso tempo, però, un forte esercito e grandi spese militari non bastano.

Una nazione potente, infatti, dev’essere anche una nazione unita e con una popolazione omogenea. Per questo, è necessario reprimere qualsiasi autonomia in favore di un governo centralizzato. Inoltre, bisogna eliminare fisicamente minoranze ed altri gruppi di potere al di fuori dell’autorità statale.

Per il comunista, che sogna la rivoluzione proletaria, la violenza è indispensabile ai fini del cambiamento. I porci capitalisti ed i loro lacchè, infatti, non metteranno mai volontariamente a disposizione dei proletari le risorse ed il potere necessari per realizzare il paradiso del lavoratore. Queste e quello, pertanto, devono essere strappati con la forza.

Ma la violenza non finirà una volta finita la rivoluzione. Una volta instaurata la dittatura del proletariato, infatti, c’è sempre il rischio che qualcuno non sia d’accordo con il nuovo corso, e che organizzi una controrivoluzione. Per questo, sono necessarie numerose purghe per estirpare il problema alla radice.

Fatta eccezione per i più radicali, i socialisti (specie quelli più vicini alla socialdemocrazia) di solito non si esprimono apertamente a favore della violenza fisica, piuttosto auspicano riforme graduali per raggiungere l’obiettivo della giustizia sociale. Ciononostante, anche i socialisti moderati sono favorevoli ad un certo tipo di violenza, più sottile ma non per questo inesistente.

Un socialista moderato certo non chiederà il sangue dei capitalisti e dei loro lacchè, ma chiederà politiche economiche redistributive. Non perseguiterà le minoranze, ma sarà a favore di leggi speciali per proteggere chi ritiene sia oppresso o discriminato, in antitesi con il principio liberale dell’isonomia (per intenderci, non esistono i diritti gay, esistono i diritti individuali).

Soprattutto, un socialista moderato sarà a favore della coercizione, e dell’accentramento del potere per creare un Leviatano statale strumento di tale coercizione. Questo perché, in quanto socialista, è convinto in buona fede che uno Stato che segue i cittadini dalla culla alla tomba sia un bene tale da giustificare la perdita di qualche libertà.

Così, anche il più mite e benevolo fra i socialisti moderati finisce, involontariamente, con l’aprire la porta ad i più radicali, ed infine ai violenti veri e propri. Se le cose stanno così per le varie forme di statalismo, qual è l’approccio liberale alla violenza?

Innanzitutto, bisogna dire che il pensiero liberale non è pacifista, cioè non cerca la pace ad ogni costo. A dispetto della bellissima citazione di Asimov che dà il titolo a questo articolo, i liberali sono pragmatici, pertanto riconoscono la necessità della violenza in determinate situazioni. Quindi, nessuna differenza con lo statalismo?

Quando gli statalisti ricorrono alla violenza, lo fanno come mezzo per acquisire più potere: il fascista combatte guerre per conquistare territori di altre nazioni, il comunista organizza una rivoluzione per sottrarre le ricchezze dei capitalisti, i socialisti fanno lo stesso ma in maniera più graduale.

I liberali, invece, sono disposti a ricorrere alla violenza per proteggere qualcosa che è l’antitesi del potere, qualcosa che tutti gli esseri umani possiedono come diritto di nascita: la libertà negativa.

La libertà negativa è, in poche parole, la libertà dallo Stato (contrapposta alla libertà positiva, libertà attraverso lo Stato), il quale non interferisce nella vita privata dei cittadini e garantisce il rispetto del loro diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà privata.

Quando lo Stato viola la libertà negativa dei cittadini questi, per dirla con i Padri Fondatori, hanno il diritto di rovesciare il governo, con le armi se necessario.

La differenza fra liberali e statalisti rispetto alla violenza, quindi, esiste, ed è vasta quanto la differenza fra i manifestanti di Hong Kong e le SS naziste. Mentre gli statalisti saranno sempre pronti a versare sangue per acquisire potere a danno dei loro nemici, il primo nemico dei liberali sarà sempre il potere stesso, i cui attacchi contro la libertà vanno respinti con tutto il vigore necessario, pena la rovina.