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Yeti Carbon Footprint

Il termine Carbon Footprint è entrato nel linguaggio comune, evolvendosi da termine tecnico a parola di uso frequente nell’ambito delle tematiche ambientali. A partire dal 2020, i dati Google mostrano infatti un evidente incremento delle ricerche per queste keyword (Fig. a lato).

Quindi, è particolarmente curioso che ancora non vi siano metodi di calcolo e modelli che possano definirlo in modo semplice e preciso, nonostante ci siano enormi quantità di pubblicazioni che vantano calcoli “precisi” del CF.

Il Carbon Footprint (nel seguito CF) è, nella concezione comune, una quantità che indica l’impatto ambientale di un certo prodotto, servizio o attività. Una definizione che appare semplice e chiara, con valori facili da comprendere (quando posti in paragone: se il mio CF è doppio del tuo, allora “inquino” il doppio).

Questa semplificazione, che ne ha consentito la propagazione in quasi tutti gli ambienti della società (dai Consigli di Amministrazione alle scuole) è in realtà una grossolana sottostima della complessità di un indicatore che – se calcolato correttamente – potrebbe dare importanti informazioni sull’ottimizzazione dei processi produttivi e di smaltimento.

Le definizioni politiche o manageriali di CF erano estremamente vaghe fino a quando Thomas Wieldmann e Jan Minx (Wieldmann and Minx, 2008) ne proposero una definizione accademica, il più precisa possibile: “Il Carbon Footprint è una misura completa dell’ammontare totale di emissioni di biossido di carbonio che sono direttamente o indirettamente causate da una attività o si sono accumulate durante gli stati di vita di un prodotto.”

Il significato, qui riformulato non tanto per renderlo più comprensibile quanto per mettere in evidenza la complessità del concetto, è il seguente: per ogni attività, prodotto, servizio o persona, il CF rappresenta la quantità totale di CO2 (biossido di carbonio, espressa in Kg o comunque in peso) emessa in atmosfera da tutte le fasi di creazione e di smaltimento, considerando ogni aspetto del processo, sommato sul tempo totale di vita del prodotto.

Questa definizione ci fornisce le indicazioni di base, ma restano aperti i problemi di calcolo effettivo, che sono estremamente complicati. Ad esempio, la CO2 non è l’unico gas-serra (GHG, GreenHouse Gas): includere altri gas (tipo il metano) implica aumentare la complessità del calcolo; d’altra parte, escluderli ne diminuisce la precisione.

Altro esempio: nel definire le emissioni di produzione devono essere incluse anche le emissioni dovute al personale coinvolto, ma in misura adatta a non sovrastimare l’emissione (il lavoratore non arriva in azienda per produrre esclusivamente quel prodotto).

Il problema è che a volte le aziende non sono disposte a rivelare i dettagli del loro sistema di produzione (per motivi di brevetto o di segreto industriale), così come i governi non forniscono tutti allo stesso modo i parametri necessari alla valutazione della fase di trasporto internazionale.

Le complessità citate sopra (solamente indicative) hanno portato manager pubblici e privati ad adottare sistemi meno complessi (quali il @UK PLC), basati semplicemente sul costo di un prodotto e su un database di categorie preordinate.

Il risultato di questa semplificazione è però una forte riduzione della precisione, che può arrivare a rendere inadeguato il risultato. In un lavoro di Barnett et al (2013) è mostrato come utilizzando due metodologie diverse nel calcolo del CF di 365 prodotti, i risultati sono completamente scorrelati (vedi fig. sotto).

Ecco il motivo per cui nel titolo compare lo Yeti come paragone per il Carbon Footprint: tutti lo conoscono, nessuno l’ha realmente visto.

Valori di CF ottenuti con due diverse metodologie. Se i due metodi fossero affidabili, i punti si sarebbero allineati sulla linea rossa.

Il CF ha quindi un grave difetto di precisione, che (a seconda del metodo utilizzato) pregiudica i risultati per le categorie di prodotti/ servizi più piccoli (una persona, un oggetto od una famiglia) oppure per le grandi realtà pubbliche e private.

Con queste premesse, ci si aspetterebbe che l’utilizzo del CF sia confinato ad ambiti ristretti, dove il detto “meglio una misura qualunque che nessuna misura” ha più senso.

Troviamo invece il CF citato e preso in considerazione in ambienti in cui il risultato non può che essere impreciso, se non completamente inattendibile, come il CF di una casa, di una famiglia o di un’auto.

Basarsi su indicatori che sono fondamentalmente imprecisi è un grave rischio. Il burocrate o parlamentare medio, che ha scarse conoscenze ma ampi poteri legislativi, proverà a convertire i buoni propositi ambientali in leggi, regolamenti e divieti che gravano pesantemente sulla vita dei cittadini, senza essere efficaci nel contrasto al cambiamento climatico.

La PCA, o Personal Carbon Allowance, è stata già pensata nel 2008 nel Regno Unito, come misura per contrastare l’aumento delle emissioni di gas serra. In pratica si sarebbe stabilito un tetto massimo alle emissioni (quindi il CF) che una persona poteva utilizzare per scaldare la propria casa, comprare cibo, andare al lavoro, ecc.; cioè, semplicemente, vivere.

Il progetto non è stato messo in pratica perché ritenuto politicamente inammissibile, ma le recenti misure fortemente coercitive legate alla pandemia hanno rivalutato la possibilità che il PCA possa essere, ora, socialmente accettabile.

Su Nature, la prestigiosa rivista scientifica inglese, un articolo di Fuso Nerini et al. (2021) discute come la PCA sia ora potenzialmente ammissibile e, anzi, auspicabile. Senza segnalare l’inaffidabilità del calcolo del CF, e con solo un fugace riferimento ai problemi di privacy, l’articolo ipotizza il modellamento dei comportamenti individuali, dai viaggi alla scelta del cibo, utilizzando come sensori le tecnologie già presenti (controllo degli spostamenti tramite cellulare-GoogleMap, verifica dei consumi tramite apparecchiature Smart Home). 

Riassumendo in modo estremo, possiamo dire che le nostre libertà individuali potrebbero essere revocate sulla base di misure di Carbon Footprint la cui attendibilità è praticamente nulla. Non possiamo lasciare che avvenga qualcosa del genere; è importante discutere del Carbon Footprint e del cambiamento climatico in maniera seria, senza semplificazioni e senza coercizioni dall’alto. 

Referenze

Wiedmann,T., Minx,J. (2008). A Definition of Carbon Footprint, in C.Pertsova(ed.) Ecological Economics Research Trends, Nova Science Publisher, Chapter 1, pp.1-11

Barnett, A. J., Barraclough, R. W., Becerra, V. and Nasuto, S. (2013). A comparison of methods for calculating the carbon footprint of a product.

Kruger, J., & Dunning, D. (1999). Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments. Journal of Personality and Social Psychology, 77(6), 1121.

Defra, UK, 2008, Synthesis report on the findings from Defra’s pre-feasibility study into personal carbon trading, Department for Environment, Food and Rural Affairs, https://www.teqs.net/Synthesis.pdf

Fuso Nerini, F., Fawcett, T., Parag, Y. et al. Personal carbon allowances revisited. Nature Sustain 4, 1025–1031 (2021).

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