Il Superbonus è il fallimento dello statalismo

Quello che è accaduto con il Superbonus rappresenta alla perfezione la morte economica dell’Italia e il fallimento dello statalismo.

Andiamo con ordine.

L’edilizia è una industria morente tenuta in stato vegetativo da una serie di bonus edilizi istituiti negli ultimi quindici anni. Questi bonus sono diventati via via più generosi: il bonus ristrutturazione al 36% e poi al 50%, l’ecobonus al 65%, il sismabonus al 75% e poi all’85%, il bonus facciata al 90% e infine il tristemente famoso Superbonus 110%.

Ciascuno di questi bonus è nato con un duplice obiettivo politico: far ripartire l’edilizia unendo una componente di “utilità sociale” che giustifica il contributo pubblico. E così l’ecobonus è motivato dall’efficienza energetica, il sismabonus dalla sicurezza sismica, il bonus facciate di Franceschini invece da una questione di pura estetica, per la quale abbiamo pagato il 90% dei lavori di abbellimento delle facciate con tinteggiature e cornicette.

Questi obiettivi politici sono sistematicamente stati mancati: in 15 anni gli investimenti con bonus edilizi sono stati irrisori, l’industria delle costruzioni è rimasta in un limbo tra la vita e la morte, e il contributo dato alla riqualificazione energetica, sismica ed energetica del patrimonio edilizio è vicino allo zero. È proprio per questo motivo che il Movimento 5 Stelle ha escogitato il Superbonus 110% nel suo Decreto Rilancio all’indomani della prima ondata pandemica.

Il provvedimento è stato dirompente: i cittadini, appreso che lo Stato avrebbe coperto l’intero importo dei lavori, non hanno esitato a cercare tecnici e imprese in grado di districarsi nel complesso impianto normativo del Superbonus. In due anni, lo Stato italiano si è impegnato economicamente per circa 60 miliardi di euro, una cifra pari a 2-3 finanziarie di medie dimensioni, e questo nonostante il sistema dei crediti di imposta abbia subito pesanti rallentamenti e blocchi ogni due mesi.

Tralasciando le questioni che hanno causato il tracollo del Superbonus, su cui pure ci sarebbe da ridere, proviamo a descrivere i motivi per cui questo provvedimento rappresenta la morte economica del Paese, almeno da un punto di vista liberale.

Ronald Reagan recitava una simpatica massima: “Se un’industria si muove tassala, se continua a muoversi regolamentala, se smette di muoversi sussidiala”.

L’industria delle costruzioni in Italia vive di sussidi statali da 15 anni, e l’unica soluzione che la politica è stata in grado di trovare consiste nell’aumentare la quota di incentivi in carico allo Stato. Nessuna parte politica, a destra e a sinistra, è in grado di esprimere un pensiero volto alla liberalizzazione del settore delle costruzioni, pesantemente condizionato da un apparato normativo mastodontico.

Le norme urbanistiche che oggi regolano la produzione edilizia sono state concepite negli anni ‘60, un periodo di boom demografico, economico ed urbano, ed erano volte a disciplinare il mercato, calmierando la speculazione edilizia. Oggi che viviamo in un periodo di stagnazione economica, quelle stesse norme stanno deprimendo ulteriormente la produzione edilizia.

La mentalità statalista però è così pervasiva che nessuna parte politica è disposta a proporre una deregulation strutturale. Finora hanno giocato sulle percentuali di agevolazione fiscale: togli il 65% e metti il 110%, togli il 110% e metti il 90%. È questo l’apice del pensiero liberale che possiamo aspettarci dalla politica italiana, centrodestra incluso? Si spera di no.

Dal punto di vista dei conti pubblici, effettivamente, lo scenario è inquietante: 60 miliardi di euro spesi per intervenire sul 3% delle abitazioni. E se si prova a misurare l’impatto sulla transizione ecologica ci si rende conto di quanto questo provvedimento sia diventato una macchina brucia-soldi: ipotizzando di aver dimezzato le emissioni CO2 di ogni edificio che ha beneficiato del 110%, e considerato che l’edilizia residenziale conta per il 10% delle emissioni totali dell’Italia, viene fuori che abbiamo complessivamente ridotto le emissioni nazionali circa dello 0,15%. Considerato che l’Italia è responsabile per meno dell’1% delle emissioni a livello globale, si lascia ai lettori il compito di calcolare di quanti gradi abbiamo abbassato le temperature globali spendendo 60 miliardi.

L’aspetto più oscuro della faccenda è però la fotografia del Paese restituita dal Superbonus: l’Italia appare un Paese fatto di case vecchie ed obsolete, i cui proprietari non hanno neanche una frazione delle risorse necessarie per gli adeguamenti strutturali ed energetici, e l’unico modo per far ripartire il settore dell’edilizia è che lo Stato debba coprire l’intero importo dei lavori. Roba che neanche in Unione Sovietica.

Insomma, il problema non è il 110%, il 90%, l’efficienza energetica. Il problema è il declino economico di una delle più grandi potenze industriali al mondo, dovuto al pantano burocratico e tributario a cui ogni attività produttiva è soggetta, e a una classe dirigente completamente assuefatta alle politiche stataliste. Quel che un tecnico di cultura liberale deve chiedere è che il governo tolga di mezzo tutto questo apparato enorme di sussidi, e abbia il coraggio di liberalizzare il settore delle costruzioni. Ciò consentirebbe agli investitori privati di rischiare i propri capitali per realizzare un vero rinnovo del parco residenziale italiano. Purtroppo, gli ordini professionali si uniscono alle richieste di sussidi e tutele da parte dello Stato.

Le nostre città sono cristallizzate da più di mezzo secolo in edifici antiquati che avrebbero bisogno non di un cappotto termico, ma di essere rasi al suolo e ricostruiti. I costruttori dovrebbero essere incentivati non tramite i sussidi, ma tramite dei bonus volumetrici (nuova cubatura) che servano a finanziare le operazioni immobiliari, immettendo così anche una grande quantità di nuovi appartamenti in zone dove c’è particolare richiesta, il che servirebbe a riequilibrare la curva di domanda e offerta, abbassando i prezzi esorbitanti che vediamo da un po’ di anni.

Il valore aggiunto di una operazione immobiliare è la cubatura aggiuntiva che è possibile realizzare: se le norme impediscono di creare una significativa quantità di nuovo volume, è normale che viene meno l’incentivo economico di mercato, e per questo lo Stato ha dovuto introdurre una serie di incentivi economici statali.

In sintesi, l’unica soluzione è lo sviluppo economico a trazione privata. L’Italia è diventata grande quando avevamo il coraggio di investire in modo spregiudicato: da un po’ di tempo abbiamo perduto questo coraggio, e ormai ci limitiamo a politiche di breve respiro volte a spostare da qui a lì un punto percentuale di spesa pubblica. È tempo di costruire l’Italia di domani, partendo da idee coraggiose e abbandonando una volta per tutte lo statalismo.

Gli ambientalisti vogliono regolamentare la tua vita

L’economia pianificata sta vivendo un’altra rinascita. I sostenitori della difesa dell’ambiente e gli anticapitalisti chiedono che il capitalismo venga abolito e sostituito con un’economia pianificata.

Altrimenti, sostengono, l’umanità non ha alcuna possibilità di sopravvivere.

In Germania, un libro intitolato “Das Ende des Kapitalismus” (La fine del capitalismo) è un bestseller e la sua autrice, Ulrike Herrmann, è diventata ospite regolare di tutti i talk show. L’autrice promuove apertamente un’economia pianificata, anche se in Germania è già fallita una volta, come ovunque sia stata tentata.

A differenza del socialismo classico, in un’economia pianificata le aziende non vengono nazionalizzate, ma possono rimanere in mani private. Ma è lo Stato a stabilire con precisione cosa e quanto produrre.

Non ci sarebbero più voli e veicoli privati. Lo Stato determinerebbe quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana: ad esempio, non ci sarebbero più case unifamiliari e a nessuno sarebbe permesso di possedere una seconda casa. Le nuove costruzioni sarebbero vietate perché dannose per l’ambiente. La terra esistente verrebbe invece distribuita “equamente”, con lo Stato che deciderebbe quanto spazio è appropriato per ogni individuo. Il consumo di carne sarebbe consentito solo in via eccezionale, perché la produzione di carne è dannosa per il clima.

In generale, le persone non dovrebbero mangiare molto: 2.500 calorie al giorno sono sufficienti, dice Herrmann, che propone un’assunzione giornaliera di 500 grammi di frutta e verdura, 232 grammi di cereali integrali o riso, 13 grammi di uova e 7 grammi di carne di maiale.

«A prima vista, questo menu può sembrare un po’ scarno, ma i tedeschi sarebbero molto più sani se cambiassero le loro abitudini alimentari», rassicura la critica del capitalismo. E poiché le persone sarebbero uguali, sarebbero anche felici: «Il razionamento sembra sgradevole. Ma forse la vita sarebbe addirittura più piacevole di oggi, perché la giustizia rende le persone felici».

Queste idee non sono affatto nuove. La popolare critica canadese del capitalismo e della globalizzazione, Naomi Klein, ammette che inizialmente non aveva un interesse particolare per il cambiamento climatico. Poi, nel 2014, ha scritto un corposo tomo di 500 pagine intitolato “This Changes Everything: Capitalism vs. the Climate“.

Perché è diventata improvvisamente così interessata all’ambientalismo?

Prima di scrivere questo libro, l’interesse principale della Klein era la lotta contro il libero scambio e la globalizzazione. Lo dice apertamente: «Sono stata spinta a un impegno più profondo in parte perché ho capito che poteva essere un catalizzatore per forme di giustizia sociale ed economica in cui già credevo». Chiede un’economia attentamente pianificata e linee guida governative su «quanto spesso guidiamo, quanto spesso voliamo, se il nostro cibo deve essere trasportato in aereo per arrivare a noi, se i beni che compriamo sono costruiti per durare… quanto sono grandi le nostre case». L’autrice ha anche suggerito che il 20% più abbiente della popolazione dovrebbe accettare i tagli maggiori per creare una società più equa.

Queste citazioni – a cui si potrebbero aggiungere molte altre affermazioni simili nel libro della Klein – confermano che l’obiettivo principale degli anticapitalisti come Herrmann e Klein non è migliorare l’ambiente o trovare soluzioni per il cambiamento climatico.

Il loro vero obiettivo è eliminare il capitalismo e instaurare un’economia pianificata e gestita dallo Stato. In realtà, questo comporterebbe l’abolizione della proprietà privata, anche se tecnicamente i diritti di proprietà continuerebbero ad esistere. Perché tutto ciò che rimarrebbe è il titolo legale formale di proprietà. L'”imprenditore” continuerebbe a possedere la sua fabbrica, ma cosa e quanto produce sarebbe deciso unicamente dallo Stato. Diventerebbe un manager dipendente dello Stato.

L’errore più grande che i sostenitori dell’economia pianificata hanno sempre commesso è stato quello di credere nell’illusione che un ordine economico potesse essere pianificato sulla carta; che un’autorità potesse sedersi a una scrivania e proporre l’ordine economico ideale. Tutto ciò che sarebbe rimasto da fare sarebbe stato convincere un numero sufficiente di politici a implementare l’ordine economico nel mondo reale. E’ brutto da dire, ma anche i Khmer Rossi in Cambogia la pensavano così.

L’esperimento socialista più radicale della storia, che ebbe luogo in Cambogia a metà e alla fine degli anni ’70, fu originariamente concepito nelle università di Parigi. Questo esperimento, che il leader dei Khmer Rossi Pol Pot (chiamato anche “Fratello 1”) chiamò “Super Grande Balzo in Avanti”, in onore del Grande Balzo in Avanti di Mao, è particolarmente rivelatore perché offre una dimostrazione estrema della convinzione che una società possa essere costruita artificialmente su un tavolo da disegno.

Oggi si sostiene spesso che Pol Pot e i suoi compagni volessero attuare una forma pura di “comunismo primitivo” e il loro governo viene dipinto come una manifestazione di irrazionalità sfrenata. In realtà, ciò non potrebbe essere più lontano dalla verità. Le menti e i leader dei Khmer Rossi erano intellettuali provenienti da famiglie oneste, che avevano studiato a Parigi ed erano membri del Partito Comunista Francese. Due delle menti, Khieu Samphan e Hu Nim, avevano scritto tesi di laurea marxiste e maoiste a Parigi. In effetti, l’élite intellettuale che aveva studiato a Parigi occupava quasi tutti i posti di comando del governo dopo la presa del potere.

Avevano elaborato un dettagliato Piano quadriennale che elencava con precisione tutti i prodotti di cui il Paese avrebbe avuto bisogno (aghi, forbici, accendini, tazze, pettini, ecc.). Il livello di specificità era molto insolito, anche per un’economia pianificata. Ad esempio, si legge: «Mangiare e bere sono collettivizzati. Anche il dessert è organizzato collettivamente. In generale, aumentare benessere del popolo nel nostro Paese significa farlo collettivamente. Nel 1977 ci saranno due dessert a settimana. Nel 1978 ci sarà un dolce ogni due giorni. Poi, nel 1979, un dolce al giorno, e così via. Così le persone vivono collettivamente e hanno a sufficienza da mangiare; sono soddisfatte e felici di vivere in questo sistema».

Il partito, scrive il sociologo Daniel Bultmann nella sua analisi, «ha pianificato la vita della popolazione come su un tavolo da disegno, incastrandola in spazi e bisogni prestabiliti». Ovunque, giganteschi sistemi di irrigazione e campi dovevano essere costruiti secondo un modello uniforme e rettilineo. Tutte le regioni furono sottoposte agli stessi obiettivi, poiché il Partito riteneva che condizioni standardizzate in campi esattamente della stessa dimensione avrebbero avuto anche rese standardizzate. Con il nuovo sistema di irrigazione e le risaie a scacchiera, la natura doveva essere imbrigliata nella realtà utopica di un ordine completamente collettivista che eliminava le disuguaglianze fin dal primo giorno.

Tuttavia, la disposizione dei canali di irrigazione in quadrati uguali con al centro campi altrettanto quadrati portò a frequenti inondazioni, perché il sistema ignorava totalmente i flussi d’acqua naturali, e l’80% dei sistemi di irrigazione non funzionò, proprio come i piccoli altiforni da cortile non funzionarono nel Grande balzo in avanti di Mao.

Nel corso della storia, il capitalismo si è evoluto, così come si sono evolute le lingue. Le lingue non sono state inventate, costruite e concepite, ma sono il risultato di processi spontanei e incontrollati. Sebbene l’Esperanto, giustamente chiamato “lingua pianificata”, sia stato inventato nel lontano 1887, non è riuscito ad affermarsi come la lingua straniera più parlata al mondo, come si aspettavano i suoi inventori.

Il socialismo ha molto in comune con una lingua pianificata, un sistema ideato da intellettuali. I suoi aderenti cercano di conquistare il potere politico per poter poi attuare il sistema scelto. Nessuno di questi sistemi ha mai funzionato da nessuna parte, ma questo apparentemente non impedisce agli intellettuali di credere di aver trovato la pietra filosofale e di aver finalmente ideato il sistema economico perfetto nella loro torre d’avorio. È inutile discutere in dettaglio idee come quelle di Herrmann o di Klein, perché l’intero approccio costruttivista – cioè l’idea che un autore possa “sognare” un sistema economico nella sua testa o sulla carta – è sbagliato.

 

(Traduzione dell’articolo Today’s Anti-Capitalists Want to Regulate What You Can Eat, How Often You Drive, and the Size of Your Home, Rainer Zitelmann, FEE.org)

 

Lettura consigliata: Il libero mercato e i suoi nemici, L. von Mises

 

 

Yeti Carbon Footprint

Il termine Carbon Footprint è entrato nel linguaggio comune, evolvendosi da termine tecnico a parola di uso frequente nell’ambito delle tematiche ambientali. A partire dal 2020, i dati Google mostrano infatti un evidente incremento delle ricerche per queste keyword (Fig. a lato).

Quindi, è particolarmente curioso che ancora non vi siano metodi di calcolo e modelli che possano definirlo in modo semplice e preciso, nonostante ci siano enormi quantità di pubblicazioni che vantano calcoli “precisi” del CF.

Il Carbon Footprint (nel seguito CF) è, nella concezione comune, una quantità che indica l’impatto ambientale di un certo prodotto, servizio o attività. Una definizione che appare semplice e chiara, con valori facili da comprendere (quando posti in paragone: se il mio CF è doppio del tuo, allora “inquino” il doppio).

Questa semplificazione, che ne ha consentito la propagazione in quasi tutti gli ambienti della società (dai Consigli di Amministrazione alle scuole) è in realtà una grossolana sottostima della complessità di un indicatore che – se calcolato correttamente – potrebbe dare importanti informazioni sull’ottimizzazione dei processi produttivi e di smaltimento.

Le definizioni politiche o manageriali di CF erano estremamente vaghe fino a quando Thomas Wieldmann e Jan Minx (Wieldmann and Minx, 2008) ne proposero una definizione accademica, il più precisa possibile: “Il Carbon Footprint è una misura completa dell’ammontare totale di emissioni di biossido di carbonio che sono direttamente o indirettamente causate da una attività o si sono accumulate durante gli stati di vita di un prodotto.”

Il significato, qui riformulato non tanto per renderlo più comprensibile quanto per mettere in evidenza la complessità del concetto, è il seguente: per ogni attività, prodotto, servizio o persona, il CF rappresenta la quantità totale di CO2 (biossido di carbonio, espressa in Kg o comunque in peso) emessa in atmosfera da tutte le fasi di creazione e di smaltimento, considerando ogni aspetto del processo, sommato sul tempo totale di vita del prodotto.

Questa definizione ci fornisce le indicazioni di base, ma restano aperti i problemi di calcolo effettivo, che sono estremamente complicati. Ad esempio, la CO2 non è l’unico gas-serra (GHG, GreenHouse Gas): includere altri gas (tipo il metano) implica aumentare la complessità del calcolo; d’altra parte, escluderli ne diminuisce la precisione.

Altro esempio: nel definire le emissioni di produzione devono essere incluse anche le emissioni dovute al personale coinvolto, ma in misura adatta a non sovrastimare l’emissione (il lavoratore non arriva in azienda per produrre esclusivamente quel prodotto).

Il problema è che a volte le aziende non sono disposte a rivelare i dettagli del loro sistema di produzione (per motivi di brevetto o di segreto industriale), così come i governi non forniscono tutti allo stesso modo i parametri necessari alla valutazione della fase di trasporto internazionale.

Le complessità citate sopra (solamente indicative) hanno portato manager pubblici e privati ad adottare sistemi meno complessi (quali il @UK PLC), basati semplicemente sul costo di un prodotto e su un database di categorie preordinate.

Il risultato di questa semplificazione è però una forte riduzione della precisione, che può arrivare a rendere inadeguato il risultato. In un lavoro di Barnett et al (2013) è mostrato come utilizzando due metodologie diverse nel calcolo del CF di 365 prodotti, i risultati sono completamente scorrelati (vedi fig. sotto).

Ecco il motivo per cui nel titolo compare lo Yeti come paragone per il Carbon Footprint: tutti lo conoscono, nessuno l’ha realmente visto.

Valori di CF ottenuti con due diverse metodologie. Se i due metodi fossero affidabili, i punti si sarebbero allineati sulla linea rossa.

Il CF ha quindi un grave difetto di precisione, che (a seconda del metodo utilizzato) pregiudica i risultati per le categorie di prodotti/ servizi più piccoli (una persona, un oggetto od una famiglia) oppure per le grandi realtà pubbliche e private.

Con queste premesse, ci si aspetterebbe che l’utilizzo del CF sia confinato ad ambiti ristretti, dove il detto “meglio una misura qualunque che nessuna misura” ha più senso.

Troviamo invece il CF citato e preso in considerazione in ambienti in cui il risultato non può che essere impreciso, se non completamente inattendibile, come il CF di una casa, di una famiglia o di un’auto.

Basarsi su indicatori che sono fondamentalmente imprecisi è un grave rischio. Il burocrate o parlamentare medio, che ha scarse conoscenze ma ampi poteri legislativi, proverà a convertire i buoni propositi ambientali in leggi, regolamenti e divieti che gravano pesantemente sulla vita dei cittadini, senza essere efficaci nel contrasto al cambiamento climatico.

La PCA, o Personal Carbon Allowance, è stata già pensata nel 2008 nel Regno Unito, come misura per contrastare l’aumento delle emissioni di gas serra. In pratica si sarebbe stabilito un tetto massimo alle emissioni (quindi il CF) che una persona poteva utilizzare per scaldare la propria casa, comprare cibo, andare al lavoro, ecc.; cioè, semplicemente, vivere.

Il progetto non è stato messo in pratica perché ritenuto politicamente inammissibile, ma le recenti misure fortemente coercitive legate alla pandemia hanno rivalutato la possibilità che il PCA possa essere, ora, socialmente accettabile.

Su Nature, la prestigiosa rivista scientifica inglese, un articolo di Fuso Nerini et al. (2021) discute come la PCA sia ora potenzialmente ammissibile e, anzi, auspicabile. Senza segnalare l’inaffidabilità del calcolo del CF, e con solo un fugace riferimento ai problemi di privacy, l’articolo ipotizza il modellamento dei comportamenti individuali, dai viaggi alla scelta del cibo, utilizzando come sensori le tecnologie già presenti (controllo degli spostamenti tramite cellulare-GoogleMap, verifica dei consumi tramite apparecchiature Smart Home). 

Riassumendo in modo estremo, possiamo dire che le nostre libertà individuali potrebbero essere revocate sulla base di misure di Carbon Footprint la cui attendibilità è praticamente nulla. Non possiamo lasciare che avvenga qualcosa del genere; è importante discutere del Carbon Footprint e del cambiamento climatico in maniera seria, senza semplificazioni e senza coercizioni dall’alto. 

Referenze

Wiedmann,T., Minx,J. (2008). A Definition of Carbon Footprint, in C.Pertsova(ed.) Ecological Economics Research Trends, Nova Science Publisher, Chapter 1, pp.1-11

Barnett, A. J., Barraclough, R. W., Becerra, V. and Nasuto, S. (2013). A comparison of methods for calculating the carbon footprint of a product.

Kruger, J., & Dunning, D. (1999). Unskilled and unaware of it: how difficulties in recognizing one’s own incompetence lead to inflated self-assessments. Journal of Personality and Social Psychology, 77(6), 1121.

Defra, UK, 2008, Synthesis report on the findings from Defra’s pre-feasibility study into personal carbon trading, Department for Environment, Food and Rural Affairs, https://www.teqs.net/Synthesis.pdf

Fuso Nerini, F., Fawcett, T., Parag, Y. et al. Personal carbon allowances revisited. Nature Sustain 4, 1025–1031 (2021).

Perché il mondo ha bisogno di libertà economica

Immaginate di svegliarvi una mattina in un letto diverso dal vostro; tutti si rivolgono a voi chiamandovi Presidente e chiedendovi di risolvere i più disparati problemi nazionali: migliorare le condizioni di vita, creare posti di lavoro, ridurre l’inquinamento, e così via.

Sono indubbiamente questioni molto complesse e non sapreste gestirle nemmeno singolarmente, figurarsi tutte insieme. Tuttavia, uno dei vostri consiglieri si fa avanti e suggerisce che, in realtà, tali problematiche possono essere affrontate in contemporanea tramite una particolare strategia politica: aumentare la libertà economica.

Chiunque sarebbe scettico. Il mondo è complicato, e non esiste una soluzione universale a tutti i dilemmi moderni. Eppure, i dati suggeriscono il contrario.

CHE COS’È LA LIBERTÀ ECONOMICA?

A livello concettuale, la libertà economica è definita come “il diritto fondamentale di ogni essere umano di controllare il suo lavoro e la sua proprietà”. Una società economicamente libera è quella in cui: 

  • gli individui sono liberi di lavorare, produrre, consumare e investire in qualsiasi modo preferiscano;
  • i governi permettono che lavoro, capitali e beni si muovano liberamente, ed evitano coercizioni o limitazioni della libertà oltre a quelle necessarie per proteggere e mantenere la libertà stessa.

Ogni anno The Heritage Foundation, un influente think tank statunitense, compila l’Indice di Libertà Economica, assegnando ad ogni paese del mondo un punteggio indicativo di quanto sia libera la sua economia; tale punteggio è calcolato a partire da 12 fattori raggruppati in 4 macro aree.

Tale indice, data la sua natura numerica, risulta particolarmente efficace per effettuare analisi statistiche di correlazione con altre variabili.

IL POTERE DELLA LIBERTÀ ECONOMICA

Il libero mercato arricchisce tutte le parti coinvolte. Questo è l’assunto su cui si basa l’ideologia liberista, e l’analisi di correlazione tra libertà economica e PIL pro capite (per potere d’acquisto) ne dimostra la validità. Il PIL pro capite, misura del reddito medio dei cittadini di un paese, risulta infatti essere fortemente connesso con l’indice di libertà economica. 

Il grafico di seguito, comprendente tutti i paesi del mondo, mostra la relazione tra libertà economica e PIL pro capite, rappresentate rispettivamente sull’asse X e sull’asse Y; ogni punto rappresenta un paese.

Come si nota, nel mondo vi è una correlazione fortemente positiva tra libertà economica e PIL pro capite, al punto che la linea di tendenza assume andamento esponenziale. Il coefficiente di correlazione è di 0,65, e il coefficiente R2 è di 0,43; tali valori significano che l’indice di libertà economica riesce, da solo, a spiegare il 43% delle variazioni nel PIL pro capite.  

In generale, risulta chiaro come i paesi liberi riescano a raggiungere livelli di ricchezza enormemente superiori a quelli non liberi.

L’Italia si posiziona appena sopra la linea di demarcazione tra paesi non liberi e paesi liberi, classificandosi come “moderatamente libera”. La libertà economica italiana risulta infatti una delle più basse in tutta Europa e ultima in Europa occidentale: peggio di noi solo la Grecia e alcuni paesi dell’Ex Unione Sovietica e dell’Ex Jugoslavia.

Il grafico mondiale risulta comunque avere molto rumore, con paesi che deviano notevolmente dalla linea di tendenza. Generalmente, tali anomalie possono essere spiegate piuttosto facilmente: i paesi eccessivamente più ricchi del previsto sono tipicamente paesi petroliferi oppure paradisi fiscali, mentre i paesi eccessivamente al di sotto della linea di tendenza hanno raggiunto buoni livelli di libertà economica solo in tempi recenti e non hanno quindi ancora avuto modo di raccoglierne i frutti.

Ulteriori informazioni emergono dall’analisi regione per regione:

Ad eccezione dell’Europa, vi è sempre una relazione esponenziale tra libertà economica e ricchezza media. La correlazione, pur oscillando tra lo 0,43 dell’Africa Sub-Sahariana e lo 0,73 dell’Asia Pacific, rimane sempre positiva: 

all’aumentare della libertà economica, la ricchezza aumenta SEMPRE.

Tuttavia, tale meccanismo risulta essere più debole nelle Americhe e in Africa Sub-Sahariana. Non è certo una sorpresa: le due regioni sono le più pericolose del pianeta, con altissimi tassi di violenza dovuti a narcotraffico e guerriglie; tale assenza delle sicurezze essenziali, unita a instabilità politica, corruzione diffusa e scarsità di infrastrutture, scoraggia gli investimenti in attività produttive, limitando fortemente il potere della libertà economica. Ciò non significa comunque che essa sia inefficace: in America Centro-Meridionale -ad eccezione di Trinidad e Tobago, piccolo paese insulare ricco di petrolio, e le Bahamas, centro finanziario offshore- il paese più libero, il Cile, risulta essere anche quello più ricco.

SI potrebbe argomentare che, se effettivamente tali problematiche fossero sufficienti a spiegare una relazione più debole, il coefficiente di correlazione del Medio Oriente e Nord Africa, una delle regioni più travagliate del globo, dovrebbe avere un valore ben più basso di 0,62, addirittura superiore a quello europeo. Ancora una volta, la spiegazione è semplice: i dati non tengono conto di ben 4 paesi (Libia, Siria, Iraq, Yemen) attualmente scossi da lunghe guerre e per cui non è possibile calcolare l’indice di libertà economica. 

In sintesi, quando si prendono in considerazione solo paesi (relativamente) stabili, la forte relazione tra libertà economica e PIL pro capite è ripristinata.

La libertà economica risulta particolarmente potente nella regione Asia Pacific (Subcontinente Indiano, Estremo Oriente, Oceania), dove la curva esponenziale è molto ripida e seguita quasi perfettamente dai paesi; le uniche anomalie sono Macao, principale hub del gioco d’azzardo (e del riciclaggio) del Pacifico, e il Brunei, micro stato ricchissimo di petrolio. Qualora non si considerino tali due eccezioni, la correlazione raggiunge addirittura un impressionante 0,86.

Non vi sono dubbi: se una mattina vi risvegliaste nei panni del presidente di un paese di questa regione, aumentare la libertà economica sarebbe il modo più rapido ed efficace per arricchire i vostri cittadini.

A questo punto, avrete sicuramente già pensato all’obiezione più ovvia: correlation is not causation, ossia correlazione non implica causalità. La presenza di una forte correlazione tra libertà economica e reddito medio non significa che le variazioni di quest’ultimo siano causate dalle variazioni nella libertà: potrebbe esserci una causa comune a monte che spinge le due variabili a comportarsi nello stesso modo, oppure la relazione potrebbe essere inversa, e sarebbe la maggiore ricchezza a spingere i governi a liberalizzare l’economia. 

La seconda ipotesi può essere facilmente smentita, dal momento che, in tutti i grafici, vi sono molte più anomalie al di sopra della linea di tendenza che non al di sotto; ossia, è molto più comune che un paese già ricco (grazie alle sue risorse naturali o a particolari condizioni storiche, legali o fiscali) decida di mantenere un’economia più chiusa che non di aprirla. E, soprattutto, se un paese senza particolari risorse fosse comunque in grado di arricchirsi senza aumentare la libertà economica, che motivo avrebbe per farlo?

Rimane quindi l’ipotesi della causa comune. Ma quale potrebbe essere tale causa? Risposta breve: nessuna. Non esiste nessuna ragione a monte che riesca a spiegare una relazione così forte e onnipresente nel mondo. Al contrario, le teorie economiche e i numerosi paesi che hanno avuto notevoli percorsi di sviluppo dopo aver cominciato ad aprire le loro economie dimostrano chiaramente che, in questo caso, non si tratta di semplice correlazione, ma di vera e propria causalità: liberalizzare l’economia porta ad uno standard di vita più alto.

Non si può abolire la povertà con una legge. Ciò che la legge può fare è creare opportunità, e non c’è opportunità più grande della libertà.

Ma il potere della libertà economica non si ferma qui. paesi più liberi hanno maggiore mobilità sociale ascendente, con correlazione di 0,74. 

In parole povere, in un paese più libero, è più facile che il figlio riesca a diventare più ricco dei genitori.

Inoltre, paesi a economia libera hanno migliori performance ambientali, con correlazione di 0,66, risultando quindi più sostenibili. 

La libertà economica non migliora solo le condizioni dei cittadini, ma anche quelle dell’ambiente.

SI potrebbe proseguire a lungo: la pagina The Power of Economic Freedom, del sito di Heritage Foundation, mostra come la libertà economica influenzi positivamente l’imprenditorialità, la crescita economica, lo sviluppo umano, l’innovazione e molto altro.

I dati non mentono. L’umanità è sulla strada giusta, il mondo non è mai stato un posto migliore e non possiamo permetterci di fermarci ora. 

La libertà economica non è una certo una panacea universale a tutti i mali del mondo, ma è uno degli strumenti più potenti in nostro possesso.

Non sprechiamolo.

La guerra nucleare (segreta) dell’Unione Sovietica

Grazie alla miniserie “Chernobyl”, il grande pubblico ha scoperto quanto il governo sovietico fosse disposto a sacrificare vite umane, comprese quelle dei suoi stessi cittadini, per salvaguardare il prestigio e la potenza dell’URSS. Questo, gli abitanti di Semipalatinsk lo sapevano già, in quanto lo hanno vissuto, e lo stanno vivendo, sulla loro pelle.

Per quarant’anni, dal 1949 al 1989, la città di Semipalatinsk (oggi Semej) in Kazakistan è stata il campo di battaglia di una guerra nucleare segreta, condotta dal governo dell’Unione Sovietica contro i cittadini sovietici. Sebbene tale guerra sia finita quasi trent’anni fa, e l’URSS stessa non esista più, la sua eredità di dolore e morte sopravvive ancora oggi.

La storia del poligono nucleare di Semipalatinsk iniziò con un uomo oggi quasi del tutto dimenticato ma il cui nome, nell’URSS verso la fine degli anni Quaranta, era temuto quasi quanto quello di Stalin stesso: Lavrentij Pavlovič Berija, capo dell’NKVD, la polizia segreta. Sul conto di Berija, è sufficiente sapere che Stalin in persona lo descriveva come “il nostro Himmler”.

All’epoca, la priorità assoluta per il regime comunista era quella di recuperare il vantaggio degli americani nella corsa agli armamenti nucleari. Per fare questo, era necessario un sito adatto ad ospitare il programma nucleare sovietico. Berija quindi, incaricato a tal proposito da Stalin, scelse il remoto sito di Semipalatinsk, descrivendo la regione come “disabitata”. Non era vero: nella vasta regione interessata dai test nucleari, vivevano quasi due milioni di persone[1].

Come per molte tragedie che hanno contraddistinto l’esistenza dell’Unione Sovietica, dall’Holodomor a Chernobyl, anche nel caso di Semipalatinsk è quasi impossibile definire con certezza il confine fra la stupidità del regime e la sua brutalità criminale: i test nucleari vennero condotti in un’area popolata per pura stupidità, o perché il governo sovietico era interessato a studiare gli effetti delle radiazioni sulla popolazione?

Gli elementi sembrerebbero dimostrare la seconda ipotesi. Per esempio, dalle testimonianze degli abitanti risultano diversi casi in cui i militari hanno costretto le persone ad uscire di casa durante i test nucleari[2], in modo da massimizzare la loro esposizione alle radiazioni e quindi la loro utilità come soggetti di studio involontari.

In ogni caso, tre cose sono innegabili: la portata della devastazione che il governo sovietico ha scatenato su Semipalatinsk, l’ossessione del regime per la segretezza al posto della sicurezza, e le vittime.

Fra il 1949 ed il 1963, in questa zona del Kazakistan (regione abitata, bisogna tenerlo a mente, da circa due milioni di persone) sono stati effettuati più di 110 test nucleari in superficie, con ordigni anche 25 volte più potenti di quello usato ad Hiroshima[3]. Dal 1963 fino all’abbandono del sito, i test si sono svolti sottoterra.

Sin dall’inizio le autorità sovietiche, come poi a Chernobyl, non si fecero scrupoli nel mentire ai loro cittadini: infatti, la sezione locale del PCUS, in seguito alla prima di una lunga serie di detonazioni nucleari, classificò l’evento come un semplice terremoto, nulla di cui preoccuparsi. Successivamente, nel 1957, venne stabilita nella zona una “Clinica anti-Brucellosis”, ufficialmente per monitorare i casi di tubercolosi, in realtà per osservare gli effetti dei test nucleari sui civili inconsapevoli[4]. Tali effetti non tardarono a manifestarsi.

Questo perché il regime comunista, nella sua superiore saggezza, aveva scelto come sito per detonare i suoi ordigni più devastanti una regione caratterizzata tutto l’anno da forti venti, che trasportarono in lungo e in largo le radiazioni, tanto che si stima che almeno 1,5 milioni di persone siano state esposte ad esse[5]. Forse il governo sovietico non l’aveva previsto, forse l’aveva previsto e ha deciso di ignorare le conseguenze, entrambe le ipotesi sono ugualmente plausibili.

Del resto, il PCUS aveva del lavoro ben più importante da svolgere: per esempio, trovare delle scuse. Infatti, quando le autorità kazake iniziarono a riportare a Mosca l’aumento repentino di tumori e malformazioni, il governo sovietico rispose prontamente incolpando la povertà della dieta kazaka, oppure la loro abitudine di bere tè troppo caldo[6].

Un esempio della vita ai tempi del poligono nucleare di Semipalatinsk: nel 1956, a seguito di un test in superficie, oltre 600 residenti della città di Ust-Kamenogorsk, a quasi 400 kilometri dal sito della detonazione, vennero ricoverati con evidenti sintomi da avvelenamento da radiazioni. Per un’inquietante coincidenza, non esistono documenti su cosa sia successo loro dopo il ricovero in ospedale[7].

I 600 abitanti di Ust-Kamenogorsk costituiscono però solo la punta dell’iceberg: degli 1,5 milioni di persone esposte alle radiazioni, 67000 sono state contaminate in modo grave, mentre oltre 40000 sono decedute[8], senza neanche sapere il perché della loro morte. Ma il lascito nucleare dell’URSS si estende, oltre che nello spazio, anche nel tempo: ad oggi, sebbene i test siano terminati trent’anni fa, il tasso di tumori e quello di malformazioni nei neonati restano marcatamente superiori alla media.

La triste vicenda del poligono nucleare di Semipalatinsk risulta ancora più rilevante se paragonata a quella di un suo sito gemello, attivo nello stesso periodo: il Nevada Test Site, negli Stati Uniti.

Superficialmente, fra i test nucleari condotti in Nevada e quelli condotti a Semipalatinsk non vi è alcuna differenza: in entrambi i casi, fino al 1963, il governo di una superpotenza ha condotto test nucleari in superficie in un’area tutt’altro che disabitata, ed in entrambi i casi c’è stato un costo in vite umane. Ma fra le due vicende ci sono anche delle fondamentali differenze.

In primo luogo, la trasparenza. Mentre il governo sovietico ha fatto finta di niente per decenni, fingendo d’ignorare la vera natura del poligono nucleare di Semipalatinsk, i cittadini americani erano perfettamente consapevoli di cosa fosse il Nevada Test Site, e non solo: in città come Las Vegas si registrò un vero e proprio boom turistico, grazie alle persone attratte dalla vista delle detonazioni in lontananza[9].

In secondo luogo, la sicurezza al posto della segretezza: mentre il PCUS si è concentrato sulla seconda, per nascondere ai propri cittadini la verità su Semipalatinsk, senza curarsi della loro sicurezza, il governo americano si è rivolto ai maggiori esperti di meteorologia per tracciare il percorso dei venti radioattivi, e salvaguardare così la salute degli abitanti nelle zone limitrofe[10]. Naturalmente, visto che anche il Nevada Test Site ha causato delle vittime, questo non ha funzionato perfettamente, ma proprio qui vi è la più grande differenza fra le due vicende.

Infatti, mentre nell’Unione Sovietica le proteste dei cittadini sono state ignorate nel migliore dei casi e nel peggiore dei casi chi ha protestato è finito in un gulag, i cittadini americani avevano la fortuna di vivere in un Paese libero, in cui il governo non gode di un arbitrio illimitato.

Più volte, nel corso dell’articolo, è stato menzionato il 1963 come anno in cui i test nucleari in superficie sono stati banditi in tutto il mondo. Questo bando, che ha avuto ripercussioni positive anche sugli sfortunati abitanti di Semipalatinsk, è stato reso possibile proprio grazie alle proteste delle vittime del Nevada Test Site, i cosiddetti “Downwinders”.

Nonostante questo importante successo, la strada era ancora lunga. Infatti, per decenni il governo americano ha rifiutato di accettare la responsabilità per i danni causati ai Downwinders. Alla fine, nel 1990, gli sforzi delle vittime sono stati coronati da successo, ed il governo degli Stati Uniti fu costretto a stabilire un fondo per risarcire i Downwinders. Ad oggi, questo fondo ha rilasciato risarcimenti per un totale di oltre 2 miliardi di dollari. Per offrire un paragone, le vittime del poligono nucleare di Semipalatinsk ricevono come risarcimento una somma pari a 12 dollari ogni mese[11].

In ultima analisi, quindi, perché gli abitanti di Semipalatinsk hanno sofferto un destino ben peggiore di quello dei Downwinders? Di sicuro, non perché gli americani fossero geneticamente più intelligenti o predisposti al bene rispetto ai sovietici.

Forse i politici americani erano uomini migliori rispetto ai burocrati del PCUS? In parte sì, ma non abbastanza (com’è stato già detto, il governo americano non ha deciso, di propria spontanea volontà, di porre fine ai test in superficie, di accettare la responsabilità per le vittime e di risarcirle, bensì è stato costretto a farlo).

Alla fine, un’unica cosa ha fatto la differenza fra i Downwinders e gli abitanti di Semipalatinsk: la libertà. La libertà di parola, la libertà di associazione, la libertà di protesta, strumenti che hanno consentito a normalissimi abitanti del Nevada di piegare ai propri voleri il governo della nazione più potente al mondo.

[1] [6] [8] https://www.peacelink.it/ecologia/a/3420.html

[2] https://www.google.com/amp/s/www.rferl.org/amp/Sixty_Years_After_First_Soviet_Nuclear_Test_Legacy_Of_Misery_Lives_On/1809712.html

[3] [5] [7] https://www.nature.com/articles/d41586-019-01034-8

[4] https://www.google.com/amp/s/thebulletin.org/2009/09/the-lasting-toll-of-semipalatinsks-nuclear-testing/amp/

[9] [10] [11] https://youtu.be/bByJdUw8KtE

 

 

 

 

La scienza ai tempi dell’URSS: Stalin e la genetica

Tra gli argomenti preferiti degli apologeti dell’URSS spiccano le conquiste della scienza sovietica. Naturalmente, molte di esse sono innegabili, basti pensare allo Sputnik ed all’impresa di Yuri Gagarin. Tuttavia, esiste un capitolo molto meno famoso della scienza sovietica, un capitolo di arroganza e follia: la storia di Trofim Lysenko e del Lysenkoismo.

Questa è la storia di come, dal 1937 al 1964, le autorità sovietiche hanno tentato di sostituire le leggi della natura della “decadente borghesia occidentale” con quelle dello Stato comunista.

In un mondo migliore, forse, il nome di Trofim Lysenko non sarebbe mai passato alla storia. Nato nel 1898 in una famiglia di contadini, Lysenko si laureò nel 1925 in agronomia. Nel corso dei suoi studi, egli sviluppò una propria teoria pseudoscientifica, il Lysenkoismo per l’appunto.

In poche parole, il Lysenkoismo, riprendendo le teorie di Lamarck e rifiutando le scoperte di Mendel e dei genetisti del primo Novecento, sosteneva l’ereditarietà dei caratteri acquisiti.

Secondo Lysenko, quindi, i tratti imposti agli organismi dai fattori ambientali possono essere ereditati: per esempio, tagliando le code dei topi per diverse generazioni sarebbe possibile produrre un ceppo di topi senza coda.

Lysenko pertanto sosteneva la possibilità di coltivare grano in Siberia, semplicemente esponendolo al freddo e “rieducandolo” così a resistere al gelo, e lasciò diffondere voci sulle potenzialità quasi miracolose della sua teoria (per esempio, quella secondo cui grazie ad essa sarebbe stato possibile far crescere piante tropicali al Circolo Polare Artico)[1].

Con tutta probabilità, il Lysenkoismo sarebbe stato bollato già allora come pseudoscienza, se non fosse stato per tre importanti fattori che giocarono a favore dell’agronomo sovietico.

Innanzitutto, l’Unione Sovietica negli anni Trenta era una nazione tormentata dalle carestie (dovute soprattutto ai pessimi risultati della collettivizzazione dei terreni agricoli imposta dal regime comunista), ed in un contesto simile le mirabolanti promesse di Lysenko suscitarono grande interesse.

In secondo luogo, Lysenko stesso, per il fervore della sua fede comunista e per il suo background (povero contadino diventato geniale scienziato, il sogno sovietico realizzato) era persona grata al PCUS. Infine, aveva un asso nella manica: uno dei suoi più grandi fan era il Compagno Stalin.

Non è molto noto, ma Stalin nutriva un certo interesse per la genetica. Come il suo collega Hitler, egli era convinto della possibilità scientifica di creare un uomo nuovo, una nuova umanità. Se Hitler voleva creare una razza di superuomini ariani, Stalin voleva creare il “nuovo uomo sovietico” (Homo Sovieticus, come verrà parodizzato in seguito).

Il Lysenkoismo, quindi, era perfettamente in linea con le idee di Stalin: così come il grano, esposto al gelo, avrebbe modificato la sua natura originaria per crescere in Siberia, allo stesso modo i popoli dell’URSS, se esposti ai valori del socialismo sovietico per abbastanza tempo, li avrebbero incorporati nel loro stesso essere, tramandandoli di generazione in generazione come l’altezza o il colore dei capelli.

L’appoggio di Stalin, quindi, garantì a Lysenko una carriera brillante[2]: presidente dell’Accademia Lenin delle scienze agrarie nel 1938, direttore dell’Istituto di Genetica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS nel 1940, vincitore di tre Premi Stalin da 100000 rubli, di sei Ordini di Lenin e di numerose altre onorificenze. Cosa fece Lysenko con tutto questo potere?

Prima di tutto, si preoccupò di consolidare il suo monopolio sulla scienza sovietica[3]: fra il 31 luglio ed il 7 agosto 1948, si tenne a Mosca un grande dibattito sulla genetica al quale parteciparono i più importanti biologi, genetisti ed agronomi dell’Unione Sovietica, molti dei quali denunciarono apertamente l’infondatezza delle teorie di Lysenko.

Al termine del dibattito, Lysenko rispose loro con una semplice affermazione:

Il Comitato Centrale del Partito ha esaminato la mia relazione e l’ha approvata.

Con questo, Lysenko aveva voluto nascondere fino all’ultimo di avere l’appoggio incondizionato di Stalin, per tendere una trappola ai suoi critici. Per molti di essi era ormai troppo tardi: le loro carriere vennero stroncate, ed i loro posti occupati da fedeli yesman di Lysenko.

Questa purga del mondo scientifico sovietico, con la conseguente perdita di conoscenze e talenti, ritardò in modo significativo lo sviluppo della biologia e di molte altre scienze nell’URSS.

Senza più rivali, Lysenko si adoperò con grande impegno affinché le sue teorie venissero applicate nel modo più rigoroso possibile.

Per esempio, secondo Lysenko[4] i semi di piante diverse dovevano essere piantati gli uni vicini agli altri, affinché potessero aiutarsi a vicenda secondo i principi della lotta di classe. Come risultato le piante, in competizione fra loro per le risorse, finirono per ostacolarsi a vicenda nella crescita.

Sempre secondo Lysenko[5], i semi andavano piantati a grande profondità, in quanto era lì che il terreno era più fertile. I contadini, quindi, furono costretti a lavorare faticosamente per piantare semi all’assurda profondità di due metri, compromettendo così gli strati più superficiali del suolo, i più importanti per l’agricoltura.

Se consideriamo che il Lysenkoismo venne applicato durante il “Grande Balzo in avanti”[6], il piano sviluppato da Mao che risultò nella morte per carestia di decine di milioni di persone in Cina dal 1959 al 1961, le reali dimensioni dei crimini di Lysenko risultano evidenti.

Il monopolio di Lysenko sulla scienza sovietica durò a lungo, ben oltre la morte del suo benefattore Stalin. Solo nel 1965, dopo la caduta di Kruscev, Lysenko venne sollevato dai suoi incarichi, per poi morire ormai dimenticato nel 1976.

Sono molte le lezioni che si potrebbero trarre da questo oscuro capitolo della scienza sovietica, ma probabilmente le più importanti sono due.

La prima, la più immediata, è che la scienza non deve mai, in alcuna circostanza ed in alcuna misura, essere mescolata con l’ideologia, qualsiasi essa sia. Questo perché mentre la scienza cerca di rappresentare nel modo più fedele possibile il mondo, cosi come esso funziona, le ideologie cercano di trasformare il mondo in una versione più fedele possibile di quello che, secondo loro, dovrebbe essere.

La seconda è che, come in ogni altro ambito della vita umana, uno Stato onnipotente non può non avere che ripercussioni negative. Se il parere di un singolo tiranno può azzittire le voci di mille scienziati, allora qualsiasi speranza di progresso è perduta. Solo in un regime di libertà, al riparo dallo Stalin di turno, un vero scienziato può mettere i Lysenko di questo mondo al loro posto, per la scienza e per l’umanità intera.

[1][2][3] https://www.nytimes.com/1976/11/24/archives/symbol-of-stalinist-science.html

[4][5][6] https://www.google.com/amp/s/www.wired.it/amp/41590/play/cultura/2014/08/29/mao-tse-tung/

La Thatcher e l’ambiente

Solitamente Margaret Thatcher, specie negli ambienti di sinistra, viene dipinta come una nemica dell’ambientalismo, principalmente a causa di due citazioni note, ossia:

Il riscaldamento globale fornisce un’enorme scusa per il socialismo globale

Un uomo che si trova a 26 anni su un bus può considerarsi un fallimento

 

Se la prima citazione è sicuramente della Baronessa sulla seconda c’è, invece, molta incertezza, sia negli anni sia nell’attribuzione. Ponendo che sia vera, sarebbe comunque chiaramente un riferimento al capitalismo popolare tanto caro a Maggie: nel favorire il possesso individuale, all’epoca, sarebbe stato quasi impensabile non avere un’automobile.

 

Sulla prima citazione, comunque, non possiamo che dare ragione alla lady di ferro: solo pensando alle tanto discusse manifestazioni Fridays for Future abbiamo potuto vedere numerosi slogan anticapitalisti, canzoni come Bella Ciao che, per quanto strutturalmente apolitiche, sono state usate come mezzo politico.

Ormai è palese come i movimenti anticapitalisti usino come grimaldello per le proprie idee la tutela dell’ambiente. Ed è a ciò, non alla tutela dell’ambiente, che la Thatcher si oppose.

Infatti Margaret Thatcher sostenne fermamente, addirittura davanti alle Nazioni Unite, la volontà di salvare il Pianeta ma che, soprattutto, il capitalismo sia perfettamente in grado di farlo. La sua logica è semplice: per attuare misure utili per l’ambiente bisogna avere il benessere per farlo, e solo un sistema economico capitalista lo garantisce.

È necessaria una continua crescita economica per poter pagare la protezione dell’ambiente. Non possiamo saccheggiare il pianeta oggi e lasciare le conseguenze ai nostri figli domani

Margaret Thatcher

I regimi socialisti, infatti, sono tipicamente molto poco interessati all’ambiente e preferiscono raggiungere obiettivi produttivi o la glorificazione dell’ideale.

Chi ha, nel nome dell’ideale, fatto scoppiare una centrale nucleare inquinando mezza Europa? Chi ha prosciugato il lago d’Aral? Chi ha diffuso armi chimiche nell’ambiente? Non qualche cattivone Paese capitalista, ma l’Unione Sovietica.

Tutto ciò per il semplice fatto che al burocrate medio di uno Stato socialista non importa nulla dell’ambiente, ma solo dell’ideologia. A dimostrarlo è, ad esempio, la cittadina di Dzeržinsk, tristemente nota come la più inquinata al mondo a causa delle industrie pesanti sovietiche della zona.

E qui Margaret Thatcher ha ragione: se nel capitalismo ci possono essere problemi ambientali che, comunque, col benessere prodotto si possono provare a risolvere, il comunismo è un disastro economico annunciato e, se tutela l’ambiente, è solo perché fa vivere i propri cittadini in estrema povertà.

Capitalismo e ambiente. La rinuncia al primo favorirebbe il secondo?

La maggior parte degli ecologisti attribuisce al capitalismo e all’industria la colpa dell’eccessivo sfruttamento di risorse e della degradazione dell’ambiente, se ne dedurrebbe che l’abbandono del modello capitalista porterebbe ad una migliore condizione dell’ambiente.

Ma si potrebbe abbandonare il capitalismo? A che costo? Come?

Anche Karl Marx era convinto di poter arrivare ad abbandonare il capitalismo, ma solo dopo aver spremuto fino all’ultima goccia del suo progresso scientifico. Pertanto ne criticava la forma ma non il funzionamento definendolo un male necessario al fine di raggiungere il bene supremo: un mondo comunista talmente avanzato tecnologicamente da non necessitare più della spinta innovatrice dei privati.

Lo sviluppo economico è un viaggio in cui è certa la stazione in cui siamo arrivati, ma non possiamo sapere che successivamente non ne troveremmo di migliori. Non è possibile considerare un determinato livello di sviluppo umano come la sua massima espressione possibile, considerando infinite le idee.

Abbandonare il capitalismo avrebbe un costo incalcolabile, quello di abbandonare le scoperte ancora ignote per favorire quelle che abbiamo già a portata di mano. Il capitalismo viene considerato la sciagura per i problemi umani e ambientali, ma in realtà sarebbe la principale cura, se gli fosse concesso di agire secondo le proprie leggi intrinseche.

Adam Smith credeva in un disegno più grande che abbracciava l’economia di mercato (e l’ecologia di mercato, ndr). Vi è per lui un processo spontaneo che lega gli interessi particolari (degli industriali e dei consumatori) ai benefici universali (dell’ambiente). Colui che offre un prodotto deve andare incontro ai bisogni dei consumatori, essendo questi manovratori del sistema di mercato. Se i consumatori chiederanno più ecologia, i produttori non potranno ignorarli a lungo. Inoltre, la ricerca del profitto spinge ad offrire prodotti sempre migliori a un prezzo sempre minore per far fronte alla concorrenza.

Ciò genera innovazione tecnologica che innalza la qualità dei prodotti e l’efficienza che si traduce in un abbassamento dei costi di produzione. Chiaro che l’ambiente ne tragga un vantaggio in quanto eliminare i prodotti di scarto risulta una voce importante nelle spese di produzione. In un’ottica capitalista di mercato i rifiuti tenderebbero a cessare di esistere o non sarebbero più dei semplici scarti. Grazie alla volontà di profitto degli imprenditori, diventerebbero prodotti da vendere e non sarebbero più un costo, ma una possibilità.

Lo sviluppo tecnologico

L’economia circolare, nonostante i romantici la definiscano come “un nuovo modello di produzione”, non è altro che il vecchio modello esasperato nei benefici.

La spinta di mercato ha generato uno sviluppo tecnologico tale da rappresentare radicali miglioramenti già solo nell’ultimo ventennio. I consumatori hanno richiesto negli anni una sempre maggiore concentrazione di servizi considerando, ad esempio, i soli smartphone. Va da sé che gli altri apparecchi elettronici, ormai obsoleti, siano andati mano a mano diminuendo.

Per la stessa quantità di servizi al giorno d’oggi utilizziamo una minore quantità di risorse e abbiamo un minore impatto sull’ambiente.

Ulteriore esempio è il passaggio dalla carta alla memorizzazione elettronica sviluppatasi poi in modo sempre più efficiente. Appena venti anni fa per stoccare 8 GB di dati servivano migliaia di floppy, ora serve una sola chiavetta USB pertanto la quantità di materiali e plastiche per la fabbricazione di un oggetto dalla stessa capacità è notevolmente diminuita.

Il confronto fra la carta stampata e la memorizzazione elettronica è ancora più impietoso: è famosa la fotografia di Bill Gates imbragato e appeso a diversi metri di altezza con sotto di lui una pila di migliaia di fogli che contenevano gli stessi dati che era possibile immagazzinare nel CD-ROM che teneva nel palmo della sua mano.

Infine, abbandonare il capitalismo porterebbe a mantenere l’attuale sistema produttivo, ma senza un’efficiente allocazione delle scarse risorse, ignorando le possibili soluzioni future provenienti dal mercato e senza portare nessun vantaggio per l’ambiente.

Leggi anche “Ambientalismo e socialismo: una storia d’amore”.

Perché Greta Thunberg non salverà l’ambiente (ma il capitalismo sì)

La società negli ultimi duecento anni attraverso l’industrializzazione ha raggiunto livelli di comfort inauditi. Abbiamo sconfitto i grandi morbi dei secoli scorsi come mortalità infantile, poliomielite, meningite, malaria e fame. In cambio abbiamo ottenuto ricchezza, cibo a volontà e mezzi per spostarci in ogni parte del mondo.

Tutto ciò però ci è costato tanto. A causa dell’enorme crescita industriale, le emissioni di gas serra sono aumentate vertiginosamente provocando un aumento delle temperature. 

Media della temperatura globale

Per questo milioni di persone sono scese in piazza a Roma insieme a Greta Thunberg – giovane attivista svedese per il surriscaldamento globale – a ricordarci ancora una volta perché siamo spacciati e come moriremo tutti se non agiamo con azioni drastiche subito. (Ovviamente non riportando nessun dato scientifico a sostegno della sua tesi).

Secondo Greta il futuro dell’umanità è stato venduto perché poche persone possano fare soldi. L’unico modo per fermare il declino dell’ambiente e porre fine alla distruzione del mondo, che – secondo l’attivista – avverrà intorno al 2030, è quello di ridurre le emissioni del CO2 del 50%.

La giovane attivista propone di agire attraverso azioni concrete, politiche innovative, e soprattutto un nuovo modello di sviluppo. Ma c’è un problema: quali?

Quale sarebbe la magica panacea in grado di favorire lo sviluppo economico e nello stesso tempo salvaguardare l’ambiente?

Purtroppo è comune a tutti gli attivisti raccontare una realtà drammatica e catastrofica distorcendo la società attuale. Saranno sempre pronti a concentrare la nostra attenzione con storie eccitanti e distopiche.

Ma il cambiamento climatico è un problema serio, e come tale va affrontato in maniera razionale e scientifica. Bisogna prendere un bel respiro, analizzare i dati  e stare attenti a non intraprendere azioni drastiche. Gli allarmismi da parte di ragazzini di tutto il mondo non portano a nessuna azione concreta da intraprendere. 

In poche parole per risolvere questo enorme problema bisogna guardare in faccia la realtà.

Cerchiamo di fare il punto

La popolazione mondiale è composta da oltre sette miliardi di individui, dei quali un miliardo e mezzo circa, vivono in paesi sviluppati e hanno a disposizione cibo, acqua e cure a volontà (come gli Americani e gli Europei). I restanti cinque miliardi e mezzo, invece, vivono in paesi in via di sviluppo, cioè in condizioni di vita medio/basse (Cinesi o Indiani).

Ora c’è un problema: non possiamo fermare l’innovazione, non per cattiveria e malvagità ma perché semplicemente non si può pragmaticamente fare. Come si nega a sette miliardi di individui di fermare completamente il processo di industrializzazione per tornare ai livelli di iniquità del pleistocene? È oggettivamente impossibile.

Non si può, come propongono Greta e i suoi compagni d’avventura, dimezzare le emissione di CO2 o di altri gas serra per un semplice motivo: l’economia e la società attuale crollerebbe.

La soluzione quindi deve essere un’altra, anzi esiste già: il liberismo e il sistema economico capitalista.

Sembra un’antitesi affermare che il sistema industriale, la causa dei principali fattori di riscaldamento globale, dovrebbe essere lo stesso che ci permetta di risolvere il problema. Ma è cosi. (Prima di chiudere la pagina e tornare alla vostra home di Facebook, per favore continuate a leggere).

Emissioni di CO2 in paesi sviluppati (sinistra) e in paesi in via di sviluppo (destra)

Questi due grafici rappresentano le emissioni di CO2, il principale gas serra, emessi, nel primo, dai paesi sviluppati, mentre nel secondo, da paesi in via di sviluppo.

Grazie ai grafici possiamo sviluppare due asserzioni interessanti:

  1. È evidente come le emissioni dei “greenhouse gas” crescono esponenzialmente nei paesi in via di sviluppo mentre nei paesi sviluppati, dopo una crescita, diminuiscono.
  2. In generale si nota come nella prima fase dello sviluppo economico i paesi, a causa di macchinari e mezzi più vecchi, causano un enorme emissione di gas serra, per poi diminuire nel secondo periodo, nel quale i vari paesi riescono ad ottenere mezzi più efficienti che permettono un migliore uso delle risorse energetiche.

Infatti fra il 2007 e il 2017 le emissioni di CO2 sono diminuite dell’11% in USA e UE e aumentate del 29% in Asia e del 24% in Africa.* [2] E lo stesso sta avvenendo per tutti gli altri gas serra.

Emissioni di CO2 totale in paesi in via di sviluppo (developing Nation) e paesi sviluppati (developed Nation).
Si nota chiaramente come le emissioni nei paesi sviluppati stanno diminuendo.

Questo avviene poiché rispetto alle nazioni in via di sviluppo, i paesi più ricchi adottano sistemi sempre meno inquinanti grazie allo sviluppo capitalistico. 

In poche parole, il capitalismo, la nascita di nuove aziende e innovazioni, salveranno l’ambiente, Greta con la sua retorica apocalittica del “ora o mai più” no. (Anzi, rischia di far solo danni).

Certo, non dobbiamo aspettare le rimodernamenti industriali per salvare il pianeta, occorre nel frattempo assumersi le proprie responsabilità e agire consapevolmente cercando di avere uno stile di vita rispettoso nel confronti del clima e dell’ambiente.

Ma, a differenza di quanto Greta e gli altri attivisti vogliano farci credere, l’umanità non è spacciata, il riscaldamento globale non è un fenomeno irreversibile, bensì risolvibile (se affrontato cautamente con raziocinio), ma soprattutto ci ricorda ancora una volta come il capitalismo possa essere la valida soluzione anche a problemi così complessi.

Note

[1]  https://data.worldbank.org/indicator/en.atm.co2e.kt?end=2014&start=1960&view=chart

[2] https://wattsupwiththat.com/2018/07/03/bp-data-analysis-global-co2-emissions-1965-2017/

[3] https://wattsupwiththat.com/2018/07/03/bp-data-analysis-global-co2-emissions-1965-2017/

* Per il dato numero [2] il merito di averlo divulgato va a Costantino de Blasi su un suo post di Facebook (https://www.facebook.com/Sktrrbrain?epa=SEARCH_BOX)

Follie anti-nucleari

Non sono un fan a tutti i costi del nucleare: ritengo che, prima di parlarne seriamente, sia necessaria un’attenta analisi sui costi che includa anche le possibilità di sviluppo tecnologico nei prossimi anni.

Tuttavia, da diplomato tecnico e studente nel campo STEM, ogni volta che leggo le ragioni ecologiste contro il nucleare mi viene un piccolo colpo al cuore.

E la ragione è semplice: sono ridicole!

Per prima cosa giova parlare un po’ di energia: per generare sufficiente energia per un Paese come l’Italia esistono essenzialmente due tecniche: la combustione in centrali termoelettriche, che l’Italia fa in loco, e la trasformazione dell’energia nucleare in calore che alimenta una turbina, che l’Italia ha delocalizzato in Svizzera e Francia. Esiste poi una forma di energia, rinnovabile, che può coprire un certo fabbisogno, ossia l’idroelettrico.

Le altre energie rinnovabili, ad oggi, sono favolette capaci di generare solo uno sputo d’energia e che vivono solamente grazie ai sussidi fatti da politici che credono di essere verdi e che, più di aiutare l’ambiente, aiutano le tasche di chi ha un bel tetto.

L’idroelettrico è molto bello, solo che è limitato. Se nel tuo territorio hai un tot di fiumi hai un tot di potenziale energetico, e l’Italia usa bene il suo.

Il termoelettrico è pessimo: ha una scarsa resa energetica e, soprattutto, scarica gran parte delle proprie scorie in aria.

Ciò nonostante gli “ecologisti” preferiscono continuare a inquinare quando l’energia nucleare scarica in aria solo vapore.

Certo, esistono le scorie radioattive, ma a differenza delle polveri sottili possono essere rinchiuse e stipate in modo sicuro e relativamente semplice.

Inoltre, i tanto vituperati Chernobyl e Fukushima hanno causato in totale poco più di 4’000 morti. In Italia, ogni anno, ci sono 22 Chernobyl solo di morti per inquinamento dell’aria, cosa che il nucleare potrebbe evitare in larga parte, sia direttamente, con la dismissione o la riduzione del termoelettrico, sia indirettamente con l’elettrificazione di servizi oggi non elettrificati come il riscaldamento (che in Giappone, paese fortemente nuclearista, è in gran parte elettrico).

Tra l’altro, in Italia, un incidente con le rinnovabili, quello del Vajont, ha fatto quasi la metà dei morti di Chernobyl. Nessuno che parla di dighe assassine o mai più idroelettrico, mentre l’errore umano a Chernobyl dovrebbe gettar fango su tutto il nucleare.

L’odio per il nucleare è figlio della stessa semplificazione del mondo che porta allo statal-collettivismo: se esistono i poveri è colpa dei ricchi e se abbiamo paura dell’atomo basta scrivere per legge che un pannello solare alimenta tutto ciò che vuoi e, nel frattempo, bruciare l’improbabile e inquinare l’aria all’inverosimile in attesa che l’utopia del pannellino diventi realtà.