Chernobyl e l’incalcolabile prezzo delle menzogne

Se prima temevo il prezzo della verità, ora io mi chiedo solamente: qual è il prezzo delle menzogne?
– Valery Legasov

L’ultima produzione di HBO, ampiamente acclamata dalla critica[1] e dal pubblico, è la serie Chernobyl. In 5 tesissimi episodi, la serie televisiva espone tutti i dettagli e i retroscena della famosa tragedia nucleare sovietica in maniera ineditamente cruda, feroce, viscerale.

Chernobyl riesce a esplorare tutta la carica drammatica di un nemico implacabile e invisibile: le radiazioni. Questo fantasma prende vita dai resti dell’esploso reattore 4 della Centrale Nucleare Vladimir I. Lenin, la famosa Centrale di Chernobyl, rendendo la storia di tutti i personaggi un vero supplizio. Tutti sono consapevoli di essere già stati condannati a morte – alcuni moriranno nel giro di giorni, altri in qualche mese, altri ancora in pochi anni.

Non si può scappare dalle radiazioni. Il fisico nucleare Legasov afferma a un certo punto che the atom is a humbling thing (traducibile con “l’atomo è qualcosa che ci rende più umili”), appena per sentirsi ribattere dal ministro Shcherbina it’s not humbling, it’s humiliating (parafrasando, non ci rende più umili, ci umilia). Nel contesto della serie, entrambi hanno ragione: i personaggi, tutti, senza esclusioni, si sentono tanto umili quanto umiliati di fronte all’ineluttabilità della catastrofe che li circonda. Il tocco finale è la colonna sonora, interamente registrata proprio all’interno di alcune centrali nucleari, che è capace di mantenere il telespettatore in un’estasi di suspense soffocante.

Come dicevo, Chernobyl vanta numerosi meriti cinematografici e i produttori hanno avuto la singolare capacità di far sì che il pubblico riuscisse a vivere l’ampia gamma di emozioni e angustie che le vittime della cittadina sovietica di Pripyat provarono all’epoca del disastro. Ma la serie va ben oltre: se molte volte rimaniamo soffocati di fronte al peso dell’ecatombe nucleare che si sviluppa davanti ai nostri occhi, non possiamo non rimanere asfissiati in maniera analoga di fronte al peso della devastazione sociale sovietica che fa da background alle tragedie narrate. Ed è quest’ultimo la causa del primo, concetto che è bene che risulti chiaro a tutti fin dal principio.

Mi spiego meglio: il catastrofico incidente nucleare di Chernobyl, responsabile della devastazione di una ricchissima regione, tale da renderla simile ai peggiori scenari dei film post-apocalittici[2], non è la vera – o, comunque, non l’unica – tragedia raccontata dalla serie.

Il vero flagello della serie è umano, troppo umano, ed è responsabile delle terribili conseguenze che destano l’orrore del pubblico durante 5 interi episodi. Chernobyl ci offre alcuni dei migliori insight circa le conseguenze della tirannia e della menzogna.

Jordan Peterson afferma che “in a true tyranny, everyone lies about everything all the time. And that’s why it’s hell”. 

La tragedia affonda ivi le proprie radici, nella persistente e completa negazione della realtà. In un regime totalitario regna il più assoluto dei relativismi. Non esiste ciò che è giusto e ciò che è sbagliato: esiste solamente la cieca obbedienza. Obbedire è essere liberi, se mi permettete di parafrasare le parole di George Orwell. Per tale motivo, tutti mentono su tutto. Tutti hanno bisogno di mentire su tutto per tutto il tempo.

E questa negazione della realtà, nel 1986, è una bomba a orologeria pronta a esplodere.

Il fatto che l’incidente in questione sia avvenuto proprio in una centrale nucleare intitolata a Vladimir I. Lenin è una di quelle tristi ironie della storia umana che non passa inosservata a uno sguardo attento. Il sistema delle centrali nucleari era, all’epoca, il grande orgoglio sovietico. L’Unione Sovietica possedeva un numero di centrali maggiore rispetto a qualsiasi altro Paese e la complessa rete di energia nucleare rappresentava la perfezione del socialismo, della pianificazione centralizzata, dei piani quinquennali di Stalin e del sistema istituzionale votato a obbedienza, gerarchia e ordine. Era una prova del fatto che il socialismo era in grado di raggiungere anche il più avanzato livello tecnologico: era sufficiente obbligare le persone a perseguirlo.

L’esplosione del reattore 4 seppellisce questa favola lungamente decantata. Dopo la catastrofe, il mondo intero nota che “il re è nudo” (e lo è sempre stato), anche i più alti esponenti del Partito Comunista Sovietico. Lo stesso Gorbachev, nelle sue memorie, sostiene espressamente che l’incidente è stato il grande responsabile della caduta dell’URSS.

Nella serie, egli afferma “our power comes from the perception of our power”, ossia che il reale potere dell’Unione Sovietica deriva dalla percezione che si ha di tale potere. È possibile sostituire il regime sovietico con qualsiasi regime collettivista, o, più semplicemente, con qualsiasi regime che, in maggiore o minor misura, preferisce appiattire l’individuo, trasformandolo in un mero ingranaggio del sistema. Laddove gli individui sono dei semplici mezzi, e non dei fini, le tragedie sono sempre all’orizzonte.

Continuando l’analisi, l’URSS si autosostenta grazie al potere delle apparenze, della percezione, della menzogna. Sfortunatamente per i sovietici, la Verità è già di per sé un potere, un potere in grado di annichilare le apparenze.

La Verità, così come la radioattività – che lascia il pubblico senza fiato in ogni singolo minuto della serie –, è ineluttabile, trascendentale, e può essere mortale. E Chernobyl è stata in grado d’intrecciare simbolo e tragedia numerose volte nei 5 episodi. Il pubblico si sente soffocato, sì, perché le radiazioni rappresentano una minaccia troppo grande alla vita di tutti i personaggi, ma si sente anche, talvolta incoscientemente, asfissiato dal peso incontestabile della Verità, della realtà che s’impone con la forza anche con chi si rifiuta di vederla e affrontarla.

Risulta chiaro fin dall’inizio che l’incidente della centrale nucleare è il risultato di una serie di menzogne in crescendo, che finiscono per sommergere tutta la delicata attività dell’impianto in un mare d’ignoranza e decisioni irresponsabili e imprudenti. Non poteva esservi un altro finale possibile in un contesto del genere.

Gli operatori addetti alla sala di controllo mentono a loro stessi, accettando l’autorità abusiva e insignificante di Anatoly Dyatlov, per paura del potere che questi detiene all’interno del regime. I superiori di Dyatlov, a loro volta, hanno mentito più e più volte nel programma dei test della centrale, disobbedendo a tutti i protocolli e alle linee guida delle operazioni di controllo di sicurezza: il reattore 4 era stato inaugurato anni prima dell’incidente e i responsabili della centrale erano stati insigniti con tutti gli onori sovietici possibili in una cerimonia che altro non era che una pantomima, dal momento che l’ultimo test di sicurezza previsto, requisito essenziale per garantire il corretto funzionamento del reattore, non era mai stato eseguito. Tutta la ricerca e la progettazione delle centrali nucleari dell’Unione Sovietica era una grande farsa, in cui era stato possibile occultare e distruggere pagine e pagine di ricerca scientifica i cui risultati potevano risultare scomodi per il regime.

E lo stesso processo atto a individuare i colpevoli di questo disastro finisce con l’essere anch’esso una farsa,  una vera e propria montatura, che acquisisce un senso solo per gli individui coinvolti, parte integrante di un sistema schiavo della menzogna, delle apparenze, della forma e della liturgia insensata.

Se non ti piace o ti risulta scomoda la Verità contenuta nella conclusione di una ricerca scientifica in ambito fisico-nucleare, non vi è nulla di più semplice che distruggerla ed esiliare il ricercatore. È in questo modo che i sovietici affrontavano la Verità. Pensavano che fosse il metodo più facile. Ma aveva ragione Ayn Rand, quando diceva che “puoi anche ignorare la realtà, ma non puoi ignorare le conseguenze della realtà”.

Distruggere tutti i registri dei centri di ricerca nucleare in cui si fa riferimento al fatto che i reattori RMBK non sarebbero sicuri, non li rende sicuri, ma semplicemente ostacola la ricerca di metodi e protocolli atti a incrementarne la sicurezza e a ridurre rischi operazionali potenzialmente letali. Quei reattori non erano dotati di un sistema di spegnimento d’emergenza che fosse realmente efficace. E, seppur consci di ciò, gli scienziati responsabili portarono comunque avanti il progetto. Il risultato di questo climax di menzogne non poteva essere diverso da quello che poi avvenne: il reattore 4 esplose durante un test di sicurezza, creando un immenso Nuclear Wasteland.

Chernobyl è la prova che l’uomo, in fin dei conti, può scegliere se aggrapparsi alla menzogna o alla Verità, ma la sua scelta avrà necessariamente un costo, delle conseguenze. È impossibile fuggire dalle conseguenze.

Ignorare la tragedia – o mentire su di essa – è una scelta. Purtroppo però la realtà ti divorerà comunque, che tu la riconosca oppure no.

L’altra opzione è accettare la realtà, e, in tal caso, l’uomo è portato al sacrificio finale. Il sacrificio è il pesante fardello che portiamo e, se siamo in grado di sopportarlo, se lo portiamo con coscienza, possiamo affrontare a testa alta le dure conseguenze della realtà. Perseverare nella menzogna non solo coltiva tragedie, ma ci priva anche della capacità di affrontarle quando queste accadono davanti ai nostri occhi.

Questo è uno dei punti forti della serie.

Chernobyl dimostra che l’unica forma di salvarsi e salvare il prossimo è accettare la realtà. Legasov e Shcherbina interrompono il ciclo di menzogne e sono i primi ad accettare come un fatto il verificarsi dell’esplosione. Tutti gli altri personaggi prima di loro non fanno che ripetere l’insana domanda “ma come può un reattore RBMK esplodere?”, come se la supposta impossibilità teorica – o la ripetizione delle proprie convinzioni – possa essere capace di cambiare la realtà. Dyatlov non ammetteva l’esplosione del reattore, neanche dopo i reiterati rapporti dei suoi sottoposti, che entravano nella sala di comando vomitando, col viso ustionato, la pelle che si disfaceva sotto i loro occhi, la disperazione stampata sul volto. “State avendo delle allucinazioni”, concludeva Dyatlov.

Legasov, al contrario, accetta la realtà dell’esplosione del reattore fin dall’inizio. A partire da lì, con il fortunato aiuto del ministro Shcherbina, decide di sacrificarsi per impedire la trasformazione di mezza Europa in un deserto nucleare, con la consequenziale morte di decine o centinaia di milioni di persone. Il sacrificio può essere compiuto solo dopo essere entrati effettivamente in comunione con la Verità – o con la realtà. Ed è pertanto possibile solo una volta interrotto il ciclo di (auto)inganni, dopo aver percepito che non sono gli altri ad avere le allucinazioni.

In un determinato momento della serie, l’incisivo Shcherbina dice a Legasov: “Hai già lavorato in miniera? Ti do un consiglio: di’ la verità. Questi uomini lavorano nell’oscurità. Vedono tutto”.

Gli unici qualificati per cercare di stabilizzare l’azione potenzialmente distruttiva del nucleo – che potrebbe causare un’esplosione termoelettrica in grado di far saltare in aria gli altri 3 reattori di Chernobyl – sono i minatori, incaricati di scavare un tunnel sotto il reattore per consentirne il raffreddamento prima che il nucleo incandescente sciolga le strutture circostanti raggiungendo le cisterne d’acqua. I minatori sono anche uomini che vivono nell’oscurità e che non sopportano le menzogne; si importano della vita dei propri compagni e ricercano la verità in ogni parola. Proprio per questo, sono uomini che non accettano le menzogne ufficiali delle autorità statali.

I minatori possono anche obbedire agli ordini del governo sovietico – cosa che effettivamente fanno, votandosi volontariamente al sacrificio finale –, ma solamente dopo aver saputo esattamente cosa stanno affrontando. Difatti, sono disposti a morire pur di non vendere la propria coscienza ai burocrati sovietici, nel caso in cui non mostrino loro i fatti così come stavano. Fatto sta che i minatori impediscono che la menzogna penetri nelle loro coscienze.

A causa dell’attività del nucleo di uranio, il calore durante gli scavi aumenta tanto che questi sono costretti a lavorare nudi per poterlo sopportare. Ciò non sminuisce la loro dignità, bensì la mette ancor più in evidenza agli occhi degli altri. I minatori non si vergognano di essere nudi di fronte alle autorità e al resto del mondo. In realtà, simbolicamente, i minatori sono sempre stati nudi, ancora prima di togliersi i vestiti.

La serie termina con Legasov che, in una delle più profonde conclusioni di una serie TV, sentenzia: “i nostri segreti e le nostre menzogne sono praticamente ciò che ci definisce. Quando la verità offende, noi mentiamo, ancora e ancora, fino a dimenticarci della sua esistenza… ma la verità continua a esistere. Ogni menzogna che raccontiamo genera un debito con la verità. E prima o poi questo debito va pagato.”

“Quando la verità offende, noi mentiamo”. Nonostante ciò, Chernobyl e Ayn Rand ci provano che mentire è impossibile, perché il debito (per Chernobyl) e le conseguenze (per la Rand) dovranno inevitabilmente essere pagati.

La menzogna altro non è che un modo per ritardare un’esazione inevitabile da parte della realtà, il più puntuale dei creditori.

Ogni domanda scomoda che scegliamo di non fare per quieto vivere, ogni volta che accettiamo a capo chino le più evidenti distorsioni della realtà, ogni verità che ci offende, è semplicemente un indebitamento crescente nei confronti della realtà. Sempre Peterson ci insegna che “dire la verità è trarre all’Essere la più accettabile delle realtà. La verità costruisce edifici che possono rimanere in piedi per migliaia di anni. La verità alimenta e veste i poveri, e rende le nazioni ricche e sicure. […] La verità è la più grande e inesauribile risorsa naturale. È la luce nell’oscurità. […] In Paradiso, tutti dicono la verità. È questo che lo rende il Paradiso”.

Chernobyl ci fa pensare alla nostra civiltà, che accetta sempre più che vengano corrotte le proprie istituzioni, il proprio linguaggio e i propri valori fondanti, tra cui il più grande di essi, la libertà. Ci mostra che si cede sempre maggior spazio, codardamente e convenientemente, al politicamente corretto, alle reiterate farse ideologiche e allo stretto prisma marxista per l’interpretazione della complessa e ricchissima realtà sociale. Chernobyl ci dimostra come la nostra civiltà, una volta basata nella Verità e nella ragione, sia stata ora ricostruita sulle fragili basi della menzogna e del relativismo. Ci costringe a guardarci allo specchio, e ciò che vediamo non ci piace.

In una delle ultime scene, la telecamera riprende un dipinto sulla parete di una vecchia scuola della cittadina di Pripyat, in cui è rappresentata una donna con un bambino in braccio. La parete risulta scollata e la bocca della donna, distrutta.

La serie si chiude così, con un’eloquente allerta sui costi del silenzio e della nostra distruttiva passività. La radioattività, la centrale nucleare, l’esplosione, Pripyat. Nulla avviene per caso, niente è fortuito. La Verità è il più puntuale e severo dei creditori e, a questo ritmo, il sacrificio può finire con l’essere la nostra unica via d’uscita possibile.

Il registro ufficiale russo dichiara ancora oggi che vi furono solamente 31 vittime nell’incidente di Chernobyl.

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[1] Chernobyl ha ottenuto il voto 9.6 sul sito IMDb, il che la rende la serie TV meglio valutata della storia, superando anche serie di alto livello come Breaking Bad e Game of Thrones.

[2] Secondo le stime, quell’immensa regione rimarrà inospitale per i prossimi 24.000 anni.

 

Prima riordina la tua camera e poi cambia il mondo

Che tipo di programma politico puoi aspettarti da qualcuno che non sa nemmeno pianificare da solo il contenuto del proprio armadio?

In una ormai famosa puntata del podcast di Joe Rogan, lo psicologo Jordan B. Peterson ha sottolineato quanto sia strano che molti giovani impegnati politicamente siano preoccupati di riorganizzare la società e il sistema economico quando non riescono nemmeno a tenere in ordine le proprie camerette. Ha detto:

I giovani di 18 anni non possono trovare soluzioni all’economia, non sanno nulla dell’economia. È una macchina complessa che va oltre la comprensione di chiunque. Sanno almeno riordinare la propria stanza? No. Beh, ci pensino. Dovrebbero pensarci, perché se non riescono nemmeno a pulire la loro stanza, chi diavolo sono loro per dare consigli al mondo?

In realtà, come dimostrarono i filosofi dell’economia Ludwig Von Mises, Friedrich Von Hayek e Leonard Read, l’economia di mercato è così spaventosamente complessa che neanche un pianificatore centrale onnisciente, perfetto e virtuoso (presumibilmente con una squadra tecnica immacolata) saprebbe pianificarla centralmente. Dunque, cosa possiamo aspettarci da qualcuno che neanche sa mettere in ordine il proprio armadio?

Eppure, molti giovani sono appassionati dall’idea di “cambiare il mondo” e sono profondamente negligenti con il loro piccolo angolo di mondo, la loro stanza. Questo approccio alla vita è una ricetta per l’angoscia e la depressione. Voler cambiare cose che non puoi cambiare porta a sentimenti di frustrazione e impotenza. Trascurare le cose che puoi cambiare, invece, porta alla stagnazione e alla crisi.

La prescrizione del Dr. Peterson per questo disturbo è la seguente:

La mia sensazione è che se vuoi cambiare il mondo, devi iniziare da te stesso e poi lavorare verso l’esterno, in questa maniera potrai sviluppare le tue competenze

Peterson continua:

Il mondo è presentato come una serie di enigmi, alcuni dei quali sei in grado di risolvere e altri che non puoi risolvere. Hai molti enigmi davanti a te che puoi risolvere, ma decidi di non farlo. Queste sono le cose che pesano sulla tua coscienza (…)

Perché la domanda è: quanto stiamo contribuendo al fatto che la nostra vita è una catastrofe esistenziale e una tragedia? Quanto contribuisce questa nostra corruzione a tutto ciò? Questa è una domanda che vale davvero la pena di porsi.

Le cose che tu decidi di non fare. Perché sei arrabbiato, sei risentito o sei pigro. Bene, consulta la tua coscienza e dille: “Beh, sai, in quel posto potrebbe esserci bisogno di un po’ di lavoro“. È come lavorare su te stesso. E così inizi pulendo la tua stanza, perché puoi. E poi le cose iniziano ad essere un po’ più chiare intorno a te. E tu stai un po’ meglio, perché ti sei esercitato. E sei anche un po’ più forte. E poi qualcos’altro si manifesta e dice: “Beh, forse puoi anche provare a riparare questo o quello“. Quindi decidi di farlo e anche questo diventa un altro piccolo risultato raggiunto…

… e poi magari imparerai abbastanza in questa maniera, che potrai risolvere i problemi della tua famiglia, e dopo averlo fatto, avrai abbastanza carattere, cosicché quando cercherai di operare nel mondo, nel tuo lavoro, o forse nelle sfere sociali più ampie, sarai una forza positiva anziché un danno.

Il messaggio di Peterson, “pulire la propria stanza”, ha colpito molti giovani ed è diventato virale. Innumerevoli ascoltatori di Peterson hanno riferito di come le loro vite siano cambiate e di come tutto sia iniziato con la pulizia delle loro stanze.

Questo è ottimo anche per “l’economia” e “il mondo”, perché il miglioramento di questi concetti astratti consiste nel miglioramento delle vite individuali che li compongono. E un tale miglioramento individuale può realmente avvenire solo attraverso la responsabilità e l’azione dell’individuo.

Il consiglio di Peterson è di iniziare con poco: basta iniziare con la tua vita e il tuo dominio di competenza. Inoltre, Peterson consiglia di iniziare poco a poco nel senso di iniziare con compiti relativamente facili. La pulizia di un angolo della tua stanza può essere uno degli elementi più facili nella tua lista di cose da fare. Ma il fatto che sia facile lo rende un ottimo punto di partenza, dato che puoi davvero farlo anche se la tua forza di volontà non è particolarmente alta.

Una volta che lo fai, il piccolo senso di realizzazione si nutre della tua efficacia e ti dà abbastanza forza di volontà per fare qualcosa di un po’ più difficile: ad esempio, pagare una fattura. Raggiungere questo step rafforza ulteriormente la tua auto-efficacia, permettendoti di compiere un’impresa ancora più grande, e così via. Se ci stai, alla fine puoi aumentare il livello di difficoltà, migliorarti e ottenere cose davvero impressionanti nella tua vita e nella tua carriera. 

Traduzione di Alessio Cotroneo

“Tear down this wall!”, il discorso del Presidente Reagan che ha fatto la storia

Sono passati 32 anni da quel 12 giugno del 1987, quando il Presidente statunitense Ronald Reagan pronunciò a Berlino, davanti alla Porta di Brandeburgo, un discorso che fece la storia.

Dopo 24 anni il celebre “Ich bin ein Berliner” di John F. Kennedy, rivolgendosi al Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Michail Gorbaciov, Reagan pronunciò la famosa frase:
“Mr. Gorbaciov, tear down this wall!“, tradotta in italiano: “Gorbaciov, butti giù questo muro!”.

Era la seconda visita di Reagan in cinque anni a Berlino, quel giorno si festeggiava il 750esimo anno dalla nascita della città in un momento in cui era molto alta la tensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica.
C’era un intenso dibattito internazionale sul posizionamento di missili statunitensi a corto raggio in Europa, e la corsa agli armamenti da parte degli Stati Uniti in quegli anni aveva raggiunto livelli da record. Davanti alla Porta di Brandeburgo c’erano circa 45mila persona ad attendere il Presidente Reagan.

Il Presidente Reagan, che arrivò la mattina di quel 12 giugno a Berlino su un aereo partito da Venezia, dove si era tenuto un vertice del G7, prese la parola subito dopo il discorso del cancelliere della Germania Ovest, Helmut Kohl.

La Porta di Brandeburgo venne scelta come luogo simbolico perché si trovava a poca distanza dal muro che divideva la città di Berlino in due. Dietro al palco vennero installate, per la sicurezza di Reagan, delle alte vetrate antiproiettile per evitare gli spari di eventuali cecchini dalla zona est della città.

Quello del 12 giugno 1987 fu un discorso molto importante, in cui il Presidente Reagan inserì espressioni come “C’è una sola Berlino”, ricordando che anche lui come molti suoi predecessori aveva “ancora una valigia a Berlino”, parole di una canzone nota di quell’epoca in Germania cantata da Marlene Dietrich.

In quegli anni Gorbaciov stava tentando di aprire il Partito comunista e l’Unione Sovietica ed era impegnato in un complicato e ambizioso programma di riforme e rinnovamento, la cosiddetta perestrojka. A un certo punto, durante il suo discorso, Reagan lo incalzò così:
“Accogliamo con favore il cambiamento e l’apertura, perché crediamo che la libertà e la sicurezza vadano di pari passo, che il progresso della libertà umana non può che rafforzare l’obiettivo della pace nel mondo. C’è solo un’ineccepibile azione che i sovietici possono fare, che farebbe progredire notevolmente la libertà e la pace. Segretario generale Gorbaciov, se davvero vuole la pace, se vuole la prosperità per l’Unione Sovietica e per l’Europa orientale, venga qui a questa porta. Gorbaciov, apra questa porta. Gorbaciov, Gorbaciov, butti giù questo muro!”


Lo staff di Reagan che il Consiglio di Sicurezza Nazionale e la CIA avevano avuto dei dubbi sulla frase “tear down this wall”, perché secondo loro avrebbe potuto generare controversie e aggravare ulteriormente i rapporti con l’Unione Sovietica. Qualcuno aveva provato a far cambiare idea a Reagan dall’autore del discorso il vice speechwriter della Casa Bianca, Peter Robinson, e il suo capo Anthony Dolan ma nessuno convinse il Presidente Reagan e la mantenne nel suo discorso.


Il discorso di Reagan, venne giudicato “provocatore” dalle autorità sovietiche, non ebbe inizialmente grande risonanza sulla stampa, soprattutto in quella americana.


Infatti il New York Times e il Washington Post, il giorno dopo il discorso di Reagan a Berlino, non misero la notizia in prima pagina. Il settimanale Time scrisse che la performance di Reagan era stata buona, anche “se non sufficiente a cancellare l’impressione che stia perdendo l’iniziativa a vantaggio del rivale sovietico.

Henry Kissinger commentò che Mosca non avrebbe mai abbattuto il Muro, nessuno pensava che questo potesse crollare. Lo stesso Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Reagan, Frank Carlucci, disse che la frase era buona, ma che non si sarebbe mai realizzata.
L’unico che parlava del crollo del Muro di Berlino era Reagan, dotato di una lungimiranza tipica di uno statista oltre il prodotto di una strategia politica.


Infatti, nel gennaio del 1989 l’allora leader tedesco orientale Erich Honecker sosteneva che il Muro sarebbe esistito anche 100 anni dopo “fino a quando le ragioni della sua esistenza non saranno venute meno”. Invece il 9 novembre di quello stesso anno, ovvero circa due anni e mezzo dopo il famoso discorso di Reagan, il portavoce del governo della Germania Orientale, Gunter Schabowski, comunicò: “Le persone che desiderano partire definitivamente si possono presentare a tutti i posti di frontiera tra Ddr e Germania federale o a Berlino ovest. A quanto mi risulta la nuova legge vale da subito, da ora”.

Il 9 Novembre 1989 cadeva il Muro di Berlino, ma esso cominciò sicuramente a sgretolarsi due anni prima, nel giorno di quel discorso tenuto dal Presidente Ronald Reagan, uno statista a cui la cultura liberale e anche il popolo europeo, devono tanto.

Concorrenza federale e secessione

Non serve indossare un elmo verde con le corna o bere l’acqua del Po per parlare di federalismo e secessione.

Anzi, basta un bagno di realtà e guardarci attorno per avere dubbi sul paradigma dello Stato sovrano nazionale, messo in dubbio sia in zone ricche e produttive (si veda la crisi catalana) sia in zone povere (come in Corsica), sia in zone grossomodo normali come la Scozia.

Ci si può arroccare in parole scritte su carta, facendo finta di credere alla nazione “una e indivisibile”, oppure si può pensare a come riformare lo Stato, guardando ad esempi funzionanti, come in Europa abbiamo la Svizzera e il Liechtenstein.

Svizzera: Federalismo concorrenziale

Seguendo una discussione sull’autonomia lombardo-veneta, mi è capitato di leggere che “grande è meglio”.

Il bello è che stavo leggendo questa discussione mentre ero seduto su una panchina a Chiasso. Ero appena uscito dalla Regione più ricca del “grande Stato” per approdare in un Cantone povero del “piccolo Stato”… e il cantone era superiore praticamente in tutto. Si tratta di aneddoto, ma basta controllare qualsiasi statistica per vedere la Confederazione battere l’Italia, una e unitaria.

La ragione è semplice: i Cantoni sono in concorrenza tra di loro. Quando il Direttorio, il Parlamento o il Popolo decidono qualcosa devono aspettarsi che ciò abbia delle conseguenze.

Quindi, in sostanza, se Zugo decide di finanziare un Reddito di Cittadinanza tassando chi produce non può lamentarsi se qualcuno sposta la sede legale a Zurigo, a pochi chilometri di distanza. Questo è un “voto con i piedi“.

In Italia, invece, sappiamo bene come funziona: con la logica assistenzialista e con una centralizzazione tale che tutte le scelte politico-economiche vengono prese a Roma, c’è una grande distanza (o, perlomeno, molta confusione) fra chi paga i servizi assistenziali e chi li riceve.

Cosa sarebbe successo in un’Italia “svizzera“, ad esempio, col Reddito di Cittadinanza?

Per prima cosa, sarebbe stata una misura adottata a livello regionale/provinciale. Magari anche in modo coordinato tra varie Regioni, ma sta di fatto che ogni Regione avrebbe pagato il proprio Reddito e che qualche Regione nemmeno l’avrebbe adottato.

Consideriamo il fatto che ogni Regione avrebbe pagato il suo reddito: sarebbe dunque necessario per tale Regione tassare di più cittadini e imprese. Ma ricordiamoci che le imprese possono rapidamente spostare la sede legale in un’altra Regione, più libera economicamente. Quindi il governo di una Regione deve pensarci non una, non due ma cento volte prima di chiedere soldi per misure che non generano benessere.

Liechtenstein: Secessione legale

Abbiamo visto scene vergognose in Catalogna, roba che avrebbe fatto vergognare persino Josef Radetzky, che non voleva processare Cattaneo e ordinò ai propri soldati di non nuocere ai bambini.

Altri Stati, con governi più maturi, hanno provato a rispondere a queste istanze: in Italia, ad esempio, dopo il referendum indipendentista della Lega Nord vi fu una riforma autonomista voluta dal centrosinistra.

Ma un piccolo fazzoletto di terra tra Austria e Svizzera è andato oltre: il Liechtenstein, infatti, permette ai propri comuni di secedere per via referendaria, un’azione seguita poi da un trattato o da una legge e da un referendum conservativo.

Qualcuno obietterebbe che in Italia tale sistema sarebbe impossibile dato che, con tutta probabilità, giungerebbe alla Corte Costituzionale una richiesta dalla Lombardia il giorno stesso dell’approvazione della legge.

Non voglio aprire uno spinoso dibattito se la libertà valga più dell’unità, ma se penso a tutti i vantaggi che ha la Lombardia a non essere uno Stato sovrano, come ad esempio il poter contare sulla forte diplomazia italiana o il non dover mantenere un esercito, evidentemente c’è un problema in Italia, ossia la mancanza di federalismo concorrenziale.

Il diritto di secessione, in tal caso, si costituirebbe come ultima difesa contro il parassitismo di Stato che non potrebbe sviluppare misure impopolari solo in una parte del Paese, in quanto tali parti potrebbero secedere.

Cosa dobbiamo imparare

All’Italia serve al più presto un federalismo ad ogni livello, per avvicinarsi il più possibile all’individuo e renderlo più cosciente di come avvengono le spese vicino a lui.

Ciò non vuol dire solo federalismo regionale ma anche provinciale e comunale: giacché alcuni servizi dovrebbero per forza essere esercitati da Roma,  è altrettanto ovvio che molti più servizi, se fossero di competenza locale, sarebbero notevolmente migliori e rischierebbero molto meno gli effetti del clientelismo e della burocrazia.

A livello costituzionale, comunque, è a mio parere storicamente e logicamente sensato, in un contesto di sussidiarietà già descritto, definire le Regioni come federate a formare la Repubblica italiana, che poi potranno, nelle loro Costituzioni e a seconda delle loro necessità, decidere se agire come semplici strutture decentrate o anch’esse come federazioni.

Riguardo alle secessioni dovrebbe essere l’Europa a muoversi e a impedirci di rivedere scene come quelle catalane: definire un quadro unico europeo che coniughi principi come la legalità di una dichiarazione d’indipendenza secondo il diritto internazionale, come definito nell’advisory della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Kosovo, con le necessità degli Stati e delle loro spese fatte nelle Regioni è, oltre che un modo per fornire garanzie ad entrambi, un enorme passo verso un’unità europea che non si limiti a controfirmare le velleità protezionistiche dei propri membri ma che provi a portare concordia ove vi è discordia.

Riformiamo il sistema detentivo guardando a San Marino

La vicina Repubblica di San Marino è uno Stato all’avanguardia in materia di sistema penale.

Sarà per contingenza, dato che l’unico carcere della Repubblica ha sei celle, sarà perché è noto che gli Stati piccoli curano di più gli individui che ci vivono rispetto a quelli grossi, che tendono a punirli e basta.

Cosa possiamo imparare dalla piccola Repubblica del Titano?

Riforma della giustizia

Ha poco senso parlare di riforma del sistema detentivo finché il codice penale italiano resta quello fascista, che come scopo aveva quello di instillare nei cittadini il Sacro Timor di Stato.

Dobbiamo abolire i reati senza vittima, iniziare un ampio piano di legalizzazione della droga e introdurre, come già accade in altri Stati, l’azione penale facoltativa, la giustizia bagatellare e i danni punitivi, che vanno ad escludere l’azione penale creando, però, l’effetto deterrente.

In tal modo si alleggerirà di netto il sistema penale e carcerario: Non vi verranno immessi spacciatori e taccheggiatori, affidati alla giustizia bagatellare, né piccoli criminali, che potrebbero cavarsela con un danno punitivo pagato alla vittima.

Niente cautele

In Italia si fa ampio uso della custodia cautelare, col risultato che chi viene assolto dovrà essere risarcito, a spese dei contribuenti  e non del giudice. Se, intanto, l’ingiustamente detenuto è membro di qualche categoria “cattiva”, come ad esempio un imprenditore maschio e donnaiolo, non si può escludere che il giudice che l’ha mandato in galera sia stato mandato in Parlamento.

A San Marino le misure cautelari sono scarsamente utilizzate. Oltre a far pagare ai giudici le spese per l’ingiusta detenzione l’Italia dovrebbe adottare altre misure cautelari come il divieto di avvicinamento ad una persona specifica o ad un luogo ed, eventualmente, il concetto di cauzione.

Misure alternative

Ma la vera vittoria della Serenissima Repubblica sta nella riabilitazione: Invece di rinchiudere chi sbaglia, come se fosse un’onta da nascondere, esiste una commissione nazionale che si occupa di riabilitazione ed ogni condannato ha un tutor che deve reinserirlo, consigliandolo come un amico, nella società e nel mondo del lavoro.

Se indubbiamente alcune persone, come mafiosi e assassini gravi, è meglio tenerle chiuse e separate, almeno temporaneamente, dalla società è innegabile che tanti reati oggi puniti col carcere potrebbero essere  gestiti in modo migliore per tutti tramite un sistema di riparazione, compensazione e, per lievi reati dovuti alla povertà, al reinserimento nel mondo del lavoro, con una cesura minima tra l’individuo che ha sbagliato e la società, riducendo anche il rischio di reiterazione.

De Stefani e le riforme liberiste odiate dai fascisti

Il fascismo, più che giustamente, è ricordato come un regime di tipo socialista e nazionalista: il suo creatore, Benito Mussolini, crebbe nelle fila del Partito Socialista e ruppe con esse principalmente a causa del suo spiccato nazionalismo.

Chi oggi ricorda con favore quel periodo lo fa solitamente in chiave collettivista e statalista: “Quando c’era lui c’erano le case popolari, gli italiani erano aiutati, poi c’era la befana fascista…

Non possiamo non analizzare, tuttavia, il breve periodo liberista del regime fascista, principalmente rappresentato dalle politiche di Alberto De Stefani.

De Stefani, di scuola manchesterista, aderì al PNF poco prima che andasse al governo e venne nominato nel 1922 Ministro del tesoro e delle finanze.

In tale ruolo effettuò riforme come una deregulation delle leggi emanate durante la guerra, una riduzione della spesa pubblica e l’aumento delle imposte indirette in favore della diminuzione di quelle dirette, oltre ad una lotta contro l’inflazione, che lo portò a bruciare cartamoneta personalmente.

Durante tale periodo l’Italia divenne molto più forte: la disoccupazione crollò a picco, la spesa pubblica venne più che dimezzata e le esportazioni crebbero nettamente.

Nel 1925, tuttavia, De Stefani venne silurato: era infatti inviso a gran parte del fascismo. C’era chi lo riteneva troppo vicino ai liberali, c’era chi lo contrastava per interesse, come i proprietari terrieri e i piccoli imprenditori che non gradivano la concorrenza.

In pochi mesi il fascismo passò a un dirigismo spiccato ed entro il 1930 ogni volontà liberista venne abbandonata: La nuova idea del fascismo era di realizzare la dipendenza di imprese e individui dallo Stato.

Tutto ciò rende ovvio l’abbandono del liberismo: se è vero che uno Stato liberista non è garanzia di una politica libera, è anche vero che rendere gli individui economicamente indipendenti dallo Stato impedisce di realizzare il totalitarismo, ossia il dominio totale dello Stato sull’individuo.

E per Mussolini, già compresso tra la Monarchia e la Chiesa, sarebbe stato inaccettabile essere un semplice leader autoritario senza poter dettare vita, morte e miracoli degli italiani. E mettere l’economia in mano allo Stato è stata la maniera migliore per farlo.

E l’Italia ha potuto reggere le sue folli politiche economiche guerrafondaie e di autarchia solo grazie al rafforzamento economico che le politiche di De Stefani hanno creato in pochi anni.

Minatori e pastori: Il male delle aziende protette dallo Stato

Poche settimane fa abbiamo visto la crisi dei pastori sardi, con tutta la politica che invocava l’intervento statale: chi meno, come Antonio Tajani che ha proposto l’uso di fondi UE per progetti in grado di modernizzare e far conoscere il settore, chi più, come il vicepremier Matteo Salvini che ha ribadito la necessità “che lo Stato torni a fare lo Stato” e che metta un prezzo minimo di contrattazione.

I meno giovani di noi si ricorderanno i minatori britannici, il cui licenziamento iniziò già durante il governo laburista precedente ma viene tipicamente imputato a Margaret Thatcher, che attuò politiche di smantellamento più forti.

Entrambi questi casi hanno in comune due cose:

  1. La prima, di essere lavori manuali, faticosi e che in Stati meno ricchi costano di meno pur producendo un prodotto analogo. Il carbone, già da inizio anni ’70, costava meno come prodotto da importazione che come prodotto da estrazione in loco. La stessa cosa vale per il latte sardo che, eccetto che per le produzioni tutelate dov’è obbligatorio utilizzare latte locale, può essere sostituito da latte straniero munto in Paesi dove il lavoro viene pagato meno e un ricavo che per un pastore sardo è perdita per un pastore locale è un buon incasso.
  2. La seconda, di essere stati protetti dallo Stato. Nel Regno Unito le miniere erano così infruttuose che ebbero bisogno di essere nazionalizzate. In sostanza i britannici pagavano parte delle proprie tasse per permettere ai minatori di lavorare e il loro sindacato aveva un vero e proprio potere politico, non eletto da nessuno, di decidere sulle attività parlamentari e governative. Ovviamente alla Lady di ferro tutto ciò non andava bene: era inaccettabile che un’azienda inefficiente dovesse andare avanti a spese dei contribuenti, specie se era ormai una vera lobby.

La sua lotta fu fruttuosa: le miniere vennero chiuse, ottenne ampio consenso elettorale e oggi l’economia del Regno Unito va decisamente meglio di molte altre; oltre ad una bassa disoccupazione si è vista un’evoluzione economica che ha portato il Paese a puntare di più sul settore terziario e sulle industrie specialistiche, come l’aerospaziale, oltre che sul petrolio.

Nel caso sardo l’intervento statale ed europeo non ha fatto altro che prolungare il calvario: qualsiasi attività che ha bisogno di sostegno a lungo prima o poi arriverà al punto in cui questo sostegno sarà così costoso che una comunità, per quanto ben intortata a considerare i sussidi come “aiuto al Made in Italy“, non vorrà più pagarlo. E in tal caso il fallimento sarà ancora più disastroso, perché i soldi e il tempo che lo Stato avrebbe potuto usare per favorire una migrazione ordinata e non traumatica è stato sprecato per mantenere lo status quo.

Inoltre, come ben fa notare il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II, che regna su di un Paese con poche risorse che dunque ha necessità di commerciare col mondo, il sostegno statale alle imprese e il protezionismo hanno come conseguenza un rallentamento tecnologico che, se perdurante, rende impossibile salvare quel settore economico.

Vediamo bene come pochi siano i marchi italiani internazionali e in quale  stato tecnologico versi nostra agricoltura, ultraprotetta, che adopera moderni servi della gleba per andare avanti. E più la proteggeremo, più quando non sarà possibile proteggerla il disastro, economico e sociale, sarà duro.

L’inversione della curva dei tassi d’interesse: è in arrivo una nuova crisi?

La linea blu rappresenta il tasso di interesse sui titoli del Tesoro USA a 3 mesi. La linea rossa, il tasso di interesse sui titoli del Tesoro USA a 30 anni.

Le barre grigie verticali rappresentano i periodi di recessione economica.

(ignorate la discontinuità della linea rossa tra il 2002 e il 2006, è un errore dell’algoritmo) 1

Anche un osservatore laico può immediatamente percepire una relazione diretta: ogni volta che la linea rossa cade sul blu – e specialmente quando è sotto il blu – si verifica una recessione pochi mesi dopo.

Vediamo ora quest’altro grafico. La linea blu continua a rappresentare il tasso di interesse sui buoni del Tesoro a  3 mesi . La linea verde, il tasso di interesse dei titoli del Tesoro  decennale.2

Possiamo fare la stessa osservazione che è stata fatta per il primo grafico, con l’unica eccezione per il lontano 1966, l’unica volta in cui le linee si intersecarono e non ci fu recessione.

Il fenomeno

Tale fenomeno è chiamato inversione della curva di interesse. In inglese, c’è un termine pomposo: inverted yield curve.

L’inversione si verifica quando i tassi di interesse a lungo termine (in questo caso, 30 anni) sono inferiori ai tassi di interesse a breve termine (in questo caso, 3 mesi). Chiaramente, è un’anomalia che i tassi di interesse a lungo termine raggiungano livelli inferiori ai tassi di interesse a breve termine.

In tempi normali, gli agenti economici (proprio come qualsiasi individuo) tendono a richiedere un interesse maggiore per periodi più lunghi. Più lungo è il periodo di un prestito, maggiore è l’interesse richiesto. Fondamentalmente, tre elementi definiscono il tasso di interesse per un prestito: il rischio, l’aspettativa di inflazione dei prezzi e la preferenza temporale.

  • Più lungo è il periodo del prestito, maggiore è il rischio. Pertanto, maggiore è l’interesse richiesto per compensare questo rischio.
  • Più lungo è il periodo del prestito, maggiori sono le possibilità di una grande perdita del potere d’acquisto della valuta. Pertanto, maggiore è l’interesse richiesto per compensare questa perdita di potere d’acquisto.
  • Più lungo è il periodo del prestito, più tempo dovrai rinunciare al tuo consumo. Dunque, l’interesse richiesto sarà maggiore per rinunciare a questo consumo nel presente, in cambio di più denaro in futuro. Questa è la base delle preferenze temporali.

Pertanto, è un’anomalia che i tassi di interesse a lungo termine diventino inferiori ai tassi di interesse a breve termine. E questa anomalia precede sempre una recessione.

Ma perché si verifica? E perché precede una recessione?

Cosa dice la teoria convenzionale

Il sito Investopedia3 offre questa definizione:

Storicamente, le inversioni dei tassi di interesse hanno preceduto diverse recessioni negli Stati Uniti. A causa di questa correlazione, la curva degli interessi è spesso vista come un modo accurato di prevedere variazioni nel ciclo economico.

Una curva di interesse invertita prevede che i futuri tassi di interesse nell’economia saranno inferiori, e questo perché le obbligazioni a lungo termine sono più richieste delle obbligazioni a breve termine, e questa maggiore domanda abbassa i tassi d’interesse. […]

Ciò che influenza i tassi di interesse nel mercato sono le variazioni nella domanda di titoli di termini diversi in un dato momento e date determinate condizioni economiche. Quando l’economia è diretta verso una recessione, gli investitori – sapendo che i futuri tassi d’interesse saranno più piccoli proprio perché l’economia sarà in recessione – diventeranno più disposti a investire in obbligazioni a più lungo termine. Questa maggiore domanda aumenta i prezzi di questi titoli e, di conseguenza, diminuisce i loro tassi di interesse (maggiore è il prezzo di un titolo, minore è l’interesse che pagano).

Allo stesso tempo, un minor numero di investitori desidera investire in obbligazioni a breve termine, che stanno ancora pagando tassi di interesse più bassi rispetto alle obbligazioni a lungo termine. Con una minore domanda di obbligazioni a breve termine, i tassi di interesse tendono a salire, generando una curva invertita.

E adesso, una spiegazione più liberale

La spiegazione appena mostrata è tecnicamente corretta. Ma è limitato solo alla visione del mercato finanziario.

Cerchiamo ora di espanderla all’economia reale. Alla fine, vedremo che il ragionamento è lo stesso.

Il seguente grafico mostra l’evoluzione della base monetaria statunitense. Adesso è marzo 2019 e il grafico inizia ad agosto 2013.

Oggi, la base monetaria statunitense, che è una variabile completamente sotto il controllo della Fed, ha praticamente lo stesso valore cinque anni fa. La Fed sta mantenendo una politica monetaria restrittiva. Non c’è alcun dubbio su questo.

Questo dato può aiutare a spiegare perché il dollaro è forte in tutto il mondo.

La teoria economica della Scuola Austriaca insegna che quando la Banca Centrale inizia a stabilizzare la base monetaria, il ciclo di espansione economica viene interrotto. Inizialmente, la stabilizzazione della base monetaria inizia a incidere sui tassi di interesse a breve termine, che iniziano a salire (c’è meno denaro disponibile per il sistema bancario da prestare a consumatori e imprenditori).

Di conseguenza, per gli imprenditori, diventa più difficile continuare con le loro attuali politiche di espansione del business. Trovano più costoso prendere in prestito i soldi di cui hanno bisogno per completare le iniziative avviate quando immaginavano che la domanda dei consumatori sarebbe aumentata.

Gli imprenditori quindi iniziano a competere per prestiti a breve termine perché devono portare a termine i loro progetti. Quando competono tra loro per questo denaro, il tasso di interesse a breve termine aumenta.

Allo stesso tempo, non prendono prestiti a lungo termine perché hanno paura di non riuscire a ripagare il loro debito nel caso in cui l’economia entrasse in recessione. Come conseguenza di questa minore domanda di prestiti a lungo termine, i tassi di interesse a lungo termine iniziano a calare.

Nel frattempo, nel mercato obbligazionario (pubblico e privato), cresce il timore che la fase espansiva del ciclo economico stia volgendo al termine. Di conseguenza, gli investitori ritengono che sia una buona idea acquistare titoli a lungo termine (pubblici e privati) e ricevere gli interessi su questi titoli. Dato che ci sarà una recessione, avere un reddito garantito e bloccato a un tasso di interesse ancora alto è una buona idea.

Così, mentre gli imprenditori e le imprese riducono le loro richieste di prestiti a lungo termine, gli investitori iniziano a comprare più obbligazioni a lungo termine. Ciò riduce ulteriormente il tasso di interesse a lungo termine.

Tesi finale: quando inizia il processo di stabilizzazione della base monetaria, la tendenza è quella di aumentare i tassi di interesse a breve termine e di ridurre il tasso di interesse a lungo termine. Infine, c’è l’inversione della curva dei tassi di interesse.

Detto questo, vale la pena ricordare che di recente, il 22 marzo 2019 , c’è stata un’inversione della curva di interesse per le metriche 3 mesi e 10 anni, che già innesca un cattivo segnale. Ecco gli ultimi valori:

Conclusioni

La teoria sostiene ciò che la pratica ci sta mostrando. Sì, l’inversione della curva di interesse – che è un fenomeno atipico – è un buon segnale predittore di una recessione americana. In media, la recessione inizia 6-12 mesi dopo l’inversione (non c’è una teoria esatta a questo riguardo).

Finché i tassi di 30 anni e tre mesi non sono invertiti, non si può dire che si stia per affermare una recessione negli Stati Uniti. Tuttavia, l’inversione delle curve di 10 anni e 3 mesi – che è il secondo miglior predittore – attira l’attenzione. E accende un allarme.

Fonti:

  1. https://www.mises.org.br/Article.aspx?id=2971
  2. https://fred.stlouisfed.org/graph/?g=np1a
  3. https://www.investopedia.com/terms/i/invertedyieldcurve.asp

Daenerys Targaryen: le buone intenzioni uccidono

Moltissimi fan del Trono di Spade si sono ritrovati a fare i conti con una svolta decisamente inquietante che coinvolge uno dei personaggi più amati della serie: Daenerys sembra essere improvvisamente diventata un tiranno sanguinario.

Nel corso della stessa puntata, la tanto amata “distruttrice di catene” condanna a morte e brucia vivo il brillante consigliere Lord Varys e minaccia di morte il suo primo cavaliere Tyrion. Inoltre distrugge senza pietà la capitale di un continente con una storia lunga secoli ed insegue e massacra migliaia di civili innocenti in sella al suo drago sterminando un esercito di giovani uomini che hanno deposto le armi nella speranza di essere risparmiati.

Randyll e Dickon Tarly, colpevoli di non essersi inginocchiati al cospetto della Regina dei Sette Regni, aspettano di essere arsi vivi da Daenerys, una delle tante scene che mi hanno spinto ad odiare questo personaggio.

LA DISILLUSIONE DI UN LIBERTARIO

Inutile dire che io, da buon libertario, non sono rimasto affatto sorpreso dalla svolta autoritaria della giovane Targaryen; dopotutto ci ha già dimostrato di essere un killer spietato quando le circostanze l’hanno spinta a fare uso della violenza. Ma lo sterminio della brava gente di Westeros, agli occhi dello spettatore medio, è ben più grave e appariscente dei piccoli semi di follia che Daenerys ha poco a poco iniziato a manifestare con l’accrescere del proprio potere personale.

Daenerys è una giovane donna motivata, coraggiosa, intelligente. Ci ha dimostrato di provare empatia per il suo popolo, di voler rendere il mondo un posto migliore, di voler costruire un futuro senza violenza, senza sfruttamento e senza odio. Ma allora perché decide di commettere le nefandezze di cui siamo stati testimoni?

La giovane Daenerys, prima che la sete di potere si impadronisse di lei.

LE BUONE INTENZIONI NON BASTANO

Non sono state le sue buone intenzioni, ampiamente dimostrate nelle stagioni scorse, a persuadermi che in futuro sarebbe diventata una volgare assassina. Il mondo di Game of Thrones è pieno di personaggi genuinamente buoni, onesti e altruisti, che hanno uno scopo molto simile a quello della madre dei draghi, una buona parte di loro fa una brutta fine proprio per questo.

A convincermi della sua follia è stata la sua mania del controllo: per raggiungere i suoi nobili scopi. Daenerys deve accentrare tutto il potere possibile nelle sue mani celebrando il concetto che “il fine giustifica ogni mezzo” ma anche che l’omicidio politico è legittimo. Allo stesso modo legittima il nascondere le origini di Jon a chi rischia la vita per servirla, tutto in virtù del fatto che il popolo è con lei.

Daenerys, circondata da “liberti” riconoscenti. Liberare Meereen dagli schiavisti è stata indubbiamente una grandissima vittoria e un gesto nobile, certo non sono riuscito ad apprezzare la conseguente crocefissione di massa per le strade della città.

JON E TIRYON AVREBBERO DOVUTO ASCOLTARE VARYS

Il saggio Varys aveva intuito da tempo che Daenerys si sarebbe abbandonata ad ogni genere di orrore contro i “nemici del popolo”. Vedeva in Jon un Targaryen, molto più morbido e moderato di sua zia, come possibile pretendente al trono. Scommetto che Tyrion si sia profondamente pentito di aver tradito la sua fiducia, dopotutto il maestro dei sussurri aveva pienamente ragione.

Jon è un personaggio freddo, razionale, ragionevole e nobile d’animo. La caratteristica principale che lo distingue dai pessimi regnanti che lo hanno preceduto è che lui non aspira ad esercitare l’enorme potere che il titolo di Re dei Sette Regni gli attribuirebbe. Ritengo cruciale questo lato del suo carattere: Jon è, almeno potenzialmente, un valido difensore dell’ordine spontaneo. Daenerys è, invece, terribilmente dirigista. Sa cos’è meglio per la gente ed in forza di ciò manipola la verità, uccide e governa con il pugno di ferro.

In questa scena stupenda, che mi fa rimpiangere la innegabile superiorità delle prime stagioni, Jon Snow convince il padre (adottivo) Ned Stark a risparmiare ed adottare i cinque cuccioli di meta-lupo sopravvissuti alla madre.

Da fan della serie, sono convinto che il continente occidentale meriti finalmente un re morigerato al governo, e non un altro tiranno invasato. Per questo spero vivamente che Jon Snow riesca a spodestare Daenerys nella puntata conclusiva. Sono curiosissimo di sapere cosa stanno architettando quei mattacchioni di “Comunisti per Daenerys Targaryen”, che hanno annunciato scherzosamente una prossima “dichiarazione ufficiale” da parte del partito.

“Il romanzo che si vende di più è quello del liberismo cattivo. Un liberismo che non c’è mai stato” – Intervista ad Alberto Mingardi

Alberto Mingardi, giornalista scrittore e divulgatore liberale italiano, ha fondato con Carlo Lottieri e Carlo Stagnaro, all’Istituto Bruno Leoni, un centro-studi di cui ora è Direttore Generale, che promuove le idee liberali. È scrittore di diversi libri tra cui “L’intelligenza del denaro” e “La verità, vi prego sul neoliberismo (trovate i link in fondo all’articolo). Ha collaborato per diverse riviste come “The Wall Street Journal” e “Washington Post”.

Prima di iniziare con l’intervista tengo a ringraziare Alberto per la sua collaborazione e pazienza.

Ecco l’intervista:


D: Secondo te, quello nei confronti del liberismo, è odio, paura, o entrambi?

R: Non credo si tratti necessariamente di odio o paura. E non credo neppure che il problema sia il “liberismo”, nel senso di un “sistema”, di una precisa costellazione di idee e proposte. Mi sembra che ci sia una generale avversione verso il libero mercato, un po’ perché “mercato” ma soprattutto perché “libero”. Siamo tutti abituati a pensare che, affinché una cosa sia “ordinata”, debba esserci qualcuno che mette ordine. Se questo qualcuno non c’è, se manca una autorità pronta a mettere “ciascuna al suo posto” risorse e persone, tendiamo a pensare che il risultato debba essere non un ordine spontaneo, ma un caos. Per questo avversiamo il mercato e chiediamo a gran voce l’intervento di qualcuno che dica a tutti quanto debbono guadagnare, se e quando debbono tenere aperto il loro negozio, che cosa debbono o non debbono vendere, eccetera.

 

 

D: Come mai, secondo te questa avversione nei confronti liberismo è presente più in Italia o anche in altri paesi?

R: Non so se questa avversione nei confronti del libero mercato sia più forte in Italia che altrove. Certo in Italia è più sorprendente: in alcune aree della penisola italica esiste una vocazione all’imprenditoria diffusa, ben radicata, di straordinario successo nel nostro Paese ed altrove. Gli italiani tutti sono molto cinici e non venerano le istituzioni pubbliche: anche se sono prontissimi a trarne vantaggio quando possibile. Questo è un Paese in cui, da anni, la classe politica gode di scarsa stima della popolazione nel suo complesso. E in passato svariati tentativi di orientare “dall’alto” e “dal centro” lo sviluppo sono naufragati miseramente. Insomma, che lo Stato mamma non sia la soluzione, e che lo Stato “innovatore” sia una contraddizione in termini, dovremmo averlo imparato. E invece…

 

D: Questo odio non ti sembra sia causato, in buona percentuale, dal malessere italiano derivato dalle pessime politiche italiane degli ultimi quarant’anni?

R: Saranno state pessime queste politiche, ma certamente non sono state né liberiste né liberali. A maggior ragione, di fondo, dovremmo aver sviluppato una certa domanda di liberismo. Invece nel ricordo si esagerano i pretesi disastri di alcune fra le pochissime scelte che andavano nella riduzione del perimetro pubblico (dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia alla privatizzazione delle autostrade) e si costruisce una mistica dei bei tempi andati, dei successi del debito, dell’epica delle partecipazioni statali. Le persone sono inclini a considerare con favore gli anni della propria gioventù, e fra il ripianto della prima automobile e della prima fidanzata e la nostalgia del Pentapartito il passo è strepitosamente breve. C’è ben poco di razionale, in tutto questo. E a ragione: le persone normali dedicano alle questioni pubbliche un’attenzione minima, le considerano (giustamente) assai remote e lontane dagli ambiti nei quali la loro volontà ha un peso e sui quali possono esercitare influenza, vi si avvicinano con il gusto di ascoltare una storia e oggi la narrazione dominante, il romanzo che si vende di più, è quello dello statalismo buono e del liberismo cattivo. Un liberismo che non c’è mai stato, ma questo è un dettaglio.

D: Basta leggere un libro, come l’ultimo che hai scritto tu ad esempio, per dimostrare che il liberismo ha portato ad un enorme miglioramento nella qualità della vita degli individui (sotto tutti gli aspetti, economico, sociale, culturale ecc…). Ma allora perché c’è così tanta disinformazione in questo tema?

N. Se tutti sono diffidenti nei confronti un ordine non pianificato, per gli intellettuali un ordine non pianificato è un’opportunità sprecata: perché credono di sapere bene chi saprebbe porre ordine nel caos, chi ha le idee giuste su come impiegare le risorse, chi dispone di criteri chiari e meditati sul prezzo che deve avere un certo bene, sul valore di un’opera d’arte, sul senso di un romanzo, sull’importanza di un’invenzione. A loro basta guardarsi allo specchio: gli intellettuali, a parte quei pochi che tradiscono la tribù e che per questo sono marchiati come servi del capitale o peggio, sono convinti che la società dev’essere diretta, e dev’essere diretta da loro, altrimenti saranno guai.

D: “Per odiare qualcosa bisogna conoscerla. Scendere pure in piazza contro il libero mercato. Ma, prima, cercate di capire di che si tratta”. Questa è la frase che più mi è rimasta impressa del tuo libro. Come dovremmo fare, però, secondo te, a divulgare il liberismo in maniera oggettiva cercando di far capire alle persone “di che si tratta”?

R: Le maniere oggettive non esistono. Non solo le risposte che diamo ma prima ancora le domande che ci facciamo sono profondamente condizionate dal nostro modo di pensare la società, da ciò che noi riteniamo sia importante, dalla nostra preferenza per la libertà o per l’ordine, per il progresso economico o per la giustizia sociale. Ma un conto è essere partigiani, che è inevitabile, un altro è essere bugiardi, scorretti o faziosi nel dar conto dei dati. Bisogna essere intellettualmente onesti, non pensare di poter dare tutte le risposte, attenti alla realtà e rigorosi nell’interpretarla. Oggi, la priorità mi sembra sia soprattutto fornire una lettura diversa, più realistica, della situazione in cui ci troviamo, soprattutto rispetto a due temi: progresso tecnologico e diseguaglianze. L’una cosa e l’altra vengono utilizzati per cucinare una storia nella quale il mercato è diabolico e mai come oggi c’è bisogno di Stato per salvarci da un futuro alla Blade Runner. A me pare che siano paure ingiustificate, ma questi sono i temi sui quali, con pacatezza e pazienza, con correttezza intellettuale e senza forzature, bisogna costruire una narrazione alternativa, che racconti e spieghi meglio quanto accade nel mondo in cui viviamo.

D: Il liberismo si basa sul ragionamento di “Laissez-les faire et laissez-les passer”, lasciare fare agli altri della propria vita ciò che vogliano finché non nuocciano nessuno. Perché, anche questo concetto, oramai così scontato e, l’unico per costruire una società civile e felice, fa così fatica ad entrare nella mente degli italiani?

R: L’espressione “laissez faire” è stata trasformata in una caricatura e molto spesso viene considerata alla stregua di una invocazione all’anarchia. In realtà il liberismo è fatto di regole, il libero mercato è un contesto nel quale chi rompe paga, e le sanzioni di mercato sono severissime e inappellabili. Al contrario gli statalisti invocano regole per tutti, ma queste regole non fanno che certificare la discrezionalità dell’attore pubblico, che deve poter fare ogni e qualsiasi cosa desideri. Forse ad apprezzare l’idea è soprattutto chi è sempre alla ricerca di un “santo in paradiso” ma, come già detto, non credo sia questo il caso. Se fossero stataliste solo le persone cui davvero lo statalismo conviene, avremmo molti più liberisti in circolazione. Ciò che conta è la nostra diffidenza verso tutto ciò che non è pianificato.

D: In una parte del tuo libro evidenzi come la spesa sociale stia aumentando sempre di più arrivando a circa il 30% del PIL. Secondo te, un sistema meritocratico all’interno del lavoro pubblico, può aiutare ad una riduzione della spesa? O sarebbe ideale l’abolizione totale o parziale del welfare-state?

R: Non mi è ben chiaro cosa significhi un sistema meritocratico all’interno del lavoro pubblico. All’interno della pubblica amministrazione, gli incentivi sono diversi  a quelli che ci sono nel settore privato, e non può essere altrimenti. La cosa da fare è ragionare su quanto esteso deve essere il perimetro dello Stato, su quali sono i beni e servizi che lo Stato deve fornire direttamente organizzandone l’erogazione, su quali sono i beni e servizi che al contrario esso può acquistare da privati in concorrenza. Se ci dà fastidio che i primari abbiano bisogno di un padrino politico, la soluzione è restituire al settore privato gli ospedali, pagando semmai le prestazioni che erogano. Non è una soluzione perfetta, ci saranno sempre truffe e truffatori, perché siamo tutti esseri umani, sia che lavoriamo nel pubblico sia che lavoriamo nel privato, ma almeno mette una intercapedine fra la politica e, appunto, il lavoro dei medici. Ma se una certa funzione resta all’interno del perimetro pubblico non possiamo stupirci se obbedisce a esigenze e necessità politiche.

D: Noi italiani siamo sempre stati un popolo egocentrico, anzi culturocentrico. Riteniamo la nostra cultura e mentalità superiore a quella di tutte le altre nazioni. Pensi questo sia una delle cause che permettono oggi cosi tanta disinformazione su questo tema?

R: No. E non mi sembra sia questo il caso. Gli italiani pensano di solito abbastanza male di se stessi, anche perché si conoscono. Uno dei loro passatempi preferiti è biasimare tizio o caio perché hanno conquistato una certa posizione non in virtù dei propri meriti, ma in ragione dei favori e delle protezioni che sono riusciti a lucrare. Gli italiani in realtà i loro limiti li conoscono benissimo e fino a qualche anno fa, pur di malavoglia, erano convinti di doverli superare. Si pensi al fatto che la riforma Fornero è stata fatta solo come quattro ore di sciopero generale: se non è senso di responsabilità quello! Poi è cominciata una stagione diversa. I bassi tassi d’interesse hanno convinto i decisori che non si dovesse pigiare l’acceleratore sulle riforme, perché continuare a indebitarsi costava poco. Questo ha fomentato una forte ostilità alle, peraltro poche, riforme del periodo precedente: come se si trattasse di macchinazioni di una “élite” arcigna e cattiva. I due partiti oggi al governo hanno estremizzato questo atteggiamento e, forse per la prima volta nella nostra storia, non dicono agli italiani che è necessario fare riforme, che bisogna cambiare passo, che dobbiamo stare agganciati all’Europa. Dicono loro che va tutto bene così com’è, che sono migliori le banche in cui non si parla inglese, che c’è un sentimento anti-italiano che abita l’Europa mentre le nostre istituzioni e le nostre prassi vanno bene così come sono. Non è che pensiamo che la nostra cultura e le nostre istituzioni siano migliori: non lo pensiamo affatto. Ma ci stiamo convincendo, ci stanno convincendo, che la faremo sempre franca in ogni caso.

D: In generale il liberismo è sempre più respinto dalle nazioni, perché?

R: Oggi perché il discorso politico è tutto incentrato sulla politica dell’identità e nel discorso caro alla politica dell’identità le politiche economiche, liberiste o meno, hanno poco peso. Anche in Italia. Le questioni che suscitano entusiasmo e attenzione sono che cos’è una famiglia, quanti e quali immigrati possiamo accogliere senza “snaturare” la nostra cultura, quali sono i “diritti” di cui debbano godere questo o quel gruppo. La politica dell’identità annulla l’individuo, ci riporta a uno scontro fra tribù, bianchi contro neri, etero contro gay, uomini contro donne e quant’altro. La politica dell’identità è intrinsecamente anti-individualista mentre, al contrario, una discussione politica nella quale le politiche economiche hanno spazio abbraccia una prospettiva sostanzialmente individualista: consente al cittadino di interrogarsi su costi e benefici per lui, non su simboli che confortano questo o quel clan.

D: Tre testi che consigli ad una persona che vuole cominciare a studiare e capire le dinamiche del liberismo.

R: I due libri di Milton e Rose Friedman, Capitalismo e libertà (https://www.amazon.it/Capitalismo-libert%C3%A0-Milton-Friedman/dp/8864400230/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=capitalismo+e+libert%C3%A0&qid=1556949922&s=gateway&sr=8-1) e Liberi di scegliere (https://www.amazon.it/Liberi-scegliere-Una-prospettiva-personale/dp/8864401601/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=liberi+di+scegliere&qid=1556949939&s=gateway&sr=8-1), sono testi che hanno avuto una straordinaria fortuna, proprio perché riescono a spiegare con un linguaggio semplice, ma non per questo impreciso o poco rigoroso, come funziona quel tanto o quel poco di libero mercato che sopravvive nei nostri Paesi, e come invece lo statalismo prova a inquinarne gli esiti. Più di recente, Eamonn Butler, il direttore dell’Adam Smith Institute (https://www.adamsmith.org/), ha scritto dei libretti molto veloci ma chiarissimi, alcuni tradotti anche da IBL Libri, per avvicinare a queste idee persone che non le hanno mai frequentate (https://www.amazon.it/ricchezza-nazioni-pillole-distillato-sentimenti-ebook/dp/B00TVLMWDC/ref=sr_1_fkmrnull_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=la+ricchezza+delle+nazioni+pillole&qid=1556949965&s=gateway&sr=8-1-fkmrnull o https://www.amazon.it/Liberalismo-classico-Unintroduzione-Eamonn-Butler-ebook/dp/B07BQQHM25/ref=sr_1_1?qid=1556949983&refinements=p_27%3AEamonn+Butler&s=digital-text&sr=1-1&text=Eamonn+Butler). In queste occasioni di norma non si fa, perché è poco elegante, ma consiglio anche i miei libri, La verità, vi prego, sul neoliberismo (https://www.amazon.it/Neoliberismo-Alberto-Mingardi/dp/883174299X/ref=sr_1_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=mingardi+neoliberismo&qid=1556950027&s=gateway&sr=8-1) e il precedente L’intelligenza del denaro (sempre Marsilio, 2013 https://www.amazon.it/Lintelligenza-del-denaro-Alberto-Mingardi/dp/8831713310/ref=sr_1_fkmrnull_1?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&keywords=mingardi+intelligenza&qid=1556950005&s=gateway&sr=8-1-fkmrnull), perché lo ho scritti proprio pensando a un lettore scettico e diffidente, cercando di rispondere come meglio potevo ai suoi dubbi e alle sue perplessità sul libero mercato.