Il revisionismo iconoclasta: siete uomini o bestie infantili?

La morte di George Floyd ci consente di riflettere sull’incapacità di alcune persone di metabolizzare il nostro passato, un’opportunità di osservare ancora una volta il lato oscuro della nostra natura umana.

Se egli in vita è stato infatti vittima dell’abuso di potere, in morte è oggetto di sfruttamento da parte della giustizia morale promossa dalla distorta cultura marxista della lotta di classe.

Guardate a tal proposito chi sono i nuovi bersagli della furia dei manifestanti, ovvero delle decisioni emotive di alcune imprese: si spazia da personaggi storici come Frank Rizzo, il generale Lee e le statue dei soldati confederati, Colombo, Churchill, Cecil Rhodes, Francis Drake, Gandhi, Vittorio Emanuele II, Montanelli ecc, a film come “Via col Vento”, cartoni di Pippo e Paperino, piuttosto che dolciumi come i cioccolatini moretti.

Che cosa c’entra tutto questo con la morte di un afroamericano? Meno di zero.

La verità è che dell’uomo chiamato George Floyd non gliene frega più niente a nessuno; il dibattitto – come sempre accade – trascende il singolo episodio per spostarsi ai temi dei massimi sistemi, agli scontri tra civiltà e barbarie contro cui chiunque non solo si ritenga essere umano (e quindi uomo di civiltà e coscienza): il revisionismo storico fondato sulla morale contemporanea.

Statue, film, documenti ecc non sono solo cose, ma bensì le testimonianze del nostro passato, di quello che è il nostro retaggio culturale e l’evoluzione della società che noi costituiamo.

La violenza della distruzione e della censura è una minaccia per ognuno di noi e il progresso della nostra civiltà, un nuovo “terrore”, una nuova damnatio memoriae, un’operazione totalitaria (Cesario, Atlantico – 11/06/2020) figlia della confusione tra metodo di studio e diritto d’opinione, un errore questo così rilevante che su di esso si è implicitamente espresso uno dei nostri massimi esponenti nel suo (forse) più importante testo: Ludwig Von Mises in Human Action.

Appoggiare tale revisionismo significa voler ignorare tre questioni fondamentali:

1) cos’è la storia;
2) la metodologia rispetto ad essa;
3) la distinzione tra comprensione e approvazione, ovvero giustificazione.

La storia non è una scienza, ma bensì la disciplina che raccoglie e riordina tutti i dati dell’esperienza relativa all’azione umana, dalla quale è infatti scritta; dunque essa considera quelli che sono gli atti e fatti dovuti alla nostra scelta dei mezzi con cui perseguire le nostre finalità.

Tuttavia, tale decisione è in realtà condizionata da due fattori: eredità e ambiente.

Ogni nostra azione (dalla più semplice scelta di cosa mangiare, al come relazionarci con le altre persone) dipende infatti sia dalle “qualità biologiche” ereditate dalla nostra famiglia che dall’influenza esercitata dall’ambiente che ci circonda: ognuno di noi non vive come uomo in abstracto, ma bensì come figlio della sua famiglia, della sua razza, del suo popolo e della sua età […] come seguace di talune idee (pur potendo farsene di proprie totalmente nuove).

Cosa c’entra tutto questo con il revisionismo e la furia iconoclasta? C’entra il fatto che sono proprio le nostre radici (e quindi il nostro futuro) ad esserne minacciate da tale agire.

Il compito della storia è di mostrare quanto è accaduto in passato, consentendoci di divenire più saggi e giudiziosi nonostante l’impossibilità a priori di avere resoconti fedeli, completi e imparziali dei fatti.

Lo studio del passato si avvale infatti di tutti gli strumenti forniti dalle scienze sociali e naturali, ma nel momento in cui si giunge ai c.d. “dati ultimi” ( cioè non spiegabili dall’odierno stato della tecnica) ecco subentrare il giudizio di valore dello storico che è si condizionato dalla sua formazione ed idee, ma si tratta pur sempre di mera discrezionalità tecnica, non morale!

Nei testi di storia non vi è mai una corretta rappresentazione integrale e approfondita di ogni singolo fatto, poiché uno storico non riporta i fatti come sono accaduti, ma bensì seleziona questo insieme di altrui giudizi di valore sulla base della sua visione del mondo: lo storico non agisce sulla base di pregiudizi, ma puntando ad acquisire la conoscenza (fine ultimo della ricerca).
Chi considera gli eventi come arsenale di armi per esprimere la propria ostilità di parte con l’esclusione di tutto ciò che non accetta, è un mero apologeta, un semplice pappagallo al servizio della propaganda della corrente di turno.

E questo vale tanto per l’accademia che per noi poveri mortali profani nella nostra vita di ogni giorno!

Perché? Perché distruggere, censura e/o revisionare la storia significa non volerla studiare nell’unico modo corretto per farlo: la comprensione.

Attenzione però: il significato delle parole di scienza e accademia non coincide necessariamente con quello che ordinariamente intendiamo; e questo è proprio uno di quei casi.

La storia è una catena di eventi dalle caratteristiche specifiche uniche e individuali; volerla conoscere significa apprendere, analizzare e accertare che un individuo (ovvero un gruppo) è stato impegnato in una data azione che discende da certi giudizi di valore e da scelte che mirano al conseguimento di determinati fini.

Tradotto? Comprendere significa acquisire delle informazioni (specie quelle di contesto) senza travisarle, modificarle o ometterle in forza di qualsivoglia giudizio morale o etico!

Comprendere non è sinonimo di giustificare, sminuire o esaltare i fatti!
Se vogliamo conoscere il passato dobbiamo allora accettare che un evento storico non può essere descritto senza riferimento alle persone coinvolte, al luogo e alla data in cui esso avviene, per quanto poi questo ci possa portare a dare dei giudizi negativi delle vicende esaminate: dobbiamo accettare che le metriche di giudizio non sono uguali nei secoli!

È infatti diritto di ognuno di noi avere un’opinione su un determinato personaggio o vicenda, nessuno può pretendere che la comprensione storica produca risultati che debbano essere accettati da tutti gli uomini (Mises, p. 101); tuttavia questo non legittima distruzione, distorsione e violenza contro persone ed oggetti: la storia non la si apprende solo sui libri, ma anche dallo studio dei resti, dall’ascolto delle testimonianze orali, dalla visione di opere e monumenti.

La storia può essere riscritta solo se vi è stato un aggiornamento di quelle tecniche delle scienze naturali e sociali che utilizziamo per studiare gli eventi; il resto è solo un tentativo di damnatio memorie, un’attività simbolo dei periodi più bui della nostra civiltà con cui:

1) si vuole negare ciò che siamo stati (vi ricordate del processo di innocentizzazione di Zeno?);

2) rigettiamo la natura umana stessa e la sua debolezza: nella nostra mente vi sono tutti i sentimenti umani; tutti noi abbiamo una componente razzista, omofoba, avversa al diverso ecc. Ciò che ci differenzia è quale lato scegliamo di far emergere, una possibilità condizionata anche dal contesto ambientale (lo stato della tecnica di oggi è quello di 600 anni fa?);

3) si commette a propria volta un atto di razzismo/negazionismo/autoritarismo verso ciò che reputiamo tale: l’unica cosa che cambia è il bersaglio, mentre i nostri sensi di colpa sono annichiliti dal nostro presunto senso di superiorità morale che nessuno di noi avrà mai.

Decidere la storia attraverso il giudizio morale è sbagliato e pericoloso, nonché ipocrita e senza una fine: oggi noi siamo giudici, domani saremo i giudicati.
La morale è figlia del tempo e dei pensieri di parte: lasciarla andare fuori controllo significa impedire qualsiasi progressione, condannandoci ad un eterno e stagnante presente, figlio della regressione che da tali atti scaturisce, così descritto da Orwell in 1984:

Ogni disco è stato distrutto o falsificato, ogni libro è stato riscritto, ogni immagine è stata ridipinta, ogni statua e ogni edificio è stato rinominato, ogni data è stata modificata. E il processo continua giorno per giorno e minuto per minuto. La storia si è fermata. Nulla esiste tranne il presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione.”

Perché tali parole?
Perché la verità di fondo è che nessuno di noi può reputarsi onnisciente: siamo tutti degli esseri imperfetti, con colpe e responsabilità che se non lo sono considerate oggi, lo saranno dai nostri discendenti domani che invero avranno perso la possibilità di conoscere correttamente ciò che siamo stati, anche negli aspetti più brutali.
Volete un esempio della pericolosità di tale processo? Giusto per citare alcuni personaggi:

  • Marx ed Engels erano omofobi e sessisti;
  • Keynes era un bissessuale pedofilo;
  • Dante avrebbe espresso (secondo alcuni) sentimenti antisemiti e islamofobi nella Divina Commedia;
  • Aristotele riteneva la schiavitù una legge naturale, scrivendo frasi come “è evidente che taluni sono per natura liberi, altri, schiavi, e che per costoro è giusto essere schiavi”(Politica, Libro I);
  • Voltaire e Wagner erano antisemiti;
  • Gramsci considerava il jazz “musica da negri”

Vogliamo passare ai monumenti? Ok: siete pronti a perdere qualsiasi resto della civiltà romana?
Pensate alla sola area di Roma che si estende tra l’Anfiteatro Flavio e Piazza Venezia: nel Colosseo sono morte migliaia di persone (gladiatori, schiavi, cristiani ecc) per divertimenti che oggi consideriamo barbari; la Colonna Traiana mostra la conquista della Dacia da parte di Traiano, con i vinti raffigurati in catene; l’Altare della Patria celebra la carneficina della I° Guerra Mondiale (non sarebbe forse offensivo per austriaci e tedeschi?), mentre Palazzo Venezia con il balcone di Mussolini è lì davanti. Eppure sono ancora tutti lì.

Dunque lo capite ora che la furia iconoclasta della giustizia morale non risparmia niente e nessuno? Che nessuno di noi è moralmente superiore per fare ciò?
Lo sapevate che se durante la Rivoluzione francese furono distrutte 28 statue di re biblici a Notre Dame perché scambiati per re di Francia, oggi nell’assalto alla statua di Churchill vi era chi sbandierava bandiere con la faccia del terrorista omofobo Ernesto Guevara della Sierna, alias Il Che?

Lo capite quindi che abbattere monumenti, distruggere libri o rimuovere film e serie tv (a quanto pare vogliono rimuovere persino la serie tv Hazzard per l’ambientazione sudista) è regressivo e pericoloso, nonché demenziale e pretestuoso?

Come si è passati infatti dalle statue di Colombo e Churchill ad attaccare la Kellog’s perché i Rice Krispies hanno tre ragazzi bianchi a rappresentare il marchio mentre i Coco Pops hanno una scimmia ?

Invero cosa differenzia tali azioni da quella dei talebani contro i Buddha di Bamiyan, dei terroristi dell’ISIS contro le rovine di Ninive, Nimrud e Palmira, ovvero del regime di Hitler nel tracciare la falsa storia della superiorità ariana?
La mera convinzione dell’essere nel giusto secondo la propria visione valoriale? È davvero questa la differenza legittimante? Loro cattivi, noi no?

La storia deve essere studiata, perché solo così possiamo comprendere ciò che eravamo e siamo divenuti; in tal senso Mises ci indica due aspetti metodologici fondamentali:

1) un evento storico non può essere descritto senza riferimento alle persone coinvolte, al luogo e alla data in cui esso avviene, altrimenti sarebbe qualcosa che ricade nell’ambito oggettivo delle scienze naturali;

2) lo scontro di gruppi in conflitto può essere trattato dal punto di vista delle idee, dei motivi e degli scopi che determinano gli atti dell’una e dell’altra parte […] per comprendere le loro azioni, lo storico deve tuttavia tentare di vedere le cose come esse sono apparse agli uomini che hanno agito in quel contesto, non soltanto come noi le vediamo ora sulla base della nostra conoscenza attuale; tale aspetto è soprattutto utile su casi come quelli di Cristoforo Colombo (il quale non può essere accusato dei successivi crimini dei conquistadores).

Senza passato non vi è futuro, senza conoscenza non vi è libertà, risoluzione dei problemi umani, progresso e civiltà: signore e signori non esisterà mai il giudizio morale definitivo della storia: nessuno è salvo, nessuno è innocente.

Noi dobbiamo accettare il fatto che ogni epoca storica ha i propri valori e forma mentis: ciò che per noi oggi è legittimo ed etico, domani o ieri non era considerato tale e viceversa; dobbiamo accettare che noi siamo figli anche di atti violenti e criminali, che alla nostra attuale realtà hanno contributo anche esseri criminali e disumani.

Accettate ciò che siamo stati e rispettate il metodo: negare ciò che è stato perché non ci piace favorisce il suo sostanziale ritorno; cambiano le idee e i simboli, ma gli atti disumani restano.
È nostro dovere comprendere, lasciando ogni giudizio morale al successivo dibattito: gli stessi principi fondanti della civiltà quali la libertà e la responsabilità sono emanazione di tale violenza.

La razza umana è tutto ciò: questa è la nostra realtà, questo è il nostro retaggio.
Siete esseri senzienti o bestie infantili che pensano ancora di risolvere i problemi chiudendo gli occhi perché il mostro è sotto il letto e se non lo vedi tu, lui non vede te?

 

Fonti:

Aristotele, Politica.

Cesario, M. (2020), Historia magistra vitae: come nel passato, la furia iconoclasta di oggi lascia presagire solo un nuovo “terrore”, Atlantico, 11/06/2020

Nepi, M. (2020), I cereali Coco Pops accusati di razzismo: “Perché una scimmia come mascotte?”, TPI, 16/06/2020

Redazione (2020), L’iconoclastia antirazzista è inutile e pericolosa, dice un’antirazzista militante, AGI, 11/06/2020

Von Mises, L (2016), L’azione umana. Trattato di economia, Rubettino.

Il liberismo, il sistema economico di Adam Smith

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Esistono uomini che lasciano il segno, individui che condizionano con il loro sistema di pensiero un’epoca intera, per non dire secoli di storia sociale e globale. Lo spirito dei tempi, la genialità umana, la cultura e il sapere hanno prodotto menti lucidissime, intelligenze ineguagliabili, studiosi che hanno dato il loro contributo a forgiare un sistema capace di resistere allo scorrere dei tempi, all’erosione del ticchettio delle lancette.

Adam Smith (1723-1790) è stato uno di questi. Egli ha dato un contributo eccezionale allo sviluppo di una disciplina che condiziona la vita di tutti i giorni: l’economia. Fu il primo che riuscì  a sganciare dalla filosofia e, in particolare, dalla filosofia morale, la scienza economica. Egli fu il primo economista classico, il pensatore sistematico che fondò una nuova disciplina: l’economia politica, intesa in senso stretto, come studio e analisi del sistema economico capitalistico oppure-in termini microeconomici-come scienza sociale che indaga il comportamento umano in maniera razionale per allocare in maniera ottimale le poche risorse disponibili.

 

Dopo Smith l’Occidente si è diviso in due agguerrite categorie: i sostenitori radicali del suo sistema, come la scuola austriaca, gli anarco-capitalisti-, i neoclassici, i liberali, liberisti, i libertariani, i minimalisti, e i critici più polemici del suo pensiero come gli statalisti, i marxisti, i collettivisti, i Keynesiani, i sovranisti e i protezionisti. Quali sono, quindi, le idee principali di Adam Smith?

Egli riuscì a sintetizzare come in un mosaico gli elementi cardine del capitalismo, nella sua opera principale: “La ricchezza delle nazioni”, pubblicato nel 1776.  Il primo principio che permette un aumento dello sviluppo e della produttività è la divisione del lavoro. Questa divisione porta i suoi benefici all’interno dell’intero sistema economico garantendo la supremazia dello scambio e del mercato; un’entità libera da dogane, dazi e protezionismi interni. Un altro principio, leitmotiv del liberismo, è la superiorità del libero mercato , della libera iniziativa economica. Ogni intervento dello Stato nell’economia  è considerato- da Smith-inopportuno, scandaloso e inefficiente. Smith a tal proposito per limitare lo strapotere della pianificazione statale, dramma odierno della burocrazia italiana, ipotizzò l’esistenza della cosiddetta “Mano invisibile”. La presenza della mano invisibile permette di realizzare un ordine sociale che soddisfa l’interesse generale e la convergenza spontanea degli interessi personali verso il benessere collettivo.

Demonizzando l’intervento dell’autorità statale, la mano invisibile permette un equilibro solido e duraturo dei mercati: Domanda e offerta di un bene o di una merce su differenti mercati tendono ad uguagliarsi e a rimanere in equilibrio. Quali sono le lezioni più importanti che possiamo ricavare dalle teorie di Smith? La libertà dell’individuo, la sua priorità rispetto alla collettività, la necessità di un capitalismo che non sia solo esorcizzato ma valorizzato: attraverso il capitale, nonostante crisi e incertezze generali, attraverso investimenti razionali, con una ridotta tassazione, attraverso la libera iniziativa è stato possibile creare ricchezza, comfort e benessere su larga scala.

È stato il capitalismo che ha fornito, nei paesi liberali, la possibilità di mettersi in gioco. È grazie al libero mercato che è stato possibile evitare qualsiasi deriva autoritaria e dittatoriale. Lo scrisse anche Friedrich Von Hayek, economista liberista, ad affermarlo nella sua opera “Verso la schiavitù “: il capitalismo teorico legittimato da Smith ci ha salvato più volte dalla “dittatura” dei nazionalismi, dei protezionismi, e dalle demagogie insite nel pensiero populista. 

 

 

 

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George Floyd ed il Principio di Libertà violato

L’uccisione per soffocamento di George Floyd da parte di alcuni agenti di polizia di Minneapolis ha scatenato forti proteste in tutti gli Stati Uniti e non solo.

E’ un fatto che riguarda tutti noi, senza distinzione di razza, di religione, di sesso o di età. Un agente, il cui compito sarebbe dovuto essere quello di garantire la sicurezza e la libertà dell’individuo, ha esattamente commesso l’azione opposta. Quella di abusare dei propri poteri conferitigli dalla legge per soffocare la libertà di un individuo.

I can’t breathe“. Letteralmente “Non riesco a respirare“, sono state le ultime parole pronunciate dall’afroamericano di 46 anni prima di essere ucciso.

Questo avvenimento ci porta a riflettere su noi stessi perché ancora una volta abbiamo assistito alla soppressione di una fondamentale libertà individuale: quella di non subire discriminazioni in base al colore della pelle, come quella di vivere la propria vita e di pensare in modo diverso.

Uno studio della School of Public Health di Harvard sulla discriminazione negli Stati Uniti riporta alla luce la percezione della discriminazione in base all’etnia e gruppi sociali. Si evince che in termini percentuali una persona di colore percepisce la discriminazione del 37% in più rispetto ad una persona bianca. Tali percezioni trovano una notevole differenza anche tra uomini, con il 44% di discriminazione percepita e donne con il 68 per cento.

Sempre lo stesso studio evidenza come tali percezioni siano presenti anche nel mercato del lavoro. Ad esempio, una persona di colore verrebbe discriminata il 44% in più rispetto ad un persona bianca sull’equità di remunerazione e promozioni. Sempre in quest’ambito lo studio evidenzia una marcata differenza in merito alla discriminazione percepita sul lavoro tra uomini (18%) e le donne (41%).

In termini economici, tutto questo si pone in contrasto con i principi del libero mercato, che prediligono l’individuo e la propria libertà di essere. Il mercato, per essere efficiente ed efficace, deve essere messo nelle condizioni di premiare le competenze ed il talento della singola persona e non il proprio gruppo sociale o etnico di appartenenza. Come affermava il celebre economista e pensatore liberale Ludwig von Mises, il mercato libero da interferenze statali non guarda il ceto sociale, il colore della pelle, il livello di istruzione, l’orientamento sessuale o l’identità di genere.

“Ciò che la democrazia capitalistica del mercato produce non è ricompensare le persone secondo i loro “veri” meriti, il valore instrinseco e la loro eminenza morale. Ciò che rende un uomo più o meno propenso non è la valutazione del suo contributo da un qualsiasi principio “assoluto” di giustizia, ma la valutazione da parte dei suoi simili che applicano esclusivamente il metro dei propri bisogni, desideri e fini personali”

Ludwig Von Mises – La mentalità anticapitalista

Questo è ciò che Mises ha definito come il sistema democratico del libero mercato. Ma affinché avvenga, il nostro afferma che è necessario non solo “un mercato non sabotato da restrizioni imposte dal governo“, ma anche il rispetto dell’uguaglianza di fronte alla legge.

Nel rispetto di queste due condizioni fondamentali, “è esclusivamente colpa tua se non superi il re del cioccolato, la star del cinema e il campione di pugilato.”

E allora, dovremmo domandarci: quante volte ci siamo sentiti discriminati e soffocati da leggi e restrizioni imposte dal governo? Quante volte abbiamo urlato tra le mura della nostra mente “I can’t breathe”, “Non riesco a respirare”, perché non ci siamo sentiti liberi di essere intraprendenti e attivi nella società a causa della burocrazia?

Garantire la libertà in tutte le sue forme nel rispetto della libertà altrui è il primo passo fondamentale per respirare e far respirare gli altri.

La legalizzazione della cocaina spiegata dal Principe del Liechtenstein

Nella politica ordinaria, quando si parla di legalizzazione delle droghe leggere, la risposta tipica dei contrari è “ah sì, dopo la marijuana cosa legalizzeremo, la cocaina?”.

Solitamente, a tal punto, si parte su un dibattito sul danno fattuale degli stupefacenti, sul fatto che le droghe leggere facciano questo e quello mentre le droghe pesanti siano peggiori, che vi sia una differenza e così via.

Eppure la risposta alla domanda iniziale dovrebbe tranquillamente essere “sì”. Esistono vari motivi per cui certe sostanze siano molto meno dannose dentro la legge e non fuori.

Per esempio la Svizzera ha portato l’eroina dentro la legge, offrendola gratuitamente ai dipendenti. Ciò da un lato ha enormemente ridotto i tassi di infezioni e morti e dall’altro ha anche mandato fuori mercato lo spaccio: nessuno creerebbe un mercato per quelle decine di persone che magari vorrebbero provare.

Ma tra l’eroina, che è tristemente nota per i suoi effetti, e la marijuana, che è ormai socialmente paragonabile all’alcol e tollerata e legalizzata in vari paesi, c’è tutto un mondo di droghe chiamate pesanti ma che sono meno dannose dell’eroina, tra cui la cocaina.

Questa droga è infatti poco spesso analizzata nelle proposte di legalizzazione: non ha particolari usi medici, chi la usa non è sempre un derelitto come con l’eroina e spesso è anche considerata una droga altolocata.

Perché legalizzare la cocaina?

Eppure esistono ottime ragioni per legalizzarla. La ragione è semplice: il proibizionismo ha fallito e le persone continuano a drogarsi allegramente, portando i politici a chiedere più guerra alla droga, che fallirà, portando i politici a fare più guerra alla droga. Ok.

L’illegalizzazione delle droghe porta a pessime situazioni sociali quali:

  • La possibilità di accedere al mercato solo per grandi organizzazioni criminali, che spesso usano i proventi per azioni terroristiche o per infiltrarsi nei governi
  • Nessuna garanzia sul contenuto e sulla qualità delle sostanze, portando a pericoli sanitari ben maggiori rispetto a quelli che darebbe la sostanza di qualità
  • Creazione di aree sotto il controllo dello spaccio dove le forze dell’ordine e i comuni cittadini non possono accedere senza correre grandi rischi
  • Aumento delle dipendenze e favorire, nei fatti, un legame spacciatore- dipendente

Come legalizzare la cocaina?

Nel suo “lo Stato nel Terzo Millennio” il Principe del Liechtenstein parte dal presupposto che lo Stato, con le sue politiche completamente slegate dalle logiche di mercato, abbia fatto più danni che altro sulle droghe, addirittura favorendo le dipendenze e il malessere della comunità.

Il Principe, da buon cattolico, ritiene un fenomeno negativo la dipendenza da stupefacenti. Ma, anche se non ci piace, esiste e va affrontato secondo le regole che regolano quasi tutta la nostra vita: quelle del mercato.

Ed ecco come Giovanni Adamo II legalizzerebbe la cocaina.

Coltivazione e Stati in via di sviluppo

Nei Paesi dove si coltiva la coca esistono moltissimi coltivatori ma solo un acquirente: il cartello della zona, che è libero di fare il prezzo che vuole. Con gli enormi profitti della vendita poi si infiltrano nel governo e aumentano il proprio controllo territoriale.

Ma se noi pagassimo di più questi coltivatori? Il Principe fa l’esempio dicendo “il doppio”, ma ovviamente ci sarebbe un naturale processo di mercato sul prezzo. La possibilità di acquistare legalmente la coca indebolirebbe molto il ruolo territoriale del cartello e aiuterebbe migliaia di persone a divenire indipendenti dalla criminalità. Chiaramente non eliminerebbe totalmente il cartello e tale misura andrebbe affiancata da aiuti per rafforzare lo Stato di Diritto in questi Paesi, ma iniziare a togliere il finanziamento e l’armata di schiavi di tale sistema è il primo passo per sconfiggerlo.

Prezzi e produzione

Tanti dicono che è impossibile legalizzare la cocaina perché “se costa 50€ al grammo e ci metti le tasse e tutto nessuno la comprerebbe a 100€ al grammo”. Peccato che il prezzo della cocaina non sia di certo un prezzo di mercato: i cartelli sono anche venditori unici e possono fissare i prezzi come desiderano per avere i profitti che vogliono: Pablo Escobar non girava con una Lada.

Inoltre l’illegalità della sostanza aumenta i suoi costi: bisogna trasportare tutto in segreto, con significative perdite, e ungere le persone giuste ai giusti livelli. Un business legale non ha bisogno di sottomarini o Cessna né di regalare un’auto al capo della Polizia di Frontiera per far passare il carico, detta semplice.

Un business legale semplicemente acquisterebbe le foglie di coca, le porterebbe da qualche parte dove vengono elaborate, magari in Paesi in via di sviluppo così da strappare altra manovalanza al cartello, e legalmente e senza sotterfugi lo porterebbe nel Paese di vendita.

Vendita ed effetti sulla popolazione

La vendita di cocaina può essere regolamentata, ovviamente, ad esempio vendendola solo in determinati locali che forniscono informazioni e assistenza a chi ne ha bisogno.

Inoltre, se si vuole mantenere una sanità base per tutti può essere una misura di buonsenso far pagare i costi della dipendenza a chi fa uso delle droghe. Non amo i discorsi del tipo “legalizzare le droghe per dare più soldi allo Stato”: lo Stato stesso ha bisogno di una cura al SERT contro la sua dipendenza dalla spesa pubblica, ma esiste ampio spazio per restare concorrenziali col nero e avere una tassa sugli stupefacenti che vada a finanziare la sanità, magari direttamente il fondo malati adottando un sistema ispirato a Bismarck.

Riguardo gli utenti è ben chiaro che avrebbero benefici tutte le categorie.

Chi ha veramente una dipendenza può procurarsi la sostanza in modo controllato e chiedere aiuto e informazioni a professionisti.

Chi è un utilizzatore occasionale ha la certezza di procurarsi una sostanza sicura, con dosi certe e che non pone rischi ulteriori rispetto alla sostanza per se.

Chi magari vuole provare la prima volta, invece di trovare uno spacciatore che dalla vendita di quella dose potrebbe potenzialmente guadagnarci molto, troverà professionisti che lo consiglieranno e potranno digli di evitare e, se proprio vuole, di farlo in sicurezza.

Qualcuno argomenterebbe che nemmeno dovrebbero comprarle queste sostanze. Ma tanto lo fanno, ed è preferibile che il profitto vada nell’economia legale e non alla mafia che sta comperando il tritolo per far saltare qualche magistrato.

Ma il beneficio è anche sociale: ridurremmo nettamente i detenuti per reati di droga, con ogni detenuto ci costa 150 Euro al giorno. Ci riprenderemmo zone della città che oggi sono chiuse e in mano allo spaccio.

Non c’è, in sostanza, una ragione che sia una per mantenere il proibizionismo.

Ma sconfiggerebbe la mafia?

Certo che no, non per questo non va fatto. Così come la mafia si infiltra nei ristoranti, nell’edilizia e in qualunque settore si infiltrerà anche nella vendita di droga.

Semplicemente, è completamente idiota non fare un qualcosa che lascerebbe, per esempio, il 20% del mercato alla mafia quando con l’attuale sistema… la mafia ha il 100% del mercato.

Anche la mafia dovrebbe competere nel mercato e dovrebbe quindi ridurre i propri profitti, alle volte azzerandoli o andando addirittura in perdita. Unito ad un controllo adeguato sulle imprese, beh, non avrà la vita semplice che ha oggi.

Poi, sicuramente, potrebbero esistere fenomeni di contrabbando, visto che la malavita ha già oggi una sua rete. Ma se lo Stato non vedrà la droga come l’ennesima vacca da mungere ma come un settore strategico per ridurre la malavita e il suo potere e terrà i prezzi bassi, beh, sarà un mercato molto, molto piccolo.

[INTERVISTA] Il liberalismo visto dal Professor Lorenzo Infantino

Per il blog dell’Istituto Liberale ho il grande piacere e l’onore di intervistare Lorenzo Infantino, Professore di Filosofia delle Scienze Sociali presso la LUISS Guido Carli e autore di numerose pubblicazioni tradotte in inglese e spagnolo. La sua più recente fatica, Cercatori di Libertà, è stata pubblicata dall’Editore Rubbettino.

D. Professor Infantino, grazie mille per la Sua disponibilità. Noi tutti le siamo grati per il suo instancabile lavoro di divulgazione del liberalismo di stampo evoluzionistico che dai moralisti scozzesi arriva fino alla Scuola Austriaca di Economia. Ci parli del “legislatore onnisciente” e di come David Hume e Adam Smith abbiano sferrato un attacco mortale sul piano gnoseologico a questo mito.

R. Duncan Forbes ci ha lasciato degli scritti molto acuti sull’Illuminismo scozzese. Nella sua introduzione a una ristampa del noto saggio di Adam Ferguson sulla “storia della società civile”, Forbes ha esattamente scritto che il “più originale e audace coup della scienza sociale dell’Illuminismo scozzese” è costituito dall’abbattimento del mito del Grande Legislatore.

Forbes si è in realtà giovato di un’affermazione di Émile Durkheim, secondo cui nulla ha ritardato la nascita della scienza sociale più dell’idea che attribuisce l’origine delle istituzioni alla volontà di un qualche legislatore, “dotato di un potere quasi illimitato”. Nella sua opera, Durkheim non è stato sempre fedele a ciò che dalla sua affermazione discende. Ma quanto sostenuto da Forbes con riferimento all’Illuminismo scozzese coglie nel segno. E Friedrich A. von Hayek lo ha riconosciuto.

Per citare i due maggiori esponenti della cultura scozzese del Settecento, direi che nel repertorio di David Hume e di Adam Smith si trovano gli strumenti con cui colpire mortalmente il mito del Grande Legislatore. Con la legge che porta il suo nome, Hume ha mostrato che non è logicamente possibile derivare proposizioni prescrittive da proposizioni descrittive. Bisogna perciò separare i fatti dai valori.

Non c’è una scienza del Bene e del Male, perché le regole morali “non sono conclusioni della ragione”, bensì il prodotto inintenzionale dei rapporti di convivenza. Com’è noto la legge di Hume sta alla base della libertà di coscienza. E nessun Leviatano, “Dio mortale” che pretenda di esprimere la volontà del “Dio immortale”, può imporci alcuna credenza.

Da parte sua, Smith si è soffermato su quello che possiamo oggi chiamare teorema della dispersione della conoscenza. Le nostre conoscenze di tempo e di luogo sono infinite; e, di conseguenza, non sono centralizzabili. “Nella propria condizione locale”, ognuno sa più di ogni legislatore, senato o assemblea. È un’idea che è stata letteralmente copiata da Edmund Burke e che, nel corso del Novecento, è stata posta da Hayek al centro della propria riflessione e, fra le altre cose, della critica all’economia pianificata.   

D. Ci può spiegare in che senso quello degli scozzesi è un liberalismo evoluzionistico?

R. Sir Friedrick Pollock ha scritto che Montesquieu, Burke e Savigny devono essere considerati dei “darwiniani prima di Darwin”. Ma tale appellativo spetta senza dubbio anche a Bernard de Mandeville, Hume e Smith. Attraverso il nonno Erasmus, Charles Darwin è stato influenzato da Hume. Egli è stato anche influenzato dalla lettura dei testi smithiani.

In ogni caso, tutti gli autori che ho appena citato hanno compreso, come farà successivamente Alexis de Tocqueville, che gli uomini sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Si affermano coloro i quali adottano le norme sociali che meglio consentono la soluzione dei problemi della convivenza. L’esempio più chiaro è quello della divisione del lavoro.

Le popolazioni che hanno diviso il lavoro hanno realizzato l’allargamento dell’ambito della cooperazione sociale e incrementato il volume degli scambi. Hanno in tal modo conseguito un benessere a cui, in caso contrario, non sarebbero potuti pervenire. Quello degli autori che ho richiamato è un evoluzionismo di carattere culturale, in cui sopravvivono le norme e le istituzioni che maggiormente facilitano la cooperazione sociale. Nulla a che fare col darwinismo sociale, tristemente trasferito dalla biologia alle scienze sociali.

Nel mercato, ciascuno di noi paga ciò che sa fare peggio con quello che sa fare meglio. Se qualcuno non riesce efficacemente a svolgere il proprio compito, egli può occupare una diversa posizione, servire gli altri mediante una differente attività, abbracciando regole professionali più confacenti alle sue capacità e al suo impegno.

D. In che maniera e tramite quali figure la tradizione scozzese si ricollega alla Scuola Austriaca e all’individualismo metodologico?

R. L’evoluzionismo culturale e l’individualismo metodologico sono due aspetti della stessa realtà. Se si abbatte il mito del Grande Legislatore, il processo sociale è necessariamente ateleologico. Sappiamo che ci sarà un ordine sociale: perché il diritto, delimitando i confini fra le azioni, lo rende possibile.

E tuttavia non possiamo sapere quale ordine concretamente si realizzerà. Ossia: lo scambio dei mezzi fra gli attori è di carattere intenzionale, ma la cooperazione ai fini altrui è inintenzionale. E lo è anche il risultato finale, giacché esso non è il frutto della programmazione di una qualche mente ordinatrice. Nelle sue Untersuchungen, Menger ha rivelato i suoi debiti nei confronti di Burke e di Savigny. E ha criticato Smith.

Malgrado ciò, Hayek ha affermato che Menger ha fatto “rivivere” l’individualismo metodologico di Adam Smith. Possiamo afferrare le ragioni di tale diversità di vedute. Pur avendo tutti gli strumenti per respingere la teoria del costo di produzione (la teoria del valore-lavoro ne è una versione), Smith ha fatto a essa delle concessioni. Com’è noto, Menger è stato uno degli artefici della cosiddetta “rivoluzione marginalista”.

È così accaduto che, nel giudicare Smith, si è concentrato sulle concessioni smithiane alla teoria del costo di produzione. Ma ciò lo ha tenuto lontano dal filo che tiene assieme i vari scritti di Smith e che è costituito dalla teoria delle conseguenze inintenzionali. Il che è quanto maggiormente rileva. Condivido pertanto la posizione di Hayek.

D. Hayek è forse il principale esponente del Liberalismo nel Novecento, un vero gigante del pensiero, premio Nobel per l’Economia nel 1974. Qual è secondo Lei il suo più originale contributo alla teoria del liberalismo?

R. Non devo fare alcuno sforzo. Lo stesso Hayek ha dichiarato di ritenere “Economics and Knowledge” il suo più originale contributo alla teoria economica. Basando la sua critica agli schemi dell’equilibrio economico generale sulla divisione (dispersione) della conoscenza, Hayek ha gettato una potente luce sul significato della concorrenza come processo di esplorazione dell’ignoto e di correzione degli errori. E ciò gli ha consentito di farci comprendere che, senza libertà individuale di scelta, non è possibile la crescita della nostra razionalità.  

D. Lei ha avuto modo di definire l’ordine spontaneo hayekiano come un “ordine senza piano”. Michael Oakeshott, riferendosi alla celeberrima “the road to serfdom” di Hayek, ha mosso la seguente critica: A plan to resist all planning may be better than its opposite, but it belongs to the same style of politics”. Si sente di difendere Hayek da questa critica?

R. Hayek non ha bisogno di essere difeso da me. Il contributo che egli ha dato alla comprensione della dinamica dei processi sociali lo pone molto al di sopra di ogni piccola disputa. Se teniamo conto di quanto Hayek ha in particolare scritto contro l’abuso della ragione, sulla formazione dell’io e sull’ordine sensoriale, l’affermazione di Oakeshott mi sembra del tutto fuori luogo.

Hayek non ha mai sostenuto la necessità di opporre alla pianificazione centralizzata un piano diversamente concertato. Egli ha semplicemente opposto la libertà individuale di scelta, capace di mobilitare conoscenze e risorse altamente disperse all’interno della società. 

D. Lei è sempre stato molto critico nei confronti della distinzione Liberismo-Liberalismo di Benedetto Croce.  In che maniera possiamo evitare, però, che il liberalismo sfoci in una forma di morale utilitaristica?

R. Bisogna capire che cosa intendiamo per morale utilitaristica. Fra le cose importanti che Hayek ci ha portati a comprendere, c’è l’esigenza di delimitare i confini fra le varie tradizioni di ricerca. Il liberalismo della tradizione scozzese-austriaca non ha nulla da spartire con l’utilitarismo di Jeremy Bentham e dei suoi seguaci.

La teoria delle conseguenze inintenzionali lo pongono su un piano molto diverso, in cui prevale il “governo della legge” e l’utilità delle regole. Si aggiunga che la polemica di Croce, sia detto con tutto il rispetto per il suo antifascismo, volta le spalle all’incontestabile fatto che, senza libertà economica, non è possibile nemmeno la libertà politica. Sin dal Seicento, ci sono stati pensatori che hanno richiamato la nostra attenzione su tale problema.

E Hayek ha sintetizzato nella maniera più efficace quello che possiamo chiamare teorema di François Bernier, il medico francese che, dopo avere visitato alcuni paesi orientali, ha mostrato come la base della libertà individuale di scelta risieda esattamente nella proprietà privata dei mezzi di produzione, perché “chi detiene tutti i mezzi determina tutti i fini”, ideali e materiali (Hayek).    

D. Se il prezzo della libertà è, come Karl R. Popper ha affermato, “l’eterna vigilanza”, quali sono secondo Lei le maggiori minacce alla nostra libertà dalle quali oggigiorno dobbiamo difenderci?

R. Dobbiamo difenderci dalla “democrazia illimitata”, regime politico contro cui già Aristotele ci poneva in guardia. Benjamin Constant ha chiarito molto bene la questione, allorché ha affermato che “l’astratto riconoscimento della sovranità popolare non incrementa di alcunché la libertà di ciascuno di noi.

Se attribuiamo a quella sovranità un’ampiezza che non deve avere, possiamo perdere la libertà nonostante quel principio o anche a causa di esso”. La “democrazia illimitata”, in cui le interferenze e le sistematiche prescrizioni del potere politico hanno il sopravvento sulla cooperazione sociale volontaria, coincide con quella che James M. Buchanan ha chiamato “democrazia in deficit”. Quest’ultima definizione ci dice molto anche con riferimento alle vicende del nostro Paese.

D. Infine una domanda più “personale”: lei è di origine calabrese come anche l’editore Rubbettino, al quale va tutta la nostra gratitudine per il grande lavoro di divulgazione dei testi del liberalismo di ieri e di oggi. Il Sud sembra non riuscire ad affrancarsi dall’idea che la salvezza e lo sviluppo derivino dall’intervento statale. Non ritiene che la mancanza di una diffusa cultura liberale sia tra le cause di questa forma mentis?

R. Come non è nato in Calabria, il liberalismo non è nato nemmeno in Italia. Quale che sia stata la sua origine, le popolazioni che lo hanno abbracciato hanno visto rapidamente cambiare le loro condizioni di vita. Senza attardarci su ciò, possiamo dire che il liberalismo ha cambiato il mondo, perché le sue regole hanno reso possibile la crescita economica e culturale.

Pertanto, gli uomini (l’ho già detto rispondendo a una precedente domanda) sono ovunque soggetti alle stesse imperfezioni e alle stesse miserie. Ma i modelli di vita adottati possono portare benessere e impedire fenomeni degenerativi della convivenza sociale. La nostra classe politica ha pensato che il recupero dei ritardi accumulati da alcune aree del Paese potesse avvenire tramite la logica redistributiva. Il che ha sicuramente allargato la sfera d’intervento dei poteri pubblici, ha alimentato clientele e ha impedito l’affermazione di una diffusa classe imprenditoriale, senza cui lo sviluppo economico e i correlati modelli di comportamento sono impossibili. È stato un naufragio.

Rialzati, Imprenditore!

Caro imprenditore,

chi scrive è uno della tua stessa specie. 

Uno di quei folli che ha deciso di fare impresa in Italia, rinunciando a qualsiasi tipo di sicurezza per provare a realizzare un sogno.

Come te sono partito da sotto zero, armato solo di ciò che sapevo fare e consapevole che non avrei mai fatto un 9-17 e poi tutti a fare aperitivo sul divano.

Ma come te amo il mio lavoro: ogni cliente che aiuto mi dà la sensazione di aver spostato l’ago della bilancia verso il bene, anche solo di poco.

Tuttavia, devo lottare ogni giorno per tenere accesa la fiamma di questo amore, perché c’è una cosa che succede in Italia che ogni tanto mi porta a chiedermi: “ma ne vale davvero la pena”?

Di cosa sto parlando?

Non è il sapere che una fetta consistente del mio fatturato va nelle mani di un governo che lo spreca nei modi più immorali possibili.1

Non è neanche sapere che, a causa di politiche assistenzialiste assurde, assumere un dipendente può costare anche più di 35mila euro annui.2

Impedendomi così di assumere lavoratori talentuosi, far crescere velocemente la mia impresa e diventare competitivo nel mercato internazionale.

E no, non è neanche sapere che le continue riforme economiche italiane rendono il paese più instabile di un tavolo con due gambe

cosa che mi obbliga a buttare tempo e risorse preziose per non morire soffocato nelle sabbie mobili dalla burocrazia italiana. 3

Quello che davvero mi manda il sangue al cervello è la considerazione pari a zero nei confronti degli imprenditori.

Siamo stigmatizzati e trattati alla stregua di fuorilegge che sfruttano degli onesti lavoratori.

Le forze politiche non ci considerano perché siamo pochi: secondo i dati ISTAT siamo meno di 5 milioni tra imprese e liberi professionisti su 60 milioni di abitanti.4

Questo significa che per le forze politiche, che prendono decisioni non in base al bene della nazione, ma in base a dove c’è il maggior numero di elettori, non esistiamo nemmeno.

Lo ripeto: per loro non esistiamo.

Dimentica che qualche politico, inserito in quella srl senza rischio di impresa che è il nostro governo, avrà mai interesse a fare delle manovre economiche DAVVERO a nostro favore.

Vorrebbe dire inimicarsi i rimanenti 55 milioni di italiani che, come disse una volta Frank Merenda, noto imprenditore e divulgatore italiano, sentono in cuor loro di avere diritto a una specie di “lavoro di cittadinanza”.

Peccato che l’economia di un paese non la crei lo Stato dal nulla.

La VERA economia del paese la crei TU, imprenditore.

È solo grazie al profitto che crei con il tuo lavoro che si crea l’economia del paese perché, a differenza di quello che molta gente crede, lo Stato NON può creare ricchezza dal nulla.

Lo Stato ha in cassa solo i soldi che, gira e rigira, gli dai tu: 

  • I pensionati ricevono soldi raccolti con le tasse di oggi;
  • I dipendenti ricevono gli stipendi che hai pagato tu;
  • I dipendenti statali vivono con soldi dei contribuenti, visto che i sistemi burocratici non producono alcun tipo di valore;

Insomma, non solo abbiamo 55 milioni di italiani sulle nostre spalle, un governo che brucia costantemente soldi per salvare Alitalia e una tassazione vergognosa.

Ma siamo anche stigmatizzati dall’opinione pubblica.5

La mia parte più ribelle sogna che tutti gli imprenditori italiani si mettano d’accordo e decidano di dare in tasse il vero corrispettivo di quello che vale questo governo: 2 centesimi.

Ma so che questo è solo il sogno di un ragazzo che vorrebbe dare la giusta dignità all’imprenditoria e al nostro paese.

Dignità che ogni giorno viene dilaniata da un governo che si nutre del nostro lavoro e in cambio ci restituisce servizi scadenti, sprechi e corruzione.

Dignità che ci viene strappata in questo “tutti contro tutti” mediatico che ci porta ad essere in lotta con i nemici sbagliati:

  • Dipendenti contro imprenditori;
  • Destra contro sinistra;
  • Sovranisti contro europeisti;
  • Cittadino contro cittadino.

Combattendo una guerra tra poveri che non fa altro che nutrire il Leviatano che ci sta divorando davvero: lo Stato.

Lo stato che non ti permette di investire i frutti del tuo lavoro nella crescita della tua azienda.

A quante persone potresti dare lavoro se solo non fosse così difficile assumere e licenziare persone all’occorrenza?

Moltissime. E probabilmente potresti pagarle tutte senza problemi.

Quanto aumenterebbe la tua produttività se avessi più forza lavoro?

Non lo puoi neanche immaginare.

E questo è un altro problema enorme: questa economia stagnante gestita da burocrati ignoranti in materia economica, ci ha privato anche della libertà di sognare un mondo del lavoro migliore e più sano.

Lo vedo quando, parlando con amici e parenti e mostrando loro che in altri paesi è già presente una cultura della libertà imprenditoriale, mi sento rispondere “in Italia questo non accadrà mai. Siamo un popolo di disonesti e di corrotti”.

Non andremo da nessuna parte con questa mentalità.

Non c’è nessuna dignità nel denigrare il proprio stesso popolo.

Nessuna.

Non solo ci hanno privato della capacità di sognare un paese migliore, ma ci hanno persino privato del desiderio di partecipare alla vita politica.

Perché so che anche tu, come me, hai la sensazione che sia che si scelga la destra, la sinistra o il centro, alla fine non cambi poi molto.

Se pensi questo, sappi che non ti sbagli.

Muoversi sull’asse destra-sinistra è un pensiero tanto vecchio quanto limitante.

Non a caso l’orientamento politico, oggi, è infatti possibile collocarlo in un doppio asse:

  • Destra/sinistra economica
  • Liberale/autoritario

Andando a comporre un quadrante chiamato Political Compass

Dove i vari elementi che strutturano lo schema possono essere così definiti:

Destra economica/Economic Right: è un sistema economico fondato sull’individuo, sulla competenza e sul libero mercato.6

Sinistra economica/Economic Left: è un sistema economico fondato sulle esigenze collettive, sulla giustizia sociale e sul socialismo.7

Liberalismo/Libertarian: atteggiamento politico fondato sulla libertà individuale, sulla protezione dei cittadini dalla coercizione e sui limiti del potere statale.8

Autoritarismo/Authoritarian: atteggiamento politico che antepone lo Stato all’individuo.9

Questo cambia totalmente le carte in tavola e mostra chiaramente come nessun partito politico sia davvero favorevole al libero mercato

Anzi, procede verso un sempre maggiore controllo statale e verso l’annientamento del tessuto imprenditoriale.

Si è visto nella gestione della crisi da Coronavirus dove siamo stati totalmente abbandonati a noi stessi con 600 miseri euro in tasca che ad alcuni non sono nemmeno arrivati.

Dove la “sanità migliore del mondo” ha mostrato il suo vero volto: l’ennesimo colabrodo iper burocraticizzato dove chi lavora al suo interno viene spremuto come un limone in cambio del nulla più assoluto.

Dove una Task Force di più di 450 persone (tutte regolarmente pagate con i soldi dei contribuenti) non è riuscita né a salvare vite, né a salvare l’economia.

Dove sono riusciti a mettere in ginocchio la distribuzione delle mascherine grazie alla calmierazione dei prezzi, pratica che ogni studente del primo anno di economia sa essere dannosa. perché distrugge la filiera produttiva e crea in automatico scarsità.

Spacciando questo scempio per un grande trionfo su giornali e telegiornali, quando per la verità è che non sono riusciti né a salvare vite, né a salvare l’economia.

Nonostante tutto questo, la propaganda mediatica continua a invocare una maggiore presenza statale, credendo che questo sia l’unico modo per risolvere le cose.

Ma come possiamo pensare di tirarci fuori da questo pantano chiedendo una soluzione alla stessa entità che ci ha portati in questo inferno?

Cosa possiamo fare DAVVERO per uscire da questa schifezza?

Ho una brutta notizia per te: non esiste una bacchetta magica capace di mettere tutto a posto in un secondo.

La storia insegna che anche la più grande rivoluzione è controproducente se non c’è un sostanziale cambiamento culturale alla base.

Nessuna grande manovra economica potrà salvarci finché continueremo a:

  • Pensare solo in termini di destra e sinistra come se fossero squadre di calcio;
  • Rimanere totalmente ignoranti in materia di cultura economica di base;
  • Sostenere partiti politici che non fanno altro che spartirsi i nostri soldi;
  • Accontentarci del “male minore” in politica;
  • Sacrificare la nostra libertà economica e individuale in nome di uno Stato che ci vede come delle vacche da mungere fino alla morte;

Abbiamo solo una via di uscita: imparare il linguaggio della libertà.

Imparando che alcune soluzioni, per quanto distanti dalla situazione attuale, sono possibili.

Ed è esattamente quello che facciamo noi dell’Istituto Liberale.

In pochi anni siamo diventati il più grande Think Tank liberale italiano, riunendo sotto la nostra ala migliaia di persone che prima di conoscerci odiavano la politica.

Ora, invece, via via che diffondiamo questa cultura, migliaia di persone sentono finalmente di far parte di qualcosa che ha davvero la possibilità di cambiare l’opinione pubblica.

“Ma cos’è un think tank? E in che modo potrà cambiare il nostro paese?” ti starai chiedendo.

Un think tank è un’organizzazione che si occupa di un determinato tema.

Nel concreto, come puoi notare dai nostri canali, ci impegnamo a diffondere la cultura liberale.

Ecco gli strumenti con cui la diffondiamo e che sono a disposizione di tutti:

  • Video su youtube con approfondimenti di temi di attualità;
  • Interviste a personaggi di spicco in ambito economico, filosofico e sociale;
  • Post di approfondimento su Facebook;
  • Infografiche su Instagram;
  • Pubblichiamo 3 articoli ogni settimana sul nostro blog;
  • Traduciamo libri che in Italia non si trovano;
  • Organizziamo eventi di sensibilizzazione alla libertà in tutta Italia;
  • Organizziamo dei gruppi di studio locali creando dibattiti sui temi più disparati;

Insomma, forniamo a chi ci segue delle Armi di Istruzione di Massa.

Armi per difendere la tua libertà individuale, troppo spesso sacrificata sull’altare della collettività in cambio di politiche economiche inadeguate.

Armi per poterti liberare dall’ipnosi della propaganda pubblica che ci mette costantemente tutti contro tutti.

Armi per poter difendere le persone che ami dalle idee velenose distillate con l’odio che ci vengono fatte ingoiare a forza ogni giorno da telegiornali e media nazionali.

Tutto questo è possibile grazie a chi ci ha sostenuto finora iscrivendosi.

La stragrande maggioranza sono ragazzi tra 16 e 30 anni che, malgrado non abbiano un reddito come me e te, hanno deciso di investire parte delle loro finanze per far parte di questo progetto.

E, solo con loro, siamo già riusciti ad ottenere dei risultati straordinari, triplicando la nostra potenza di fuoco in una manciata di anni, arrivando ad essere ospitati persino dalla Rai.

Poi dicono che in questo paese i giovani pensano solo alla movida e a divertirsi.

La verità è ben diversa.

La verità è che ci sono moltissimi ragazzi in questo paese che si sono uniti per cambiare la direzione dell’opinione pubblica.

Sono gli stessi giovani che in un vicinissimo futuro potranno votare, partecipare alla vita politica e dare una vera svolta a questo paese.

E che hanno realizzato tutto questo da soli, unendo le loro forze in nome di un futuro migliore.

Infatti non siamo affiliati a nessun partito politico, non abbiamo “le mani in pasta” e non abbiamo neanche interesse ad averle.

L’unica cosa che ci preme è continuare a diffondere la cultura della libertà. 

Per questo, oggi ti diciamo: “Rialzati, imprenditore!”

Rialzati e lotta per la libertà di poter generare ricchezza dalla tua capacità di aiutare la società con i tuoi prodotti e servizi.

Rialzati e guardati allo specchio con fierezza, perché è grazie al tuo sacrificio se questo paese è ancora in piedi.

Rialzati e sii fiero di te per aver dato un lavoro a persone meritevoli che oggi mettono sul tavolo del cibo per sé stessi e i loro cari.

Rialzati e smetti di accettare silenziosamente le ingiustizie perpetrate da questo governo e dalla sua propaganda.

Rialzati, imprenditore, e aiutaci ad aiutarti!

Aiutaci a continuare a diffondere la cultura dell’imprenditorialità, del libero mercato e della libertà individuale.

Se in pochi anni e solo con l’aiuto dei giovani italiani siamo riusciti a diventare il più grande think tank italiana, cosa potremmo raggiungere con il tuo aiuto?

  • Investiremo nella formazione di nuovi articolisti, designer e ricercatori, aumentando esponenzialmente la qualità della nostra divulgazione;
  • Tradurremo sempre più libri sul pensiero liberale;
  • Raggiungeremo dei player mediatici sempre più grossi e importanti, arrivando nelle case di sempre più italiani;
  • Metteremo a disposizione tua e delle persone che ami sempre più strumenti di educazione alla libertà;

E se tutto andrà bene, arriverà un giorno in cui questo paese tornerà a risplendere, in cui lo spirito imprenditoriale italiano, la sua genialità e la sua creatività otterranno finalmente il posto che meritano.

Un giorno in cui gli altri paesi guarderanno con ammirazione la qualità della vita nello Stivale.

Un giorno in cui la politica non si approfitterà delle nostre paure per fare false promesse in cambio di voti.

Un giorno in cui ci vergogneremo un po’ di noi stessi per aver accettato silenziosamente di sacrificare la nostra libertà in cambio di un governo mediocre.

Quindi rialzati, imprenditore, e aiutaci ad aiutarti!

Come?

Non devi fare altro che cliccare sul pulsante rosso qui sotto.

Come vedrai, abbiamo diversi tipo di tesseramento, pensati per le tasche di tutti.

 

 

Moltissimi ragazzi che potrebbero avere l’età di tuo figlio si sono già iscritti, iniziando a ricevere libri e materiali esclusivi sulla cultura liberale.

Tra loro tantissimi hanno persino fatto la tessera gold, cosa che ci ha riempito il cuore di orgoglio e di onore, spingendoci ad aumentare sempre di più la qualità dei materiali divulgativi.

Non serve che tu faccia lo stesso: sappiamo bene che questo è un momento economicamente delicato per le imprese.

Tuttavia anche il più piccolo aiuto per noi è fondamentale: ci permette di stampare nuovi materiali, pagare i servizi legati al sito, organizzare eventi, tradurre libri, etc.

Tutti modi con cui ci impegniamo a diffondere la tua voce e a difendere il libero mercato.

Clicca sul pulsante qui sotto e aiutaci ad aiutarti!

 

 

La libertà ha bisogno di te.

Rialzati, imprenditore!

Fonti:

1 https://www.theitaliantimes.it/economia/contratto-tempo-indeterminato-costo-azienda_140220/

2 https://24plus.ilsole24ore.com/art/decreto-rilancio-ad-alitalia-3-miliardi-quanto-ospedali-ADfbBfR

3 https://www.assolombarda.it/centro-studi/quanto-costa-la-burocrazia#:~:text=Il%20costo%20della%20burocrazia%20%C3%A8%20stimato%20variare%20dai%20108%20mila,parte%20di%20un%20collaboratore%20dedicato.

4 http://dati.istat.it/

5http://www.confapi.padova.it/notizie/archivio/luglio-agosto-settembre-2019/questo-paese-demonizza-ancora-gli-imprenditori-difficile-essere-ottimista-sul-nuovo-governo/

7http://temi.repubblica.it/micromega-online/che-significa-essere-di-sinistra/

8http://www.treccani.it/enciclopedia/liberalismo_res-8e96f266-87f0-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Enciclopedia-del-Novecento%29/

9http://www.sapere.it/enciclopedia/collettivismo.html

https://www.linkiesta.it/2020/01/italia-pil-crescita-declino/

Il protezionismo è un errore – Adam Smith e David Ricardo

Il protezionismo è fallace e logicamente insostenibile. La filosofia economica protezionista è ritornata in voga con la politica economica di Trump negli Stati Uniti e con gli slogan artati dei movimenti sovranisti e populisti in Italia e nell’intera Europa.

Quante volte abbiamo sentito frasi come “consumate italiano”, “mangiate italiano”, “comprate italiano”? Troppe volte, specialmente nelle battaglie di due politici nostrani come Giorgia Meloni o Matteo Salvini. Ovviamente i prodotti italiani sono delle eccellenze, ma è giusto che nella logica del libero scambio, nel mercato aperto, entrino in concorrenza con altri prodotti esteri.

Prendiamo come naturale l’attitudine dell’uomo al libero scambio. Da questo postulato ne consegue che il protezionismo è innaturale, disumano e deleterio.

La dimensione del libero mercato si adegua al meglio alla struttura naturale dell’essere umano. In questa struttura economica estremamente raffinata ciò che ha una priorità ontologica e reale è la mutua interazione tra produttore e consumatore, tra acquirente e venditore. Gli effetti aggregati delle decisioni (decisionismo) dei singoli individui sono descritti dalla Legge della Domanda e dell’Offerta. Un mercato lasciato libero a se stesso, nonostante i tentativi della manipolazione statale, può garantire dei risultati ed allocazioni di beni estremamente proficui. Cooperazione, libertà, capacità di scelta, interazione, principio di non aggressione, rispetto reciproco… sono questi i principi base su cui si basano le libere transazioni economiche. È il principio morale della “simpatia”, già descritto da Adam Smith nella sua “Teoria dei sentimenti morali”, che valorizza appieno i rapporti tra gli uomini. All’opposto, a livello economico, troviamo Il protezionismo. Questo “demone” deve la sua compiuta strutturazione teorica con il mercantilismo del XVII e XVIII secolo.

Al mercantilismo, si affianca il rafforzamento degli apparati militari dei singoli stati nazionali. I protezionisti ritengono che l’economia può essere salvaguardata attraverso la tutela di prodotti e aziende nazionali e con un poderoso intervento dello Stato pianificatore, l’applicazione di dazi protettivi ai prodotti importati o alle materie prime esportate e il controllo nazionale o internazionale dei cambi, delle monete e del movimento dei capitali (protezionismo non doganale).

Adam Smith, a cui più di ogni altro si deve la prima vera teorizzazione del libero mercato e del libero scambio (liberismo economico), diede il colpo di grazia all’indirizzo di politica economica protezionista. Nella sua opera principale, che segnò l’avvio dell’indipendenza della scienza economica moderna e l’avvio dell’economia politica classica – “La ricchezza delle Nazioni” del 1776 – affermava che è una regola valida per ogni famiglia, così come per una Comunità, non tentare mai di produrre all’interno delle mura domestiche ciò che sarebbe più conveniente acquisire all’esterno. Ciò vuol dire che se una merce può essere acquistata all’estero a un prezzo minore di quello che costerebbe produrla nella madrepatria, sarebbe stolto ostacolarne l’importazione, poiché questo spingerebbe l’industria su strade meno profittevoli di quelle che essa potrebbe trovare autonomamente su mercati diversi. 

La stessa idea fu condivisa da David Ricardo con la teoria dei vantaggi comparati. Su Ricardo va fatta una premessa importante. A differenza del suo maestro Smith, il pensatore inglese, non si domandava quali fossero le cause della ricchezza delle nazioni, ma come fosse possibile suddividere il prodotto sociale tra le varie classi esistenti nella società. A chi spettava e come veniva frazionata la ricchezza? La rendita andrà ai rentiers (i proprietari terrieri), il salario ai lavoratori ed il profitto ai capitalisti. David Ricardo, autore di “Principi di economia politica e dell’imposta”, fu un estremo difensore del commercio internazionale. Fu strenuo oppositore delle Corn Laws, provvedimenti aventi valore di legge presenti in Gran Bretagna dal 1815 al 1846 che imponevano dazi all’importazione di cereali. La sua teoria dei vantaggi comparati è l’eredità della teoria dei vantaggi assoluti di Smith. Secondo Ricardo, ogni paese dovrebbe dedicarsi alla produzione di quei beni per i quali ha vantaggi comparati maggiori rispetto ad altri paesi e deve procurarsi con il libero scambio quelli che non ha convenienza a produrre. È il principio del libero mercato, è la regola del commercio internazionale, è il leitmotiv che dona un senso specifico alla nostra realtà economica attuale. 

Così tasse e regolamentazioni statali stanno uccidendo il mercato immobiliare italiano

I bei tempi in cui il mattone rappresentava la principale fonte di investimento delle famiglie italiane sembrano oramai un ricordo. Il mercato immobiliare sembrerebbe destinato a un inesorabile declino. Oltre alle onerose imposte, la spada di Damocle di una patrimoniale e il recente lockdown che ha ucciso definitivamente i leggerissimi segni di ripresa. Un vero disastro, se consideriamo che in Italia le famiglie ad essere proprietarie di un immobile sono il 70%, le quali vedranno, secondo ultime stime, un ulteriore decremento del valore della propria casa.

L’Osservatorio immobiliare della Società di consulenza Strategica e Aziendale Nomisma ha previsto un ulteriore calo dei prezzi del mattone del 16% in tre anni, e un crollo delle compravendite entro il 2021 di un 35%. Le dinamiche del mercato immobiliare, assoggettate a una mano pubblica dissennata, sono un limpido esempio di come le regolamentazioni statali stanno ammazzando un settore dell’immobile e distruggendo il potere di acquisto delle famiglie.

Partiamo con ordine.

Dal 2011 al 2018 l’andamento dei prezzi degli immobili sul territorio italiano ha registrato un costante calo. In netta controtendenza rispetto alla ripresa del mercato degli immobili negli altri paesi verificatosi nel biennio 2013-2014 in Italia il valore degli immobili è continuato a calare.

In un rapporto stilato da Confedilizia e dal professor Andrea Giurcin dell’Università di Milano Bicocca, le cause di questo continuo trend negativo sarebbero da attribuire alla mega patrimoniale che il governo Monti ha varato nel 2011, della quale il settore del mercato dell’immobile ne starebbe ancora pagando i danni devastanti. Come raccontato da Federico Giuliani su IlGiornale.it, “Il governo tecnico montiano approvò infatti un’operazione killer che portò il gettito annuale delle tasse sugli immobili da circa 8 miliardi di euro annui a oltre 25 miliardi. Per immobili si intendono tutti gli immobili: dalle prime case alle seconde, dai negozi ai capannoni, dagli studi professionali alle botteghe artigiane”.

Nonostante i dati sulle transazioni fossero lontani dal periodo di migliore salute del mercato immobiliare, il trend positivo registrato negli ultimi mesi aveva dato segnali di incoraggiamento. L’arrivo del lockdown è stato il definitivo colpo di grazia per il settore, negandogli definitivamente ogni possibilità di ripresa. Il calo del prezzo degli immobili nell’ultimo decennio ha raggiunto addirittura il 50% in alcune zone di periferia e di villeggiatura meno prestigiose. Nonostante il netto calo del valore degli immobili, gli italiani sono ancora costretti a pagare le tasse sul valore della rendita catastale che è rimasto immutato, e come spesso accade in questi casi, a farne le spese sono le famiglie meno abbienti, dacché gli immobili nelle zone più prestigiose stanno resistendo meglio alla crisi.

L’importante imposizione fiscale sull’acquisto di una seconda casa e la tassazione delle plusvalenze per chi acquista e vende un’immobile entro i cinque anni sono le due regolamentazioni che maggiormente disincentivano l’intraprendenza e l’investimento, e di conseguenza la ripresa del mercato. Come se la situazione non fosse già abbastanza drammatica, un’ulteriore pugnalata è arrivata dalla legge di bilancio 2020 dell’attuale governo. Con l’articolo 89 è stato previsto un aumento dell’imposta sostitutiva sulla plusvalenza dal 20% al 26%. In soldoni, chi ha della liquidità e fiuta un buon affare acquistando un’immobile a un prezzo conveniente con l’idea di rivenderlo, eventualmente apportando anche dei lavori di ristrutturazione, per avere avuto una buona intuizione (in favore anche della crescita del mercato) verrà punito attraverso una spoliazione fiscale del 26% sul profitto ottenuto.

Scuole pubbliche: rendiamole private

Il nostro sistema di istruzione primaria e secondaria dev’essere radicalmente cambiato. Tale necessità deriva soprattutto dai problemi che l’odierno sistema ha, ma è stata rafforzata dalle conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche e politiche degli ultimi anni. Rivoluzioni che promettono un futuro migliore per il mondo ma anche un aumento dei conflitti sociali derivanti dall’allargamento della differenza stipendiale tra i più abili e i meno abili.

Una ricostruzione del sistema istruzione ha il potenziale di ridurre nettamente i conflitti sociali e, al contempo, rafforzare la crescita e il miglioramento della qualità di vita reso possibile dalle nuove tecnologie e dall’allargamento del mercato globale.

A mio parere tale cambiamento si può ottenere solo privatizzando larga parte del sistema educativo, ossia permettendo ad un’industria privata e for-profit di svilupparsi e di permetterle di offrire i propri servizi educativi in competizione con i servizi pubblici.

Sicuramente questa transizione non può avvenire dal giorno alla notte, dovrà essere graduale. Il migliore modo per permetterla è instaurare un sistema a voucher che permetta ai genitori di scegliere liberamente la scuola per i propri figli.

Vari tentativi sono stati fatti per introdurre dei voucher, ma nessuno di questi è arrivato ad un sistema voucher universale, soprattutto grazie al potere di lobbying dei sindacati dei docenti, tra i più potenti del Paese.

Il deterioramento dell’istruzione

La qualità dell’istruzione è in netto calo rispetto a qualche decennio fa. Non esiste ambito nel quale gli abitanti delle zone più povere siano svantaggiati quanto quella dell’istruzione. Tra le ragioni, oltre al declino di certi quartieri, il progressivo accentramento delle competenze sull’istruzione che ha permesso ai sindacati di aumentare il proprio potere.

Più è passato il tempo più il sistema è peggiorato accentrandosi. La competenza per le scuole è passata dagli enti locali allo Stato. Ad oggi più del 90% dei nostri ragazzi va in una cosiddetta “scuola pubblica”, che più che pubblica è un feudo privato di burocrati e sindacalisti. I risultati li conosciamo tutti: alcune scuole pubbliche di buona qualità nelle zone ricche, scuole scadenti nelle zone povere, con una crescita di violenza, studenti e docenti demoralizzati e performance in calo.

Questi cambiamenti nel sistema scolastico hanno reso più chiara la necessità di una riforma, ma hanno anche aumentato gli ostacoli verso di essa. I sindacati sono assolutamente contrati a qualunque misura che riduca i loro poteri e sono disposti a moblitare tutte le loro forze contro di esse.

La nuova Rivoluzione Industriale

La ricostruzione del sistema scolastico è resa più urgente dalle ultime due rivoluzioni avvenute nelle passate decadi, quella tecnologica – in particolare di metodi di trasmissione di dati molto più efficienti – e quella politica che ha aumentato la portata di quella tecnologica.

La caduta del Muro di Berlino è stato l’evento più simbolico di questi avvenimenti, ma non è stato il più importante. Per esempio in Cina il comunismo non è né morto né collassato ma dal 1976 il premier Deng Xiaoping avviò delle riforme di mercato che aprirono la Repubblica Popolare al mercato internazionale. Simili accadimenti hanno portato molte più persone nel Sud America a vivere in Paesi definibili come democrazie liberali e non come autocrazie militari. Democrazie che vogliono a tutti i costi entrare nei mercati internazionali.

La rivoluzione tecnologica permette ad una compagnia in una qualsiasi parte del mondo di usare risorse da tutt’altra parte, producendo in un’altra parte ancora e vendendo ancora da un’altra parte. Ormai è impossibile parlare di un’auto americana o di un’auto giapponese, ad esempio, e ciò vale per tantissimi prodotti.

La possibilità di lavoro e capitale di un posto di collaborare con lavoro e capitale di tutt’altro posto ha avuto un enorme effetto anche prima della rivoluzione politica. Ha significato una quantità enorme di capitale di Paesi ricchi disposta a collaborare col lavoro di Paesi più poveri, portando ad una collaborazione non solo economica ma di formazione, di condivisione di conoscenze e anche di tecniche.

Prima della rivoluzione politica il collegamento tra lavoro e capitale in tutto il mondo ha avviato una forte espansione del mercato internazionale, la nascita di nuove multinazionali e una crescita prima inimmaginabile nelle cosiddette Quattro Tigri dell’Asia, mentre in America il primo a beneficiarne fu il Cile, seguito rapidamente da altri paesi.

La rivoluzione politica, però, ha rafforzato quella tecnologica in vari modi. Per prima cosa ha allargato nettamente il lavoro a basso costo – non necessariamente di bassa qualità – che può collaborare con capitale e lavoro dei Paesi più avanzati. La caduta della Cortina di Ferro ha aggiunto a tale mercato mezzo miliardo di persone, la Cina un miliardo, tutte persone ora libere, almeno parzialmente, di intraprendere azioni capitaliste con altri individui in tutto il mondo.

Per seconda cosa questa rivoluzione politica ha squalificato l’idea di pianificazione centrale e ha aumentato la fiducia per i mercati, rafforzando scambi e collaborazione internazionale.

Queste due rivoluzioni hanno portato ad una “seconda rivoluzione industriale” paragonabile a quella avvenuta circa 200 anni fa, avvenuta anch’essa grazie all’avanzamento tecnologico e alla libertà di scambio. In questi 200 anni il mondo è cresciuto più dei precedenti duemila. E il record potrà essere battuto nei prossimi secoli se useremo al massimo le nuove opportunità.

Differenze di stipendi

Queste due rivoluzioni gemelle hanno portato a stipendi maggiori per tutte le classi sociali nei Paesi in via di sviluppo mentre i risultati sono più controversi nei Paesi ricchi. Infatti, per varie ragioni, gli stipendi dei più abili crescono mentre quelli dei meno abili tendono ad avere una pressione sugli stipendi verso il basso. E siamo dunque arrivati ad avere grandi differenze tra gli stipendi di chi guadagna di più e di chi guadagna di meno.

Se lasciamo procedere tutto ciò senza controllo rischiamo di avere gravi conseguenze sociali, con parti del Paese in condizioni da Terzo Mondo e altre in estrema ricchezza. In sostanza è la ricetta per un disastro sociale e le pressioni per impedirlo con mezzi protezionistici e simili saranno sempre più forti.

Istruzione

Ad oggi il nostro sistema scolastico è complice di tale possibile disastro sociale. Eppure è potenzialmente la più grande forza che abbiamo a disposizione per evitarlo.

Sia chiaro: la predisposizione individuale gioca un ruolo importantissimo nel definire le opportunità aperte per ogni individuo. Ma non è nemmeno l’unica cosa che conta, come dimostrano numerosi esempi. Sfortunatamente, però, il nostro sistema scolastico fa poco per permettere sia ad individui predisposti che non predisposti, favorendo dunque i primi per le loro abilità innate e contribuendo a una “stratificazione sociale”.

C’è grande spazio di manovra per migliorare il nostro sistema scolastico, che probabilmente è tra le attività più arretrate in questo Paese. Insegniamo ai ragazzi come lo facevamo 200 anni fa: un docente davanti a un mucchio di studenti in una stanza chiusa. L’arrivo dei computer ha migliorato la situazione, ma molto poco. Non sono praticamente mai usati in modi nuovi e visionari.

Credo che l’unico modo per avere un gran miglioramento del sistema sia quello di privatizzarlo finché una considerevole parte dei servizi di istruzione sia fornita agli individui da imprese private. Solo una mossa del genere indebolirebbe a sufficienza l’attuale establishment educativo in maniera da poter apportare i necessari cambi sostanziali. E nulla costringerebbe le scuole pubbliche a mettersi in ordine più del dover trattenere la propria clientela. Nessuno può predire la direzione che un vero libero mercato educativo prenderà.

Sappiamo però dall’esperienza quanto possa essere creativa la libera impresa, quanti nuovi servizi e prodotti possa introdurre e come abbia come supremo obiettivo la soddisfazione del cliente, ed è ciò che serve nell’istruzione. Ben conosciamo la rivoluzione che ha avuto l’industria telefonica aprendosi alla concorrenza oppure, tornando un po’ indietro nel tempo, come il fax abbia minato così tanto il monopolio della posta di prima classe portando poi alla nascita dei corrieri privati.

Le scuole private frequentate oggi dal 10% sono spesso scuole di élite molto costose che rappresentano una minima porzione della popolazione ma esistono anche molte scuole cattoliche che fanno concorrenza al governo con costi bassi, spesso grazie anche a personale volontario e donazioni di mecenati. Queste scuole danno un’istruzione migliore ad una certa parte della popolazione, ma non sono ancora in grado di portare a cambiamenti innovativi. Per quello serve un sistema privato molto più forte. Il problema è come arrivarci.

I voucher non sono di per sé un fine, sono un mezzo per favorire la transizione dallo Stato al Mercato. E la situazione descritta più volte nell’articolo ne rende l’applicazione urgente.

I voucher, però, possono promuovere una rapida privatizzazione solo se costituiscono un reale incentivo per gli imprenditori ad entrare nel settore. Ciò richiede che il sistema a voucher sia universale, ossia aperto a chiunque oggi abbia diritto a frequentare una scuola statale, e che il costo – seppur potenzialmente minore rispetto a ciò che lo Stato spende oggi – sia sufficiente a coprire le spese di una buona istruzione. Se il voucher è costituito in questo modo ci saranno anche numerose famiglie disposte ad aggiungere qualcosa per avere un’istruzione ancora migliore. Ma, come accade in tutte le industrie, presto l’innovazione del prodotto “premium” arriverà anche al prodotto base.

Perché ciò accada, però, è essenziale che la libertà di impresa non sia minata, che non vi siano limiti alla capacità delle scuole di sperimentare, esplorare e innovare. Se ciò accade tutti, eccetto una piccola percentuale di persone con privilegi acquisiti, vinceranno: studenti, genitori, insegnanti, contribuenti, specie coloro che vivono in grandi città dove l’istruzione privata avrebbe costi esorbitanti mentre quella pubblica è scadente.

La comunità del business ha grande interesse nell’allargare la platea di cittadini ben istruiti e mantenere una società libera con mercati aperti e in espansione in tutto il mondo. Entrambi gli obiettivi verrebbero favoriti da un sistema a voucher.

Per concludere, come in ogni ambito dove vi sia stata una massiccia privatizzazione, la privatizzazione della scuola produrrebbe una nuova impresa capace di tratte profitto e di essere molto attiva dando a molte persone talentuose una vera opportunità di entrare nel mondo dell’insegnamento, persone che oggi sono disincentivate dallo stato pietoso di molte delle nostre scuole.

Questa non dovrebbe essere una questione in mano allo Stato centrale. L’istruzione dovrebbe restare un affare primariamente locale. Il sostegno alla libertà di scelta crescerà e non potrà essere tenuta a bada per sempre dagli interessi dei sindacati e dei burocrati. Penso che prima o poi si arriverà, da qualche parte, a un punto di rottura che porterà ad un percorso generale di voucherizzazione per quanto si dimostrerà efficiente.

Per fare in modo che una maggioranza del pubblico sostenga tali misure dobbiamo strutture la proposta in questo modo:

  • Sia semplice da comprendere per un elettore
  • Garantisca che non aumenti la tassazione ma che, possibilmente, la riduca

Questo articolo è una traduzione di un saggio del 1995 di Milton Friedman a cura di Brian Sciretti. Se ti è sembrato relativo alla situazione italiana non c’è da sorprendersi. Il sistema descritto da Milton Friedman funzionerebbe altrettanto bene anche in Italia.

N.B. Per praticità i nomi delle autonomie americane sono stati tradotti in modo generico.