Istruzione in Calabria: un caso per la concorrenza

La Calabria potrebbe essere il paradiso di chi vuole eliminare la concorrenza in materia di istruzione: secondo i dati del MIUR sono l’1%, poco più di tremila, gli studenti calabresi che frequentano una scuola non statale e gli istituti paritari sono solo 72, paragonati ai 1537 plessi pubblici. Per paragone, in Lombardia la percentuale di studenti presso le scuole paritarie è circa del 10%.

Senza la “scuola dei preti” a togliere risorse alla “scuola di tutti” dovremmo presumere che la scuola calabrese sia un’eccellenza. E invece no.

L’istruzione in Calabria versa in uno stato che definire pietoso è quasi un complimento.

La conoscenza della lingua italiana declina durante la carriera scolastica: in sostanza paghiamo l’istruzione calabrese perché gli alunni disimparino l’italiano, visto che partono, in terza elementare, al pari con i coetanei lombardi e, perdendo punti, arrivano in quinta superiore come ultimi in classifica.

Matematica? Non ne parliamo: ultimi a partire e ultimi ad arrivare, tant’è che, statisticamente, un perito del Centro-Nord ne sa di più in matematica rispetto a un diplomato scientifico della Calabria.

Magari l’istruzione si rifà sulla lingua inglese, e invece no: la Calabria parte penultima, dietro alla Sardegna, e arriva penultima, questa volta dietro alla Sicilia.

Monopolio, la parola magica

In Calabria, ma anche in altre regioni meridionali, la scuola paritaria rappresenta un limitato attore di mercato, spesso confinato al livello della scuola primaria.

E, al contempo, queste regioni sono spesso piagate da altri problemi sociali come la disoccupazione, cosa che rende obiettivamente difficile, per i più, mandare i figli in una scuola paritaria se ritenessero inadatta l’istruzione pubblica.

Ergo la scuola pubblica è, in pratica, fornitore in esclusiva del servizio istruzione in queste determinate regioni. E, come ogni monopolista, non ha alcuna necessità di curarsi della qualità: gli alunni arriveranno anche se la qualità cala drasticamente, idem i finanziamenti.

In sostanza, non avendo i genitori un’alternativa, l’istruzione resta libera di cadere in picchiata in termini di qualità.

Cosa dovremmo fare?

Immaginate se ogni famiglia calabrese avesse una cifra annuale vincolata per l’istruzione del proprio figlio. Potrebbe certamente spenderla presso una scuola pubblica, ma se fosse insoddisfatta della qualità potrebbe, molto semplicemente, spostare il proprio figlio verso un’altra istituzione scolastica. Se la qualità dell’istruzione pubblica è quella che mostrano i test INVALSI, molto probabilmente vi sarebbero esodi di massa verso scuole più serie e l’istruzione pubblica avrebbe solo due alternative: migliorare o fallire.

Ora smettete di immaginare, infatti questa soluzione esiste ma purtroppo non in Italia e si chiama voucher scuola. Giovanni Adamo II, nel suo saggio “lo Stato nel Terzo Millennio”, definisce questi voucher “una questione di uguaglianza, poiché permettono di frequentare buone scuole senza considerazione per lo stato economico della famiglia”.

E così è: se un sistema del genere chiaramente porterebbe a benefici anche dove la scuola pubblica tendenzialmente funziona, ad esempio riducendo i costi e introducendo nuove metodologie didattiche più vicine alle necessità degli alunni, nei territori più periferici ed economicamente dissestati la libertà di scelta nella scuola è una questione di sopravvivenza perché solo una buona istruzione (quella monopolistica pubblica non lo è) può permettere di avviare tutti quei meccanismi che consentono alle persone di uscire dalle situazioni di disagio economico, alle quali spesso si legano situazioni di disagio sociale.

Esempi pratici

Nelle periferie di varie città degli Stati Uniti, zone spesso soggette a fenomeni di degrado urbano che portano alla formazione di gang, le scuole pubbliche si erano trasformate, alla fine, in parcheggia-bambini: si stava dentro qualche ora, si imparava poco e basta.

Sono nate poi le charter school. Queste scuole sono privatamente amministrate ma finanziate dall’istruzione pubblica, solitamente meno di quanto si pagherebbe per un alunno nel sistema pubblico. Ma i numeri sono limitati, quindi si organizzano delle vere e proprie crudeli lotterie per decidere chi potrà avere un’istruzione buona e capace di tirarlo fuori dalla povertà e dal degrado e chi, invece, resterà nelle scadenti scuole pubbliche.

A volere ciò sono coloro che, si suppone, dovrebbero proteggere gli alunni: i docenti. Infatti i loro sindacati sono fermamente contrari a ipotesi del genere, perché sanno che non garantirebbero tutti i loro privilegi.
E non è un’americanata: anche in Italia i sindacati dei docenti sono agguerriti contro ogni ipotesi liberale in materia di istruzione, nonostante nel dibattito mainstream esse siano veramente ridotte e prevedano, al massimo, un contributo parziale alla retta delle scuole paritarie.

Un esempio, invece, da un Paese non problematico lo abbiamo in Svezia: nel 1993, al grido di “l’istruzione è troppo importante perché sia gestita come monopolio” vennero introdotte le scuole libere, ossia delle scuole che, finanziate dai comuni al pari delle scuole pubbliche, erano gestite da privati. Risultato?

La qualità dell’istruzione pubblica è aumentata. In fin dei conti la scuola pubblica, per conservare i propri alunni, ha dovuto competere con le scuole libere. E, come per ogni servizio, la concorrenza fa bene, riduce i prezzi (ma, essendo sussidiata, non è il caso) ma soprattutto aumenta la qualità.

In Italia, soprattutto per le zone più problematiche del Paese, abbiamo bisogno di un sistema che permetta la libertà di scelta. “Il valore della scuola pubblica” non esiste, il futuro di tanti ragazzi oggi oppressi da un sistema scolastico mal funzionante sì. E senza una sostanziale riforma non sarà un futuro roseo.

Facebook e i limiti della libertà di parola

Pochi giorni fa Mark Zuckerberg si è presentato di fronte al Congresso americano per rispondere alle domande dei parlamentari statunitensi sul suo progetto di cripto-valuta, Libra[1]. 60 fra deputati e senatori hanno avuto a disposizione 5 minuti a testa per interrogare il CEO di Facebook; e nonostante la causa ufficiale della convocazione, gran parte delle domande si è concentrata su tutt’altro, dallo scandalo Cambridge Analytica[2] alla discriminazione razziale nell’azienda.

La parte più interessante è stata per me la discussione che Zuckerberg ha avuto con alcuni deputati democratici (Rashida Tlaib, Jim Himes, Alexandra Ocasio-Cortez) sul tema della libertà di parola[3]. Tlaib ha accusato Facebook di non fare abbastanza contro i messaggi di odio condivisi sulla piattaforma e di non censurare i politici che usano linguaggio violento e discriminatorio; Ocasio-Cortez si è invece soffermata sulla questione fake news, chiedendo se Facebook interverrebbe per rimuovere palesi bugie postate da un politico; Himes, infine, ha chiesto a Zuckerberg cosa intende fare per promuovere una migliore consapevolezza negli utenti e una maggiore attenzione alla qualità del discorso pubblico.

Il CEO di Facebook ha provato a difendersi, sottolineando le difficoltà tecniche di fare ciò che i politici chiedono: la sua azienda non produce materiale giornalistico in proprio e non pone un filtro preventivo ai contenuti postati dagli utenti, per cui messaggi contrari alle policies della piattaforma possono non essere individuati immediatamente.

Zuckerberg ha poi allargato il suo ragionamento, spiegando che i discorsi dei politici sono di interesse pubblico e per questo non sono censurati (eccezioni a parte[4]) e concludendo con una frase che mi ha colpito: “I believe that people should be able to […] judge [politicians’] characters for themselves” (“Io credo che le persone dovrebbero giudicare i personaggi politici per conto proprio”)[5].

Nella maggior parte dei media (italiani[6] e stranieri[7]), l’audizione è stata vista come una severa e giusta “fustigazione pubblica” di Zuckerberg, colpevole di lasciare impunita, per pura avidità di denaro, la fascia di utenza che utilizza deliberatamente la piattaforma per promulgare idee di odio, violenza e bugie.

Pochi hanno preso sul serio e riflettuto sulle risposte del CEO di Facebook, che pure ha sollevato delle questioni molto importanti e delicate.

Al di là degli aspetti tecnici e legali (Facebook non è un giornale né può permettersi di censurare dei rappresentanti politici senza rischiare conseguenze), è profondamente sbagliato chiedere a un’azienda privata di controllare come si svolge il discorso pubblico.

Facebook è una piattaforma social, che permette agli utenti di condividere contenuti. Stop. Non è, e non deve essere, una “macchina della verità” che stabilisce cosa è vero e cosa è falso; tantomeno il suo compito è quello di “educare” i cittadini al pensiero critico.

È molto grave che dei rappresentanti del Congresso USA non si rendano conto di quanto siano pericolose le loro stesse proposte. Forse è ancor più grave che non se ne rendano conto i giornali. Gran parte delle dichiarazioni di politici possono essere considerate come false, o quantomeno imprecise: Facebook dovrebbe censurarle tutte?

Alexandra Ocasio-Cortez potrebbe diffondere il suo Green New Deal[8] in base a queste regole? Cosa significa chiedere alla piattaforma di promuovere una maggiore qualità del discorso pubblico? Significa censurare articoli e giornali in base al linguaggio utilizzato?

Tutti coloro che criticano l’eccesso di libertà di parola lo fanno sempre pensando alle opinioni che li disturbano o li preoccupano. Il problema è che una volta autorizzata la censura è molto difficile stabilirne il limite.


[1] Nelle intenzioni dei suoi proponenti (Facebook è solo una, anche se la principale, delle società coinvolte), Libra sarebbe una cripto-valuta per tutti coloro che non hanno accesso al sistema bancario, in tutto il mondo, agganciata ad un set di valute nazionali per garantirne la stabilità

[2] Lo scandalo Cambridge Analytica esplose all’inizio del 2018, quando si scoprì che l’omonima società inglese aveva raccolto illegalmente su Facebook i dati di milioni di utenti, a cui aveva successivamente inviato messaggi di propaganda elettorale

[3] L’audizione (sia in video che in trascrizione) può essere rivista integralmente a questo indirizzo: https://www.c-span.org/video/?465293-1/facebook-ceo-testimony-house-financial-services-committee&start=7914

[4] Rispondendo a Ocasio-Cortez, Zuckerberg ha dichiarato che Facebook censurerebbe incitamenti a violenza o dichiarazioni che impedirebbero l’effettivo esercizio del diritto di voto

[5] La risposta per esteso la si può trovare a questo link: https://www.youtube.com/watch?time_continue=1&v=8KFQx-mc2Ao, a partire dal minuto 3.30 circa

[6] Ad esempio:
https://www.bbc.com/news/technology-50152062;
https://www.cnet.com/news/congress-pillories-zuckerberg-over-libra-cryptocurrency/;
https://www.wired.com/story/mark-zuckerberg-endures-another-grilling-capitol-hill/

[7] Ad esempio:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/10/25/facebook-la-deputata-usa-ocasio-cortez-incalza-zuckerberg-durante-laudizione-al-congresso-il-video-fa-il-giro-del-mondo/5532310/;
https://www.ilsole24ore.com/art/facebook-ocasio-cortez-fa-pezzi-zuckerberg-congresso-ACqyTIu
https://www.giornalettismo.com/ocasio-cortez-zuckergberg-video/

[8] Il Green New Deal è un ambizioso programma di riconversione ecologica del sistema economico statunitense (qui la versione ufficiale presentata al Congresso: https://ocasio-cortez.house.gov/sites/ocasio-cortez.house.gov/files/Resolution%20on%20a%20Green%20New%20Deal.pdf) Molti critici lo considerano irrealistico e ritengono il suo costo pesantemente sottostimato (es. https://www.cato.org/publications/commentary/why-us-cant-afford-green-new-deal)

Ci serve una Repubblica direttoriale?

Abbiamo appena assistito ad una crisi di governo. Una crisi figlia del nostro assetto costituzionale che, pur volendo dare un bel po’ di potere allo Stato, voleva evitare un forte accentramento politico.

Da tempo mi interrogo sulla forma di governo migliore per uno Stato liberale. A mio parere questa forma dovrebbe avere principalmente tre caratteristiche:

  • Rappresentare quanti più cittadini possibile;
  • Avere una visione a lungo termine e un certo potere di implementarla;
  • Non essere schiava delle logiche elettorali.

Ho scartato subito la Repubblica presidenziale: essendo un ruolo elettivo si rischia di perdere una qualsiasi garanzia e di legare anche la più importante carica del Paese a logiche a breve termine per ottenere voti. Se è accettabile in grandi Stati federali in un sistema di controlli e contrappesi, in Stati unitari invece rischia di essere un pericolo per la prosperità.

La Repubblica parlamentare è migliore ma di poco: il Presidente viene eletto dai Partiti ma dipende un po’ meno da essi che in uno Stato presidenziale, tende ad avere una visione di termine leggermente maggiore ma comunque resta il fatto che, avendo pochi poteri, i problemi si spostano al premier e, premierato debole o forte che sia, resta il problema della visione a breve termine e delle logiche elettorali. E anche se decidessimo, come accade in Cechia o in Austria, di eleggere direttamente il Presidente, poco cambierebbe.

Verrebbe naturale pensare alla Monarchia ma, Liechtenstein a parte essendo un’eccezione, le Monarchie europee sono solo leggermente più stabili delle Repubbliche, per il semplice fatto che hanno il medesimo sistema istituzionale sostituendo il Capo di Stato eletto con uno non eletto e vitalizio.

Un Capo di Stato collegiale?

Nel 1160, tuttavia, i Lombardi idearono un particolare sistema per la propria alleanza: un capo di Stato collegiale. La Lega Lombarda, che era una confederazione con compiti commerciali, giudiziari e politici oltre che militari, aveva un consiglio denominato universitas composto da membri dotti della società nominati dai singoli comuni.

Tale impostazione venne ripresa dai rivoluzionari francesi e, in tempi più recenti, dalla Confederazione Svizzera, che ad oggi rappresenta l’unico Stato ad adoperare questo sistema.

Si parla, in questi casi, di repubblica direttoriale: il Capo di Stato è collegiale ed è composto da pari; se c’è una figura unica, come il Presidente della Confederazione, assume esclusivamente un ruolo di rappresentanza poiché è un primo tra pari.

Perché è un sistema stabile?

Perché più o meno tutti sono rappresentati nel consiglio di governo. Nel sistema elvetico c’è un accordo de facto tra le forze politiche, denominato “formula magica”, ma si può anche immaginare una formula proporzionale direttamente prevista per legge.

Il governo, collegialmente, deciderebbe su vari temi rendendo possibile convergenze parallele e non obbligando a creare alleanze fisse: ogni partito sceglierebbe i migliori uomini e costoro, nel governo, deciderebbero.

E qualora non vi sia un accordo può decidere il popolo, nella forma di Parlamento o con voto diretto. Non è un caso che in Svizzera non esistano elezioni anticipate e sia la Patria della democrazia diretta: è una semplice conseguenza del sistema direttoriale.

Un’altra conseguenza potenzialmente piacevole è che il Capo dello Stato collegiale, se decide all’unanimità, rappresenta gran parte della popolazione. Pensate ad un potere di veto forte (ad esempio superabile solo per voto popolare o con un’elevata maggioranza di entrambe le camere): se venisse dato a Mattarella da solo sarebbe un conto, verrebbe sicuramente contestato, mentre se un consiglio che vede a destra Giorgia Meloni e a sinistra Pietro Grasso decidesse unanime che una legge ha qualcosa che non va forse tutti i torti non li avrebbe.

Certo: in Italia collaborare col nemico si chiama “inciucio” se lo fa l’avversario, se invece lo fanno gli alleati si chiama accordo. Ma vediamo bene i risultati: instabilità, riduzione della sovranità popolare, trasformazione del parlamento in un passacarte dell’esecutivo e, in definitiva, uno Stato peggiore.

Dove invece l’inciucio è legge, dove la “governabilità” sarebbe vista come un concetto degno di una dittatura, dove in ogni livello, dallo Stato federale al più piccolo comune montano, bisogna giungere ad accordi e dove, per buona pratica istituzionale, la minoranza del governo sostiene le decisioni prese collegialmente invece di aprire le crisi di governo defollowandosi su Instagram, si ha stabilità politica, economica e una vera partecipazione popolare.

Io, un pensierino, ce lo farei.

Il danno nascosto del colonialismo: l’affermazione del terzomondismo

Quando si parla di colonialismo, non manca l’elenco di danni provocati alle colonie da parte dei conquistatori europei, tra cui figurano tragedie come schiavitù, segregazione, omicidi e depredazione.
Ma benché questi eventi siano stati drammatici per il futuro dei paesi colonizzati, un altro e ben più insidioso effetto ha condannato le ex-colonie africane e asiatiche: il disprezzo per il libero mercato, visto come un sistema tipico dei conquistatori e, per usare un termine collettivista, una “roba da bianchi”.

Ci sono ormai pochi dubbi sull’efficacia del libero mercato nell’arricchire e migliorare l’economia dei paesi che lo adottano: è inequivocabile la relazione – peraltro parecchio forte – tra libertà economica e molti altri indicatori di ricchezza e benessere.

Tuttavia, la percezione di un sistema è vitale perché questo sia adottato e se in genere le colonie non godevano del libero mercato – perché costrette a commerciare solo con il paese colonizzatore di riferimento – i paesi europei e nordamericani avevano iniziato a liberare le loro economie, di fatto facendo percepire alle colonie non solo di essere schiavizzate con la forza – come in effetti erano – ma anche di essere oppresse da un capitalismo di cui non vedevano i frutti, in realtà perché questo capitalismo per loro non veniva applicato o non potevano accedervi.

E non è quindi un caso che in larga parte le ex-colonie africane, asiatiche e mediorientali abbiano economie estremamente represse, come questo ranking mostra: la liberazione dai colonizzatori è stata il cavallo di battaglia del terzomondismo, movimento socialista diffuso in Medio Oriente, Indocina e Africa.
E non è nemmeno un caso che i paesi di queste aree, ad oggi, siano ancora parecchio sottosviluppati e privi di democrazia e libertà.
Di certo, però, non sono privi di ricchezze e potere per i leader politici, distorsione questa sicuramente meno presente nei paesi più liberi economicamente dove la correlazione tra chi produce ricchezza e chi la detiene è infinitamente più alta.

Casi eclatanti di terzomondismo che hanno intrappolato le economie per decenni sono il Vietnam, dominato dalla figura di Ho Chi Minh ed il Congo, per cui Patrice Lumumba ancora oggi rappresenta un’icona del pan-africanismo.
Ma per quanto personaggi come questi siano osannati come icone anti-colonialiste e liberatori dal giogo atlantico, le loro politiche economiche e sociali hanno direttamente portato miseria e conflitti all’interno dei loro paesi.
Per fare qualche esempio, il Congo, ancora non libero economicamente, è uno dei paesi più poveri ed instabili d’Africa, il Vietnam ha cominciato a crescere solo dopo una liberalizzazione dell’economia ancora oggi non comparabile a quella di altre nazioni asiatiche come Giappone e Corea del Sud ed infine il Laos, che pur avendo una simile popolazione alla liberista Hong Kong, ha un PIL pari al 5% di quello della famosa città-stato proprio per via della conversione al comunismo, in diretta protesta al passato da colonia francese.

E la responsabilità di tutto questo non è soltanto attribuibile alla demagogia della nuova classe dirigente che ha ammassato fortuna tramite l’esercizio del potere come nel Medioevo in Europa, ma anche e soprattutto ai soprusi dei paesi colonizzatori (si ricordi il caso del Congo – Kinshasa appunto, colonizzato dal Belgio), rei di aver creato il pretesto per intrappolare i paesi colonizzati tramite la retorica dialettica dell’oppresso e dell’oppressore che è il cavallo di battaglia del marxismo culturale .

Ma lentamente questi paesi si stanno emancipando dal giogo del socialismo: nel continente africano Rwanda, Botswana ed Etiopia stanno liberalizzando le loro economie.
Il primo, il più libero economicamente della regione, sta crescendo con estrema rapidità e sta ottenendo interessanti traguardi tecnologici come il primo smartphone made in Africa, il secondo è ad oggi il paese con il PIL pro capite più alto dell’Africa meridionale ed il terzo sta rapidamente crescendo e ponendo fine a sanguinosi conflitti grazie al nuovo Nobel per la Pace Abiy Ahmed. È abbastanza noto invece il successo raggiunto dalle ex-colonie inglesi Singapore ed Hong Kong che hanno preferito adottare sin da subito un sistema di libero mercato.

Il danno della colonizzazione è stato dunque duplice: durante per le violenze ed i soprusi e dopo per aver creato un’immagine distorta del libero mercato che ha portato a lunghi (alcuni ancora presenti oggi) periodi di povertà e violenza nati dalla retorica socialista.

Lo sciopero politico è nemico della democrazia e della libertà

Non me la sento di condannare totalmente gli scioperi, se usati come mezzo di contrattazione col datore di lavoro. Se, ad esempio, il datore di lavoro non paga, non fa lavorare in sicurezza o non rinnova i contratti, ritengo comprensibile il protestare astenendosi dal lavoro.

Tuttavia, ultimamente, lo sciopero è fin troppo spesso usato come strumento politico. Basta leggere le ragioni degli ultimi scioperi nella scuola, nelle poste o nel trasporto pubblico per leggere cose come:

  • Sciopero contro la regionalizzazione della scuola
  • Sciopero del TPL contro la liberalizzazione
  • Sciopero del TPL contro l’austerità e per il diritto alla casa
  • Sciopero delle Poste contro le politiche neoliberiste

Sia chiaro, le persone hanno diritto di credere in ciò che vogliono e di manifestare collettivamente. Non hanno tuttavia il diritto di interrompere un servizio pubblico quale la scuola o il trasporto pubblico per le proprie idee.

È infatti assurdo che, se i professori sono contro la volontà della maggioranza dei cittadini in tema d’autonomia, possano tranquillamente bloccare la scuola in tutta Italia quando, se la stessa cosa fosse fatta dagli studenti di una singola scuola anche per ragioni pratiche (si pensi alle scuole in pietose condizioni, grande successo della nostra scuola pubblica), si configurerebbero gli elementi per un’accusa di Interruzione di Pubblico Servizio.

Non si può, tuttavia, pensare di risolvere il tutto limitando il diritto di sciopero. Se Reagan ci insegna che ogni tanto andare di forza può aver senso, è chiaro che se categorie protette e lobbistiche come quelle dei dipendenti pubblici possono avere così tanto potere è per connivenza della politica e, soprattutto, perché c’è troppo Stato nell’economia.

Se iniziamo a mischiare economia e lavoro, esattamente come fin troppo spesso accade in questo Paese dove essere “pubblico” -anche se spesso corrisponde a malagestione- è sinonimo di “bello”, è chiaro che stiamo dando un enorme potere ad una categoria singola a discapito delle scelte democratiche e individuali degli altri, cioè a chi può garantirsi il supporto della politica proprio scioperando. Ed è un circolo vizioso che solo una presa liberale di coscienza potrà evitare.

Perché è semplicemente discriminatorio che il cittadino comune, se ha un problema, debba agire secondo la legge mentre il membro della casta possa semplicemente interrompere il proprio servizio, imponendo la propria idea a tutti. Occorre dunque eliminare la mano dello Stato in settori dove non è essenziale, come l’istruzione o il trasporto pubblico, e fare in modo che diventino delle normali società private, con responsabilità chiare, e dove lo sciopero non è un’arma elusiva della democrazia e delle scelte individuali.

Nelle società necessariamente pubbliche, invece, si può mantenere un’autorità di garanzia che si occupi di impedire gli scioperi meramente politici permettendo, invece, quelli non politici.

Liberismo: male assoluto, da sinistra a destra

Mai come in questi anni si è assistito a così tanti attacchi al liberismo e ai suoi principi, veri e propri assalti condotti con una ferocia pari soltanto alle disarmanti mancanze dei loro autori, un carnevale di carenze i cui deleteri effetti spingono molti a cercare rifugio nella vera minaccia al nostro sistema economico e sociale: il collettivismo.

Gli eventi globali dell’ultimo biennio confermano tale trend (dalle distorsioni dei seguaci di Greta Thunberg, alle guerre commerciali, dalle recenti sommosse in Cile, all’ancor più recente vittoria peronista in Argentina) e l’Italia – ahimè – non è tutt’altro che estranea a ciò: siamo letteralmente ostaggio di un’allucinante propaganda anti-liberale portata avanti con ogni mezzo.

I nostri social network sono invasi da soggetti che – senza arte né parte – attaccano la libertà in qualunque sua fattispecie, ignoranti del fatto che se essi possono esprimere le loro opinioni – configurandosi talvolta in un vero e proprio abuso di tale possibilità – lo devono proprio a quella libertà che tanto odiano e contestano; e attenzione: non finisce qui.

Infatti, a tale problema se ne aggiunge ben presto un altro: la disinformante propaganda politica di partiti provenienti da ogni schieramento. Eh già figlioli: oggi non abbiamo più soltanto la storica sinistra collettivista ad attaccarci, bensì vi è anche la c.d. destra sovranista e populista a farsi avanti, con i suoi rappresentati e sostenitori che – utilizzando un linguaggio di meri slogan e distorsioni della verità – si riempiono tanto la bocca con la parola libertà, pur non potendosi neanche vantare di saper scrivere questo termine, che – in caso sia sfuggito – è il fondamento della nostra stessa civiltà.

A riprova di ciò, proprio stamattina mi è stato girato il link di un “articolo/opinione” redatto da uno di tali sostenitori, un testo così mal scritto e ricco di menzogne sul conto di noi liberali (per non parlare poi degli errori in ambito economico, sociologico e storico) che mi sono sentito in dovere di smontare ognuna di esse, ma attenzione: questo articolo non rappresenta (almeno direttamente) la mia risposta alle accuse mosse da tale individuo (infatti, per quello ho scritto un apposito articolo nel relativo blog), ma bensì è la risposta a 5 delle principali menzogne sul liberismo che ci vengono costantemente propinate dalla propaganda politica sia essa di destra che di sinistra.

1) il liberismo è un tipo di economia basato esclusivamente sul mercato, senza alcun intervento statale

Se la persona con cui parli parte con questa affermazione, stai certo che sa meno di 0 di questa “ideologia”, poiché:

  • il liberismo non riguarda solo la dimensione economica della società, ma anche quella dei diritti e delle libertà individuali e sociali

La distinzione tra liberismo e liberalismo è un errore prettamente italiano, dovuto a Croce e corretto già all’epoca da Einaudi, poiché senza libertà economica non vi sono libertà sociali e viceversa; a tal proposito, tra noi liberali si è soliti dire che chi vuole solo le libertà economiche (leggasi minor pressione fiscale) è un “fascista che si crede liberale solo perché vuole pagare meno tasse”, mentre chi vuole solo le sociali (leggasi legalizzazione delle sostanze stupefacenti) è un “socialista che si crede liberale solo perché vuole legalizzare la ganja”, sebbene la differenza tra le due categorie è nulla, come ci ricorda il nostro caro Hayek.

2) il liberismo esclude a priori l’intervento statale

Non molti lo sanno (il che comunque non giustifica tali soggetti), ma i liberali si dividono in più correnti di pensiero che vanno dal liberismo sociale (su di essa l’opinione non è unanime perché fa riferimento al pensiero di gente come Keynes) all’anarco-capitalismo.

Ebbene, l’assenza di intervento statale è una caratteristica proprio di quest’ultima corrente, mentre i liberali classici (tra i quali il sottoscritto) riconosco la necessità di un intervento statale in ambito economico, sebbene ridotto al minimo e di tipo negativo, visto che lo Stato è sì un male necessario, ma resta pur sempre un male ed in quanto tale si presenta come una tendenza masochista, la quale può essere solo personale, non un “gusto” da imporre a tutti.

3) il fallimento del modello liberale di Stato in questi anni è palese

La risposta più diretta a questa affermazione è in realtà una domanda: dove è mai stato veramente attuato il liberismo in questi anni?

Questo ricorda molto i comunisti quando affermano che il vero comunismo non è mai stato attuato (mai che riconoscano la realtà laddove i casi storici, o quelli odierni di Venezuela e Corea del Nord, hanno certificato il loro fallimento), ma da dottore e studente di economia io sono abituato a ragionare sui dati e basandoci sull’Index of Economic Freedom, sono 4 i Paesi più liberali al mondo: Hong Kong, Singapore, Nuova Zelanda e Svizzera.

Ora, domanda: siamo tutti per caso come Hong Kong o la Svizzera? Come si fa a parlare del trionfo del liberismo in un periodo storico ove lo Stato interviene massicciamente nel sistema economico?

E attenzione: non mi si venga a dire che è proprio colpa del fallimento del liberismo.

Infatti, per chi come me è cresciuto e ha studiato durante la Crisi, sa che essa è stata originata – manco a farlo apposta eh – proprio dallo Stato e dalle sue Istituzioni, con politiche monetarie espansive fuori controllo (leggasi FED), legislazione inadeguata (leggasi normativa finanziaria) e una socialistica gestione delle politiche fiscali.

4) l’Europa è un leviatano liberale e l’austerity, con conseguente aumento delle tasse, tagli della spesa pubblica e incremento dei prezzi ne è la sua massima emanazione

Ora, tralasciando l’ultimo punto che è palese ignoranza economica (l’aumento dei prezzi nel corso del tempo è detta inflazione. Se essa vi fosse veramente, com’è allora che la BCE continua a drogare il sistema a suon di QE e altre politiche espansive?), dobbiamo chiarire due cose in materia di austerità:

  • il liberismo – nel voler un minor ruolo dello Stato nella società sul fronte economico – richiede due politiche congiunte: minor spesa e MENO TASSE!
  • l’austerità non è colpa del liberismo, bensì (indovina un po’) dello Stato.

Infatti lo Stato – al pari di famiglie, imprese e terzo settore – è un’azienda soggetta al funzionamento delle leggi dell’economia, tra le quali quelle del mercato e se esso spreca i soldi dei cittadini (N.B.: ricordatevi gli insegnatemi di Margaret Thatcher: non esistono i soldi dello stato, ma solo quelli dei contribuenti), violando ogni principio di sana e prudente gestione, non c’è da meravigliarsi se con la crisi salta ogni senso di stabilità e i finanziatori richiedono di conseguenza un maggior tasso d’interesse.

Infatti, giusto per fare un po’ di sana cultura economico-finanziaria, una delle leggi alla base del funzionamento del sistema economico è quella della relazione positiva tra rischio e remunerazione; della serie, non mi si venga a dire che se Tizio è un pessimo debitore e vi chiede dei soldi, voi non glieli concedete senza chiedere una maggior tutela a fronte del rischio che correte nel privarvi della possibilità di usare tale denaro per altre attività più sicure?

5) la globalizzazione e il libero commercio sono un cancro liberista che uccide le nostre imprese

Questa è una delle affermazioni che personalmente mi dà più fastidio, tant’è che sul punto sto scrivendo un articolo di risposta su chi festeggia i dazi e per questo, qui mi limiterò a fare alcune riprese fondamentali, partendo da un caloroso invito: leggetevi La verità, vi prego, sul neoliberismo di Mingardi.

Infatti egli – in vari paragrafi – affronta proprio il tema della globalizzazione, dei trattati internazionali e della suddivisione del lavoro, smontando ogni fake news con un linguaggio che non richiede altre capacità se non quelle basilari di lettura (e comprensione) dell’italiano.

Detto ciò, a chi invoca il “protezionismo intelligente” (espressione a dir poco ossimorica), io sollevo qui le seguenti osservazioni:

  • principio cardine dell’economia: i bisogni dell’uomo sono illimitati, mentre le risorse sono scarse;
  • la specializzazione nella produzione risale alla Preistoria, tant’è che è da qui che nasce il mercato e i vantaggi derivanti dalla specializzazione e commercio fra paesi, sia per il sistema produttivo che per i consumatori, sono stati dimostrati mica l’altro ieri, ma bensì da Ricardo nei Principi di Economia Politica (1817) con la legge dei vantaggi comparati;
  • il liberismo non solo è a favore del libero commercio, ma è contrario allo sfruttamento dei lavoratori e a un sistema produttivo che danneggia l’ambiente; infatti, lo sfruttamento danneggia tanto la libertà sociale quanto quell’economica.

5) il liberismo privilegia i poteri forti

Senza scomodare la scuola austriaca sul ruolo dell’individuo e il funzionamento del sistema economico, mi limito a citare i ragionamenti di un altro economista classico, il padre dell’economia moderna (tanto contestato da Rothbard per la sua teoria del valore) Adam Smith.

Infatti egli, nella sua “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”, afferma che la condizione per il corretto funzionamento del mercato è la libera concorrenza, con un processo di formazione dei prezzi che non deve subire ingerenza da attori esterni (leggasi Stato), salvo nel ridurre ciò che ostacola ciò, IVI INCLUSI I POTERI MONOPOLISTICI & C.

Con quest’ultimo punto, termino qui questa prima analisi dei luoghi più comuni sul liberismo affermati tanto dalla sinistra quanto dalla sedicente destra.

Ad oggi, più che mai bisogna ricordare un principio fondamentale che io stesso ripresi nell’introduzione alla mia tesi di laurea triennale: la libertà e l’agire dei singoli individui è ciò che storicamente ha fatto crescere ed evolvere la nostra società.

Oggi ciò viene costantemente disconosciuto e il nostro sistema socio-economico viene azzoppato dall’agire fuori controllo di quel Kraken che è lo Stato e a fronte di ciò, la domanda è sempre quella: perché dare credito a chi invoca maggiore intervento statale? Perché ad oggi molti invocato l’intervento di una destra sovranista e antiliberista, usando quella stessa libertà che tanto detestano?

Per rendere a pieno la gravità di tale agire, vedete questo Paese come la propria casa che va in fiamme: al posto di metterti al sicuro e chiamare i pompieri, ti ci chiudi dentro inneggiando ai piromani.

Della serie, liberi di farlo ma senza imporre i vostri errori agli altri.

Rider, perché con “le tutele” saresti sfruttato di più

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I rider sono sfruttati. Questa è la narrazione mediatica derivata dai sindacalisti, eppure anche persone di sinistra che conosco e conoscono a loro volta dei rider concordano con il rider che abbiamo intervistato: fanno una vita dignitosa e non sono sfruttati.

Non sappiamo perché ci sia un movimento sindacale così radicale nonostante, tutto sommato, si stia bene. Sappiamo, però, che deriva dall’antico vizietto statalista italiano, quello per cui “lo Stato siamo noi tutti quindi possiamo imporre a loro, i padroni cattivi, le condizioni”

Personalmente ritengo sensate alcune richieste dei rider. Tutte hanno, in comune, di essere seguite da almeno una compagnia del settore. Per esempio è, a mio parere, giusto che quando si prenota un’ora e ci si presenta vi sia un minimo orario anche in caso di assenza di ordini, così come ogni libero professionista fa pagare l’uscita, al pari, non essendo un rapporto di lavoro dipendente, la possibilità di accettare e rifiutare ordini a sua volontà.

Le rivendicazioni medie, tuttavia, vanno ben oltre e sono completamente folli.

 

Lavori, lavoretti e pretese

Quello del ragazzo delle consegne è uno dei lavoretti tipici per guadagnare qualcosa durante gli studi. Prima dell’arrivo delle piattaforme organizzate era quasi sempre un lavoro in nero, senza tutela alcuna.

Oggi, invece, la situazione è migliore: se si sceglie di lavorare con Partita IVA è un lavoro come un altro, con contributi versati (possiamo discutere sull’INAIL, quella assicurativa è una questione sensata, essendo prevista per i parasubordinati), solo chi lavora come prestazione occasionale, regime limitato a guadagni inferiori a 5000€, non ha accesso a contributi e simili.

Quindi, già oggi, la normativa italiana offre una situazione positiva: chi vede nel rider un lavoretto per arrotondare può sfruttarlo a pieno in tal modo mentre se vuole che diventi un lavoro userà la Partita IVA.

Sta di fatto che il contratto firmato è un contratto a cottimo, e nessuno è stato costretto con una pistola puntata a firmare quel contratto. Se i contrari al cottimo amano chiamare i rider che lavorano veramente che sono favorevoli al cottimo “krumiri” mi permetto di dire che loro, che firmano contratti senza leggerli per poi chiedere allo Stato di cambiare le carte in tavola, sono dei “cretini”.

Le richieste dei sindacalisti-rider sono assolutamente fuori dal mondo: Assunzione, pagamento orario, ferie, malattia, bici pagata e chi più ne ha più ne metta. Visto che com’è ben noto i lavoratori dipendenti non si scelgono gli orari né cosa fare sarebbe la fine del ragazzo delle consegne come lavoretto dove ti scegli l’orario in base alle tue necessità, oltre che un discreto incentivo al dolce far nulla, poiché se il pagamento è orario puoi anche fare la pedalata panoramica a passo d’uomo e consegnare un ordine l’ora (e guai a licenziare!) per prendere il medesimo stipendio di chi fa 6 consegne l’ora.

Ribadisco, alcune questioni – già citate – sono sensate e vanno sollevate nei modi opportuni: chiedere benefici degni di un dirigente di medio livello per un lavoro autonomo, non specializzato e tutto sommato pagato dignitosamente è il miglior modo per farsi prendere per scemi da chiunque abbia visto il mondo del lavoro.

 

Cosa succederebbe con le tutele?

Tutto il discorso delle tutele presuppone che le aziende accettino. Il problema è che così non è: l’Italia è un mercato marginale, tant’è che Foodora l’ha lasciato poco tempo fa, e alcune aziende hanno già ventilato l’opzione di andarsene se passasse l’obbligo di contratto da dipendenti.

Se se ne andassero le imprese straniere resterebbero alcune aziende locali marginali, alcune già con lavoratori dipendenti e simili. Ma per riuscire a soddisfare tutta la domanda lasciata dalle grandi aziende dovrebbero assumere altro personale, aumentando i costi. In sostanza, quasi sicuramente, le app di consegna sarebbero un qualcosa da benestanti, disposti a pagare una consegna 8 o 10 Euro.

La maggioranza dei locali, per non perdere la clientela a domicilio, semplicemente tornerebbe allo “status quo ante bellum”: studente assunto in nero, pagato 7 Euro l’ora (anche meno, per esperienza personale – ndr), scooter-munito e se fai ritardo ti chiamano lamentandosi e minacciandoti di licenziarti.

E considerando che chi si lamenta non è il rider ma gente che spesso parla di “welfare” o di “aiuti a chi non riesce a lavorare”, ricordiamo che per chi non ha particolari doti lavorative quello del rider può essere un modo semplice di portare a casa la pagnotta. Per questa persona sarebbe una clamorosa perdita passare da “non particolarmente fortunato” a “sottopagato a zero tutele”. O peggio, disoccupato.

 

Scioperi? Buffonate, l’unica è cambiare lavoro

Quando ho, provocatoriamente, barrato quel “che lavorano veramente” non l’ho fatto a caso: pochi giorni fa c’è stato uno sciopero nazionale dei rider. È miseramente fallito: nessun disservizio degno di nota. Nonostante solitamente le app per compensare quei pochi scioperanti offrano un incentivo per quelle ore, in questo caso nemmeno è servito e il parlottare ha spinto molti nuovi rider a partire o i più pigri a prenotarsi e lavorare, come confermatomi da un “krumiro” che ha incontrato vari novellini durante la giornata di sciopero.

In ogni caso, trattandosi di lavoro autonomo e non specializzato – ergo facilmente sostituibile – lo sciopero è una buffonata e l’ultimo l’ha dimostrato. Se lo sfruttamento esistesse veramente si combatterebbe lasciando le aziende sfruttatrici senza lavoro, ossia licenziandosi e andando da un’altra azienda – non tutte hanno le medesime condizioni – o cambiando proprio lavoro e non facendo casino un giorno per poi farsi sfruttare gli altri 364.

Se poi l’azienda sfruttatrice trova 50 persone disposte a prendere di buon grado il vostro posto come “sfruttati” forse siete un pelo, ma giusto un pelo eh, troppo esigenti.

 

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Cile: davvero l’istruzione va a rotoli?

In questi giorni di proteste cilene alcuni media di sinistra citano tra le cause l’istruzione cilena, che sarebbe non solo tra le peggiori al mondo, ma anche tra le più costose.

Per chi non lo sapesse il Cile ha introdotto durante la dittatura di Pinochet un modello a voucher universale. Ciò ha causato uno spopolamento delle scuole pubbliche, rese poi quasi tutte municipali, che accolgono solo il 40% degli alunni. Questo è il motivo per cui, se cercate informazioni su Internet, troverete titoli acchiappaclic come “la riforma che ha distrutto l’istruzione cilena”: si riferiscono a quella pubblica e basta. Ma sarebbe come titolare un articolo sul predominio della medicina occidentale in Africa sugli sciamani con “la riforma che ha distrutto la sanità africana”.

Circa 10 anni fa il governo si è reso conto che i risultati non dipendono solo dalla bontà della scuola ma anche da situazioni sociali ed essendo il Cile, come praticamente tutti i paesi del Sud America, un Paese con forti disuguaglianze economiche, ha dunque deciso di introdurre misure economiche e sociali a vantaggio degli studenti più deboli, portando sia vantaggi, come un effettivo aumento della presenza di studenti a rischio nelle scuole migliori, ma anche svantaggi, come l’uscita di alcune scuole dal programma.

Ma davvero questa istruzione è così brutta come viene descritta? Vediamolo con una cosa che tendenzialmente triggera molto chi sostiene le tesi di cui sopra, portandoli a ahah react indiscriminate: i dati. Infatti esistono dati sia sulla qualità che sul costo dell’istruzione. Vediamoli insieme.

L’economia dell’istruzione cilena

Per prima cosa conviene farsi una domanda: a quale economia europea possiamo paragonare il Cile? I nostri lucidissimi esperti di Sud America mi suggeriscono la Croazia.

Parlando di scuole e non di università il Cile spende poco meno del 3,5% del proprio PIL nel settore, un dato di poco inferiore alla media OECD e a quella italiana ma superiore, ad esempio, rispetto alla Spagna.

Annualmente uno studente cileno costa allo Stato circa 4000$ adeguati al potere d’acquisto, meno della media OECD ma circa la metà dell’Italia, che spende circa 9000$ l’anno ad alunno ma, scandalosamente, vede i privati offrire il medesimo servizio al prezzo cileno.

Non è di certo un’istruzione ipercostosa, né per chi la frequenta né per lo Stato, ma nemmeno un’istruzione sottofinanziata, bensì è la meglio pagata del continente sudamericano.

Con questo non si nega che il sistema cileno abbia delle criticità, vi consiglio di leggere il report linkato, e infatti il nostro progetto di sistema a voucher ne tiene conto e corregge queste problematiche. Non è, tuttavia, un sistema decadente come viene descritto, e basta guardare ai dati per capirlo.

I risultati? Apprezzabili e promettenti

Certo, a livello economico regge, ma magari per colpa delle privatizzazioni la scuola fa schifo!

Solitamente per misurare la qualità di un sistema di istruzione si usa un test denominato PISA, sempre dell’OECD. Tiene conto praticamente solo di questioni didattiche e viene effettuato a studenti tra i quindici e i sedici anni. Il minimo è 5’000 studenti, eccetto per gli Stati piccoli, ma spesso gli Stati grandi fanno test su larga scala per fare comparazioni regionali. Gli studenti scelti, comunque, non prendono parte a tutte le prove, che sono di matematica, lettura e scienza.

Gli ultimi dati PISA a disposizione sono del 2015. Da questi dati vediamo una realtà semplice: l’istruzione cilena non è un’eccellenza ma è la migliore dell’America latina. Infatti i cileni non hanno risultati eccellenti e sono, per quanto riguarda la scienza e la lettura, nella parte media della classifica giungendo, però, in quella bassa in matematica.

Vediamo tuttavia un trend positivo sull’istruzione cilena: se il trend mondiale vede un calo di competenze in matematica, una stabilità sulla lettura e un calo nelle scienze il Cile è invece, con diversi indici, sempre cresciuto.

Sia chiaro: l’utilità di test come questi è contestata dal punto di vista educativo. Si tratta, tuttavia, dell’unico sistema che abbiamo per fare paragoni diretti tra istruzioni diverse.

Qualche dato dal Cile

Esattamente come in Italia abbiamo le INVALSI in Cile esiste un complesso sistema di valutazione dell’istruzione che include almeno tre livelli di prova: sulle capacità dell’alunno, sui risultati e sulla qualità dei docenti.

Vi è un corposo studio che ha delle conclusioni interessanti: la stragrande maggioranza delle diversità nell’istruzione cilena è dovuta proprio a differenze socioeconomiche, quindi lo Stato dovrebbe usare il proprio potere per favorire l’ingresso degli studenti più a rischio negli ambienti migliori. In tutto ciò, comunque, il problema della “segregazione scolastica” esiste in tutta l’America Latina ma solo due Stati, Cile e Argentina, sono riusciti a lenire il problema, come mostra questo report di EdChoiche.

Nessuno nega che vi siano studenti scontenti del sistema d’istruzione, ma quelli esistono in tutto il mondo. Raramente, infatti, gli studenti analizzano le questioni con razionalità e usando i dati a disposizione, limitandosi spesso a ripetere slogan semplicistici e populisti, chiedendo soluzioni che, economicamente parlando, non hanno senso.

La perfetta scuola per comunisti, spiegata da un liberale

Vi stupirà sapere che un liberale classico come me, quando legge i post del Fronte della Gioventù Comunista, non resta amareggiato, almeno fino ai tre quarti del post.

Infatti il FGC ha varie volte fatto notare problemi palesi dell’istruzione italiana, l’ultimo in ordine temporale quello dei problemi dell’edilizia scolastica. Giusto per capirci: c’è un crollo nelle scuole pubbliche ogni tre giorni e, aprendo un giornale a caso della provincia lombarda, il dato è confermato empiricamente: A distanza di due giorni è crollato l’intonaco in una scuola di Caravaggio, appena costruita, e in un’altra di Treviglio. E sono due paesi confinanti.

Ma ciò che mi lascia sempre l’amaro in bocca è vedere questi giovani disposti a mettersi in gioco per cambiare le cose dare la colpa a chi non c’entra nulla: il liberismo.

La scuola pubblica italiana è quanto più lontano esista dal liberalismo economico. E’ gestita dallo Stato, in un regime di quasi-monopolio: essendo l’alternativa a pagamento, nonostante si sia già pagata la propria parte con la tassazione, la concorrenza è disincentivata. E in certe regioni del Sud, più disagiate economicamente, è un monopolio totale (in Calabria solo l’1% frequenta scuole non statali, infatti è la peggiore istruzione d’Italia), senza cura per alcuna logica di costi, tant’è che spende 3000€ in più ad alunno rispetto ad un largo e generoso sistema a voucher.

Ed è da ciò, dall’essere statale, che derivano questi problemi.

Pensateci: gli studenti, per la scuola statale, sono di fatto un peso. Non apportano alcun contributo tangibile, a parte accrescere le spese di gestione.

Ma, al contempo, queste spese non hanno bisogno di un vero controllo, non c’è un vero e proprio bilancio da rispettare. Risultato? Lo Stato ha trasformato l’istruzione pubblica in un gran poltronificio e, siccome i ragazzi non votano per praticamente tutto il proprio percorso scolastico, ai politici non interessano.

Loro puntano ai voti di chi aspetta il concorsone per entrare in ruolo.
Quando chiedete più soldi, di fatto, state facendo il loro gioco, perché così potranno assumere più persone per scopi clientelari. Non useranno mai quei soldi per voi, perché non votate.

Ma arriviamo al vostro istituto, una piccola periferia dello Stato. Questo sistema clientelare l’ha essenzialmente lasciato con pochi soldi, quindi non può fare cose come: rendere sicuro l’edificio, sistemare il riscaldamento, comperare la carta igienica o effettuare interventi ecologici. Cosa potete fare voi?

Oh, nulla, perché la scuola è pubblica e voi siete solo un numero in un database del MIUR. Non è come qualunque altro business dove, se non soddisfatti, avreste la possibilità di spostare altrove il vostro capitale.

Non siete in possesso di alcun peso contrattuale da poter usare contro una dirigenza negligente, una minaccia simile a “se non sistemi il riscaldamento vado dalla concorrenza” non avrebbe alcun effetto.

Anche perché, nascosti dietro una coltre di vittimismo, o dirigenti potranno fare poco: è Roma che ha deciso di assumere più gente del dovuto, lasciando voi e la vostra scuola in braghe di tela.

Provate a pensare ad una cosa: concorrenza nelle scuole. Scuole di enti locali, scuole sociali (potreste aprirne una anche voi!) e scuole private per profitto che competono per avervi come studenti. Lo Stato, invece di provare a fare il tuttologo fallendo miseramente paga l’istituto di vostra scelta per istruirvi e certifica, con degli esami, i vostri progressi. Questo è il sistema a voucher.

Ah, l’orribile logica del profitto! Ma chi ha un profitto dalla vostra istruzione sarebbe incentivato ad offrirvi un buon servizio, sapendo che potete cambiare istituto e che creare nuovi istituti non richiede un lungo processo. Anzi, potrebbe essere tranquillamente la società civile di un luogo ad aprire una scuola. In sostanza una riforma del genere toglierebbe allo Stato per dare a noi cittadini.

Gli istituti sarebbero incentivati non solo ad offrirvi una buona didattica, cosa che spesso l’attuale scuola statale non fa, ma anche ad offrire un ambiente positivo, sicuro, dignitoso e anche ecologico, dato che pagherebbero le bollette e una scuola coibentata spende meno di una con spifferi in ogni dove. In sostanza, un sistema che risponde a voi. Chi andrebbe mai in una scuola con risultati negativi e che cade a pezzi?

La gran parte di coloro che frequentano la scuola pubblica. Perché essa non lascia libertà di scelta e risponde ai politici. E, come già detto, a loro voi non interessate.

Quindi, ascoltate un liberale: volete un’istruzione dove siate persone e non numeri, dove non dovete aspettare mesi per un prof, dove non rischiate che vi crolli in testa mezza scuola, dove tutti, dal figlio dell’operaio a quello del dirigente di banca abbiano le medesime opportunità? Bene, la voglio anche io.

Ma lo Stato non ce la darà mai. Solo un sistema dove noi, non un burocrate, scegliamo può darcelo. Un cambiamento reale arriverà solo in questo modo.

Qualcuno vorrà credere nella favoletta che l’istruzione in Italia sia schiava del neoliberismo, dei tagli per colpa delle private e che sia necessario più Stato per cambiare le cose. Ebbene, costoro sono liberissimi di coltivare questa opinione; ma abbiano almeno la decenza di non scendere in piazza a chiedere proprio ciò che ha rovinato l’istruzione italiana, almeno per rispetto di chi ha vissuto sulla propria pelle i disagi di essere un numero in una scuola che non si cura degli interessi dei suoi studenti.

Evasione fiscale? La colpa è dello Stato

In questa settimana è tornata, direi con prepotenza, il tema dell’evasione fiscale. Oltre ai soliti slogan “se finalmente pagano tutti, potremo abbassare le tasse”, arrivano nuovi slogan e, soprattutto, nuove proposte.

Il Movimento 5 Stelle è giunto a proporre il carcere per chi non paga le tasse. Non si tratta di qualcosa di basso rilievo, ma di carcere fino a 8 anni con possibilità di confiscare i beni. Quest’ultima misura, oggi, è prevista solo per reati di Mafia. Ma l’interesse di Luigi Di Maio è di estenderlo anche a coloro che non pagano le tasse.

La battaglia all’evasione fiscale è dunque iniziata. Lo dimostrano le stesse parole dell’attuale Presidente del Consiglio:

“Stiamo mettendo a punto gli ultimi dettagli della manovra, le ultime misure, non voglio anticipare ovviamente i dettagli ma ci sta molto impegnando il piano anti-evasione”.

Le cifre dell’evasione fiscale sono spaventose per dimensioni. Si parla di circa 100 miliardi di euro. Le principali evasioni provengono dall’IVA e dall’IRPEF.

Sempre secondo il presidente Conte:

“Essere onesti conviene, recuperare un euro dall’economia sommersa significa poter investire nella scuola pubblica, poter investire negli ospedali, significa poter ridurre le tasse a tutti”.

Eccolo quà. Si torna sempre al punto di partenza. L’immancabile slogan “pagare tutti per pagare meno” è ormai roba diffusa tra i lottatori contro l’evasione fiscale.

Peccato però che questo slogan sia più falso di una banconota di 15 euro. L’impressione è che anche stavolta, il governo di turno, è cieco rispetto all’attuale scenario. Cieco, o meglio, finto-cieco? Forse non è nemmeno corretto definirli ciechi. Forse questa strategia di comunicazione è particolarmente efficace per il socialista di turno.

Attualmente, la realtà italiana è ben diversa da quella raccontata da Conte:

  • Spesa Pubblica: +2.4% rispetto al 2018
  • Pressione fiscale generale pari al 55% (550€ ogni 1000 di PIL finiscono allo Stato)
  • Abbiamo lo stesso PIL pro capite di 15 anni fa
  • Non si riscontrano aumenti significativi di produttività negli ultimi 25 anni
  • Un dipendente costa all’azienda quasi il doppio (rispetto all’effettivo stipendio ricevuto dal lavoratore – ndr)
  • La quota di profitto – che riguarda le società non finanziarie e il reddito da capitale ottenuto sul valore aggiunto prodotto – è al 40,7%, cifra più bassa dal 1999
  • Molti servizi pubblici sono del tutto inefficienti

(Dati raccolti Da Institute Heritage, OCSE, CGIA di Mestre, 2019)

Questi dati, seppur non esaustivi, devono invitarci a fare una riflessione molto seria. Ci sono delle differenze sostanziali tra i dati reali dell’economia italiana rispetto al racconto del Governo. Il Governo di turno racconta l’evasione fiscale come una “mancata solidarietà”, “i cattivi che non vogliono pagare le tasse”, “l’avidità dei ricchi”. In realtà il quadro italiano racconta tutt’altro. Racconta un Paese in estrema difficoltà economica. Le aziende non vanno avanti, ma si trascinano avanti. La produttività è appena sufficiente, i profitti sono appena sufficienti, i redditi degli italiani sono gli stessi.

Il Governo e la stessa OCSE (documento aprile 2019) spiegano come i sussidi alla povertà dovrebbero stimolare la ripresa economica. Allora, Vi pongo una domanda: se in Italia gli occupati sono il 59% (dati ISTAT), il reddito pro capite allo stesso livello del 2004, con una spesa pubblica che nel 2004 incideva del 15% e nel 2019 incide del 26%, con una pressione fiscale generale che nel 1999 era al 49.7% e oggi al 55%, come possiamo pretendere che gli italiani possano resistere economicamente?

Questo è un torto incredibile, perché gli italiani hanno lo stesso guadagno ma sono più poveri per colpa dello stesso Stato. Ma la beffa è presto vicina. Dagli annunci di Conte e Di Maio, l’impressione è che non solo manca l’intenzione di abbassare le tasse, ma prevale quella di aumentare l’interventismo statale (estendendo il reddito di cittadinanza) e quella di istituire uno Stato di Polizia Tributaria.

L’assistenzialismo e i servizi offerti dallo Stato, secondo i socialisti, nascono per “governare e redistribuire la ricchezza”. Ma con questo ritmo rischiamo seriamente di rendere gli Italiani con una ricchezza tra le mani sempre più misera.

Ed è qui che entriamo nel paradosso. Se l’assistenzialismo è per chi non detiene reddito, e chi lo detiene è in ginocchio perché non può più pagarlo, come ne usciamo?