Intervista a Carlo Lottieri

Per il blog dell’Istituto Liberale abbiamo il piacere d’intervistare Carlo Lottieri, professore universitario, autore di diversi saggi legati alle tematiche liberali, libertarie e federaliste, cofondatore dell’Istituto Bruno Leoni.

A partire dalla sua opera “Credere nello Stato?” lei ha sempre espresso una profonda sfiducia nei confronti dello Stato moderno. Più volte e da più parti è stata decretata la morte di questo istituto storico, che però sembra ostinatamente voler sopravvivere ai tempi e addirittura tenta di riaffermarsi tramite i sovranismi. Che evoluzione prevede da questo punto di vista?

Penso che ci potremmo trovare presto al termine di tale vicenda tragica, che ha segnato in profondità la vita di tante popolazioni. Dopo avere generato guerre e povertà per secoli, lo Stato potrebbe collassare da un momento all’altro, come avvenne ai regimi comunisti dell’Europa centro-orientale, lasciando il posto a istituzioni di altra natura, più compatibili con un ordine sociale basato sulla libertà.

Nel corso degli ultimi secoli la sovranità di matrice monarchica (e post-medievale) ha trionfato soprattutto grazie all’ incontro tra il potere e le masse, tra il dominio nelle mani di pochi e la vasta opera di coinvolgimento “partecipativo” destinata a mobilitare il popolo.

Il recente ritorno in scena del nazionalismo – si pensi alla costante esibizione delle bandiere nazionali e alla ripetuta esaltazione della mitologia collettiva – punta proprio a rafforzare il dominio di alcuni uomini (i governanti) su tutti gli altri (i governati).

La difficoltà cruciale con cui ora gli Stati devono fare i conti, però, sta nel fatto che sono sull’orlo del fallimento. In qualche caso, come in quello italiano, essi sarebbero già stati spazzati via senza il sostegno di quanti temono le possibili conseguenza di questo collasso: basti pensare alle politiche monetarie della BCE.

Al di là della nostra specifica situazione, insomma, gli Stati si sorreggono vicendevolmente e questo conferisce una qualche stabilità all’ordine internazionale, che dopo Westfalia si basa appunto su di loro.

Se quindi è sicuramente ingenuo pensare che lo Stato sia già finito e sconfitto, soprattutto in considerazione del fatto che gli apparati pubblici dispongono ancora di larga parte delle nostre risorse e libertà, è pur vero che i fallimenti a catena causati da spesa pubblica, assistenzialismo, grandi opere, fiscalità da rapina e controllo sociale possono da un momento all’altro preludere al crollo delle istituzioni presenti.

Che giudizio dà lei al processo di unificazione europea ed alle prospettive future dell’Unione? Non crede che l’UE rischi di diventare sempre più simile ad uno Stato sovranazionale retto da una burocrazia tecnocratica autoreferenziale, ancor più distante dalle realtà locali?

L’Unione è stata fatta dagli Stati a loro immagine e somiglianza. Con il processo di unificazione europea, la logica intimamente autoritaria dei poteri sovrani si ritrova quindi proiettata a livello continentale, anche perché molti comprendono come gli Stati siano inadeguati a far fronte alle sfide del presente e immaginano che si possa risolvere tale problema con una sorta di super-Stato continentale.

In realtà, dovremmo capire che – fatta salva l’importanza della libertà degli scambi economici (mai del tutto acquisita) e dei movimenti delle persone – un accresciuto ruolo dei poteri comunitari può solo moltiplicare le tensioni interne alla UE.

Per evidenti ragioni, una scelta politica gradita a un’area può essere in contrasto con le aspirazioni, gli interessi e le preferenze di un’altra. Il risultato è che se l’Europa delle libertà e dei commerci può favorire l’integrazione delle diverse società, l’Europa di Bruxelles e della politica tende a moltiplicare gli odi, i risentimenti, le tensioni.

L’ultima crisi del Covid-19 ha visto una risposta da parte delle pubbliche autorità a colpi di decreti ministeriali e ordinanze locali che hanno fortemente limitato le libertà dei cittadini, spesso scavalcando addirittura i limiti costituzionali. Ci siamo resi conto di come sia semplice aggredire le nostre libertà, di come siamo in balìa del decisore pubblico. Cosa può fare da argine ad una deriva legislativa di questo tipo?

Da varie settimane ripeto che durante l’emergenza del Covid-19 abbiamo perso le nostre libertà solo perché, nei fatti, ci erano già state sottratte prima. In sostanza, Giuseppe Conte ha potuto assumere la decisione di confinarci in casa e bloccare le nostre relazioni personali e lavorative perché, nei fatti, da molto tempo il diritto era già stato trasformato nella semplice decisione di quanti dispongono della facoltà di decidere.

Si può discutere in merito alla mancanza di stile di un politico che non ha nemmeno inteso predisporre un decreto legge (che avrebbe dovuto discutere con i membri del governo, sottoporre all’esame del Presidente e poi portare in aula), ma il cuore della questione è altrove. Se un tempo il diritto era qualcosa di esistente nella realtà e da scoprire, poi è diventato qualcosa da fare e che qualcuno, di tutta evidenza, può costruire a sua discrezione.

Se fossimo entro un ordine giuridico, infatti, ci sarebbe stato detto quello che non dovevamo fare perché lesivo dei diritti altrui. Aveva senso, ad esempio, impedirci di avvicinarsi agli altri (specie in spazi chiusi). Invece ci è stato detto quello che dovevamo fare: ci è stato imposto di restare nella nostra abitazione e spesso ci è stato imposto di non lavorare, sulla base di un’arbitraria distinzione tra attività essenziali e non essenziali che rinvia alla pretesa dei politici di conoscere – perché di questo si tratta – quale sia l’essenza dell’uomo.

Grazie all’emergenza del virus abbiamo visto meglio quello che già era avvenuto: il fatto che abbiamo soltanto le libertà che, dall’alto, ci vengono concesse dai governanti.

Di recente, insieme ad altre personalità, lei ha lanciato il progetto denominato Nuova Costituente. Ci può spiegare di cosa si tratta e quali sono i vostri obiettivi?

L’obiettivo è quello di realizzare il più ampio consenso possibile intorno all’idea di lasciarsi alle spalle la Costituzione attuale e dare vita un’assemblea dei territori, che elabori una nuova carta. Questo testo dovrebbe essere poi approvato non solo dagli italiani nel loro insieme (ciò che non avvenne nel 1948…), ma da ognuna delle comunità regionali e diventerebbe la costituzione solo dei territori che maggioritariamente l’approvano.

L’intento primo consiste nel minare la logica della sovranità. Si tratta di passare dall’imposizione autoritaria al libero contratto, dalla costrizione all’adesione. Le parole chiave del manifesto sono tre: libertà, democrazia e federalismo.

Se l’obiettivo è quello di allargare gli spazi di libertà, la strategia è quella della massima concorrenza tra territori e perché questo sia possibile si è deciso di usare la democrazia – che storicamente ha spesso agito contro le libertà dei singoli – per pretendere che tutto sia messo ai voti. Votare sui confini, nella nostra prospettiva, significa aprire la strada a un futuro di libertà crescenti.

Il federalismo e l’indipendentismo sono sempre stati temi a lei cari.  Crede che il liberalismo sia necessariamente legato a un decentramento politico e alla promozione delle autonomie locali?

La teoria liberale punta a tutelare le libertà dei singoli e sul piano degli strumenti confida molto sulla libertà di scelta e sulla concorrenza. Nel libero mercato, quando ho bisogno di acquistare un’autovettura sono assai più tutelato se non esistono ostacoli dinanzi a chi vuole produrre e commerciare questi beni.

È chiaro, di conseguenza, che soltanto entro un ordine di entità politiche indipendenti e di limitate dimensioni le imprese, gli individui e i capitali possono poter optare tra una realtà e l’altra. In un universo con tantissime giurisdizioni in competizione tra loro, ogni realtà deve dare il meglio di sé, per farsi attrattiva.

Se è sufficiente spostarsi di pochi chilometri per trovare una tassazione più modesta e servizi di qualità migliore, ne discende che i governanti sono costretti a tenere in alta considerazione le esigenze dei cittadini. Non fosse altro che per non perdere la “base imponibile”.

In fondo, mentre il costituzionalismo storico ha mostrato tutti i suoi limiti (oggi le costituzioni per lo più non proteggono i diritti, ma li conculcano), la moltiplicazione delle giurisdizioni crea un quadro istituzionale che fa emergere buone regole e comportamenti rispettosi.

Lei stesso ha definito la sua una “concezione elvetica di libertà”, riferendosi naturalmente alla Svizzera e al suo ordinamento interno. Che lezioni potrebbe trarre l’Italia da questa esperienza storica ancora oggi così viva?

Nonostante la Svizzera moderna sia nata all’indomani della costituzione del 1848, che fu fatta dopo la repressione militare di un tentativo di secessione, essa mantiene al proprio interno molti tratti dello spirito originariamente federale e pattizio. In particolare, in Svizzera vi è una forte localizzazione dei poteri e delle competenze, con il risultato che entro quel contesto il parassitismo è molto più difficile e la qualità dei servizi pubblici è molto alta.

In fondo, le comunità elvetiche hanno mantenuto una serie di tratti che erano comuni a larga parte d’Europa, dato che in passato l’organizzazione sociale era molto più localizzata e soltanto a partire dal trionfo degli Stati nazionali si è proceduto a cancellare questo vivo sentimento dell’autogoverno.

Per giunta, la realtà svizzera ci mostra come la comunità sia stata spesso originata dalla condivisione: da proprietà collettive attorno alle quali nascevano assemblee chiamate a gestire tali commons. Se si votava, insomma, non era per decidere dei diritti e dei beni altrui, ma per amministrare ciò che era comune. Questo ci aiuta pure a comprendere come tutta una serie di competenze che oggi attribuiamo allo Stato potrebbe essere assai meglio affidate a realtà private, ad associazioni, a forme di solidarietà mutualistica.

In questo senso, la Svizzera ci aiuta a capire che l’alternativa tra libertà e Stato non ha nulla a che fare con l’opposizione tra egoismo e socialità, e che anzi solo la difesa della proprietà e dell’autonomia dei soggetti sociali può permettere una vita sociale di ampio respiro.

Perché il mondo ha bisogno di libertà economica

Immaginate di svegliarvi una mattina in un letto diverso dal vostro; tutti si rivolgono a voi chiamandovi Presidente e chiedendovi di risolvere i più disparati problemi nazionali: migliorare le condizioni di vita, creare posti di lavoro, ridurre l’inquinamento, e così via.

Sono indubbiamente questioni molto complesse e non sapreste gestirle nemmeno singolarmente, figurarsi tutte insieme. Tuttavia, uno dei vostri consiglieri si fa avanti e suggerisce che, in realtà, tali problematiche possono essere affrontate in contemporanea tramite una particolare strategia politica: aumentare la libertà economica.

Chiunque sarebbe scettico. Il mondo è complicato, e non esiste una soluzione universale a tutti i dilemmi moderni. Eppure, i dati suggeriscono il contrario.

CHE COS’È LA LIBERTÀ ECONOMICA?

A livello concettuale, la libertà economica è definita come “il diritto fondamentale di ogni essere umano di controllare il suo lavoro e la sua proprietà”. Una società economicamente libera è quella in cui: 

  • gli individui sono liberi di lavorare, produrre, consumare e investire in qualsiasi modo preferiscano;
  • i governi permettono che lavoro, capitali e beni si muovano liberamente, ed evitano coercizioni o limitazioni della libertà oltre a quelle necessarie per proteggere e mantenere la libertà stessa.

Ogni anno The Heritage Foundation, un influente think tank statunitense, compila l’Indice di Libertà Economica, assegnando ad ogni paese del mondo un punteggio indicativo di quanto sia libera la sua economia; tale punteggio è calcolato a partire da 12 fattori raggruppati in 4 macro aree.

Tale indice, data la sua natura numerica, risulta particolarmente efficace per effettuare analisi statistiche di correlazione con altre variabili.

IL POTERE DELLA LIBERTÀ ECONOMICA

Il libero mercato arricchisce tutte le parti coinvolte. Questo è l’assunto su cui si basa l’ideologia liberista, e l’analisi di correlazione tra libertà economica e PIL pro capite (per potere d’acquisto) ne dimostra la validità. Il PIL pro capite, misura del reddito medio dei cittadini di un paese, risulta infatti essere fortemente connesso con l’indice di libertà economica. 

Il grafico di seguito, comprendente tutti i paesi del mondo, mostra la relazione tra libertà economica e PIL pro capite, rappresentate rispettivamente sull’asse X e sull’asse Y; ogni punto rappresenta un paese.

Come si nota, nel mondo vi è una correlazione fortemente positiva tra libertà economica e PIL pro capite, al punto che la linea di tendenza assume andamento esponenziale. Il coefficiente di correlazione è di 0,65, e il coefficiente R2 è di 0,43; tali valori significano che l’indice di libertà economica riesce, da solo, a spiegare il 43% delle variazioni nel PIL pro capite.  

In generale, risulta chiaro come i paesi liberi riescano a raggiungere livelli di ricchezza enormemente superiori a quelli non liberi.

L’Italia si posiziona appena sopra la linea di demarcazione tra paesi non liberi e paesi liberi, classificandosi come “moderatamente libera”. La libertà economica italiana risulta infatti una delle più basse in tutta Europa e ultima in Europa occidentale: peggio di noi solo la Grecia e alcuni paesi dell’Ex Unione Sovietica e dell’Ex Jugoslavia.

Il grafico mondiale risulta comunque avere molto rumore, con paesi che deviano notevolmente dalla linea di tendenza. Generalmente, tali anomalie possono essere spiegate piuttosto facilmente: i paesi eccessivamente più ricchi del previsto sono tipicamente paesi petroliferi oppure paradisi fiscali, mentre i paesi eccessivamente al di sotto della linea di tendenza hanno raggiunto buoni livelli di libertà economica solo in tempi recenti e non hanno quindi ancora avuto modo di raccoglierne i frutti.

Ulteriori informazioni emergono dall’analisi regione per regione:

Ad eccezione dell’Europa, vi è sempre una relazione esponenziale tra libertà economica e ricchezza media. La correlazione, pur oscillando tra lo 0,43 dell’Africa Sub-Sahariana e lo 0,73 dell’Asia Pacific, rimane sempre positiva: 

all’aumentare della libertà economica, la ricchezza aumenta SEMPRE.

Tuttavia, tale meccanismo risulta essere più debole nelle Americhe e in Africa Sub-Sahariana. Non è certo una sorpresa: le due regioni sono le più pericolose del pianeta, con altissimi tassi di violenza dovuti a narcotraffico e guerriglie; tale assenza delle sicurezze essenziali, unita a instabilità politica, corruzione diffusa e scarsità di infrastrutture, scoraggia gli investimenti in attività produttive, limitando fortemente il potere della libertà economica. Ciò non significa comunque che essa sia inefficace: in America Centro-Meridionale -ad eccezione di Trinidad e Tobago, piccolo paese insulare ricco di petrolio, e le Bahamas, centro finanziario offshore- il paese più libero, il Cile, risulta essere anche quello più ricco.

SI potrebbe argomentare che, se effettivamente tali problematiche fossero sufficienti a spiegare una relazione più debole, il coefficiente di correlazione del Medio Oriente e Nord Africa, una delle regioni più travagliate del globo, dovrebbe avere un valore ben più basso di 0,62, addirittura superiore a quello europeo. Ancora una volta, la spiegazione è semplice: i dati non tengono conto di ben 4 paesi (Libia, Siria, Iraq, Yemen) attualmente scossi da lunghe guerre e per cui non è possibile calcolare l’indice di libertà economica. 

In sintesi, quando si prendono in considerazione solo paesi (relativamente) stabili, la forte relazione tra libertà economica e PIL pro capite è ripristinata.

La libertà economica risulta particolarmente potente nella regione Asia Pacific (Subcontinente Indiano, Estremo Oriente, Oceania), dove la curva esponenziale è molto ripida e seguita quasi perfettamente dai paesi; le uniche anomalie sono Macao, principale hub del gioco d’azzardo (e del riciclaggio) del Pacifico, e il Brunei, micro stato ricchissimo di petrolio. Qualora non si considerino tali due eccezioni, la correlazione raggiunge addirittura un impressionante 0,86.

Non vi sono dubbi: se una mattina vi risvegliaste nei panni del presidente di un paese di questa regione, aumentare la libertà economica sarebbe il modo più rapido ed efficace per arricchire i vostri cittadini.

A questo punto, avrete sicuramente già pensato all’obiezione più ovvia: correlation is not causation, ossia correlazione non implica causalità. La presenza di una forte correlazione tra libertà economica e reddito medio non significa che le variazioni di quest’ultimo siano causate dalle variazioni nella libertà: potrebbe esserci una causa comune a monte che spinge le due variabili a comportarsi nello stesso modo, oppure la relazione potrebbe essere inversa, e sarebbe la maggiore ricchezza a spingere i governi a liberalizzare l’economia. 

La seconda ipotesi può essere facilmente smentita, dal momento che, in tutti i grafici, vi sono molte più anomalie al di sopra della linea di tendenza che non al di sotto; ossia, è molto più comune che un paese già ricco (grazie alle sue risorse naturali o a particolari condizioni storiche, legali o fiscali) decida di mantenere un’economia più chiusa che non di aprirla. E, soprattutto, se un paese senza particolari risorse fosse comunque in grado di arricchirsi senza aumentare la libertà economica, che motivo avrebbe per farlo?

Rimane quindi l’ipotesi della causa comune. Ma quale potrebbe essere tale causa? Risposta breve: nessuna. Non esiste nessuna ragione a monte che riesca a spiegare una relazione così forte e onnipresente nel mondo. Al contrario, le teorie economiche e i numerosi paesi che hanno avuto notevoli percorsi di sviluppo dopo aver cominciato ad aprire le loro economie dimostrano chiaramente che, in questo caso, non si tratta di semplice correlazione, ma di vera e propria causalità: liberalizzare l’economia porta ad uno standard di vita più alto.

Non si può abolire la povertà con una legge. Ciò che la legge può fare è creare opportunità, e non c’è opportunità più grande della libertà.

Ma il potere della libertà economica non si ferma qui. paesi più liberi hanno maggiore mobilità sociale ascendente, con correlazione di 0,74. 

In parole povere, in un paese più libero, è più facile che il figlio riesca a diventare più ricco dei genitori.

Inoltre, paesi a economia libera hanno migliori performance ambientali, con correlazione di 0,66, risultando quindi più sostenibili. 

La libertà economica non migliora solo le condizioni dei cittadini, ma anche quelle dell’ambiente.

SI potrebbe proseguire a lungo: la pagina The Power of Economic Freedom, del sito di Heritage Foundation, mostra come la libertà economica influenzi positivamente l’imprenditorialità, la crescita economica, lo sviluppo umano, l’innovazione e molto altro.

I dati non mentono. L’umanità è sulla strada giusta, il mondo non è mai stato un posto migliore e non possiamo permetterci di fermarci ora. 

La libertà economica non è una certo una panacea universale a tutti i mali del mondo, ma è uno degli strumenti più potenti in nostro possesso.

Non sprechiamolo.

Lady “TINA”, la donna di ferro che curò la Gran Bretagna

Speriamo possa ispirare qualcuno in Italia, dove la cultura liberalconservatrice è praticamente assente, la nuova biografia in italiano di Margaret Thatcher, Margaret Thatcher. La biografia della donna e della politica (Mondadori, 2019), firmata da Elisabetta Rosaspina. Che, nello stile delicato e documentato si conferma giornalista di pasta montanelliana. Nel corso dell’opera, la giornalista del Corriere della Sera fa compiere al lettore un viaggio di circa duecentocinquanta pagine nell’universo britannico del secolo scorso, partendo dagli occhi di una donna – la Lady di Ferro del mondo occidentale – che ha cambiato la Storia europea, nonché il suo paese e partito. L’intento di Rosaspina è quello di offrire un ritratto di Thatcher che vada oltre la sua mirabile carriera politica; banalmente, la leader dei Tory è stata la prima donna del mondo occidentale a ricoprire la carica di Primo Ministro, nonché la prima a giustificare le sue mosse politiche con la fortunata sigla “TINA”, “There is no alternative”.

Controversa, odiata e amata allo stesso modo sin dall’inizio della sua carriera politica, “TBW” – “That Bloody Woman” – non era arrivata a Downing Street tramite quote rose o atti compassionevoli: fiera lottatrice, determinata, ambiziosa, Thatcher – unica donna in un modo di uomini (quello di Westminster) – non godeva del supporto dei movimenti femministi. La Signora leggeva molto, amava strafare, essere protagonista, non le importava di essere impopolare; adorava imporsi e condurre battaglie di principio. Senza essere arrogante o presuntuosa, era competitiva, solitaria, decisionista e a tratti anche autoritaria (in molti hanno scritto a proposito di un autoritarismo-populista thatcheriano). La “figlia del droghiere” era un personaggio complesso: Rosaspina racconta con efficacia la donna oltre la feroce maschera della politica, quella che spaventava e assoggettava non solo gli avversari, ma anche i colleghi di partito.

Rosaspina ripercorre meticolosamente l’intera biografia di Thatcher: circa due terzi del libro sono dedicati alla scalata al potere della Lady di Ferro. L’ultima parte verte grosso modo sulla politica estera, che subì picchi nel primo mandato governativo con la battaglia delle Falkland e nel terzo mandato con la fine della Guerra Fredda, il crollo dell’URSS e la “costituzionalizzazione” dell’Unione Europea a Maastricht.

Alla seconda gravidanza della moglie, Beatrice Stephenson, Alfred Roberts – piccolo commerciante metodista, scampato alla Grande Guerra per via della miopia – sperava in un maschietto, ma il 13 ottobre 1925 a Grantham (paesino in seguito gravemente danneggiato dai bombardamenti tedeschi) era nata un’altra femmina. Con Margaret il padre aveva un rapporto speciale: a lui doveva moltissimo, tra cui l’amore per la politica che investì la giovane Roberts sin dalle riunioni rotariane degli anni Trenta, anche se furono le robuste letture a consolidare il legame tra padre e figlia. Amante di Rudyard Kipling, il padre «le insegnava il coraggio delle propri opinioni conservatrici», scrive Rosaspina. In gioventù, così come per il resto della vita, poche furono le amiche di Maggie (a scuola era nota come “snobby Roberts”, viste le attitudini da secchiona); decisivo fu il conflitto mondiale in cui la Gran Bretagna entrò alle 11:15 del 3 settembre 1939, «l’unica domenica della sua infanzia in cui fu autorizzata a disertare la messa».

Diciottenne squattrinata, nel 1943 Margaret studiò chimica ad Oxford senza borsa di studio e risultati eccelsi; il padre auspicava per lei un futuro da insegnante. Formativi nella sua adolescenza furono The Wealth of Nations (di Adam Smith) e The Road to Serfdom (di Friedrich von Hayek, del quale adotterà una volta al governo diverse politiche economiche, sventolando in faccia ai colleghi di gabinetto e all’opposizione l’altro grande successo dell’economista austriaco, The Constitution of Liberty). Quattro anni dopo entrò alla BX Plastics nell’Essex come ricercatrice, ma la sua passione era la politica. Alle riunioni cittadine del Partito Conservatore, la giovane Roberts si stava costruendo una certa visibilità.

Di lì a poco Margaret conobbe Denis Thatcher, l’amore di una vita (“amico”, come lo chiamò in diversi interventi). «Denis era un uomo fuori dal comune. Sapeva di politica quasi quanto me, e di economia molto di più», avrebbe detto. A trentasette anni, ricorda Rosaspina, il signor Thatcher «aveva fretta di diventare padre. Desiderava tanto prima un maschio e poi una femmina», solo che due gravidanze erano davvero troppo per la giovane Lady, che comunque – già all’epoca recordwoman, con sei settimane d’anticipo – «raggiunse lo stesso risultato con un parto gemellare, il 15 agosto 1953.» Allevare i figli non pregiudicò il conseguimento di una seconda laurea, ma negli anni, con rammarico, la Signora di ferro avrebbe riconosciuto di aver messo in disparte i figli per perseguire la carriera politica.

In seguito, si presentò al collegio di Finchley, «una roccaforte dei conservatori una dozzina di chilometri a Nord di Londra, […] indebolita dalla reputazione antisemita di alcuni di loro, implicati nell’esclusione di soci ebrei dal club di golf locale». Margaret – ora “la” Thatcher – vinse con distacco un seggio alla Camera dei Comuni. Per la neo-Onorevole era il sogno di una vita: a trentatré anni, ricorda Rosaspina, «era una delle venticinque deputate, tra cui dodici conservatrici, che entravano a Westminster». Contrariamente a molti parrucconi (tra laburisti e conservatori) dell’epoca, sin dal 1966 Thatcher «era a favore della depenalizzazione dell’omosessualità […] e per l’autorizzazione dall’aborto, se il feto fosse stato a rischio di sviluppare malformazioni o problemi mentali […] Sul divorzio era possibilista, ma prudente.» Il tutto al netto della rigorosa educazione metodista. Insomma, Thatcher era molto più progressista di tanti progressisti.

Junior Minister all’Istruzione dal 1970 al 1974 nel governo di Edward Heath, che conosceva sin dai tempi di Oxford («dieci anni dopo sarebbe diventato in nemico dichiarato»), Thatcher si costruì la fama di “ladra di latte” (“milk snatcher”), visti i tagli dell’emissione gratuita della bevanda dalle scuole pubbliche. In quell’occasione, Heath non difese la ministra, «la donna più odiata del regno», secondo The Sun, che guardava divertito le manifestazioni anti-thatcheriane dei primi anni Settanta, leggerissimo antipasto di quello che sarebbe arrivato dopo l’ingresso della Lady al numero 10 di Downing Street. Il taglio del latte portò ad un risparmio di appena nove milioni di sterline, mossa chiaramente di facciata che le sarebbe stata rinfacciata anche da Primo Ministro dagli avversari politici, tra sarcasmo e sdegno. Nonostante questo, Thatcher continuava a mantenere il filo diretto con i propri elettori «scriveva e rispondeva personalmente a centinaia di lettere, partecipava a tutte le riunioni pubbliche, visitava mercati e fabbriche», ricorda Rosaspina.

Poi la lobby dei minatori dichiarò sciopero per cinquanta giorni: e il Governo Heath si piegò alle richieste; ennesimo smacco per il fragile Esecutivo conservatore.  A parte l’entrata nella Comunità Economica Europea (CEE), «Heath e i suoi ministri avevano raggiunto ben pochi […] obiettivi». Perse le elezioni del 1974, il Partito Conservatore, che non era riuscito a trovare un’intesa elettorale con i liberali, passò all’opposizione. «Margaret nutriva un genuino rispetto il capo del governo in carica, Harold Wilson [Primo Ministro dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976]. Ma detestava i principi del Socialismo e del collettivismo; e azzannare ai polpacci il Cancelliere dello Scacchiere, il laburista Jim Callaghan […] si rivelò un’occupazione molto più piacevole del previsto.»

Poi il grande salto: dopo il flop dei Conservatives, la Lady (non ancora di “ferro”) avrebbe tentato la scalata al vertice del partito, provocando i malumori di Heath («Se proprio devi …») e l’incredulità del marito («Devi essere impazzita»). L’ex Primo Ministro mobilitò mari e monti per scalzare l’avversaria, che lo batté di undici preferenze al congresso per la leadership, dove la neoeletta proclamò: «Il nostro sistema capitalista produce standard di prosperità e di felicità ben più alti, perché è un sistema che crede negli incentivi e nelle opportunità e perché si fonda sulla dignità e sulla libertà dell’uomo». Era l’inizio della stagione thatcheriana, cosa che, innanzitutto, avrebbe richiesto anche un cambio di look della Lady: se le perle che le aveva regalato Denis in occasione della nascita dei figli «non erano negoziabili», il filtro tra vita pubblica e vita privata venne apposto nel campo dell’alimentazione e del vestiario. La pettinatura venne ulteriormente studiata, il colore degli abiti doveva sempre richiamare al colore dei Tory.

Callaghan – successore di Wilson dal 1976 al 1979, «apprezzato perfino da una parte dell’elettorato conservatore» – venne sconfitto alle urne da Thatcher e dal fortunato slogan «Labour isn’t working» (i disoccupati erano oltre un milione e mezzo). Con quarantatré seggi di maggioranza a Westminster, quando Thatcher arrivò a Downing Street nel maggio 1979, la Gran Bretagna – il gran malato d’Europa – era costellata da scioperi selvaggi, scontri, blackout, crisi energetiche, razionamenti scolastici, sindacati e minatori onnipotenti. Puntualissima, come d’abitudine, venerdì 4 maggio Elisabetta II la ricevette a Buckingham Palace. L’anomalia – per il tempo – di una donna Primo Ministro attirò l’attenzione di tutta la stampa occidentale. Scrive Rosaspina: «E chi le domandava come ci si stesse “a essere un Primo Ministro donna” era freddamente liquidato in automatico: “Non so, non ho mai sperimentato l’alternativa”, nella speranza di far sentire l’interlocutore almeno un po’ stupido.» There was no alternative.

Difatti, la politica interna di Thatcher fu caratterizzata dal(la scusa del) “TINA”. Al governo del paese per oltre un decennio, Thatcher diede pesanti sforbiciate alla spesa pubblica improduttiva: l’inflazione – che era in doppia cifra e penalizzava i meno abbienti – venne abbassata. In seguito, dopo tre mesi di sciopero, fece chiudere gli stabilimenti improduttivi di acciaio in Galles; «lo Stato non poteva farsi più carico delle aziende in perdita.» Il Governo Thatcher fu il primo ad uscire vincitore dal braccio di ferro contro i minatori e la questione dei pozzi di carbone. Secondo la Lady, l’abbandono dei pozzi improduttivi era d’obbligo. Ricorda Rosaspina che «in nove anni dal suo insediamento a Downing Street, Mrs Thatcher sarebbe riuscita a ridimensionare l’aliquota massima sui redditi dall’ottantatré al quaranta per cento, senza aumentare il deficit.» L’amministrazione americana dell’epoca condusse sì la medesima politica, «ma raddoppiò il deficit di settantanove miliardi.» E ancora oggi c’è chi accusa Thatcher di populismo, quando la demagogia populista impone l’uso smodato della spesa pubblica per comprarsi il consenso elettorale.

Difetti tanti, pregi altrettanti. Margaret Thatcher era intransigente, una grande lavoratrice: amava lo studio, simbolo del merito. «Non sono stata fortunata, me lo sono meritato», disse più volte. Negli anni, Thatcher aveva stretto e rafforzato un patto implicito con gli elettori: risanare l’economia britannica, whatever it took.

Tratto distintivo della sua azione politica era l’assoluta indifferenza all’impopolarità che le scaturiva dai tagli dell’enorme spesa sociale. In altri termini, Thatcher non si curò dell’abbattimento del welfare e dell’enorme impopolarità che questo comportava: gli scioperi erano all’ordine del giorno, ma col tempo i suoi tre governi riuscirono a ristabilire il law and order, condizione che in primis aiuta i lavoratori. Thatcher sembrava completamente disinteressata ai disagi sociali che diverse sue politiche provocarono: piaccia o non piaccia, la cura da cavallo imposta alla Gran Bretagna degli anni Ottanta era parte necessaria (“TINA”, ancora).

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

Una riflessione liberale su Hegel

Spesso il liberalismo si concentra troppo sulla critica, assolutamente doverosa, al sistema marxiano tralasciando molti altri pensatori ugualmente contestabili e pericolosi per la società aperta.

Ve ne uno in particolare che, assieme a Platone, possiamo considerare il padre del pensiero collettivista e totalitario, un filosofo ricordato, oltre che per la sua smodata passione per le tripartizioni, anche per essere stato il punto di partenza della riflessione di Marx sulla società: stiamo parlando di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, il massimo rappresentante dell’Idealismo tedesco nonché uno dei pensatori più celebri ed influenti del XIX secolo.

In questo articolo ci concentreremo principalmente sulla aberrante concezione politica anti-liberale e anti-democratica che Hegel affronta all’interno di due opere: l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830)e i Lineamenti di filosofia del diritto (1821). 

Fondamentalmente, si possono individuare tre aspetti critici principali della filosofia politica hegeliana:

  • la visione collettivista e organicista;
  • la divinizzazione dello Stato;
  • storicismo e totalitarismo.

La visione collettivista e organicista

Per poter analizzare l’organicismo e il collettivismo che caratterizza la visione del filosofo bisogna introdurre un concetto essenziale del sistema hegeliano: l’eticità [Sittlichkeit].

Definta come la sintesi tra diritto astratto (tesi) e moralità (antitesi), l’eticità permette di superare la separazione, tipica della moralità, tra la soggettività che deve attuare il bene e il bene stesso: quest’ultimo, nella sfera morale-individuale, assume quindi l’aspetto di un dover essere mentre solo all’interno della dimensione etica-collettiva, per Hegel, riesce ad attuarsi concretamente. 

L’eticità perciò rappresenta la moralità sociale, ovvero la realizzazione concreta del bene nelle istituzioni come la famiglia, la società e lo Stato. Hegel fa inoltre derivare il termine Sittlichkeit da un altro termine tedesco, Sitte, che vuol dire costume/usanza, alludendo come ogni individuo si trovi inserito in un determinato contesto storico-culturale che orienterà inevitabilmente le sue scelte. Per Hegel quindi qualsiasi individuo non può, anzi non deve, agire in modo autonomo e personale poiché esso si trova all’interno di un sistema di relazioni interpersonali e valori che devono essere rispettati: lo Stato etico diviene quindi il soggetto del bene e del male e ciò che sostiene e condiziona le scelte del singolo.

Hegel biasima l’individualismo liberale e borghese vagheggiando un ritorno consapevole alla bella eticità greca, all’unità sovra-individuale tra cittadino e Stato che caratterizzava appunto le poleis greche. Il filosofo perciò, come verrà in seguito contestato sul piano filosofico-esistenzialista da Kierkegaard, considera l’individuo sempre e solo in una relazione di appartenenza ad una collettività dimenticando l’unicità del singolo: per dirlo come Ludwig von Mises, è solo l’individuo che pensa, ragiona e agisce, non il popolo o qualsiasi altra collettività, che sono solo dei concetti astratti non dotati di alcuna volontà propria. 

Spiegato il concetto di eticità, possiamo adesso parlare in dettaglio dello Stato etico hegeliano, ovvero la ri-affermazione dell’unità familiare superando e mantenendo la conflittualità della società civile.

Per Hegel lo Stato è la massima espressione etica nonché l’incarnazione suprema della moralità sociale e del bene collettivo: è il mezzo necessario, non tanto alla soppressione, quanto all’indirizzare tutti gli interessi individuali, i particolarismi, verso un qualche bene comune e collettivo; cito ad esempio un passaggio abbastanza celebre che riguarda la libertà di commercio: 

Questo interesse [la libertà economica individuale] richiede libertà contro la regolamentazione dall’alto, ma più ciecamente ha radici in uno scopo egoistico, e quindi deve essere riportato [dallo Stato] all’universale e le sue pericolose convulsioni devono essere abbreviate e mitigate.

G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821

Il bene comune tuttavia è un concetto vago ed indefinito che è stato usato in passato per giustificare scelleratezze di vario genere commesse dai vari regimi comunisti, fascisti e nazional-socialisti. 

Gli individui hanno interessi spesso divergenti, ed è giusto così; può capitare però che essi si possano organizzare spontaneamente, dal basso diciamo, per raggiungere un obiettivo comune stabilito da loro stessi, che abbia per loro una qualche utilità.

Il bene comune dello Stato Etico, pianificato dall’alto, si raggiunge invece solo tramite un completo annullamento delle libertà individuali volto a coadiuvare gli sforzi dei singoli individui verso questo “bene” collettivo.

Per dirlo con le parole di Friedrich Von Hayek, la via che si percorre in quest’ultimo caso è quella della schiavitù, della pianificazione e dell’organicismo, in cui l’individuo è ridotto a singolo ingranaggio del tutto sacrificabile alla grande causa (il trionfo del proletariato per i socialisti, il trionfo della nazione e della razza per i fascisti e nazisti).

La divinizzazione dello Stato

La filosofia politica hegeliana può essere accusata di “statolatria”: Hegel definisce lo Stato “l’ingresso di Dio nel mondo” o “volontà divina; possiamo allora ben comprendere che lo Stato Etico è considerato un’istituzione superiore, fondamentale per congiungere spirito soggettivo (l’individuo) e Assoluto, i cui burocrati e funzionari sono addirittura definiti come coloro “che hanno per occupazione gli interessi universali della situazione sociale”.

Tuttavia, l’apparato statale non è composto da individui illuminati (dalle anime auree come diceva Platone) ma bensì è formato da comuni esseri umani, dotati degli stessi difetti di me che sto scrivendo questo articolo o di te che lo stai leggendo. Una riflessione interessante, che sembra quasi una risposta alla citazione precedente, ci viene offerta da Bastiat nel suo pamphlet La legge (1850):

Poiché le tendenze naturali dell’umanità sono abbastanza cattive perché le si debba togliere la sua libertà, come è possibile che le tendenze degli organizzatori siano buone? I Legislatori [lo Stato] e i loro agenti non fanno parte del genere umano? Si credono di un altra pasta rispetto al resto degli uomini? […]Hanno dunque ricevuto dal cielo una intelligenza e delle virtù che li pongono al di fuori e al di sopra dell’umanità? Essi vogliono essere pastori e vogliono che noi siamo gregge

F. Bastiat, La Legge, 1850

La nuova impostazione organicista proposta rifiuta quindi la concezione liberale dello Stato, intesa come istituzione volta a garantire i diritti degli individui, visione che Hegel disprezza in quanto sarebbe garante dei soli particolarismi smettendo di essere il “ponte” tra individuo e Assoluto; egli scrive infatti:

Se lo Stato vien confuso con la società civile e la destinazione di esso viene posta nella sicurezza e nella protezione della proprietà e della libertà personale, allora l’interesse degli individui come tali è il fine estremo per il quale essi sono uniti.

G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821

Lo Stato etico hegeliano è quindi fondato non tanto sugli individui quanto sull’idea di Stato ed è proprio quest’ultimo che fonda gli individui stessi, sia da un punto di vista storico-cronologico, visto che lo Stato nasce prima degli individui, sia da un punto di vista assiologico, poiché lo Stato è superiore agli individui come il tutto-universale è superiore alle parti e al particolare.

Hegel abbandona perciò sia il modello contrattualista, dato che ritiene l’idea che lo Stato nasca da un contratto tra individui come un insulto all’assoluta autorità e maestà dello Stato, sia la prospettiva giusnaturalista, dato che è impossibile che gli individui posseggano dei diritti prima dell’esistenza dello Stato stesso.

Storicismo e totalitarismo

Concludo questo articolo parlando del perché Hegel è ascrivibile tra i padri del pensiero totalitario. Per fare ciò, basta porsi una semplice domanda: “Come può uno Stato del genere sopravvivere?”.

Hegel essenzialmente sostiene che la sfera dello Stato non sia soggetta ad alcun tipo di limitazione:

Il benessere di uno Stato ha una giustificazione del tutto diversa che non abbia il benessere dell’individuo [e non può in alcun modo dipendere da quei pensieri universali che vanno sotto il nome di principi morali].

G. W. F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, 1821

Il filosofo tedesco, distaccandosi nettamente dalla tradizione kantiana, ritiene inoltre che non possa esistere un’organizzazione sovra-statale in grado di mantenere la pace tra Stati esaminando le loro pretese: da questo deriva anche l’abbandono del cosmopolitismo pacifista di Kant. In Hegel infatti troviamo l’esaltazione della guerra e della lotta come strumento di affermazione non solo necessario e inevitabile ma anche con un grande valore morale, dato che preservebbe il popolo dalla “fossilizzazione”.

Se ciò non dovesse aver ancora convinto, ci viene in soccorso Karl Popper, uno dei critici più duri della filosofia e metodologia hegeliana.

Il filosofo austriaco parte da una critica delle filosofie storiciste-oracolari, ovvero tutte quelle filosofie che hanno preteso di cogliere un senso oggettivo e globale della storia, secondo le quali essa tenderebbe verso un destino al quale gli uomini dovrebbero uniformarsi.

I principali esponenti di correnti di pensiero di questo tipo, secondo Popper, sono Eraclito, Comte, Platone, Marx ed ovviamente Hegel.

Accanto a critiche di natura epistemologica (ipotesi di un senso precostituito della storia, confusione tra leggi e tendenze) si affianca quella che è una contestazione squisitamente politica; per Popper nello storicismo è sempre annidata un’ideologia utopica e totalitaria, fatta di fanatismo e dogmatismo politico dove la collettività o lo Stato soffocano inevitabilmente l’individuo: se si ritiene infatti che la storia possegga un senso e una direzione oggettivi, coloro che si ritengono i portavoce del suo destino non avranno alcuna esitazione a liquidare, anche fisicamente, chiunque si opponga ad essi ed alla direzione che la storia deve prendere:

“Marx ed Hegel sostituirono […] alla Natura divinizzata la Storia divinizzata […]. “I criminali che si oppongono vanamente al corso della storia” prendono il posto dei peccatori contro Dio; e impariamo che non Dio, ma la Storia (delle “Nazioni” o dei “Popoli”) sarà il nostro giudice.

K. R. Popper, Congetture e Confutazioni, 1963

La riforma pensionistica cilena: un modello a cui puntare

Per la stesura di questo articolo ringraziamo Domenico Campeglia, che ha fornito il suo utilissimo pamphlet, presto pubblicato dall’Istituto Liberale, sulla storia ed i risultati della riforma del sistema pensionistico cileno.

La campagna dell’Istituto Liberale sul tema delle pensioni ha portato alla luce i molti problemi del sistema pensionistico del nostro Paese.
Abbiamo visto come esso sia il meno sostenibile al mondo, in che modo le riforme attuate nel corso della storia abbiano portato più danni che benefici e soprattutto di come stiamo ancora pagando i tanti errori commessi nel passato (come ad esempio le Baby Pensioni che pesano ancora sui conti dello Stato per oltre 7,5 Mld di € ogni anno).

LA RIFORMA PENSIONISTICA PIÑERA

Ma quale potrebbe essere una soluzione per il futuro?
Per rispondere a questa domanda, possiamo prendere in considerazione un caso molto interessante: quello del Cile e della riforma di José Piñera.
Nel maggio del 1981 la riforma Piñera sostituì il modello a ripartizione esistente allora in Cile (lo stesso presente in Italia) con quello a capitalizzazione, operando al tempo stesso una forte privatizzazione e liberalizzazione del sistema dei fondi pensione, per consentire ai lavoratori di trovare un piano “ad hoc” per le loro esigenze.

Secondo le parole dello stesso Piñera, “quella riforma ha dato un contributo decisivo allo sviluppo impetuoso di quel Paese latinoamericano. Da quando la previdenza è stata liberalizzata, i tassi di rendimento reali dei conti di risparmio pensionistico sono stati mediamente oltre il 10 per cento, ben al di sopra del tasso d’inflazione”.

LE INEFFICIENZE DEL SISTEMA ITALIANO

Ben diverso è il nostro attuale sistema, dove sappiamo che i contributi INPS versati ogni mese non vengono messi da parte per poi restituirceli in futuro dopo essere stati messi a rendimento, ma sono utilizzati immediatamente per pagare le pensioni attuali; di fatto, rendendo il nostro sistema pensionistico una sorta di schema Ponzi sostenuto dallo Stato e i contributi una sorta di “tassa” aggiuntiva sui lavoratori. 

Il modello italiano venne immaginato nell’aspettativa che nel corso del tempo l’aumento demografico e la crescita economica avrebbero garantito la possibilità di pagare le pensioni di ognuno, giunto il momento di ritirarsi dal mondo del lavoro. Peccato che con una popolazione in decrescita demografica e un’economia che arranca in ogni settore da decenni, questo sistema sia una vera e propria bomba ad orologeria. 

I RISULTATI DEL SISTEMA CILENO

Tornando al caso cileno, lo stesso Piñera affermò che: “Sul piano etico, un sistema collettivistico toglie agli individui la libertà di organizzare la propria vita: e va quindi rigettato. Per giunta, il tasso di rendimento di un sistema a capitalizzazione è destinato a essere ben superiore di un sistema previdenziale redistributivo e statalizzato”. 

La bontà di questo sistema è dimostrata empiricamente: stando infatti ai dati pubblicati da Mercer, il Cile attualmente è il paese con il sistema pensionistico migliore d’America, alla pari con il Canada, ed eccelle in termini di adeguatezza e sostenibilità. 

Non è, in ogni caso, un sistema totalmente privatizzato: per le fasce più povere della popolazione esiste una pensione minima garantita dallo Stato e finanziata con la fiscalità generale, che copre tutti i lavoratori che abbiano contribuito almeno per 20 anni ad un fondo individuale; per coloro che non lo hanno fatto è possibile richiedere una pensione di assistenza minima (più bassa della precedente). In altre parole, nessuno viene lasciato solo.

Un sistema del genere può certamente spaventare, perché se un fondo fallisce perde tutti i soldi dei lavoratori, lasciandoli senza risorse. Ma anche in casi del genere esistono un paio di rimedi a coprire i casi peggiori. Il primo è la stipulazione di un’assicurazione da parte del lavoratore, che gli consenta di venire rimborsato qualora il fondo a cui ha affidato i propri risparmi dovesse fallire; il secondo rimedio consiste più semplicemente nel scegliere la vecchia regola di diversificare l’investimento, decidendo di suddividere i contributi pensionistici versati su più di un fondo.

Il modello a capitalizzazione cileno permette inoltre ai lavoratori il cosiddetto “Opt out”, ovvero la possibilità di abbandonare in qualsiasi momento il fondo scelto inizialmente, senza alcuna coercizione (ovvero il contrario di quanto avviene in italia, dove i lavoratori sono tutti obbligati a versare i loro contributi nelle casse dell’INPS, senza possibilità di tirarsi indietro o di affidarsi a un fondo pensionistico diverso).

Cambiare l’attuale sistema pensionistico è possibile, ed esiste già un’alternativa più giusta, sostenibile e libera: si tratta solo di convincere più persone possibili a richiederla.

 

Articolo a cura di:

Andrea Melcarne

Gianmaria Dinaro

Francesco Chevallard

Intervista a Drew Pavlou

Ciao Drew, per iniziare vorrei che raccontassi la tua storia ai nostri lettori, perché non penso che tutti la conoscano.

Studio Filosofia, Storia e Letteratura inglese all’Università del Queensland (UQ) a Brisbane, Australia. La mia storia è iniziata l’anno scorso quando ho organizzato una manifestazione on-campus in supporto di Hong Kong. In quell’occasione io e gli altri manifestanti siamo stati circondati e attaccati da sostenitori del PCC.

Siamo stati sbattuti a terra e picchiati: io sono stato colpito alla testa e alla schiena più volte da uomini con il volto coperto. Queste persone venute ad attaccarci non erano studenti e per celare le loro identità indossavano maschere e occhiali da sole. Avevano con loro zaini con cambi di abiti e comunicavano tra di loro attraverso ricetrasmittenti da orecchio.

Per questo sospettiamo che sia stato tutto stato organizzato dal consolato cinese a Brisbane, il quale il giorno dopo ha fatto uscire un comunicato in cui lodava il “comportamento patriottico” dei nostri assalitori, di fatto sponsorizzando gli attacchi violenti di cui siamo stati fatti oggetto.

Chi erano questi aggressori?

La UQ ha effettuato un’investigazione di 6 mesi e non sono mai stati in grado di identificare queste persone come studenti. Tutto sembra indicare che non lo fossero. Il giorno della protesta, quando gli studenti cinesi ci hanno circondati e stavano minacciando di attaccarci, la polizia è intervenuta e ha convocato me ed un rappresentante degli studenti cinesi a negoziare per uscire da quella situazione in modo pacifico.

Il leader degli studenti cinesi disse “Ci sono persone dalla mia parte che non sono studenti e a meno che non ti scusi con la nazione cinese per aver offeso noi e la Cina non posso proteggerti da loro”. Implicitamente ha ammesso che nella folla ci fossero estranei, non studenti, cinesi che ci avrebbero violentemente assaliti se non mi fossi scusato pubblicamente. La UQ in 6 mesi non è stata in grado di identificarli.

Clive Hamilton, un esperto di influenza del PCC in Australia, crede che questi fossero operativi del Ministero della Sicurezza di Stato, sostanzialmente servizi segreti cinesi, distaccati al consolato cinese. Non erano studenti, si sono coperti per evitare di essere riconosciuti, erano violenti e ben organizzati.

Qual è stata la reazione dell’università a questa vicenda?

La UQ invece che sostenerci ha preso le parti degli studenti cinesi e ha cercato di fermare le nostre proteste. Hanno cominciato a minacciare la mia immatricolazione a luglio 2019 dopo quella prima protesta. Dapprima hanno provato ad intimidirmi attraverso i canali ufficiali, portandomi davanti alla commissione disciplinare diverse volte. La UQ, invece che proteggere noi e la nostra libertà di parola, si è schierata con il consolato cinese.

Questo perché il consolato ha un’enorme influenza sull’università. La UQ, infatti, fa affidamento sulla Cina per il 20% delle sue entrate. Un governo totalitario come quello cinese potrebbe in qualsiasi momento decidere di non permettere più ai suoi studenti di frequentare un campus dove ci sono manifestazioni pro Hong Kong, mandando così in bancarotta la UQ da un giorno all’altro.

Pertanto se il console generale della Cina Xu Jie, che tra l’altro è un professore onorario dell’UQ, dice al vice-cancelliere di fare qualcosa, lui lo fa, perché sa che devono proteggere gli interessi del governo cinese, se vogliono evitare la bancarotta. Questo è il motivo per cui ci hanno repressi dopo che siamo stati violentemente attaccati.

Mi sono quindi candidato al senato accademico dell’UQ: volevo ottenere un posto al tavolo delle decisioni e far sentire la nostra voce sul problema. Noi non vogliamo che la nostra università abbia simili legami con un governo tirannico che perseguita i cittadini di Hong Kong, cinesi, tibetani e Uiguri violandone i diritti umani.

Negli anni ’70 e ’80 gli studenti dell’UQ hanno lottato contro l’apartheid e il governo sudafricano: volevano che l’UQ non mantenesse relazioni economiche con quel governo. Credo che lo stesso principio valga oggi. Il regime cinese esercita politiche di apartheid in Xinjiang, che in mandarino vuol dire “nuovi territori”: è un termine colonialista. Questi territori non sono “nuovi” per gli Uiguri musulmani, questa è la loro terra.

Ma per la Cina sono “nuovi territori” da colonizzare, e vi hanno impiantato un regime di apartheid dove gli Uiguri musulmani sono cittadini di seconda classe nella loro stessa terra. Hanno creato campi di concentramento dove hanno rinchiuso 1,5 milioni di Uiguri.

Quindi mi sono candidato al senato accademico e sono stato eletto nonostante l’università abbia cercato di fermarmi. Hanno “reclutato” un candidato che portasse avanti una campagna filo-cinese e pro-PCC su WeChat redatta in mandarino in cui diceva “Votate me per fermare le proteste pro Hong Kong di Drew Pavlou”.

Ancora non si chi abbia scritto quel messaggio, perché il candidato non parlava nemmeno mandarino. Quando ho comunque vinto hanno cercato di negarmi il seggio a cui ero stato democraticamente eletto dagli studenti per far sentire la loro voce, ma non ce l’hanno fatta.

Pensavo che sarebbe finita con me eletto al senato ed il loro fallimento nel tentativo di negarmi il seggio, ma l’UQ ha deciso di peggiorare la situazione. Mi hanno inviato un dossier di 186 pagine scritto dai loro avvocati. Hanno esaminato i miei profili social privati per mesi per trovare post da interpretare nel più malizioso dei modi possibili, hanno montato accuse contro di me dicendo che alcuni studenti mi avevano segnalato per bullismo.

Alla fine si è scoperto che gli studenti nominati dall’università non si erano mai lamentati di me nemmeno una volta, o non volevano far parte di quella segnalazione, o non sapevano nemmeno come il loro nome fosse finito in quelle segnalazioni che a loro (degli studenti) detta erano state create dall’università.

Hanno speso centinaia di milioni di dollari per questo caso, hanno assunto due studi legali internazionali, Clayton Utx e Minter Allison, che hanno gestito l’accusa contro di me per conto dell’università al consiglio disciplinare. Hanno sostanzialmente obbligato il consiglio disciplinare ad espellermi sostenendo che stavo danneggiando la reputazione dell’università con le proteste in favore di Hong Kong.

Il consiglio è formato da membri a tempo pieno stipendiati dall’UQ, quindi se gli avvocati dell’università dicono “dovete espellere questo studente” loro lo faranno. Hanno probabilmente speso mezzo milione di dollari per questo caso cercando di distruggermi. Sono addirittura andati in televisione a dipingermi come un bullo.

Se il sistema giudiziario del tuo Paese trattasse così ogni criminale, sareste ormai la nazione più sicura della Terra. È incredibile.

Lo so! Questo è il punto! La posizione dell’UQ era: “dobbiamo espellere Drew per rendere il campus un posto sicuro”. Questa non è solo diffamazione, è proprio una bugia: hanno speso 500.000 dollari per assumere due studi legali che montassero un caso contro di me. Tutto questo per espellermi così che non potessi più minacciare i legami economici dell’università con la Cina che valgono centinaia di milioni di dollari.

Loro sanno che il governo cinese mi vuole fuori, perché ha rilasciato dei comunicati ufficiali nei media in cui mi accusano di razzismo e di essere anti-cinese, i media di Stato mi hanno attaccato perché non sopportano che difenda Hong Kong. È probabile che abbiano detto “vogliamo questo studente fuori, occupatevene” e l’UQ ha eseguito.

Se l’UQ volesse spendere 500.000 dollari per investigare ogni caso di bullismo basandosi sulla Carta degli Studenti con cui giudicano gli studenti, beh, è scritta in termini così poveri che con tutte quelle risorse troverebbero qualcosa per espellerlo. Hanno speso mezzo milione di dollari e non hanno potuto trovare nulla perché non c’è nulla da trovare. È una caccia alle streghe.

Ci sono 55,000 studenti all’UQ, è un’università enorme. Se siamo razionali, la Carta degli Studenti viene violata migliaia di volte ogni giorno. Se hai 55,000 studenti nel campus la gente si insulta, litiga, copia agli esami. La Carta viene violata ogni minuto probabilmente, ma non spendono 500,000 dollari per indagare uno studente qualsiasi, bersagliano quello studente che è critico della loro relazione miliardaria con il governo cinese.

Il vice-cancelliere è molto vicino al governo cinese. Per molti anni è stato nel board di Hanban, l’organizzazione che gestisce gli Istituti Confucio in tutto il mondo. Di recente è anche stato invitato a Shanghai per ricevere il premio “individuo più incredibile dell’anno” dal vicepremier cinese che gli ha messo una medaglia al collo per i suoi sforzi nel promuovere gli Istituti Confucio in tutto il mondo, cioè nel promuovere l’influenza del governo cinese in tutto il mondo.

L’anno scorso gli è stato riconosciuto un bonus di 200,000 dollari in parte per avere “rafforzato le relazioni tra l’UQ e la Cina”, il che vuol dire creare relazioni con ufficiali del governo cinese. Hanno interessi diretti, personali ed economici, con la Cina per cui espellermi.

Tutto questo solo per… soldi?

Sì! Perché il Cancelliere Peter Varghese e il Vicecancelliere Peter Høj non sono comunisti né sostenitori del governo cinese, non credo che aderiscano al socialismo cinese o al pensiero di Xi Jinping, non gli interessa l’ideologia di stato cinese né sostengono il governo cinese. Per loro è solo una questione di soldi. Semplicemente soldi. Triste ma vero, sono pronti a svendere ogni valore democratico per questo. Se almeno fossero segretamente comunisti li rispetterei di più.

Come si è conclusa l’intera vicenda?

Il giorno dell’udienza, dopo un’ora io e il mio consulente legale abbiamo lasciato l’udienza perché era sostanzialmente scorretta e costruita contro di me. Hanno continuato l’udienza in mia assenza e mi hanno sospeso per due anni.

Con quale motivazione?

Ah, per tutte le accuse che l’università aveva montato contro di me: bullismo e vilipendio alla reputazione dell’università. Il loro obiettivo era espellermi e hanno montato un caso per farlo. Una sospensione per due anni equivale ad un’espulsione perché non posso laurearmi, quindi ho subito presentato un appello al Senato accademico, che è il più alto organo di appello dell’Università, sto ancora aspettando la data dell’udienza.

Oggi ho denunciato per 3.5 milioni di dollari l’Università, il cancelliere e il vice-cancelliere presso la Corte Suprema per cospirazione, frode, violazione di contratto, diffamazione e molestie per tutto che mi hanno provocato con questa campagna di bullismo nei miei confronti eseguita per compiacere i loro padroni a Pechino.

Ho sporto denuncia per difendere il mio diritto e quello di tutti gli studenti australiani alla libertà di parola nei campus. Non mi importa dei soldi, quel che importa è mandare un messaggio: a queste persone importa solo dei soldi, bisogna mandargli un messaggio che dovranno ascoltare.

Com’è l’ambiente nel campus?

Abbiamo ottime relazioni con i gruppi di studenti di Hong Kong e del Tibet visto che stiamo lottando per i loro diritti. Loro ricevono molto minacce e le loro famiglie a casa (in Cina) sono minacciate. Sono tutti molto preoccupati di essere identificati e fotografati, è una situazione molto tesa nel campus e gli studenti di HK sono spesso bersagliati da sostenitori del governo cinese, il quale controlla direttamente l’associazione degli studenti cinesi dell’Università e la usa per tenere dei registri/file sugli studenti cinesi per controllarli politicamente.

Molte volte mi è capitato, camminando per il campus, che degli studenti cinesi si avvicinassero e mi dicessero “Drew apprezzo molto quello che stai facendo, so cos’è successo a piazza Tienanmen, odio anch’io il governo cinese, apprezzo la tua lotta per i diritti umani, grazie per alzare la voce, vorrei potermi unire al movimento ma non posso permettermi nemmeno di essere visto mentre ti parlo o mi faccio una foto con te”.

Il governo ha operativi che controllano la condotta degli studenti cinesi nel campus. È una situazione tremenda in cui nemmeno gli studenti cinesi nel campus hanno libertà di parola, quindi cerchiamo con tutte le nostre forze di difendere anche loro. Tutti (studenti di HK, cinesi, tibetani, uiguri) sono minacciati da agenti del governo cinese e non sono liberi di parlare nemmeno nel campus.

Noi australiani lottiamo e siamo attaccati, ma è ancora peggio per loro perché hanno famiglie a casa che il governo cinese può minacciare. Infatti il governo cinese agisce come la mafia, sa che il modo migliore per controllare le persone è attraverso le loro famiglie, è fondamentalmente una gang criminale.

L’orgoglio di essere borghesi secondo Sergio Ricossa

La crisi economico-finanziaria che si è abbattuta prima sugli Stati Uniti e poi sul Vecchio Continente ha avuto diverse ripercussioni globali, ma c’è però un aspetto che colpisce in maniera particolare. Da allora, gran parte della borghesia è scomparsa.

Scomparsa o quasi: il ceto medio è stato il più colpito dalla crisi e, a grandi numeri, si è andato a riposizionare in una fascia sociale inferiore. Dal 1990 al 2013, le persone sotto la soglia di povertà nel mondo sono passate da due miliardi a 767 milioni, cioè dal trentacinque per cento a poco più del dieci: a uscire “vincitori” dalla globalizzazione sembrerebbero dunque i più ricchi e i più poveri. E la borghesia? I perdenti sono le fasce intermedie che hanno perso il lavoro, il reddito, ma soprattutto lo status sociale. Ceto medio vuol dire anche borghesia e borghesia vuol dire anche ceto medio. In Straborghese, libricino di quarant’anni fa, Sergio Ricossa individuò – tra filosofia e goliardia, tra paradosso e polemica – le caratteristiche essenziali del borghese, un dinosauro semi-estinto al giorno d’oggi.

La borghesia, ovvero lo strato sociale entro cui il borghese interagisce, secondo Ricossa è un carattere; innato o da coltivare. Un atteggiamento e un’attitudine. «Non contano i soldi e la posizione sociale», spiega il professore torinese; «si può nascere mezzo borghesi in una famiglia contadina od operaia»: borghesi lo si è nell’anima/o, in sostanza.

L’essere borghesi è uno stile di vita: è l’individuo che, con personale etica e rigore, sceglie questa “modalità” per portare avanti i propri interessi. Nella sua vita il borghese sperimenta, crea, innova: cerca di migliorare l’ambiente attorno a sé e di migliorarsi interiormente; due elementi che renderanno le sue azioni più proficue. Insomma: fa di testa sua, tocca con mano, sperimenta, rischia.

Ricossa mette in guardia chiunque voglia diventare borghese, perché «la borghesia trasforma la vita in una continua competizione». È dunque chiaro che il borghese sia un essere irrequieto: non è calmo, non conosce riposo.

«Il borghese è essenzialmente chi vuole farsi da sé.» Colui che crede nel libero mercato e nella libera competizione tra gli individui, animati dalla voglia di fare, produrre ed inventare.

Il borghese lo si riconosce per l’individualismo, «lo spirito di indipendenza, l’anticonformismo, l’orgoglio e l’ambizione, la volontà di emergere, la tenacia, la voglia di competere, il senso critico, il gusto della vita.» “Gusto della vita” che non vuol dire sprecare o scialacquare le risorse a propria disposizione (il borghese ha rispetto del denaro); «la borghesia odia […] che si sprechi anche solo una briciola.» Specialmente perché sa quanto ci vuole per guadagnarsi ogni singolo centesimo. Il borghese è l’homo ludens, «cioè chi ama vincere, in gara con gli altri o con se stesso.»

Continua Ricossa: «il borghese ha fede in se stesso e poco altro», non si fida molto degli altri, tuttavia non è sospettoso di principio e soprattutto non è in malafede.

Egli «si studia intensamente, si conosce senza ipocrisie, vede le sue debolezze.» Non mente di fronte allo specchio. Il borghese non “si” racconta bugie: cerca di non essere ipocrita – aborrisce l’ipocrisia imperante nella società dei teatrini e dei costumi delle (finte) “buone maniere” –; ha dunque ha un “suo” orgoglio.

Il borghese «morirebbe di fame pur di non chiedere l’elemosina. Perciò il mendicante non lo impietosisce oltremisura» così come «il fallimento altrui non lo disturba» più di tanto. Ben lontano dall’immagine dell’egoismo che gli viene affibbiata dagli invidiosi di turno, il borghese basa la propria etica e convinzione eco-social-politica «sulla responsabilità individuale, sulla colpa individuale e sulla punizione individuale». Il borghese si autoregola ed ha un forte senso del dovere: sa che ad ogni azione o parola corrisponde inevitabilmente una conseguenza; e non fa finta di credere che non sia così.

Il borghese riconosce ed ama il rischio: di far successo e di fallire dopo tanto lavoro, «ma disprezza chi è avanti senza merito, per privilegio, o chi dà via l’indipendenza per avere protezione». In soldoni: adora la meritocrazia e cerca di promuoverla; forte è il suo disprezzo per ciò che è immeritato.

Il borghese «giustifica la sua avidità col merito individuale, [mentre] il collettivista deve inventare il merito collettivo, di razza, di nazionalità, di classe, di corporazione». Il borghese non è razzista, perché non crea classi: crede solo nell’uomo e nel suo potenziale individuale a discapito dello stato sociale, della religione, dell’etnia, del credo politico. Contrariamente a quanto è stato predicato per anni, specialmente a sinistra, il borghese non ha buoni rapporti con l’aristocrazia. Il borghese non è un aristocratico. De facto, non sopporta la nobiltà; l’aristocrazia, dal canto suo, disprezza il borghese perché ha paura di essere spodestata dall’operosità di chi fa la gavetta.

Il borghese è tirchio ed avido? Nient’affatto! A parte che crede nel merito individuale, egli «sente poco la solidarietà in generale, perché pensa che se egli si fa da sé, senza aiuti, tutti debbano farsi da sé. Lottatore, nega tuttavia la “lotta di classe”». Il borghese è un solitario, individualista; «si trova aggredito da ogni parte. Non ha alleati fuori della famiglia, fuori da una piccola cerchia di amici.» Per questo è totalmente un individuo a sé: fondamentalmente è solo.

Il borghese crede nel miglioramento individuale; non è bellicoso e pertanto non è marxisticamente invidioso di chi ha più di lui. «Il borghese è scarsamente missionario: la gente faccia quel che vuole, purché non dia fastidio.» Secondo lui, la tanto celebrata “gente” deve essere quanto più diversificata; gli individui sono tutti diversi ed eterogenei.

Il borghese spende liberamente il danaro che si è conquistato con fatica e sudore, senza dover rendere conto a nessuno; «non agli invidiosi, non ai conformisti, non ai filistei, non agli innumerevoli che pretenderebbero di vivere alle sue spalle.» Inoltre, il borghese pensa che il mercato debba essere fondato sul laissez-faire; un sistema molto democratico per la conquista individuale dei beni: molto più “equo” ed efficiente di uno Stato-imprenditore assistenzialista che concede il razionamento al suddito.

Il borghese, ovviamente, disprezza la burocrazia improduttiva: in questo senso, per lui lo Stato non esiste più di tanto e deve fare poco; tra cui regolare la sicurezza e amministrare la giustizia. Infine, «non è vero che tutti i lavoratori abbiano i medesimi interessi e che il sindacato tuteli gl’interessi di tutti i lavoratori. Un contratto collettivo di lavoro, che trattando tutti allo stesso modo indiscriminato favorisce di fatto i meno produttivi, danneggia i più produttivi.» Il borghese, lo stra-borghese di Sergio Ricossa, conosce e predilige la libertà all’uguaglianza.

Amedeo Gasparini

www.amedeogasparini.com

Modello a capitalizzazione o a ripartizione? Come funziona un sistema pensionistico equo

La truffa del sistema pensionistico italiano

In Italia pensiamo che alla fine della nostra vita lavorativa lo Stato benevolo ci restituirà parte delle tasse che abbiamo versato (i contributi) sotto forma di pensioni… grave errore! In realtà lo Stato, che è tutto fuorché benevolo, rischia di non restituire agli italiani un bel niente, a causa del crollo demografico e della natura stessa del nostro sistema pensionistico, contributivo a ripartizione.

Siamo quindi spacciati? A noi giovani toccherà lavorare fino alla tomba? Beh una via di salvezza c’è – ma ovviamente la soluzione verrà dal mercato, non dallo Stato. Si tratta di cambiare il sistema pensionistico verso un modello a capitalizzazione: ossia un sistema dove i contributi che noi lavoratori versiamo finiscono in fondi pensione privati, che li investono e generano dei rendimenti. Questi rendimenti si sommeranno ai contributi versati, permettendo all’individuo di accrescere la propria ricchezza nel corso degli anni. 

Un’obiezione classica ai sistemi pensionistici privati è che investire in un fondo rende il futuro pensionato soggetto al rischio di non percepire la pensione, o di percepirla in una percentuale minore, qualora il fondo fallisca o effettui investimenti errati. 

Quello che quasi tutti dimenticano di spiegare è che anche la pensione erogata dallo Stato sottintende un rischio. Prendiamo il caso dell’Italia. Il nostro Paese ha conti pubblici distrutti da anni di mala gestione finanziaria ed è in profonda crisi demografica (sempre più anziani e sempre meno giovani): quante volte sono stati cambiati i requisiti per andare in pensione negli ultimi decenni? E quante volte perfino gli importi sono stati modificati? Come possiamo fidarci che un giorno restituirà ai lavoratori, soprattutto ai più giovani, quanto versato?

Il sistema a capitalizzazione permette di scegliere…

La differenza tra i due rischi corsi dal contribuente è che il singolo individuo ha molto più controllo sul successo di un investimento privato rispetto a quello che ha sugli andamenti demografici e finanziari di uno Stato. Inoltre, diversificare il proprio portafoglio, scegliendo più fondi pensione o più investimenti, è una strategia che può permettere una diminuzione sostanziale del rischio. Introdurre un sistema del genere genererebbe una responsabilizzazione dei cittadini, che dovrebbero scegliere oculatamente come investire i propri soldi e, per farlo, si impegnerebbero a migliorare la propria alfabetizzazione economica.

Stiamo parlando di dare alle persone la libertà di scegliere. Scegliere quanto, dove e come investire. Scegliere quando uscire dal mondo del lavoro. Si tratta di essere liberi di fare ciò che si ritiene più opportuno per la propria vita. Non credo che, potendo scegliere, gli italiani investirebbero in Alitalia; eppure questo è ciò che fa puntualmente il governo con le tasse dei cittadini. Perché non dovremmo essere noi a scegliere per noi stessi?

Lo statalista di turno potrebbe obiettare che in questo sistema verrebbero penalizzate le categorie a basso e bassissimo reddito. Ma è un’obiezione facilmente smontabile: per queste categorie potrebbe rimanere una pensione minima erogata dallo Stato, similmente a quanto accade ora, finanziata con le tasse dei cittadini. 

…mentre il sistema a ripartizione finisce per creare inequità e distorsioni

José Pinera, economista cileno responsabile di una riforma pensionistica fondamentale per il suo Paese (e che approfondiremo in uno dei nostri prossimi articoli), definiva il sistema “pay as you go”, come quello italiano odierno, “un sistema innegabilmente regressivo, che blocca i lavoratori più poveri nella fascia inferiore dello schema piramidale, aumentando i privilegi per i lavoratori più politicamente potenti e più ricchi che si trovano più in alto”. Questo perché i lavoratori più poveri, nonostante entrino nel mondo del lavoro in età più giovane, ricevono comunque un semplice assegno minimo e non possono ambire a riceverne uno più sostanzioso. E per quanto riguarda i privilegi per i lavoratori politicamente potenti, in Italia abbiamo l’esempio perfetto: le baby pensioni, costruite per favorire i dipendenti pubblici a scapito di tutti gli altri (vedi immagine sottostante). 

Come si può considerare equo un sistema del genere?

Affermare che in un sistema pensionistico a capitalizzazione non possa esistere una rete di protezione dei più poveri è una menzogna buona solo per mantenere il consenso delle fasce di popolazione meno abbienti.

La nostra vita, il nostro lavoro e, in ultima istanza, la nostra pensione devono dipendere in massima parte dalla responsabilità individuale; dobbiamo rifiutare il paternalismo di chi crede di sapere cosa è meglio per noi, salvo poi buttare puntualmente i nostri soldi (vedi Alitalia e simili). Impegnarsi per far rendere al meglio il frutto del nostro sudore è una battaglia di civiltà, ancor prima che di libertà.

a cura di:

Leonardo Accardi;

Gianmaria Dinaro;

Tommaso Caruti;

Francesco Chevallard.

Perché non sarai mai ricco se hai una mentalità socialista

Tra Filosofia e Comportamento

Prima di leggere è bene spiegare che nell’articolo non si andrà ad indagare su quelle che sono le ideologie, le dottrine o i pensieri degli esponenti delle diverse correnti, ma si andrà a valutare il comportamento delle persone, le loro scelte di vita e quindi la loro mentalità.

Mentalità Socialista ed Ideologia Socialista

Bisogna mettere in chiaro che avere una mentalità socialista è ben diverso da essere socialista. L’ideologia politica, purtroppo o per fortuna, non sempre combacia con la mentalità che si ha. Questo per via dell’ignoranza della popolazione sulle grandi dottrine economiche oppure perché si crede romanticamente a un’idea, salvo poi avere una mentalità totalmente diversa nella pratica.

Pertanto, esistono comunisti e socialisti con una mentalità individualista e liberali con una mentalità socialista, sebbene questi ultimi siano un po’ più difficili da trovare.

Cos’è la Mentalità Socialista?

La mentalità socialista si distingue dalla mentalità individualista per la responsabilità. Una persona dalla mentalità socialista tende a spostare verso l’esterno le cause dei mali che egli vive, delle condizioni in cui versa. Chi ha una mentalità socialista dà la colpa allo Stato, chiede più Stato o chiede che sia lo Stato ad occuparsi di lui.

Una persona con una tale mentalità la riconoscete perché tende con facilità a scaricare la responsabilità verso terzi, ad autoassolversi da ogni responsabilità. Egli è vittima delle circostanze, spesso perché dimenticato dalle istituzioni, come ama ripetersi.

Chi condivide la mentalità socialista ha sempre bisogno di qualcosa o qualcuno che si debba occupare di lui, il perenne bisogno di un padre che risolva i suoi problemi e lo salvi dalle sue disgrazie.

Con questa definizione riusciamo subito a capire che molti imprenditori hanno una mentalità socialista, ossia aprono un negozio/impresa o una partita Iva per crearsi un lavoro libero da “padrone”, si assumono responsabilità da imprenditore, ma poi sono pronti a scaricare ogni responsabilità se le cose vanno male (la crisi, lo stato, i cinesi, l’Europa, le tasse etc..) con una perenne aria di vittimismo.

La mentalità socialista è parte integrante della società italiana. La potete trovare anche in coloro che si professano anticomunisti, specie in quelli più aggressivi che attaccano direttamente i comunisti non risparmiando insulti, salvo poi essere, molte volte, più comunisti dei comunisti stessi. Ma anche tra sedicenti liberali c’è una forte mentalità socialista ed ora sapete come individuarla con facilità.

I politici sono i primi a diffondere questa mentalità scaricando le proprie colpe sull’Europa, l’Euro e gli altri Paesi, piuttosto che assumersi la responsabilità delle scelte fatte fino a quel momento. Scaricare la propria responsabilità su terzi è da una parte comodo e dall’altra parte un po’ da codardi.

I partiti socialisti (o comunisti) sono soliti prendersela con gli imprenditori, senza capire che la gran parte del tessuto imprenditoriale italiano ha una mentalità socialista. Non è il lavoro che si svolge o il partito a cui si è iscritti a determinate il tipo di mentalità che si ha.

La Mentalità Individualista

Dalla parte opposta dello spettro c’è la mentalità individualista. Essa, innanzitutto, si distingue dall’egoismo, pertanto è bene fare una prima distinzione. Chi è egoista pensa solo alla soddisfazione del sé. La soddisfazione del sé non è un atto di responsabilità, ma piuttosto la ricerca di un vantaggio che sia solo a proprio beneficio o della cerchia più ristretta.

Pertanto l’egoista potrebbe anche avere una mentalità socialista, basti pensare a quegli imprenditori che chiedono aiuti allo Stato, per poi evadere o sfruttare il lavoro in nero per pagare il meno possibile i propri operai, oppure a quegli imprenditori che si battono per evitare di far aprire concorrenti nella loro zona d’influenza chiedendo allo Stato maggiori regolamentazioni a danno dei consumatori, ma a loro preciso beneficio.

Dall’altro lato sono molti gli esempi, invece, di individualisti (o capitalisti come vengono definiti dai più) che hanno donato milioni a fondazioni benefiche o hanno costruito ospedali e scuole in luoghi disastrati[1].

La mentalità individualista si contrappone alla mentalità socialista per il suo approccio alla responsabilità. Mentre la mentalità socialista scarica verso l’esterno la responsabilità, la mentalità individualista si assume la responsabilità delle sue scelte e delle conseguenti condizioni.

Non importa quanto sia svantaggiata la sua condizione di partenza o gli effetti che le sue scelte abbiano provocato, chi ha una mentalità individualista cerca un modo per migliorare la propria vita assumendosi la responsabilità della sua futura condizione o dei problemi che egli stesso ha creato, anche se ciò comporta immani sacrifici.

Condizione di Partenza e Paese d’origine

Se parliamo di solo successo economico, è chiaro che il Paese di origine possa influenzare molto le possibilità di ottenerlo, non a caso nei paesi più liberali e liberisti diventare/essere ricchi è più facile, rispetto ai paesi più socialisti e meno aperti al libero mercato.

Un’eccezione è costituita dalla Cina, che sebbene non sia liberale è comunque liberista. Un secondo fattore che può influenzare il successo è la condizione di partenza, è chiaro che chi ha una famiglia più agiata abbia meno difficoltà, ma è davvero così? Uno studio rivela che il 78% dei nuovi milionari è partito da una condizione di povertà o di classe media[2].

Mentalità Individualista Vs Mentalità Socialista

Essere consci che si è artefici del proprio destino è il primo passo per poter migliorare la propria vita. Riflettete, perché una persona, il cui pensiero è che le cose non possano cambiare perché dipendono dall’esterno, dovrebbe mai impegnarsi in qualcosa?

Sarebbe uno sforzo inutile, al pari di voler abbattere una sequoia secolare a mani nude. Perché una persona in sovrappeso, che pensa che siano le sue “ossa grosse” a farlo essere in sovrappeso, dovrebbe mai impegnarsi per andare in palestra o a correre?

Perché una persona povera, il cui pensiero è quello che lo Stato debba prendersi cura di lui, e che se è povero è solo colpa dello Stato, dovrebbe mai impegnarsi per migliorare la sua condizione economica?

Una persona con una mentalità individualista, invece, sa che la sua vita dipende maggiormente dalle sue scelte, tutto dipende dalle sue azioni, ecco che quindi si opera per migliorare la propria condizione. Alla fine, se siamo principalmente noi artefici del nostro destino, è meglio muoversi fin da subito.

Ovviamente è molto difficile trovare una persona con una mentalità totalmente socialista o totalmente individualista, il più delle volte si tende da una parte o dall’altra.

In conclusione, voi che tipo di mentalità avete? Tendete ad assumervi la responsabilità individuale delle vostre scelte oppure a scaricarla sugli altri?

 

 

[1] – https://www.businessinsider.com/most-generous-people-in-the-world-2015-10?IR=T
[2] – https://millionairefoundry.com/millionaire-statistics/

Il curioso caso del capitalismo (nord)coreano

Se mai arriverà il giorno in cui i cittadini della Corea del Nord conosceranno libertà, prosperità e modernità, probabilmente non sarà grazie ad un dittatore illuminato, ad una rivoluzione violenta o ai missili americani. La loro salvezza, infatti, potrebbe provenire dalla più improbabile delle direzioni: questo è il curioso caso del capitalismo nordcoreano.

Con tutta probabilità, quando si pensa alla Corea del Nord la prima cosa che viene in mente è il suo programma nucleare, non le sue fiorenti attività imprenditoriali. Tuttavia, lentamente ma inesorabilmente, le cose stanno cambiando.

Soprattutto negli ultimi anni, il regime dei Kim sembra aver cambiato idea sulla desiderabilità dello shopping e della libera iniziativa: oggi, infatti, il Paese conta ben 436 imprese private, che fruttano circa 60 milioni di dollari in tasse al governo nordcoreano[1].

Carestia e mercato nero

Naturalmente, questo nuovo atteggiamento del regime verso il capitalismo non nasce dal nulla, e di certo non dalla bontà personale di Kim Jong-un.

In passato, era lo Stato a provvedere ai bisogni della popolazione, ridistribuendo i prodotti della sua economia ai cittadini tramite un “Public Distribution System”, o PDS[2]. Per un certo periodo, grazie soprattutto agli aiuti economici dell’URSS, il sistema funzionò. Questo, fino agli anni Novanta.

Il disastro umanitario che colpì il Paese dal 1994 al 1998 non ha bisogno di molte descrizioni. La perdita degli aiuti sovietici, unita ad una serie d’inondazioni e ad una grave siccità, condannò dai due ai tre milioni di nordcoreani alla morte per carestia[3]. Il PDS crollò, ed il regime dei Kim non poté, o non volle, venire in aiuto dei suoi cittadini.

Il bilancio sarebbe stato ancora più devastante, se non fosse stato per il mercato nero: lasciati da soli, i cittadini nordcoreani riuscirono a sopravvivere, tramite lo scambio di beni e servizi in mercati clandestini (su cui comunque il governo chiuse un occhio, comprendendo quanto fossero necessari)[4].

Alla lunga, però, il volume delle transazioni all’interno di questi mercati raggiunse dimensioni tali che il regime comunista non poté più far finta d’ignorarle; bisogna poi considerare che, dopo i disastrosi anni Novanta, la produzione agricola non si è mai veramente ripresa.

Il regime, quindi, si trovò davanti ad una scelta: restare fedele ai principi della Juche (comunismo di stampo nordcoreano), e di conseguenza eliminare con la forza questi mercati illegali, oppure venire a patti con la situazione.

Dato che la prima opzione avrebbe privato di qualsiasi mezzo di sopravvivenza gran parte della popolazione, portando potenzialmente il Paese (e quindi il regime) al collasso, Kim Jong-il (il dittatore di allora) scelse la seconda opzione: a partire dal 2002-2003, il governo ha regolarizzato alcuni di questi mercati originariamente clandestini[5].

Shopping a Pyongyang

Oggi, a quasi trent’anni dalla tragedia umanitaria che ha fatto da grimaldello per l’ingresso del capitalismo nel Paese, la Corea del Nord è un’economia ricca di sfumature, ben più complicata di quanto si ritiene nell’immaginario popolare.

Certo, in linea di massima il Paese è quello che il grande pubblico conosce attraverso i media: una nazione governata da un regime totalitario, un’economia pianificata dove tutto, dai salari ai prezzi, è deciso dallo Stato. Ma c’è anche di più.

Infatti, sebbene ufficialmente tanto la proprietà privata quanto il commercio siano illegali in Corea del Nord, in realtà il capitalismo permea l’intera società, dai più poveri dei contadini fino agli alti esponenti del regime. I primi cercano solo di sopravvivere, i secondi desiderano standard di vita più alti, ma entrambi per raggiungere il loro obiettivo ricorrono al capitalismo.

Fra i ceti medio-bassi, per esempio, è prassi comune che gli uomini abbiano un impiego statale, mentre le donne sposate hanno la possibilità di registrarsi come “casalinghe a tempo pieno”. Sembra controintuitivo, ma proprio per questo spesso le donne sposate guadagnano molto di più dei loro mariti. Com’è possibile?

Proprio in quanto esentate dall’impiego statale, queste donne sono libere di avviare un’attività in proprio. Per la maggior parte si tratta d’imprese molto piccole, coinvolte nella vendita di street-food o di beni importati come sigarette russe o birra cinese[6].

Sebbene si tratti di attività commerciali piuttosto modeste, sono sufficienti per garantire alle donne sposate guadagni diverse volte superiori a quelli dei loro mariti. Proprio per questo loro peso economico, le donne in Corea del Nord godono di diritti che non ci si aspetterebbe di ritrovare in un Paese simile[7].

Persino fra i ranghi dell’amministrazione statale, molti dirigenti pubblici, per necessità o per guadagno personale, si sono improvvisati imprenditori. In Corea del Nord, infatti, anche il settore pubblico si ritrova spesso senza finanziamenti adeguati da parte del governo, e di conseguenza è costretto a trovare fondi in un altro modo.

Per questo, non di rado chiunque goda di una posizione di potere all’interno dell’apparato statale usa la propria influenza per avviare un’attività, talvolta persino utilizzando le Forze Armate come manodopera a basso costo[8].

In questo modo è possibile diventare molto ricchi, anche per gli standard occidentali. Oggi, in Corea del Nord, si è formata così una nuova élite, che comprende questi funzionari/imprenditori e le loro famiglie.

Mentre la maggior parte della popolazione vive ad un passo dalla povertà estrema, questi pochi privilegiati guidano auto di lusso, possiedono smartphone ed affollano le strade ed i negozi della “Pyongyang bene”, che alcuni definiscono ironicamente “la Dubai della Corea del Nord”[9].

Un altro esempio molto interessante di come il regime dei Kim sia venuto a patti con la nuova situazione è la “August 3rd Rule”. In base a questa legge, esiste la possibilità per un cittadino nordcoreano di essere esonerato dal proprio impiego statale, a patto di versare una quota mensile di 50000 Won (circa 7 dollari) al governo[10].

In questo modo, il cittadino è libero di dedicarsi ad una propria attività, i cui guadagni (grazie alla August 3rd Rule, che quindi costituisce una vera e propria tassa) andranno a beneficiare anche il regime.

Un futuro migliore?

Quello della Corea del Nord non è certo il primo caso di un Paese comunista che, prima o poi, ha dovuto concedere maggiore libertà economica ai suoi cittadini per sopravvivere. Questo è già successo nell’Unione Sovietica, in Cina, in Vietnam, con diversi livelli di successo.

In alcuni casi, come in Cina, il regime comunista è riuscito a prosperare grazie alla ricchezza generata da un’economia più competitiva, ed allo stesso tempo a salvaguardare la propria stabilità (ancora oggi, sebbene moltissimo sia cambiato dai tempi di Mao, il PCC resta saldamente al potere).

In altri casi, come nell’Unione Sovietica, la maggiore libertà economica ha agito da grimaldello per le rivendicazioni politiche della popolazione: una volta in grado di comparare il loro stile di vita con quello dei Paesi dall’altro lato della Cortina di Ferro, i cittadini sovietici hanno iniziato a protestare contro il loro governo, ed il resto è storia.

Al momento è difficile, se non impossibile, determinare quale strada seguirà la Corea del Nord. Alla fine, il regime dei Kim potrebbe riuscire ad incanalare queste nuove forze a suo vantaggio, stabilendo un capitalismo di Stato simile a quello cinese.

In alternativa, come prospettato all’inizio dell’articolo, alle liberalizzazioni economiche potrebbero seguire quelle politiche, fino alla caduta più o meno pacifica del regime comunista. Ad oggi, tutto è possibile.

Tuttavia, già adesso è possibile trarre una lezione dal curioso caso del capitalismo nordcoreano, vale a dire la resilienza del capitalismo stesso.

Nell’Unione Sovietica, con tutte le risorse umane e materiali a sua disposizione, il comunismo è sopravvissuto meno di settant’anni. In Corea del Nord, neanche uno degli ultimi regimi totalitari esistenti è riuscito ad impedire il naturale sviluppo del sistema capitalistico.

[1]https://www.google.com/amp/s/qz.com/1370347/capitalism-in-north-korea-private-markets-bring-in-57-million-a-year/amp/

[2][4][5]https://beyondparallel.csis.org/markets-private-economy-capitalism-north-korea/

[3]https://www.nytimes.com/1999/08/20/world/korean-famine-toll-more-than-2-million.html

[6][7][8][9]https://youtu.be/YDvXOHjV4UM

[10]https://books.google.it/books?id=l-1pBgAAQBAJ&pg=PA27&lpg=PA27&dq=august+3rd+rule+north+korea&source=bl&ots=16iNGhlmYu&sig=ACfU3U0hqqbY08qYuxtUTztpXjvaZ1BWXQ&hl=en&sa=X&ved=2ahUKEwj1tKeHnpDqAhX68KYKHfQWB9UQ6AEwC3oECAEQAQ#v=onepage&q=august%203rd%20rule%20north%20korea&f=false