L’Unione Europea secondo David Hume

La crisi economica innestata dal dilagare del coronavirus ha riportato al centro dell’attenzione il ruolo dell’Unione Europea e gli strumenti di cui questo organismo può disporre per venire in aiuto agli Stati in difficoltà.

Si è proposto di usare i fondi del Mes oppure emettere titoli di debito condiviso dagli stati membri, i famosi eurobond tanto cari a Tremonti. Queste misure, ben lontane dal dare una risposta seria ed efficace nel lungo termine, sono da considerarsi delle vere e proprie cessioni di sovranità verso Bruxelles: il Mes implica una cessione esplicita, alla luce del sole, mentre gli eurobond farebbero entrare dal retro una futura armonizzazione fiscale e un ministro delle finanze unico per l’Eurozona. Ha riassunto bene la contraddizione dei sovranisti-pro eurobond un tweet del professor Riccardo Puglisi, economista che insegna all’Università di Pavia:

“Quindi qualcuno non ha ancora capito che per avere i cosiddetti eurobond devi avere un bilancio federale europeo, cioè spese e imposte decise a livello federale?”

Da un punto di vista liberale, date queste premesse, è necessario chiedersi: è giusto implementare questo processo? Quanto è funzionale, nel processo verso l’autodeterminazione dell’individuo, una cessione di sovranità da un organismo minore a uno di maggiore entità come è l’Ue?

Se guardiamo alla storia europea, alla nascita della cultura occidentale e allo sviluppo del commercio possiamo vedere come questa grande “fertilità” dal punto di vista economico e culturale sia stata possibile grazie a un sistema fortemente decentralizzato.

David Hume, interrogandosi sulla nascita delle arti e delle scienze, affermava che

“Niente è più favorevole al sorgere della civiltà e della cultura dell’esistenza di un certo numero di Stati vicini e indipendenti, legati da rapporti commerciali e politici.”

Sembrerebbe quindi escludere l’evoluzione del processo di integrazione europea dal percorso di sviluppo e crescita dell’Occidente. Hume naturalmente non faceva riferimenti al concetto moderno di entità sovranazionale come oggi noi intendiamo l’Unione Europea: parlava di Stati più o meno grandi, ma ci sembra necessario citare il pensiero del grande filosofo scozzese perché per troppo tempo abbiamo visto un’euroscetticismo chiuso, illiberale e senza cultura. L’opportunità per costruire una critica seria e argomentata all’Unione Europea e a una maggiore integrazione tra gli stati membri esiste realmente, e andrebbe colta per non veder scadere il dibattito politico nel banale “euro sì – euro no”.

I vantaggi di Stati di minore estensione sono molti secondo Hume: in un grande Stato l’autorità potrà facilmente utilizzare la coercizione sui singoli individui per commettere ingiustizie, mentre nelle piccole comunità sarà disincentivata a farlo perché dovrà agire sotto gli occhi di tutti. Questa visione tra l’altro verrà ripresa da Hayek, che affermerà come negli Stati più estesi la coercizione sarà sempre maggiore perché maggiore sarà il potere nelle mani di chi governa. Hume afferma che

“le divisioni in piccoli stati favoriscono la cultura, perché arrestano i progressi dell’autorità e del potere.”

Secondo Hume la forza dell’Europa a livello culturale ed economico sta proprio nella sua frammentazione, così come la frammentazione politica permise alla Grecia di diventare un faro di civiltà per l’Occidente. Il decentramento e la competizione hanno accompagnato la storia europea, e non è appiattendo le nostre differenze che troveremo la strada per crescere. Anche Margaret Thatcher riprenderà questa tradizione affermando che

“Se l’Europa ci affascina, come ha spesso affascinato me, è proprio per i suoi contrasti e le sue contraddizioni, non per la sua coerenza e continuità.”

Vale inoltre la pena, per avvicinarci ai giorni nostri, di citare Daniel Hannan, eurodeputato conservatore e uno dei maggiori volti della campagna per il Leave al referendum sulla Brexit. Nel suo libro “What Next”, in cui traccia una futura Global Britain fuori dall’Ue Hannan fa notare come la Brexit non debba essere un punto di arrivo, ma un punto di partenza: “la sfida ora è devolvere il potere al livello più basso praticabile, fino ad arrivare al singolo cittadino”. Non un sovranismo fine a sé stesso, che da un punto di vista liberale sarebbe inaccettabile, ma un percorso verso le libertà individuali.

Un liberale dovrebbe valutare con grande attenzione queste tematiche: l’accentramento di poteri permette una coercizione sempre maggiore, e l’armonizzazione fiscale in Europa non porterà certamente ad un abbassamento delle imposte.

Da David Hume a Friedrich von Hayek è stata riconosciuta l’importanza del libero scambio per una maggiore e diffusa prosperità, e questo avviene nelle condizioni di un mercato libero, non in un mercato unico. Ai tempi del virus, forse, tornare a riflettere sull’opportunità di istituzioni con immenso potere come la Bce e l’Unione Europea in generale sarebbe davvero necessario, così come capire che, molte volte, sulla strada per l’unità a lasciarci le penne è la libertà.

Il Sovranismo è anticapitalista?

Qualcuno sostiene che il Sovranismo sia un pensiero politico nuovo, innovativo, che crea una rottura con il passato. Essi sostengono, altresì, che il Sovranismo sia l’espressione di un nuovo pensiero popolare che non ha alcun legame storico-ideologico con il pensiero statalista, quello socialista o quello comunista.

Io penso, invece, che il pensiero sovranista ha più di un legame con il pensiero nazionalsocialista, noto attualmente – per comodità, direi – come Destra Sociale. Un legame che li lega non solo politicamente, ma anche culturalmente.

Partiamo dal presupposto che il Sovranismo è insurrezione popolare. Si tratta di una reazione del popolo contro una presunta élite. Storicamente il pensiero nazionalsocialista, come nel Sovranismo, è un movimento di giustizia sociale contro un nemico chiaro. Nello specifico si parla di comunitarismo.

Un comunitarismo inteso come vivere attraverso l’identità, la propria provenienza, le proprie origini. Un comune agire per un comune obiettivo, un comune agire per comuni usanze. Il collettivismo sovranista è facilmente intendibile, pertanto, come un reazionismo verso un presunto degrado di valori provocato da vari nemici, come la tecnocrazia.

Il Sovranismo ha dunque, nelle sue corde, una forte componente di giustizia sociale. Non è nemmeno questa una novità rispetto al passato. Non solo dagli ambienti marxisti, ma anche dagli ambienti nazionalisti italiani. Storicamente, nella cultura di destra sociale, è sempre esistita una forte esigenza di giustizia sociale. Una giustizia sociale che, eliminando i difetti del marxismo e del liberalismo, tende a rafforzare tutti.

Non è una sorpresa che tanti esponenti sovranisti siano ancora a favore di una visione corporativista dello Stato e dell’economia. Uno Stato che tende sia a limare la presunta “avidità” del capitalista che a soddisfare le esigenze del lavoratore sfruttato. Quindi, una giustizia sociale che tende a rafforzare tutti.

Ovviamente, anche in questo caso la giustizia sociale è traducibile con una riduzione concreta delle libertà individuali. Si parla, piuttosto, di una libertà impostata e ipotetica, in quanto, secondo il Sovranista, ponendo un equilibrio tra liberalismo e comunismo, non ci dovrebbero essere motivi di disarmonia.

Insomma, il Sovranismo parte da una reazione, una reazione per soddisfare una giustizia sociale, una giustizia sociale attuabile con la riduzione delle libertà individuali. Ma fino a qui, siamo sulla teoria.

Come è traducibile nella pratica il pensiero sovranista?

Sostanzialmente, in uno schema sovranista, il capitalismo è il mezzo per arricchire Stato e proletari. Esattamente, il capitalista è l’attore da sfruttare. Non deve arricchirsi alle spalle di nessuno, non può prendere libera iniziativa, ma deve limitarsi a rispettare le esigenze di Stato. Per essere chiari, nel sovranismo, il mercato non può mancare.

Però è inevitabile che ci sia il Mercato, il quale quindi viene “indirizzato” per soddisfare i bisogni dello Stato. Quindi, un mercato strozzato dalle esigenze statali. Allo stesso tempo, lo Stato rafforza la componente proletaria, rendendo l’azienda da privata a Istituto Sindacalista, in cui il titolare dell’impresa, per decidere su qualcosa di sua proprietà, deve rivolgersi ai lavoratori.

Per concludere, il sovranismo ha un tasso molto alto di nazionalismo nelle sue corde culturali. Un nazionalismo di vecchio stampo, aggiungerei. Vecchio stampo perchè si tende a isolare mentalmente l’Italia e ad immaginare il mondo come il campo di battaglia della guerra di tutti contro tutti. Ovviamente, anche su tematiche interne, il sovranismo ha una forte propensione alla protezione del Made in Italy, tenendo persino in considerazione la possibilità di dazi o misure fortemente penalizzanti verso le aziende estere.

Davvero il socialismo fallisce per i boicottaggi?

Una cosa che si dice comunemente delle economie socialiste, specie in Africa e in Sud America, è che falliscano per colpa dei boicottaggi. Non è il sistema economico a non funzionare, ovviamente, ma è colpa degli Stati Uniti che bloccano i commerci!

Eppure in Africa ci fu uno Stato che venne boicottato per praticamente tutta la sua esistenza, la Rhodesia.

La Rhodesia non era un Paese liberale, era infatti governato in larga parte dalla minoranza bianca ed i neri erano perlopiù esclusi dalla vita politica. Il leader del paese, Ian Smith, credeva che i bianchi avessero il dovere di governare poiché fuori dalle lotte tribali che caratterizzavano la popolazione nera.

Il suo era, per chi fosse interessato, un regime meno duro rispetto a quello del Sudafrica: i neri avevano la cittadinanza, spesso il diritto di voto – seppur limitato in base all’istruzione – e lavoravano a fianco dei bianchi frequentemente. Esistevano anche scuole private dove bambini bianchi e neri andavano nelle stesse classi senza problemi, ma l’istruzione pubblica era segregata.

Dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 1965 alla rinuncia alla monarchia nel 1970, fino alla fine del Paese nel 1979, fu tutto un susseguirsi di sanzioni. L’economia rhodesiana, a differenza di quelle socialiste, ha retto. Non senza conseguenze, sia chiaro: l’economia del Paese rallentò, ma non drammaticamente.

Bisogna considerare, inoltre, come gli alleati della Rhodesia non fossero superpotenze: aveva dalla propria parte Sudafrica e Portogallo. Stati che hanno sicuramente, violando le sanzioni, aiutato il Paese, ma non al livello degli alleati dei Paesi socialisti come l’URSS!

Durante il boicottaggio il PIL rhodesiano rimase quasi stabile: l’agricoltura si spostò da produzioni esportabili in Europa a produzioni consumabili in loco o esportabili in Sudafrica, certe industrie si specializzarono a tal punto da arrivare a fare concorrenza a quelle sudafricane.

Solo dal 1975 vi fu una limitata contrazione dell’economia, dovuta soprattutto all’aumento delle spese militari e ad una certa “limitazione” del liberalismo economico per poter fronteggiare meglio la guerra, con l’obiettivo idealizzato di tornare ad esso dopo la fine del conflitto.

Ma secondo gli economisti, l’economia della Rhodesia fu in grado di reggere alle sanzioni senza gravi danni solo grazie alle politiche liberiste applicate prima della dichiarazione di indipendenza, che permisero lo sviluppo di un settore industriale e agricolo malleabile e sufficiente a soddisfare le richieste nazionali.

Come vediamo dal grafico del PIL, che trovate qui sul sito della Banca Mondiale, al termine del boicottaggio, nel 1979, l’economia vide inizialmente una netta crescita. Tuttavia, poco dopo il governo di Robert Mugabe iniziò ad applicare le proprie ricette corporativiste e socialiste. Tutti gli indici economici iniziarono a calare portando anche ad effetti a lungo termine: nel 2008 il PIL dello Zimbabwe era pari a quello medio della Rhodesia indipendente.

Risultato immagini per zimbabwe dollar
Successi del socialismo di Mugabe

Le politiche di Mugabe portarono ad un’iperinflazione – ossia alle famose banconote da miliardi di dollari che non valevano niente – ma anche alla fuga di persone molto qualificate, specie quando Mugabe ordinò la confisca dei beni dei bianchi.

La differenza tra il governo di Smith e quello di Mugabe era essenzialmente una: il modello economico di Smith funzionava, quello di Mugabe no.

La Rhodesia, grazie ad un’economia solida e libera, fu in grado di reggere anche ad una comunità internazionale quasi completamente ostile. Lo Zimbabwe, con la sue politiche economiche socialiste, non ha retto nemmeno al normale corso degli eventi.

Viene da chiedersi quindi: com’è possibile che l’economia socialista sia migliore di quella capitalista, se la prima andrebbe in totale crisi e povertà per un boicottaggio che la seconda supera con qualche noiosa difficoltà?

Fonti

Libere città private: il futuro del liberalismo

Con il supporto di Atlas Network, CapX sta pubblicando una nuova serie di testi sul tema dell’illiberalismo in Europa, guardando alle differenti minacce alle economie liberali e alle società in tutto il continente, dal populismo, al protezionismo, alla corruzione.

Con la rapida globalizzazione che è iniziata dopo il crollo del blocco sovietico, gran parte del mondo è diventata ricca velocemente. La parziale liberalizzazione di Cina e India ha sollevato più persone dalla povertà di qualsiasi altro evento nella storia. Nonostante la fede nel socialismo sia scemata, la maggior parte dei regimi era contraria a una liberalizzazione completa, pertanto un’economia ibrida divenne sempre più diffusa. L’impresa privata sarebbe anche tollerata infatti, ma non senza un considerevole intervento e una stretta regolamentazione da parte dello stato. Diversi gradi di corporativismo, impresa diretta e regolata dallo stato, hanno iniziato a dominare lo scenario globale.

Il lato negativo di queste economie ibride, presto battezzate come “neoliberali”, è stata l’inevitabile collusione tra impresa e stato, che aggrava l’ineguaglianza e porta alla corruzione. Ci si deve sempre però chiedere: “qual è il ritorno?”. Ovviamente, sono miliardi che risultano dalla povertà.

Ma a proposito dei supposti lati negativi?

“Il neoliberalismo non è in alcun modo la soluzione al problema” scrive Nancy Fraser, una studiosa della New School. “La sorta di cambiamento di cui si ha bisogno può venire solo da altrove, da un progetto che è estremamente anti-neoliberale, se non anti-capitalista”.

Eppure questo “cambiamento” che può solo nascere da un certo grado di intervento autoritario è esattamente ciò che ha messo il “neo” in neoliberalismo. I denigratori del liberalismo preferirebbero l’autoritarismo ad assicurare la povertà, piuttosto che la prosperità che deriva dal liberalismo distribuita inegualmente. Ciononostante, la maggior parte dei problemi che persistono con la liberalizzazione dei paesi in via di sviluppo, persistono nella misura in cui il fardello della regolamentazione continua a vessare il loro sistema economico, proprio come accadrebbe in qualsiasi paese anche economicamente più avanzato. Alex Tabarrok e Shruti Rajagopalan si riferiscono a questo come esempio dello “stato spasmodico“.

L’alternativa, sostengono, è un più alto livello di liberalizzazione; perché negli stati spasmodici, la limitata capacità dei regolatori dello stato significa che i classici problemi della ricerca del favore siano amplificati. I pubblici ufficiali vedono l’opportunità di prendere tangenti; il pubblico velocizza le cose pagandoli. La figura dell’imprenditore esperto è in grado di capire come gestire un sistema inadeguato, che gli permette di guadagnare un vantaggio sui concorrenti.

Libro Cartaceo:
Ebook Kindle:

L’interventismo statale genera clientelismo.

Ecco perché alcuni liberali stanno spingendo contro le cariche. Il filosofo Jason Brennan scrive:
“Vi lamentate, forse nel giusto, che le compagnie sono semplicemente troppo grandi. Beh, sì, vi abbiamo detto che sarebbe accaduto. Quando crei codici tributari complicati, difficili regimi regolatori e ardue regole per le licenze, queste restrizioni selezionano naturalmente le corporazioni più grandi. Vi abbiamo detto che sarebbe accaduto. Ovviamente queste sempre più vaste compagnie poi colgono queste regole, codici e regolazioni a svantaggio dei propri concorrenti e sfruttano tutti noi. Vi abbiamo detto che sarebbe accaduto.

In altre parole, è difficile biasimare gli effetti collaterali del neoliberalismo sul suo aspetto più liberale. Quando si mescola uno stato smodatamente regolatore con il capitalismo imprenditoriale, si ottiene il capitalismo clientelare e il corporativismo. Eppure, laddove il neoliberalismo è stato liberale, abbiamo potuto vedere traguardi nel benessere delle persone senza precedenti.

In primis c’è stata una straordinaria crescita economica mondiale, con India e Cina in testa, ma anche un incremento in altri paesi in via di sviluppo. Questo ha portato a un declino massiccio nella parte di popolazione che vive in estrema povertà, dal 35% nel 1987 a sotto il 10% nel 2015 (ultimo dato disponibile)

In secundis, l’aspettativa di vita globale sta aumentando. I parametri di vita media sono aumentati di più di 6 anni dal 1990 al 2016 sia per gli uomini che per le donne. Gli incrementi maggiori sono stati nei paesi più poveri. Adesso questo non dovrebbe essere niente di nuovo.

Deve essere detto che, per quelli che hanno perso il lavoro a causa della delocalizzazione, l’astrattismo di un miglioramento delle condizioni globali non è in grado di bilanciare il dolore acuto della dislocazione regionale. Ma anche quelle regioni del mondo che hanno faticato a competere hanno giovato di un aumento generale del proprio potere di acquisto. Aree divenute “arrugginite” che hanno diversificato la loro economia sono tornate forti: come Pittsburgh negli U.S.A. o Manchester nel Regno Unito.

Qualcuno facente parte della sinistra accademica potrebbe ribattere che i guadagni globali tra i più poveri del mondo siano una mera correlazione, o che siano primariamente una conseguenza della filantropia e degli aiuti esteri. Qualcuno addirittura suggerisce che le nazioni più ricche del mondo siano diventate tali solo grazie al colonialismo sfruttatore. Anche se la riduzione della povertà e l’aumento dell’aspettativa di vita fossero stati il risultato della filantropia e degli aiuti, questi settori esisterebbero comunque grazie alle aziende orientate verso il profitto. E, ovviamente, ci sono diversi esempi di tigri economiche che non hanno utilizzato il colonialismo per ottenere il loro successo economico, dall’Estonia post-sovietica a una qualsiasi delle Tigri asiatiche.

No, l’aumento nella crescita globale è primariamente dovuto a un incremento di produttività ottenuto dal liberalismo. Una Bibbia antecedente a Gutenberg che necessitava di 136 giorni per essere stampata può ora essere prodotta in migliaia di unità in minuti. “Il capitale è diventato produttivo perché necessitava di idee per il miglioramento“, scrive lo storico dell’economia Deirdre McCloskey, “le idee applicate da un carpentiere di provincia, da un ragazzo telegrafista o da un genio del computer di Seattle”, come direbbe Matt Ridley, sono tutte idee che fanno l’amore in un fertile suolo imprenditoriale. La produttività aumenta seguendo regole e procedimenti migliori: le regole sono le istituzioni più accoglienti verso gli imprenditori e i procedimenti sono la conoscenza che permette ai produttori di generare maggiore abbondanza con meno risorse. La domanda è ora, come tenere in moto questa crescita?

L’evoluzione del liberalismo: la nicchia

Solo trentacinque anni fa, 350.000 persone vivevano in una città costiera sul Golfo persico. Oggi, quella popolazione è lievitata a 3 milioni. Con una così sbalorditiva prosperità, Dubai ha cambiato la sua costa e ha aggiunto terra artificiale, edifici e porti. Un’immediata implicazione del successo? Fare di più

Costituire nicchie è sempre stata una delle vie più proficue per portare a una crescita economica mai concepita. I critici sostengono che l’ordinamento liberale sia stato guidato principalmente da una setta politica chiamata “Washington Consensus”. Tuttavia, risulta che molti dei cambiamenti siano stati presi da saggi competenti internamente a paesi in via di sviluppo, probabilmente meravigliati dal fantastico rendimento di economie di nicchia come Hong Kong. Quella città-stato, costruita su un’isola rocciosa, è stata lasciata a prosperare in una struttura di ottime regole gestita dal Segretario delle finanze britannico, Sir John Cowperthwaite.

“Sono arrivato a Hong Kong e ho trovato un’economia che funzionava correttamente. Perciò l’ho lasciata com’era”, ha detto prima della sua morte. Le semplici regole del governo disinteressato di Cowperthwaite al tramonto dell’Impero britannico hanno dato origine a una splendente città-stato che il mondo oggi ammira.

Da quando la piccola città irlandese di Shannon ha istituito la prima speciale zona economica (SEZ) del mondo nel 1959, altri paesi hanno seguito adattandosi. La Cina sotto Deng Xiaoping ha istituito alcune tra le più profittevoli SEZ del globo, includendo la sua prima, Shenzhen, nel 1979. Altri hanno copiato. La loro prestazione ha trainato più persone fuori dalla povertà di qualsiasi altra riforma nella storia dell’uomo.

Il lato negativo delle SEZ tradizionali, tuttavia, è che la maggior parte permettono solamente un’esenzione da tasse e dazi. Per tutti gli altri problemi maggiori, includendo la risoluzione di dispute commerciali, si necessita ancora di aver a che fare con stati agitati e a volte corrotti. (Dubai ha evitato questo problema stabilendo un sistema di risoluzione delle dispute commerciali chiamato DIFC, che sostanzialmente importa la Common Law del Regno Unito).

Con la SEZ tradizionale, non si è sullo stesso piano per vedere i tipi di sperimentazione necessari per scoprire nuove idee di governo. La maggior parte delle SEZ ha modelli che, nonostante funzionino, mantengono alcuni dei più corrosivi aspetti del neoliberalismo ibrido, la cui corruzione (ancora una volta) è stata predetta dai liberali.

Libere città private: il prossimo passo

Nell’interesse della piena divulgazione, non sono solo un appassionato difensore delle giurisdizioni speciali, sto dirigendo un’organizzazione che aiuterà a portare queste libere città private alla luce. E sì, le negoziazioni con i governi interessati sono già cominciate.

Perciò, cos’è una libera città privata? Si immagini una compagnia privata che offre gli stessi servizi di base di uno Stato, come la protezione della vita, della libertà e della proprietà all’interno di un territorio. Viene pagato una certa spesa per quei servizi. I diritti e gli obblighi sono stabiliti in un contratto con il fornitore. I conflitti sulla sua interpretazione vengono gestiti da una mediazione indipendente. Così, in quanto parte del contratto, si è sullo stesso piano del fornitore di servizi governativo. La propria posizione legale è assicurata, piuttosto che essere soggetta ai capricci della politica.

Perché le Libere città private a fronte di un classico modello di governo? Ci sono 6 ragioni:

  1. Certezza. L’operatore cittadino non può stabilire il contratto unilateralmente. Le chiare, stabili e comprensibili regole del gioco (risultato di un contratto stilato tra il cittadino e la città) si riducono a quello che l’economista Robert Higgs ha definito “incertezza del sistema politico“. Una tale chiarezza e stabilità rende più facile che gli investitori mandino capitali a supporto delle nascenti imprese.
  2. Ricorso. Sotto la condizione di “immunità sovrana” i cittadini hanno poco ricorso quando la polizia o le autorità abusano del loro potere. Il governo giustifica la sua autorità appellandosi a un astratto “contratto sociale“. Nuovi governi rivendicando mandati per il cambiamento, possono rendere la vita difficile alle persone ordinarie e alle aziende. La loro unica rivalsa è pregare per il cambiamento al prossimo ciclo di elezioni, se ce n’é uno. In una Libera città privata, il contratto è reale.
  3. Grandezza. Qual è la dimensione ottimale dell’ordinamento? Quanto dovrebbero essere estese demograficamente le Libere città private? Le risposte a queste domande sono dibattibili, ma quando si considera che alcune tra le società più stabili e prosperose sono piuttosto ristrette, come Hong Kong, Dubai e il Lussemburgo, c’è un grande sbilanciamento anedottico in favore di governi bottom-up e sviluppati specificatamente per il luogo.
  4. Competizione: la differenza tra un insieme di piccoli ordinamenti e uno massiccio e monolitico è che, nel primo, si ottiene il pluralismo, la sperimentazione e la competizione. In breve, se non ti piace Hong Kong puoi scegliere di cambiare rotta.
  5. Sperimentazione. Il premio Nobel laureato in economia Douglass North ricorda che “l’organizzazione che nasce rifletterà le opportunità date dalla matrice istituzionale”. A seconda delle regole, è più facile ottenere più pirateria o più produttività. Ma per trovare quella che funziona meglio è necessario provare diversi esperimenti.
  6. Responsabilità. Gli incentivi per gli operatori delle Libere città private sono radicalmente differenti dagli stati ereditari. Per prima cosa, l’operatore ha interessi economici diretti nel successo della comunità. Secondo, l’operatore può essere ritenuto responsabile per gli errori e non può nascondere la responsabilità o i costi di spostamento. Alla fine, i clienti insoddisfatti se ne andranno.

Non mi illudo che le parole “libero” e “privato” portino con sé certi stigmi. Tuttavia, quando si considera che il privato in questo contesto significa fornitura su base contrattuale sia di beni privati che locali, molti pregiudizi dovrebbero sparire.

Fattibilità

Alcuni potrebbero dire che tutto questo sia solo un desiderio. Dopotutto, perché dovrebbero voler essere coinvolti gli stati esistenti, il cui consenso è necessario? Come con le Libere città imperali nel Medioevo, c’è una sola ragione: l’interesse personale. Gli stati potrebbero anche accettare di cedere parte (non tutta) della loro sovranità su un determinato territorio se ne traessero beneficio. E ne trarrebbero.

Si guardi Hong Kong, Singapore o Monaco. Vicino a ciascuna è cresciuta una cintura di prosperità negli stati confinanti. I loro abitanti pagano le tasse negli stati confinanti. Le città-stato creano posti di lavoro anche per i pendolari dagli stati confinanti che magari rimarrebbero disoccupati. Se una Libera città privata è creata in un’area precedentemente inabitata o strutturalmente debole, allora lo stato ospite non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare.

Ci potrebbero essere circostanze in cui le Libere città private siano una soluzione credibile, come l’istituzione di zone di sicurezza o città per i rifugiati in zone di precedente guerra civile. In quei casi potrebbe essere ancora meglio affidare l’amministrazione della zona a un’entità imparziale e responsabile.

Il liberalismo sotto assedio

Sembrerebbe che oggi l’ordine liberale sia assalito dai lupi. Premature reminiscenze del ventesimo secolo, autoritari sia nazionalisti che socialisti che attaccano da tutti i lati. Ma l’evoluzione del liberalismo può bilanciare i problemi di entrambi, lasciando spazio sia alla autodeterminazione culturale che al comsmopolitismo; una robusta vita commerciale e protezione per i deboli.

Lo scrittore Zach Beauchamp difende l’ordinamento liberale abilmente a Vox:

“Appurato che le persone saranno sempre in disaccordo sulla politica, l’obiettivo principale del liberalismo è di creare un meccanismo generalmente accettabile per risolvere le dispute politiche senza l’uso di coercizione non necessaria. Dare a tutti la possibilità di esprimersi nel governo per mezzo di procedure giuste, per fare in modo che i cittadini acconsentano all’autorità dello stato anche quando non sono d’accordo con le sue decisioni”.

E questo modo di affrontare il pluralismo è sempre stato una forza dell’ordinamento liberale, finché quelle procedure giuste non sono state accantonate. Il prossimo passo dell’evoluzione liberale arriverà migliorando le procedure.

In questo modo, la privatizzazione della legge, per piccole e sperimentali giurisdizioni come le Libere città private, sarà l’ultimo passo del liberalismo. La legge verrà testata all’interno di un paesaggio idoneamente evolutivo, cosicché solo le leggi buone sopravvivano.

Alcuni direbbero che questa forma di liberalismo sarebbe utile solo a frammentare ulteriormente le società. Io rispondo che nel processo di creazione di nuove nicchie, stiamo cercando forme di governo che daranno alla luce società stabili che accolgano differenti concezioni del bene. Dopotutto, nessuna soluzione è quella corretta per tutti. Ed è precisamente per questo che il liberalismo diventa quella sovrastruttura che unisce le diverse comunità, culture e relazioni commerciali.

Nessun’altra forma di governo può pretendere ciò. Ed ecco perché nessun’altra forma trionferà nel lungo termine.

 

Traduzione a cura di Francesco Dalla Bona

Libro Cartaceo:
Ebook Kindle:

Dati vs socialismo: la sanità privata non è il problema

Quante volte in questi giorni avrete letto commenti del tipo: “La Lombardia è l’esempio del fallimento della sanità privata e del problema dei tagli alla sanità pubblica”. Sarei pronto a scommettere €100 che almeno uno di questi criticoni una visita in un ospedale privato lombardo se l’è fatta: centri d’eccellenza come l’Humanitas, i vari ospedali del Gruppo San Donato, la Columbus, l’Auxologico, il Monzino e lo IEO sono privati e vedono un ampio via vai anche dalle altre Regioni quando non dall’estero.

Si imputa al privato la scarsità di terapie intensive in Lombardia. Ma, in realtà, i posti letto in Lombardia sono in linea con quelli italiane e sono di più di quelli di certe regioni del Meridione. Solo il Friuli Venezia Giulia si allontana significativamente, in meglio, dalla media italiana.

Parlando di terapie intensive, se è vero che esistono regioni con più terapie intensive per abitante della Lombardia (ma spesso nelle piccole regioni meridionali è relativamente più facile vista la scarsa densità di abitanti, bastano due ospedali, come in Molise), è anche vero che anche i privati hanno le terapie intensive e che alcune sono ampiamente specialistiche. Ma, come ben spiega Elisa Serafini, di media il servizio privato costa meno di quello pubblico. Quindi, paradossalmente, se avessimo voluto quei posti nel pubblico con la stessa spesa, beh, ne avremmo di meno.

Ma concentriamoci a guardare le altre sanità con più letti in terapia intensiva delle nostre. Potremmo parlare anche di mondo, consiglio l’articolo, qui tradotto, di Mises.org sulla sanità Sudcoreana, ma parliamo di Europa. Questo studio ci offre una statistica interessante.

Fig. 1

I campioni sono Germania, Lussemburgo e Austria. Germania e Austria hanno una sanità modello Bismarck con molti ospedali privati, la sanità del Lussemburgo è in stile Bismarck, ma ha quasi solo ospedali pubblici, in Romania c’è il Beveridge come in Italia ma, va detto, il sistema soffre di enormi diseguaglianze – a Bucarest ci sono ospedali di enorme qualità mentre nella provincia sono substandard – in Belgio c’è un Bismarck con ospedali come enti no profit, in Lituania c’è una sanità largamente pubblica, la Croazia ha un modello similfrancese con assicurazione minima statale più assicurazione opzionale e simile è il modello ungherese, mentre l’Estonia ha un sistema Beveridge come il nostro.

Se non vedete una correlazione, tranquilli, è semplicemente perché non c’è. Nel contesto europeo avere un sistema Bismarck o un sistema Beveridge di per sé è completamente indifferente rispetto al numero di posti letto o dei posti in terapia intensiva. Contano altri fattori quali l’investimento specifico nel campo della terapia intensiva o nella gestione delle pandemie parainfluenzali.

Il dato specifico non premia, in sostanza, né Beveridge né Bismarck, né la sanità centralizzata né quella decentralizzata. Non esiste evidenza che tornando al caro SSN centralizzato tutto pubblico si possano aumentare i posti in terapia intensiva, seppur ciò farebbe quasi sicuramente calare la qualità generale visto che in termini qualitativi i sistemi Beveridge più sono accentrati più perdono in qualità e, inoltre, eliminerebbe gran parte delle eccellenze che effettivamente ci rendono concorrenziali nel mondo.

Che cos’è il Minarchismo: lo Stato Minimo e il Guardiano Notturno

Il minarchismo è una teoria politica libertariana che si fonda sull’esistenza di uno Stato Minimo, ridotto entro rigorosi limiti di legittimità, e che non presuppone la cessione di competenze allo Stato oltre a: ordine pubblico, giustizia e difesa del territorio.

Il termine è stato coniato da Samuel Edward Konkin III per distinguere, fra i libertari, gli anarco-capitalisti da quelli che parteggiano per la presenza di uno Stato con funzioni limitate.

Uno stato minimale, strettamente limitato alle funzioni di protezione contro la violenza, il furto, la frode e garante del rispetto dei contratti privati, è giustificato. Qualsiasi estensione di queste funzioni viola il diritto delle persone a non essere costrette, ed è quindi ingiustificata. 

(Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia , 1974)

Quali sono le cose che gli uomini hanno il diritto di imporsi l’un l’altro con la forza? Ne conosco solo una: la giustizia. Non ho il diritto di costringere nessuno a essere religioso, caritatevole, educato, laborioso; ma ho il diritto di costringerlo ad essere giusto: questo è il caso dell’autodifesa. Ma nella comunità di individui non può esistere alcun diritto che non pre-esista negli individui stessi […] L’azione di governo è essenzialmente limitata all’ordine, alla sicurezza, alla giustizia. 

(Frederic Bastiat, Avviso alla Gioventù, 1830)

Parliamo quindi di un Guardiano Notturno. Talvolta, i minarchici assegnano allo Stato anche le infrastrutture essenziali, come le strade, ma altri ambiti molto preminenti come l’istruzione, la salute o il controllo della moneta continuano ad emergere come iniziativa privata.

I poteri dello Stato Minimo

Lo stato minimo è uno stato con poteri sovrani (tasse, polizia, giustizia, esercito) che si occupa di alcune funzioni aggiuntive quali la manutenzione delle reti stradale, elettrica, ferroviaria, ecc. La moneta e l’educazione sono gestite dal settore privato.

Concedere allo Stato un numero limitato di  funzioni non è sufficiente per parlare di stato minimo in senso stretto. In effetti, è anche importante che le prerogative dello Stato in ciascuno di questi ambiti decisionali siano severamente circoscritte.

Ad esempio, il ruolo di sicurezza del governo non può giustificare il monitoraggio dei suoi cittadini come potenziali sospetti. Superando questo limite, lo stato non è più uno stato minimo. Questo è il motivo per cui, per ragioni di accuratezza, lo stato minimo dovrebbe essere definito come uno stato con poteri sovrani limitati.

Secondo Ayn Rand, un governo deve assumere solo tre funzioni: la polizia (per proteggere i cittadini dai criminali), la difesa (per proteggerli dall’invasione straniera) e la giustizia (per risolvere i conflitti in base a leggi oggettive). Qualsiasi altra funzione del governo richiederebbe l’uso coercitivo della forza e sarebbe quindi immorale. Anche secondo questa definizione, lo stato minimo implica necessariamente un governo limitato.

L’idea dello Stato Minimo dei Liberali Classici è, dunque, stata ereditata dai libertari minarchisti, il cui rappresentante più famoso, Robert Nozick, definisce due condizioni necessarie per l’esistenza dello Stato:

  1. Un monopolio di fatto sull’uso o l’autorizzazione dell’uso della forza in un dato territorio (stato ultra-minimo);
  2. Protezione estesa a tutti gli abitanti di questo territorio (stato minimo).

Per Frédéric Bastiat, lo stato minimo è una condizione imperativa per la salvaguardia dei diritti individuali:

Anche lo Stato è soggetto alla legge malthusiana. Tende a superare il livello dei suoi mezzi di esistenza, cresce in proporzione a questi mezzi. Guai a chi non saprà come limitare la sfera di azione dello Stato. Libertà, attività privata, ricchezza, benessere, indipendenza, dignità… tutto ciò finirà.

Contrariamente all’argomento di Locke che giustifica moralmente l’esistenza dello stato perché il mercato non potrebbe fornire i beni pubblici necessari per la sicurezza della società (polizia e giustizia), Hasnas[1] indica che il compito dello Stato non è quello di fornire questi beni pubblici, ma di garantire che tali servizi siano forniti, sostenendo che è impossibile giustificare un monopolio a priori, come la produzione di questi servizi da parte dello Stato.

Confronto con l’anarco-capitalismo

Mentre gli anarco-capitalisti credono nella possibilità di un mercato diversificato della sicurezza, i minarchisti credono che la sicurezza sia un monopolio naturale e che in una situazione di anarchia le agenzie di protezione in competizione finirebbero per federarsi in un’unica singola azienda dominante.

Secondo Nozick, tale agenzia dominante corrisponde a uno stato minimale prodotto dall’ordine spontaneo (senza un contratto sociale!). L’agenzia dominante riesce, grazie al suo monopolio di fatto, a far rispettare il divieto di utilizzare procedure legali non approvate da essa. L’agenzia dominante si trasforma in uno stato minimo offrendo protezione gratuita a coloro che sono svantaggiati dal suo monopolio di fatto sulle procedure giudiziarie.

Alcuni anarco-capitalisti come Murray Rothbard contestano questo tipo di scenario. Da un lato non vedono come possa nascere uno stato ultra-minimale (“concezione immacolata” dello stato, secondo Rothbard), né, d’altro canto, perché un’agenzia dominante emergerebbe necessariamente, e cosa impedirebbe in seguito l’emergere di concorrenti di questa agenzia. D’altra parte, gli anarco-capitalisti dubitano che lo stato minimo resti minimo all’infinito:

I fautori del governo limitato spesso difendono l’ideale di uno Stato di sopra della mischia che non prende le parti o che non ostenta il suo potere, un “arbitro” che potrebbe decidere in modo imparziale tra le varie fazioni della società. Ma per quale motivo gli uomini di stato dovrebbero comportarsi in questo modo? Dato il loro potere senza un contrappeso, lo Stato e i suoi leader agiscono per massimizzare il loro potere e la loro ricchezza, e quindi inevitabilmente tendono a superare i propri presunti”limiti”. Ciò che è importante è che l’utopia dello stato limitato e del liberalismo non fornisce alcun meccanismo istituzionale per contenere lo stato entro questi limiti. Eppure la sanguinaria storia dello Stato avrebbe dovuto dimostrare che tutti i poteri vengono necessariamente superati e abusati.

Murray N. Rothbard

Dal momento in cui ammetti che lo stato, in quanto monopolista territoriale con potere di tassazione e in grado di prendere decisioni definitive, è qualcosa di cui hai bisogno, non hai modo di limitare il suo potere affinché rimanga uno stato minimale. Supponendo semplicemente che i leader tendano a promuovere i propri interessi, è chiaro che qualsiasi stato minimo tende a diventare uno stato massimo, nonostante le disposizioni costituzionali che si oppongono ad esso. Dopo tutto, la Costituzione deve essere interpretata, ed è interpretata da una Corte Suprema, cioè da un ramo dello stesso governo il cui interesse è quello di espandere il potere dello Stato, e per lo stesso motivo il suo stesso potere.

Hans Hermann Hoppe

Confronto con il Liberalismo Classico

Alla luce delle definizioni riportate in questa pagina, sembra che il minarchismo difenda gli ideali del Liberalismo Classico. La denominazione Minarchismo fu usata dagli autori anglosassoni degli anni ’70 (ma in misura molto minore del termine libertarismo ) per distinguersi dall’uso molto social-democratico del termine liberalismo e dai liberals, i quali non hanno nulla a che vedere coi liberali.

Autori minarchici

John Locke, Wilhelm Von Humboldt, Thomas Jefferson, Frédéric Bastiat, Auberon Herbert, John Prince Smith, Herbert Spencer, James M. Buchanan, Richard Epstein, Ludwig von Mises, Charles Murray, Robert Nozick, Ayn Rand, Leonard Read, Thomas Szasz.

Note:

[1]: John Hasnan, Alcune riflessioni sullo Stato Minimo.

Cos’è una libera città privata?

Immaginate che un’azienda privata vi offra i servizi di base di uno Stato, ovvero la protezione della vita, della libertà e della proprietà in un territorio definito. Per questi servizi pagate un certo importo all’anno. I vostri rispettivi diritti e doveri sono stabiliti in un accordo scritto tra voi e il fornitore. Per tutto il resto, fate quello che volete. In questo modo, siete una parte contraente su un piano di parità con una posizione legale garantita, invece di essere soggetti alla volontà del governo o della maggioranza che cambia sempre. Ne diventate parte solo se vi piace l’offerta.
Analizziamo il mercato della governance: gli stati esistono, almeno in parte, perché c’è una domanda per loro. Uno Stato che funziona offre un quadro stabile di legge e ordine, che permette la coesistenza e l’interazione di un gran numero di persone. Questo è talmente attraente che la maggior parte delle persone è disposta ad accettare in cambio limitazioni significative della propria libertà personale. Probabilmente anche la maggior parte dei nordcoreani preferirebbe rimanere nel proprio Paese, piuttosto che vivere liberi ma soli come Robinson Crusoe su un’isola remota. Gli esseri umani sono animali sociali.

Tuttavia, se si potessero offrire i servizi di uno Stato ed evitare i suoi svantaggi, si potrebbe creare un prodotto migliore. Ma dopo decenni di attività politica, sono giunto alla conclusione che la vera libertà, nel senso di volontarietà e autodeterminazione, non può essere raggiunta armeggiando con gli Stati esistenti attraverso il processo democratico. Semplicemente non c’è abbastanza domanda per questi valori. Tuttavia, qualcuno potrebbe offrire questo come prodotto di nicchia per le parti interessate. Potrebbe essere possibile per le aziende private fornire tutti i servizi necessari che il governo normalmente monopolizza. Io ho avviato una società di questo tipo: Free Private Cities Ltd (freeprivatecities.com).

Libro Cartaceo:
Ebook Kindle:

IL MERCATO DELLA CONVIVENZA
Tutto ciò che sappiamo dal libero mercato potrebbe essere applicato a quello che io chiamo il “mercato della convivenza”: lo scambio volontario (compreso il diritto di rifiutare qualsiasi offerta), la concorrenza tra i prodotti e la conseguente diversità della gamma di prodotti. Un “fornitore di servizi statali” o “fornitore di servizi governativi” potrebbe offrire un modello specifico di convivenza all’interno di un territorio definito e solo coloro che amano l’offerta vi si stabiliscono. Tali offerte devono essere attraenti, altrimenti non ci saranno clienti.
E questa è esattamente l’idea di una Città Privata Libera: un’impresa privata volontaria, a scopo di lucro, che offre protezione per la vita, la libertà e la proprietà in un determinato territorio – migliore, più economica e più libera dei modelli statali esistenti. La residenza dipenderebbe da un rapporto contrattuale predefinito tra i residenti e il gestore. Monaco è oggi molto vicina ad una Città Libera Privata: Sovrana, competitiva e volontaria.

Una Città Libera Privata come la propongo io si basa sui seguenti principi:
1) Ogni residente ha il diritto di vivere una vita indipendente senza l’interferenza di altri.
2) L’interazione tra i residenti avviene su base volontaria, non basata sulla coercizione. La partecipazione e la permanenza nella Città Libera Privata è strettamente volontaria.
3) I rispettivi diritti degli altri devono essere rispettati, anche se non si ama il loro stile di vita o il loro atteggiamento.
4) Esiste una completa libertà di parola con una sola eccezione: Se si promuove l’espropriazione o la violenza contro gli altri, bisogna andarsene. La critica pura e semplice di altre persone, ideologie, religioni, ecc. deve essere accettata: “Sentirsi oltraggiati” non giustifica alcuna limitazione della libertà di parola.
5) Il gestore della Città Libera Privata garantisce un quadro normativo stabile e un’infrastruttura di base, che comprende l’istituzione di una polizia, i vigili del fuoco, il soccorso d’emergenza e, inoltre, l’istituzione di un quadro giuridico e di tribunali indipendenti, in modo che la proprietà della proprietà sia registrata in modo vincolante e i residenti possano far valere le loro legittime rivendicazioni in un processo regolamentato, se non sono in grado di accordarsi sull’arbitrato.
6) Il quadro di riferimento è stabilito tra i residenti e il gestore in un contratto che detiene tutti i rispettivi diritti e obblighi. Ciò include il corrispettivo per ogni abitante per i servizi del gestore. Ogni residente ha diritto all’esecuzione del suo contratto e può chiedere il risarcimento dei danni per inadempimento. Questo contratto è fondamentalmente la propria “costituzione” personale, che è superiore a tutte le costituzioni esistenti, poiché non può essere modificato unilateralmente in seguito, né dal gestore né dalla maggioranza dei voti.
7) Tutti i residenti adulti sono responsabili delle conseguenze delle loro azioni, non la “società” o il gestore. Anche in questo caso, non esiste un “diritto umano” a vivere a spese degli altri.
8) I conflitti di interesse tra residenti o tra residenti e l’operatore sono negoziati da tribunali indipendenti o da tribunali arbitrali. Le loro decisioni devono essere rispettate. Vale a dire, i conflitti con l’operatore, ad esempio per quanto riguarda l’interpretazione del contratto, vanno all’arbitrato, non ai tribunali dell’operatore.
9) Non vi è alcun diritto legale ad aderire alla Città Libera Privata. L’operatore può rifiutare i candidati a sua discrezione. Le persone che dichiarano apertamente opinioni non compatibili con una società libera, ad esempio socialisti, fascisti o islamisti, o noti criminali, non saranno ammessi.
10) Ogni residente può rescindere il contratto in qualsiasi momento e lasciare di nuovo la città, ma l’operatore può – dopo un periodo di prova – cancellarlo solo per giusta causa, come per violazione delle regole di base.

Le città private gratuite non sono intese come un rifugio per i ricchi. Se gestite correttamente, si svilupperebbero sulla falsariga di Hong Kong, offrendo opportunità sia ai ricchi che ai poveri. I nuovi residenti che sono disposti a lavorare ma senza mezzi potrebbero negoziare un rinvio dei loro obblighi di pagamento, e i datori di lavoro che cercano una forza lavoro potrebbero assumere i loro obblighi contrattuali di pagamento. L’incentivo per il gestore di una Città Libera Privata sarebbe il profitto: offrire un prodotto attraente al giusto prezzo.

Questo includerebbe alcuni beni pubblici, come già detto, nonché alcune infrastrutture, un ambiente pulito e una serie di regole sociali, ma il servizio principale dell’operatore è quello di garantire che l’ordine libero non venga disturbato e che la vita e la proprietà dei residenti siano sicure. In pratica, l’operatore può garantire questo solo se è in grado di controllare chi sta arrivando (prevenzione) e ha il diritto di buttare fuori i disturbatori (reazione). Per tutto ciò che va oltre questo quadro, ci sono imprenditori privati, assicurazioni e gruppi della società civile.
Naturalmente, tutte le attività terminano quando i diritti degli altri vengono violati. Oltre a questo, il correttivo corretto è la concorrenza e la domanda.

CONCORRENZA E USCITA
La minaccia della concorrenza porterà una protezione sufficiente ai residenti? Considerate questo: il Principato di Monaco è una monarchia costituzionale. Esso concede zero diritti di partecipazione politica ai residenti senza cittadinanza monegasca – circa l’80% della popolazione, me compreso. Ciononostante, ci sono molti più candidati alla residenza di quanto possa richiedere il piccolo mercato immobiliare di questo piccolo luogo (due chilometri quadrati). Perché è così? Tre motivi: a Monaco non ci sono imposte dirette per i privati, è estremamente sicuro e il governo vi lascia in pace.

Se il Principato di Monaco cambiasse questa situazione, le persone si sposterebbero in altre giurisdizioni. Così, nonostante la posizione formale di grande potere del principe, la concorrenza con le altre giurisdizioni – non la separazione dei poteri, non una costituzione e non il voto – garantisce la libertà dei residenti.
Simile nelle libere città private: se il fornitore del governo si attiene ai suoi pochi fondamentali ambiti, non c’è bisogno di partecipazione politica. L’idea è di avere la massima autodeterminazione possibile, non di garantire la massima partecipazione. Di conseguenza, non c’è bisogno neanche dei parlamenti. Piuttosto, tali organi rappresentativi sono un pericolo costante per la libertà, poiché gruppi d’interesse speciali li dirottano e li trasformano inevitabilmente in negozi self-service per la classe politica.

La concorrenza si è dimostrata l’unico metodo efficace nella storia dell’umanità per limitare il potere. In una libera città privata, il contratto e l’arbitrato sono strumenti efficaci a favore dei residenti. Ma in ultima analisi, sono la concorrenza e la possibilità di una rapida uscita che garantiscono che l’operatore rimanga un fornitore di servizi e non diventi un dittatore.
Una Città Libera Privata non è un’idea utopica e costruttivista. Si tratta piuttosto di modelli di business i cui elementi sono già noti e che vengono semplicemente trasferiti ad un altro settore, ovvero il mercato della convivenza. In sostanza, l’operatore è un mero fornitore di servizi che stabilisce e mantiene il quadro entro il quale la società può svilupparsi, con esito aperto. L’unico requisito permanente a favore della libertà e dell’autodeterminazione è il contratto con l’operatore.

Solo questo contratto crea obblighi obbligatori: ad esempio, i residenti possono concordare l’istituzione di un consiglio. Ma anche se il 99% dei residenti sostiene l’idea e si sottomette volontariamente alle decisioni del consiglio, questo organismo non ha il diritto di imporre le sue idee al restante 1%.Pensate a idee come il finanziamento di una piscina pubblica, un sistema di sicurezza sociale o la fissazione di un salario minimo. E questo è il punto cruciale, che ha fallito regolarmente nei sistemi passati e presenti: la garanzia permanente della libertà individuale.

COME INIZIARE
Per avviare questo progetto è necessario garantire l’autonomia dalle sovranità esistenti. Non deve necessariamente comportare una completa indipendenza territoriale, ma deve includere il diritto di regolare gli affari interni della città. La creazione di una Città Libera Privata richiede quindi prima un accordo con uno Stato esistente. Lo Stato genitore concede all’operatore il diritto di istituire una Città Libera Privata e di stabilire regole proprie all’interno di un territorio definito, idealmente con accesso al mare e precedentemente disabitato.

Gli Stati esistenti possono essere venduti su questo concetto quando possono aspettarsi di trarne benefici. Le quasi-città stato di Hong Kong, Singapore e Monaco hanno un cordone di aree densamente popolate e ricche adiacenti ai loro confini. Queste aree fanno parte degli stati genitori e i loro residenti pagano le tasse alla madrepatria. Ora, se tali strutture si formano intorno a un’area precedentemente sottosviluppata o non popolata, questo è un guadagno per lo stato madre. Negoziare con un governo per rinunciare a una parziale sovranità non è certamente un compito facile, ma è a mio avviso più promettente dei tentativi di “cambiare il sistema dall’interno”. Le città private gratuite sono molto più di una bella idea per poche persone ai margini. Hanno il potenziale per sottoporre gli stati esistenti alla distruzione creativa.

Se le Città Libere Private si svilupperanno in tutto il mondo, metteranno gli stati sotto una notevole pressione per cambiare i loro sistemi verso una maggiore libertà, altrimenti potrebbero perdere cittadini ed entrate. E questo è proprio l’effetto positivo della concorrenza che finora è mancato nel mercato statale. Non tutte le Libere Città Private devono conformarsi alle mie regole ideali. Sono concepibili città specializzate che offrono previdenza sociale o che si occupano di specifiche preoccupazioni religiose, etniche o ideologiche. In questo quadro, anche i socialisti sarebbero liberi di cercare di dimostrare che il loro sistema, fatto a regola d’arte, funziona davvero. Ma questa volta una cosa è diversa: nessuno sarebbe costretto a soffrire di questo (o di qualsiasi altro) esperimento sociale. La sovrastruttura dell’associazione di volontariato permette a molti sistemi diversi di prosperare.

Data la partecipazione volontaria, tutto è possibile. Questa semplice regola ha il potenziale per disarmare e trasformare anche un’ideologia totalitaria in un unico prodotto tra tanti. Credo fermamente che le libere città private o regioni autonome simili siano inevitabili. Le persone di tutti i gruppi sociali ed economici non accetteranno per sempre di essere saccheggiate, maltrattate e trattante con sufficienza dalla classe politica, senza mai avere una scelta significativa. Le Città Libere Private sono un’alternativa pacifica e volontaria che può trasformare le nostre società senza rivoluzione o violenza – o addirittura senza il consenso della maggioranza. La mia ipotesi: vedremo la prima Città Libera Privata nei prossimi dieci anni.
Spero di vedervi lì.

Traduzione a cura di Gianmaria Dinaro

Libro Cartaceo:
Ebook Kindle:

Costruire le città del futuro

In che modo le nuove tecnologie e i nuovi modelli di gestione trasformeranno radicalmente la gestione cittadina da come noi la conosciamo.
Quando giunge il momento di aggiornare il modo in cui agiscono, i governi sono in ritardo rispetto alle organizzazioni private. Mentre le aziende rinnovano costantemente i loro modelli organizzativi, la maggior parte delle città è ferma a strutture governative secolari. Ma cosa potrebbe succedere se potessimo gestire le città come fossero delle compagnie?

Le nuove strutture legali potrebbero essere viste come social technologies. Pensiamo a Smart City e a piattaforme di E-Governance come al lato hardware. Per esempio, la distribuzione elettrica, l’illuminazione e i servizi di trasporto sono tutti diventati più efficienti grazie all’innovazione. Abbiamo potuto vedere molti progressi nei servizi cittadini, ma non nel modo in cui le città sono gestite e funzionano.

In altre parole, la legge e l’amministrazione sono i sistemi operativi delle città che, tuttavia, non vengono aggiornati da molto tempo. Quello su cui dovremmo focalizzarci, allora, è il lato software. Però, non servirà a molto se abbiamo piattaforme digitali del ventunesimo secolo ma sistemi legali del diciannovesimo. Siamo ancora in ritardo. Il problema è che le nostre strutture giuridiche sono troppo rigide per essere innovate. Se vogliamo che il governo sia più innovativo, dovremmo osservare come le startup innovano. “Sono piccole, sperimentali, e responsive”, dice Max Borders, autore di The Social Singularity. “Se falliscono, forniscono un precedente da cui imparare; se hanno successo, le startup creano ricchezza”.

Borders è parte del movimento Startup Societies, che richiede più sperimentazione nell’ambito della governance. La piccola nazione di Liberland, il modello abitativo galleggiante ideato dal Seastanding Institute, e le charter cities americane fanno tutte parte di questa categoria. Per quale motivo? Perché hanno una cosa in comune: stanno provando a portare competizione nella sfera pubblica trattando la gestione statale come un fenomeno di mercato.
A qualcuno ciò potrebbe sembrare una posizione abbastanza radicale, ma consideriamo che questo sta già accadendo in una certa misura.

Le Associazioni dei padroni di casa (HOAs) e i condomini sono in continua crescita negli Stati Uniti, sia per quanto riguarda i residenti che per l’offerta di servizi proposta. Città innovative come Sandy Springs in Georgia hanno provato che è possibile avere una gestione privata dei servizi cittadini. Inoltre, molte SEZ (Special Economic Zones) hanno anche implementato servizi di sicurezza privati.

Con il numero di SEZ in crescita, la possibilità di esperimenti territorialmente limitati per quanto riguarda la gestione governativa sta aumentando. In giro per il mondo, almeno l’80% percento di tutti i paesi ha una SEZ di qualche tipo. Alcuni paesi hanno addirittura più SEZ, in competizione l’una con l’altra. È solo una questione di tempo prima che una compagnia privata lanci il suo prototipo di città.

Alcuni già si stanno avventurando in questo campo…
Come, per esempio, Titus Gebel, CEO di Free Private Cities. Gebel sta tentando di realizzare l’idea di città gestite come se fossero business. Per farlo, ha cercato di stabilire una speciale zona autonoma gestita da una compagnia, che secondo lui porterà lo spirito imprenditoriale nella gestione pubblica.

“Questo è un modello completamente nuovo del vivere insieme. Queste città avranno un incentivo economico ad essere innovative. Invece di essere soffocate da regolazioni obsolete, gli innovatori potranno agire in un quadro legale adattato ai loro bisogni. In questo modo si crea ricchezza” dice Gebel.

Gebel ha avuto la possibilità di lavorare con alcune delle ultime tecnologie per l’e- governance, incluse quelle che stanno venendo sviluppate per i progetti di zone autonome in America centrale. Questi modelli usano blockchain come un metodo per provare transazioni immobiliari, andate molto oltre la tradizionale proprietà.

“I proprietari possono commerciare direttamente tra loro gli spazi aerei e le quote di emissione, senza il bisogno di un intermediario statale”, fa notare. “Nella sfera pubblica, stanno avvenendo dei cambiamenti strutturali” , aggiunge Gebel. “Tecnologie rivoluzionarie, come blockchain, stanno ingrandendo la sfera della decentralizzazione, della trasparenza e dell’auto-determinazione. Questo influisce sul modo in cui concepiamo le città.”

La decentralizzazione sicuramente sembra il nuovo imperativo. Gebel e altri stanno già seguendo progetti con questo approccio, come l’ Ulex Open Source Legal System, che è essenzialmente un cloud per la Common Law. Un altro esempio è Bitnation, che emette passaporti per i cittadini del mondo e permette giurisdizioni non territoriali. Anche la gestione sta venendo influenzata dalle nuove forme organizzative come Holacracy.

Gebel è ottimista per quanto riguarda l’uso di registri distribuiti per una maggior partecipazione privata alla governance:“La possibilità di stabilire contratti quando ci si occupa della gestione di una città semplifica la vita e la rende meno burocratica. Per esempio, le tecnologie dei registri distribuiti rendono inutili notai, pubblici addetti e fanno risparmiare tempo nei passaggi di proprietà; più si può decidere da soli, meno si ha bisogno di rappresentanti statali, che, come si sa, nel tempo tendono a fare i loro interessi

Ma Gebel è scettico nel vedere questi sistemi come unico fattore di sviluppo in questo settore. Pensa che ciò comporterà un cambiamento epocale nel passaggio da strutture legali imposte dall’Ancien Régime, a quelle audaci e adattive tipiche di un settore gestionale competitivo.
Tutto ciò funzionerà? Solo il tempo ce lo potrà dire. Ma il futuro del settore governance sta cambiando sotto i nostri occhi – e i sindaci potrebbero non gradirlo.

 

Traduzione a cura di Gabriele Pierguidi

Libro Cartaceo:
Ebook Kindle:

Mitteleuropa e totalitarismo in Kafka, Kundera e Havel

Il libro di Stefano Bruno Galli “Václav Havel, Una rivoluzione esistenziale” è anzitutto il tentativo para-filosofico di capire il mondo intellettuale del Novecento ceco; un insieme di piccole storie della cultura letteraria boema e morava. Certo, la spina dorsale del libro è articolata a ridosso della vita di Václav Havel, dissidente e politico ceco, ma le punte di eccellenza della cultura e della letteratura ceca vengono altresì considerate nell’opera. Nonostante titolo e copertina del libro siano dedicati allo statista praghese, la proiezione di ricerca di Galli è più culturale che politica: è quasi una rincorsa alla ricerca di un “io” (la propria individualità) in un determinato luogo (la Mitteleuropa), attraverso lo sguardo degli scrittori – eternamente “minoranza” – Franz Kafka («intrigante esploratore del paradiso della mente») e Milan Kundera (leader dell’Unione degli scrittori cechi negli anni Sessanta, quelli pre-Primavera di Praga).

I tre intellettuali cechi sono collegati tra di loro da quello che Michael Žantovský nella prefazione del volumetto definisce come un «bisogno esistenziale dell’individuo di vivere una vita autentica e impregnata dalla consapevolezza della propria corresponsabilità verso la comunità e i destini degli altri esseri umani.» Quella che Havel definisce come “autocoscienza civile”, da opporre – e questa volta le parole solo di Kafka dal Processo – alla «repressione poliziesca, oppressione burocratica, corruzione dei funzionari di Stato, assenza di giustizia sociale, concentrazione e anonimato del potere.» Per vivere in una società veramente libera – non oppressa dall’Impero asburgico kafkiano o da quello comunista haveliano – è dunque necessaria la responsabilizzazione del singolo individuo. La sua presa di coscienza e di responsabilità lo rende libero.

In momenti diversi, i tre autori si sono sempre espressi in merito all’appartenenza cecoslovacca al blocco dell’Ovest. Affezionati ad una libertà antica che tutti e tre si videro rubare, percepivano il loro Paese e la loro cultura come profondamente occidentali. «Per il suo sistema politico, l’Europa centrale è all’Est; per la sua storia culturale, è a Occidente», avverte Kundera. In questo senso, la Cecoslovacchia è una Mitteleuropa; una terza Europa, di mezzo, di confine tra Est ed Ovest: dall’Impero Austro-Ungarico, in cui viveva Kafka, al mondo della Guerra Fredda di Kundera e Havel. Terra di confine, terra di emigrazione; mobile, simbolo di una coscienza sociale, ancor prima che un’entità culturale nel suo insieme.

«La Mitteleuropa non è uno stato, è una cultura o un destino», scrive Galli. «I suoi confini sono immaginari e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni situazione storica» (e così è accaduto: basti pensare agli eventi del 1918, del 1938 e del 1989, tre anni simbolo per la Cecoslovacchia). La Mitteleuropa è indipendenza, è «il rifiuto di una politica autoritaria e totalitaria», continua l’autore, dal momento che è un insieme di culture diverse non separabili da loro. «La Mitteleuropa è una cultura e un destino; una sorta di cittadinanza storica». La Mitteleuropa è un sogno, un’utopia, un Eldorado, uno spazio storico-culturale.

Infestata dal virus totalitario, per diversi decenni la Mitteleuropa si è come spenta ed è stata dimenticata nel panorama storico e geopolitico mondiale. Il Partito Comunista Cecoslovacco fu in grado, con il 38% dei consensi nel 1946 – e il golpe del 25 febbraio di due anni dopo, quando di lì a poco avrebbe ottenuto quasi il 90% – di monopolizzare l’orizzonte culturale del Paese. Con la nazionalizzazione di fonderie, miniere, banche e assicurazioni – nonché l’esproprio proletario – il regime si assicurò illegalmente il controllo assoluto dello Stato. L’industria culturale era preziosa in Cecoslovacchia, data anche l’assenza della televisione in molte case; essa, in qualche modo, doveva prevenire – e possibilmente evitare – la degenerazione nel totalitarismo. Quello che statalizza tutto, falsifica il passato e la realtà oggettiva, che emargina, punisce, reprime e, dove può, elimina.

I tre intellettuali cechi – tutti e tre, a loro modo, autentici dissidenti e ribelli – hanno saputo illuminare migliaia e migliaia di concittadini con il loro esempio individuale; per questo erano ritenuti pericolosi dai regimi: sia Kafka, che Kundera che Havel sono stati messi ai margini della società. Di fatti, l’intellettuale è come se fosse un dissidente ante-litteram; uomo potente e fragile allo stesso tempo, che dispone solo della parola scritta come arma di consenso per esporre le proprie idee. Secondo Havel, il dissidente – così come la figura dell’intellettuale – combatte il potere «borioso» e «anonimamente burocratico», sviluppando un’azione culturale che i cittadini elaborano. «Uno spettro s’aggira per l’Europa orientale: in Occidente lo chiamano “dissenso”», ha scritto Havel ne Il potere dei senza potere.

Negli anni Settanta «la normalizzazione aveva determinato la completa emarginazione degli intellettuali, relegati a un’esistenza clandestina», scrive Galli, dando vita ad una “polis parallela” alla nomenclatura ufficiale, alla struttura del partito e le sue appendici sociali. L’ideologia che i regimi, totalitari e post-totalitari, intendono conferire alla struttura sociale serve ad impadronirsi dell’uomo, «generando una fitta rete di menzogne e di ipocrisie, di mistificazioni e di nascondimenti della realtà». Il sistema totalitario priva i cittadini – resi sudditi, dunque schiavi – della loro libertà originaria: rivoluziona la loro esistenza. La rivoluzione esistenziale è emancipazione, ma è anche, seguendo le parole di Havel, «una mobilitazione generale della coscienza umana, dello spirito umano, della responsabilità umana, della ragione umana.»

La libertà riacquista nel 1918 (quando nacque la Cecoslovacchia sotto il segno culturale di Tomáš Masaryk) e nel 1989 (quando rinacque sotto quello di Václav Havel) è una sorta di emancipazione; e non può prescindere dalla responsabilità. Libertà è responsabilità: è dover alzarsi e avere anche il diritto di dissentire; ed essere pronti a pagarne le conseguenze, a schiena dritta (Havel andò in galera due volte e a lungo nella sua vita). Sia il 1918 che il 1989 sono stati momenti di grande libertà per le terre boeme, morave e slovacche; hanno svegliato «le coscienza assopite dei cittadini, che devono assumersi le proprie responsabilità, costruendosi una propria identità culturale specifica, fondata sullo spirito critico e lontana dall’anonimato diffuso», continua Galli. Il che vuol dire anche, nelle parole di Havel, prendere la parte «della verità contro la menzogna, dell’intelligenza contro l’assurdo, della giustizia contro l’ingiustizia.»

Il Gender pay gap tra realtà e complottismo

Ho appena finito di vedere l’ennesimo video su YouTube in merito ad un tema che mi sta molto a cuore, ovvero il Gender Pay Gap.
Questo video, creato da un ragazzo molto competente in economia come Giorgio De Marco di What’s Up Economy non mi ha lasciato particolarmente soddisfatto, per questo motivo vorrei permettermi di dire la mia sul tema del Gender pay gap.
Messo e concesso che al mondo esistono diverse forme di discriminazione e che non è solo un nostro diritto, ma un nostro dovere quello di combatterle, ritengo che queste teorie, nel modo in cui vengono sviluppate ed argomentate, spesso e volentieri rasentino il complottismo.
Inoltre, ci tengo a sottolineare come i dati portati a galla possano essere quantomeno pericolosi se dovessero capitare nelle mani sbagliate, ovvero di coloro che vogliono vedere una sorta di disegno della società, con l’intento di discriminare qualche minoranza.

Pensiamo ai collettivisti di stampo post-marxista, ai quali magari potrebbero fare gola dati di questo genere, utili per invocare uno (sbagliato) intervento dello stato ed una distorsione del mercato del lavoro (Che, come ci insegnano gli austriaci, porta sempre effetti controproducenti), oppure per guadagnarci in visibilità, portando avanti quella che Dave Rubin definirebbe come un’ “olimpiade dell’oppressione”.

Ma partiamo dall’inizio.
Come ho detto precedentemente, sono molto contrario a delle rilevazioni di questo tipo per motivi ideologici, ma le sostengo quando vengono fatte esclusivamente con l’intento di analizzare un fenomeno sociale.

Le sostengo, soprattutto quando i soggetti che vengono considerati come oppressori nei confronti di altre categorie sociali sono i soliti bianchi maschi etero. E questo, sia perché -tra le tante- rientro anche in queste categorie, sia perché sono un grande sostenitore della teoria di Jordan Peterson secondo cui “Per essere in grado di pensare, devi correre il rischio di essere offensivo”.


Ma, soprattutto, perché non sopporto chi, perseverando nell’errore che spesso viene fatto da molte minoranze nel mondo, sventola dati fasulli o manipolati nel tentativo di dimostrare una discriminazione sistematica al giorno d’oggi nel loro paese, di qualsiasi tipo essa sia.
Prendiamo ad esempio, sempre in America, il mito del razzismo dei poliziotti statunitensi, portato avanti da alcuni movimenti di Giovani studenti della sinistra in America, che vorrebbero far passare il messaggio secondo cui nel loro paese vi sia una sorta di razzismo sistematico da parte dei poliziotti nei confronti delle persone di colore.
Questi dati, se così vogliamo chiamarli, si basano spesso su una mala interpretazione delle rilevazioni statistiche e sono spesso stati smentiti da persone come Larry Elder, in una delle ultime interviste da “liberal” condotte negli USA da Dave Rubin .

Quello che voglio dire, è che non sostengo minimamente quelle ricerche portate avanti con l’unico scopo di stuprare la matematica nel solo tentativo di portare alla luce risultati distorti, deludenti, o peggio ancora totalmente fuorvianti, che prendendo la parte per il tutto o invertendo causa ed effetto, vogliono dimostrare che se una discriminazione esiste, allora essa è necessariamente sistematica.
Inoltre, essendo uno studente di Matematica vicino alla fine del mio percorso di studi, ed essendo in particolare un amante della Probabilità e della Statistica, conosco molto bene quali possono essere i limiti nelle rilevazioni dei dati per portare avanti un’indagine.

Volendo in questo articolo riferirmi in particolare alla supposta discriminazione del mercato nei confronti delle donne (che si riflette nel così detto Gender pay gap), mi permetto di cominciare facendo un esempio di come la matematica e la statistica possano rivelarci dati sbagliati in base a come vengono presi in considerazione. Supponiamo che in Italia ci siano 100 lavoratori in Lombardia e 100 in Puglia. Immaginiamo che i 100 lavoratori in Lombardia siano 60 uomini e 40 donne e che i lavoratori in Puglia siano 40 Uomini e 60 donne. Supponiamo che tutti i 100 lavoratori lombardi guadagnino la stessa cifra, ad esempio 5000$ e che anche i lavoratori Pugliesi guadagnino tutti la stessa cifra, supponiamo 1000$.

Se prendessimo in considerazione i due gruppi, quello Lombardo e quello Pugliese, vedremmo che non c’è nessuna discriminazione di genere e che il salario di quei lavoratori è condizionato più da fattori regionali che da altri. Eppure, prendendo la media del salario di tutte le donne Lombarde e Pugliesi (40×5000+60×1000 e dividendolo per 100, ottenendo 2600$) e di tutti gli uomini Lombardi e Pugliesi (60×5000+40×1000, dividendo per 100, ottenendo 3400$) e facendo il loro rapporto, si ottiene che ogni donna guadagna 0.76$ per ogni 1$ di un uomo. Ma come abbiamo visto prima, non c’è alcun tipo di gender pay gap all’inizio, se non una differenza dovuta a diverse condizioni tra lavoratori in due regioni diverse.

Questo solo per fare un esempio, ma andiamo più nel dettaglio.
Consideriamo il caso americano e facciamo un passo indietro: il mito del Gender pay gap è esploso negli USA negli anni della presidenza Obama, durante la quale anche l’allora presidente degli Stati Uniti portava avanti istanze come “le donne negli Stati Uniti guadagnano 0.77 cent per ogni dollaro che un uomo guadagna!”. Questa affermazione, prendeva in considerazione il salario medio guadagnato da TUTTE le donne negli USA, ponendolo al numeratore della frazione e portando al denominatore la media dei salari di TUTTI i lavoratori di sesso maschile.

Nel fare ciò, immagino che anche voi possiate capire come questa rilevazione non significhi nulla, perché non tiene conto infinite altre variabili. Ed è qui che vorrei attirare la vostra attenzione e dove ci terrei a farvi capire quali possono essere le limitazioni in base ai dati presi in considerazione.

La parola chiave è variabili.
Se siete degli individualisti come me, immagino che sappiate già che ogni individuo, pur appartenendo ad una determinata categoria sociale può essere diametralmente opposto ad un suo “simile”, quindi spesso risulta già fuorviante confrontare persone appartenenti alle stesse categorie.

Ma in statistica è difficile, se non impossibile, effettuare una rilevazione individualista della realtà. Risulta quindi difficile non avvicinarsi alla metodologia mainstream, rifiutando la visione Austriaca dell’Economia.
In tal modo, quindi, gli statistici tendono a considerare nelle loro analisi una sorta di “collettivizzazione” delle persone, nel tentativo di rendere più facile una matematizzazione della realtà.
Ma nel fare ciò, però, si rischia di essere fuorvianti. Soprattutto in economia.

Vi faccio un altro esempio, prendendo in considerazione una scienza “pura” quale la climatologia. Essa, al pari della Fisica, dell’astronomia, della Biologia e della Chimica, si basa su una certa interpretazione di dati “oggettivi”, nudi e crudi.
Eppure, già qui le diverse interpretazioni proposte dai diversi scienziati raccontano realtà spesso opposte le une dalle altre.
Come sappiamo, la scienza si basa su due cose: sui dati (che vengono presi, ed in quanto tali, non discutibili in quanto valori assoluti) e sulle loro interpretazioni.

Ed è proprio in quest’ottica che ad esempio si arriva a creare una discussione ancora oggi presente sul surriscaldamento globale.
Alcuni potrebbero far vedere che l’aumento della CO2 comporta un aumento della temperatura. Altri, potrebbero obiettare il contrario. Altri ancora, potrebbero prendere in considerazione dei dati in un arco di tempo più lungo, facendo notare un andamento “armonico” della temperatura nel corso della storia e via discorrendo, creando teorie che – partendo solo da un particolare differente – portano a conclusioni opposte.
E questo in una scienza “pura”, dove non vengono presi in considerazione troppi dati “soggettivi” e dove l’interpretazione dei primi dati è molto limitata.

Pensate allora all’Economia ed ancor più in particolare alle analisi condotte sul mercato del lavoro, dove i dati da prendere in considerazione di stampo “oggettivo” già sono parecchi, ed alla quale se ne potrebbero aggiungere un’altra infinità di stampo soggettivo.

Tra i primi potremmo considerare il sesso delle persone, la nazione dove lavorano, la regione della stessa, la città in cui lavorano, la ditta per cui lavorano, il loro titolo di studi, la loro specializzazione, il tipo di contratto (se part-time o a tempo pieno ad esempio), le ore di lavoro, le ore di straordinario fatte, lo stipendio stesso, l’età, l’età lavorativa e la relativa esperienza e molte altre.
Prendiamo ad esempio due individui che dovendo andare a lavorare a Bologna, uno da Imola ed uno da Milano, richiedano al loro datore di lavoro dei rimborsi per gli spostamenti. È probabile che quello che partirà da Imola prenderà necessariamente qualcosa in meno rispetto al secondo. E di questi dati, spesso molto nascosti da una parte o dall’altra ce ne sono sempre in agguato.

E tra di essi, magari, perché non prendere in considerazione magari dei dati più “soggettivi”, di stampo sociologico e comportamentale, che possono avere a che fare con il carisma, con il carattere, con l’attitudine della persona sul luogo di lavoro? Questi non sono dati facilmente reperibili perché non quantificabili, ma che sicuramente influiscono sullo stipendio finale dell’individuo.
Ad esempio, in questo ambito possono tornarci utili le parole di Jordan Peterson, il quale, basandosi su delle ricerche fatte da dei suoi colleghi ha rilevato ad esempio che in media i ragazzi e le ragazze hanno differenze comportamentali rilevanti.
I primi, risultano essere infatti più materialisti, più inclini alla violenza e al pericolo, mentre le donne sviluppano caratteri più legati all’emotività ed un attaccamento maggiore nei confronti dei legami interpersonali. Ciò chiaramente non ci dà una spiegazione dettagliata, ma può risultare essere un buon punto di inizio per comprendere quanto possa essere difficile la scelta dei parametri da prendere in considerazione.

Ma non sono certo qui a voler dire che bisogna buttare nella spazzatura qualsiasi ricerca fatta nel tentativo di ricercare la verità.
Quindi, prendiamo in considerazione alcuni dati che ci possono tornare utili per capire meglio questo Gender Pay Gap (sempre in America).

Una ricerca del 2017 condotta da Valentin Bolotnyy e Natalia Emanuel , entrambi economisti di Harvard, hanno rilevato dagli operatori sindacali di autobus e treni che questo gap si annulla totalmente se prendiamo in considerazione le scelte fatte dagli stessi lavoratori.
L’indagine ha preso in considerazione lavori sindacalizzati, in quanto venivano lasciate ai manager poche capacità decisionali in merito ai salari dei lavoratori, che potevano essere accusati di imparzialità, e ha lasciato ai ricercatori la possibilità di soffermarsi esclusivamente sul comportamento dei lavoratori.
La rilevazione statistica, a parità di lavoro e di mansione ha rivelato che:

Le donne usano il Family Medical Leave Act (FMLA) per prendere più tempo libero non retribuito rispetto agli uomini e lavorare meno ore di straordinario con salari 1,5 volte superiori. La radice di queste diverse opzioni è il fatto che le donne apprezzano il tempo e la flessibilità più degli uomini.”

Oppure, che:

“Il divario di reddito può essere spiegato nel nostro ambiente dal fatto che gli uomini prendono il 48% in meno di ore non retribuite e fanno l’83% in più di lavoro straordinario all’anno rispetto alle donne. La ragione di queste differenze non è che uomini e donne affrontano diversi set di opzioni in questo documento. […] Queste differenze di genere sono coerenti con le donne che assumono più mansioni domestiche e di assistenza all’infanzia rispetto agli uomini, limitando la loro disponibilità di lavoro nel processo. […] Quando gli straordinari sono previsti con tre mesi di anticipo, gli uomini si iscrivono per circa il 7% in più rispetto alle donne.”


Allo stesso modo, possiamo prendere in considerazione uno studio di Claudia Goldin, ricercatrice di Harvard, la quale, nelle sue ricerche ha rivelato che questo gender pay gap muta in base al settore che viene preso in considerazione.
Lo studio, ha infatti riportato che nei settori Scientifici e tecnologici, dove probabilmente la qualità di un lavoratore è valutata in maniera più “oggettiva”, dove le specializzazioni e le mansioni sono poche questo gap si accosta quasi allo 0, in alcuni casi si inverte addirittura l’andamento.
A dirla tutta, la stessa Goldin durante la discussione di questa sua tesi all’AEA (American Economic Association) arriva esattamente alla mia conclusione, ovvero che un certo gap esiste, così come esiste senza ombra di dubbio la discriminazione. Ma è fuorviante pensare che questo tipo di discriminazione sia di tipo sistematico e che il mercato sia automaticamente discriminatorio nei confronti delle donne.

In ogni caso, continuando sempre secondo l’analisi della Goldin abbiamo anche una conferma di quanto detto prima. Infatti, sempre all’interno della sua rilevazione statistica si ha che il settore del Business evidenzia un andamento del Gender wage gap ancora maggiore rispetto a quello dei precedenti settori evidenziati. Perché?

Beh, si può tenere in considerazione il fatto che all’interno di questo settore le professioni variano, così come i compensi. Ci saranno donne che saranno CEO, imprenditrici, o che guideranno interi istituti di ricerca, così come ne esisteranno altre che copriranno mansioni meno retribuite, come ad esempio segretarie e quant’altro (dove il tasso di donne è molto superiore a quello di uomini).
Inoltre, in questi settori dove con ogni probabilità entrano in considerazione fattori che hanno a che fare con dei parametri molto soggettivi, si ha un aumento di questo differenziale (esattamente come affermato prima).
Si tratta, infatti, di lavori dotati di poca flessibilità e che automaticamente portano ad avere degli svantaggi sulla carriera lavorativa di chi ne richiede di più (In particolare, secondo l’indagine della Goldin, le donne).

Non solo, possiamo prendere in considerazione un articolo uscito sempre nel 2017 sul The Economist, che evidenzia come questo gap arriva a diminuire costantemente (in paesi come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania) considerando solo fattori come il lavoro, il medesimo lavoro a medesimo livello di responsabilità, nella medesima compagnia e a parità di mansioni.

E in tutto ciò, come non prendere in considerazione anche le citazioni della nostra Christina Sommers, la quale, nel suo video promosso da PragerU ha evidenziato che la AAUW (American Association of Univeristy Women) ha rilevato che prendendo in considerazione alcune differenti scelte fatte da uomini e donne all’interno dello stesso settore, il gender pay gap arriva ad assottigliarsi dai famosi 0.23$ precedentemente citati negli USA a 0.066$ per ogni dollaro che un uomo guadagna. Tesi confermata anche da altri studi condotti .

In tutto ciò, possiamo citare che un’altra ricerca molto interessante fatta da tre economisti in merito al Gender Pay gap, i quali hanno rilevato che le donne nate dal 1948 in poi, una volta superata la soglia dei 40 anni, hanno visto il loro gap salariale ridursi costantemente, fino ad avvicinarsi allo zero. Perché questo? Semplice.
Nella fascia d’età che va dai 20 ai 40 anni, le donne è probabile possano avere una gravidanza, la quale è senza ombra di dubbio una penalizzazione dal punto di vista lavorativo e della carriera.
Secondo un video promosso sempre dal The Economist , le donne che tornano a lavoro dopo un periodo di maternità si vedono tagliato il loro salario in media del 4%.

Ora stiamo tutti calmi e ragioniamo. La gravidanza, come precedentemente detto, ti penalizza? Dal punto di vista lavorativo, la risposta è senza dubbio: SI.
Ma guai a cadere nella tentazione di dire “le donne sono oppresse”, in quanto una gravidanza comporta per entrambi i coniugi molti sacrifici. Una madre potrebbe guadagnare di meno e per compensare questa perdita, il padre potrebbe essere più incentivato a richiedere più ore di straordinario (il che potrebbe essere anche una motivazione per cui gli uomini richiedono più spesso delle donne degli straordinari). Siamo sinceri, quante coppie soprattutto in caso in gravidanze complicate, preferirebbero far rimanere a casa le proprie mogli per evitare loro sforzi inutili che possano mettere a repentaglio la loro salute e quella del bambino, sacrificandosi a lavoro, cercando di guadagnare qualcosa in più?

Come dice sempre Jordan Peterson, la vita è ingiusta ed è piena di sofferenze ed è solo la collaborazione tra uomini e donne che può renderci più liberi. Ed è da questa concezione, che nasce anche il patriarcato (di cui magari parleremo un’altra volta, dato il tema parecchio controverso).
Inoltre, questa dinamica può spiegare perché sempre in America ci sia una divisione delle mansioni domestiche divisa iniquamente a sfavore delle donne.

Non si tratta di imposizione, ma di necessità e di scelta il più delle volte, così come è una scelta decidere di diventare genitori e sia essere padre che essere madri comporterà una certa dose di responsabilità.
Ma mettiamo un attimo da parte la questione coniugale e prendiamo ad esempio in considerazione la differenza salariale tra uomini e donne non sposati.
Qui ci torna utile Andrew Syrios, il quale in un articolo pubblicato per il Mises Insitute ci fa sapere che:

“Quando le donne mai sposate vengono paragonate a uomini mai sposati, il divario salariale non solo scompare, ma cambia. Già nel 1971, le donne che non erano mai state sposate sulla trentina hanno guadagnato un po’ più degli uomini. Nel 1982, le donne che non si sono mai sposate insieme hanno guadagnato il 91 percento di quello che hanno guadagnato gli uomini. Oggi, tra uomini e donne che vivono tra i ventuno e i trentacinque anni, non vi è alcun divario salariale. E tra uomini e donne single con un’istruzione universitaria di età compresa tra i quaranta e sessantaquattro anni, gli uomini guadagnano in media $ 40.000 all’anno e le donne guadagnano in media $ 47.000 all’anno”

E non è l’unico a dircelo, possiamo prendere in considerazione anche altri studi effettuati da professionisti che rivelano che questo gap è senza ombra di dubbio dovuto nella stragrande maggioranza dei casi alle diverse scelte fatte da uomini e donne durante la loro vita lavorativa.
Possiamo infatti prendere in considerazione uno studio della CONSAD Research Corp. per il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti che scoprì che una volta controllate le variabili, c’era “un divario salariale adeguato al genere che oscilla tra il 4,8% e il 7,1%”.

Oppure, uno studio di June e Dave O’Neill per il National Bureau of Economic Research ha rivelato che “il divario di genere è in gran parte dovuto alle scelte fatte da uomini e donne in merito alla quantità di tempo ed energia spesa a una carriera“.
Di studi se ne possono prendere tanti altri, e tutti arriverebbero tranquillamente a confutare che questo divario possa essere determinato da una sorta di discriminazione sistematica da parte del lavoro nei confronti delle donne.

Detto ciò, però, vorrei arrivare a questo punto ad una mia conclusione: Indipendentemente se siamo uomini o donne, abbiamo il dovere di combattere ogni forma di discriminazione all’interno della nostra società. Ma rigettiamo l’idea di essere sistematicamente oppressi, in quanto soprattutto nella nostra società occidentale, nessun diritto è negato.

Se un uomo vuole essere segretario, che lo sia. Se una donna vuole puntare ad essere CEO, che ce la metta tutta per raggiungere i suoi traguardi.
Ma rigettiamo tutti insieme l’idea che di una sistematicità di questa discriminazione da parte del mercato, in quanto anche se esistesse, sarà il mercato stesso a fare la sua selezione naturale.
Superiamo gli stereotipi e prendiamoci la responsabilità delle nostre decisioni e delle nostre azioni, ma soprattutto, non invochiamo un aiuto statale per interventi che possono solo fare del male alla nostra economia. Cerchiamo l’uguaglianza, affinché le nostre scelte non siano dettate da nessun altro se non da noi e lavoriamo tutti insieme cercando di capire che non ci sono categorie più o meno oppresse, ma che tutti noi anche in maniera collettivista portiamo i nostri macigni sulle nostre spalle e solo la collaborazione tra di noi può portarci a ritrovare la felicità di cui abbiamo veramente bisogno.

Andiamo avanti, e a chi ci dirà d’ora in avanti che il sistema ci opprime, ricordiamo che il sistema siamo noi e che se siamo arrivati a lamentarci delle scelte che ogni giorno facciamo per realizzarci, allora il problema non va cercato certamente all’interno della società, bensì dentro noi stessi.