Il voucher scuola, ossia il modello che prevede scuole in competizione, pagate su base individuale con un buono statale, sembra come fumo negli occhi per i sindacati dei professori, che parlano di più scuola pubblica, più Stato e meno mercato e di no imperativi a qualsiasi ipotesi di regionalizzazione o privatizzazione dell’istruzione.
Eppure, da un punto di vista individuale, i professori avrebbero grandi benefici da un modello del genere. Probabilmente chi insegna, ormai abituato all’attuale sistema, nemmeno arriva a immaginare un’alternativa, e se la immagina crede che sia una totale distruzione della professione di docente.
Ma così non è, e in questo articolo mostreremo come il sistema a voucher sia benefico, oltre che per gli alunni, anche per gli insegnanti.
Più dignità
Sarebbe stato troppo semplice iniziare con discorsi economici individuali. Iniziamo parlando di dignità.
Parliamo un secondo di costi standard, in sostanza quanto costa istruire uno studente nel modo in cui lo si fa nella scuola italiana. In una scuola paritaria tale costo è solitamente di poco inferiore ai 5000€, mentre nelle scuole pubbliche è di poco più di 8000€.
Eppure la scuola pubblica, nonostante abbia di più in termini economici rispetto al privato deve contare non solo sui contributi volontari dei propri alunni ma, spesso, sulla carità di aziende private come i supermercati.
Tutto ciò non è dignitoso. Né per l’istituzione in sé né per chi vi insegna all’interno. La domanda è: come si arriva alle migliori pratiche nel settore in modo da spendere meno e usare meglio?
In fin dei conti la scuola privata può offrire un servizio identico a quello della pubblica spendendo meno. Come mai?
Perché, anche quando non profit, hanno un bilancio e devono ragionare come un’impresa. La scuola pubblica non lo fa e quando si inizia a non seguire la miglior pratica dal punto di vista economico spesso si tende a non farlo anche negli altri campi. Così, negli anni, siamo arrivati al paradosso di una scuola pubblica che deve puntare sui voucher dell’Esselunga per poter accedere a dotazioni tecnologiche.
In un sistema a voucher il costo standard stesso sarebbe il voucher. Le scuole avrebbero più responsabilità economica e dovrebbero iniziare ad adottare le migliori pratiche che andrebbero, alla fine, a favorire chi nella scuola insegna e chi la frequenta.
Basta incubo graduatorie
Le graduatorie scolastiche sono un incubo. Non scherzo, sono così complesse che ricordano una matrioshka: graduatorie nazionali che costituiscono in parte graduatorie d’istituto che servirebbero a coprire le supplenze, che però restano scoperte rendendo necessario l’istituto della messa a disposizione.
Le graduatorie, oltre a non funzionare, portano i docenti ad assurde manovre per salire di posto: la già citata messa a disposizione, che servirebbe per sopperire a qualche supplenza non programmata è divenuta un vero e proprio business, con siti e aziende che si occupano di spedire le richieste dei docenti alle scuole di tutta Italia, ovviamente dietro compenso.
Ancor peggio, alcune scuole paritarie con pochi scrupoli sottopagano i docenti, arrivando addirittura a pagare loro solamente i contributi pensionistici. Tutto ciò per permettere a questi docenti di ottenere posti in questa graduatoria.
Ma il meccanismo della graduatoria è profondamente ingiusto ed obbliga i docenti ad una vera e propria prostituzione professionale per salire in questa mitologica lista.
In un sistema a voucher tutto ciò non accadrebbe. Essendo ogni scuola libera nelle assunzioni non esisterebbe una lista dove si pesca chi insegna ma, come per ogni altro lavoro, ci sarebbero colloqui, prove e libertà di scelta anche per il docente, che potrebbe scegliere dove candidarsi e, poi, scegliere in quale scuola effettivamente insegnare, con una competizione anche su stipendi, orari e autonoma d’insegnamento.
Cattedra? Meglio il tempo indeterminato
La cattedra, alias il ruolo, obiettivo di ogni docente. In un sistema a voucher non sarebbe più un cammino fisso e determinato ma un cammino individuale, che riflette le qualità individuali del docente.
Una scuola, infatti, ha beneficio nell’avere un buon docente, sia in termini di fama diretta – un buon professore può presentare ad eventi e open days – sia indiretta, ossia nel miglioramento dei risultati.
Immaginate di essere a capo di una scuola e di trovarvi davanti un giovane docente molto talentuoso. Vi rendete conto che può fare carriera e che può portare beneficio averlo nella scuola.
Cosa fate? Beh, un contratto a tempo indeterminato! Non ha senso aspettare se c’è il concreto rischio che ti soffino il docente.
Nella scuola pubblica invece la rapidità di carriera dipende poco dalla competenza quanto da meri numeri ottenuti in un concorso. Una cosa che può andar bene nell’esercito, forse, ma non dovrebbe essere lo standard nell’istruzione.
Certificazione migliore
Avrete sentito, qualche volta, in TV proteste in materia di abilitazione. In sostanza lo Stato, per dare il ruolo, chiede delle abilitazioni, che tuttavia cambiano ogni tanto. Quindi, chi ha i vecchi criteri e accede a un nuovo concorso rischia di venirne escluso, da qui le proteste.
Se le scuole fossero libere le certificazioni conterebbero, ma fino a un certo punto. Chiaramente le scuole tenderebbero ad assumere persone con buone credenziali, ma non sarebbero le uniche cose a contare. Quindi un buon docente non dovrebbe preoccuparsi di un pezzo di carta che diviene improvvisamente carta straccia a causa di un aggiornamento di normativa, quanto di restare effettivamente aggiornato per restare appetibile per le scuole.
Nuovi orizzonti: Aprire una scuola
Un docente, oggi, non ha molte opzioni oltre al lavoro dipendente. Può dare ripetizioni, certo, ma c’è chi preferisce insegnare in classe. Ebbene, in un sistema a voucher nulla vieta di aprire una scuola.
Non è chiaramente una cosa a costo zero, ma esistono numerosi casi in cui aprire una scuola può essere un qualcosa di utile alla comunità e di redditizio.
Steve Jobs, ad esempio, sosteneva che in un sistema a voucher sarebbero sorte scuole come sorgono start-up: egli, infatti, dovette pagare centinaia di migliaia di dollari per dare una buona istruzione alla figlia e riteneva fortemente ingiusto che ciò fosse riservato solo ai figli dei ricchi.
Sarebbe possibile, quindi, per dei professori consorziati aprire il proprio istituto sostenendo i propri metodi didattici appresi dall’esperienza, oppure per dei giovani neolaureati, ancora freschi d’apprendimento, provare ad aprire una scuola basata su ciò che ritengono le migliori pratiche nel settore.
In ogni caso, un sistema a voucher porta ad un certo decentramento dell’istruzione. Se detta così può sembrare una cosa negativa, beh, non lo è affatto. Né per gli studenti, che possono beneficiare di un’istruzione mirata – si pensi a quei quartieri che hanno sia zone benestanti sia zone povere e piagate dall’abbandono scolastico – né per i docenti, che hanno più libertà di scegliere dove, e quindi come, insegnare.
Lo Stato sociale europeo, oltre ad essere abbastanza vicino alla definizione di schema di Ponzi, ha un altro problema: uccide la generosità. Ma, piaccia o no, il nostro retaggio culturale è cristiano, quindi la generosità è vista come un bene positivo, portando la politica statalista ad aberrazioni enormi.
Ma lasciatemi spiegare: provate a chiedere all’americano medio chi deve pensare ai poveri e, se non vi trovate in qualche college particolarmente liberal o alla convention di Bernie Sanders è probabile che la risposta sia “la Chiesa/le fondazioni private/la famiglia e, solo in caso di fallimento di essi, il governo”. Fate la stessa domanda all’europeo medio e risponderà convinto “lo Stato”.
Quindi se in America, vedendo situazioni di disagio, viene spontaneo chiedersi “cosa posso fare IO“, in Europa invece “cosa può fare il governo” è il primo pensiero.
E, infatti, in USA si dona molto di più che in Europa. Sia perché in USA ci sono tasse minori e quindi fisicamente ci sono più soldi da donare sia per questo fattore sociale: in Europa ci aspettiamo che sia il governo a pensarci, non la comunità.
Eppure il welfare più è lontano meno è efficiente, oltre a risultare inviso alla popolazione che non ne fa uso. Cito Giovanni Adamo:
Lo Stato sociale prova ad applicare per vie legali il modello sociale tradizionale dei piccoli gruppi alla popolazione generale. Un’enorme burocrazia è necessaria per controllare e gestire il processo. Oltre all’alto costo, il sistema minaccia la libertà dell’individuo e in una democrazia dà ai partiti politici la possibilità di comperare voti con il danaro dei contribuenti.
Ed è verissimo. Sarà capitato ad ognuno di noi di vedere qualcuno trovare un lavoro ad un amico o parente in difficoltà ma di buona lena in pochi giorni e a spesa zero mentre lo Stato, per fare una cosa simile, ha dei costosissimi e poco efficienti centri per l’impiego. Ma gli esempi potrebbero andare avanti a lungo…
Questi sono i danni dello Stato sociale: smettere di farci contare l’uno sull’altro ma sperare che un’entità centrale faccia, con un grande sovrapprezzo, ciò che la società civile può fare con molto meno. E poi dicono che il liberalismo distrugge la società.
Con questo non diciamo che il governo non debba avere alcun ruolo, anzi, ma che debba essere o un garante (come nella scuola o nella sanità) o una risorsa alla quale ci si appella dopo che ogni altra possibilità è esaurita o impossibile, mentre oggi ci sono centinaia di migliaia se non di milioni di persone che vedono nello Stato il faro della propria vita.
E ciò, almeno nell’Italia culturalmente cattolica, porta ad una conseguenza particolare: i politici vorrebbero imporre questi valori per legge, dopo averli tolti sempre per legge. Quante volte, dalla “destra” alla “sinistra” passando per il “centrosinistra”, avete sentito volontà di misure coercitive per insegnare valori come la solidarietà o la generosità? Iofintroppevolte, direi.
Ecco, io credo che se i politici invece di pretendere che persone libere sacrifichino un tot della propria vita a nome del Dio Stato/Dio Europa/Dio Società iniziassero a limitare il peso dello Stato in questi campi dando più potere e possibilità all’individuo e alle relazioni volontarie tra di essi gli italiani diventerebbero più generosi.
Perché non lo fanno? Sarà perché fare l’asta al rialzo dei benefit coi soldi altrui è il loro lavoro?
In una recente dichiarazione, l’attuale presidente del Brasile Jair Bolsonaro, rivolgendosi verso l’ex presidente del Cile Michelle Bachelet, attuale commissario ONU per i diritti umani, affermava: “Se non fosse stato per Augusto Pinochet, che ha sconfitto la sinistra nel 1973, incluso suo padre, oggi il Cile sarebbe come Cuba”. Nonostante un altissimo livello di scorrettezza politica, questa frase racchiude in sé una sacrosanta verità, celata agli occhi di molti (forse di troppi).
Lo scopo di questo articolo è quindi quello di dimostrare che se nel 1973, anno del colpo militare di Augusto Pinochet in Cile, Salvador Allende fosse riuscito a respingere i golpisti e a mantenere il potere, proseguendo nell’implementazione del suo modello politico-economico, il Cile oggi non sarebbe il paese più prospero dell’America Latina, bensì un paese molto più simile all’attuale Cuba o Venezuela.
L’intento ovviamente non è quello di giustificare la dittatura di Augusto Pinochet, della quale non tratteremo in questo articolo, ma di spiegare i lati oscuri del personaggio Allende e del suo governo, sul quale ancora oggi aleggia una certo alone di mitologia e disinformazione.
Chi era Salvador Allende? Nato a Valparaíso il 26 Giugno del 1908, cresce in una famiglia benestante. Già all’università, dove si laureerà come dentista, comincia la sua militanza politica, che nel 1933 lo porterà ad essere uno dei cofondatori del partito socialista cileno, al quale resterà poi legato durante tutta la sua vita.
Nel 1952 si candida per la prima volta alla presidenza del Cile. Dovrà tuttavia aspettare ben 18 anni per riuscire nel suo intento di vincere le elezioni. Con un 36% dei voti, ed un risicatissimo margine di differenza rispetto al suo avversario politico Jorge Alessandri, nel 1970 Salvador Allende verrà nominato presidente dal parlamento Cileno, in seguito ad una lunga diatriba con l’opposizione della “Democracia Cristiana“, la quale deteneva la maggioranza nel parlamento.
Salvador Allende è una figura estremamente popolare in tutto il mondo, quasi mitizzata, e non solo a sinistra, ma da quasi tutto l’arco politico.
Egli è stato, con distacco, il personaggio sul quale la sinistra è riuscita a creare il maggior consenso. Altre personalità similari, come ad esempio Che Guevara o Fidel Castro, non sono mai riuscite a creare un tale livello di accettazione trasversale, rimanendo relegate quasi esclusivamente nella sfera socialista.
Il mito di Allende è probabilmente legato ad un’intensa attività di “PR” portata avanti dalla sinistra, che ha ben sfruttato – in senso propagandistico – la sua morte, avvenuta il 11 Settembre 1973, in seguito al golpe militare, ed è riuscita a far passare nell’immaginario collettivo l’idea che egli sia stato un martire politico.
Tuttavia, questa visione ignora il fatto che la sua fine sia in larga misura legata al pessimo disimpegno in materia economica e politica e al totale disprezzo del suo governo verso le istituzioni democratiche, il quale portò tra le altre cose, il Cile ad una catastrofe economica e praticamente sull’orlo di una guerra civile.
Ad Allende va almeno riconosciuto il “merito” storico di essere stato l’unico leader apertamente Marxista, ad aver raggiunto il potere in modo democratico e non violento (e questo dovrebbe far riflettere non poco i sostenitori di questa ideologia). Vedremo in seguito, come questa attitudine democratica non fu poi in realtà mantenuta durante la sua presidenza.
La presidenza Allende e i pilastri della sua politica economica Come prima menzionato, Salvador Allende inizia la sua presidenza il 4 Novembre 1970. Egli non fu solamente il primo presidente comunista ad essere stato democraticamente eletto, ma anche il primo a tentare di istituire il socialismo in modo non violento, attraverso quella che chiamò “la seconda via” o “la via Cilena al socialismo”.
In fin dei conti però, il suo piano di governo non variava molto da quello di altri governi di stampo comunista in giro per il mondo. L’implementazione di un regime tipo Marxista-leninista restava l’obiettivo principale, e quindi idee come “dittatura del proletariato”, “soppressione delle classi sociali” e “l’abolizione della proprietà privata” assumevano un ruolo di estrema di centralità.
Secondo il libro “Populismo macroeconomico in Latino America” di Rudiger Dornbusch e Sebastian Edwards, le riforme di tipo strutturale adottate dal governo del Unidad Popular (UP), la coalizione di governo che portò al potere Salvador Allende, sono riassumibili nei seguenti cinque punti:
Nazionalizzazione delle principali risorse economiche del paese, che consistevano principalmente in risorse minerarie, tra cui rame, salnitro, carbone, ferro e acciaio;
Espansione dell’area di proprietà sociale attraverso la nazionalizzazione delle imprese di maggiori dimensioni;
Intensificazione della riforma agraria;
Nazionalizzazione del sistema bancario;
Controllo statale delle principali imprese distributrici e grossisti.
Il disastro economico del governo della Unidad Popular Ovviamente, come molti dei nostri lettori potranno anticipare, i risultati economici del governo del UP furono tutt’altro che soddisfacenti. Li potremmo anzi classificare come una vera e propria catastrofe macroeconomica.
Vediamo di seguito i numeri principali.
Spesa pubblica e deficit fiscale Come immaginabile, la spesa pubblica aumentò in modo stratosferico, cosi come il deficit fiscale. Partendo da una spesa pubblica del 26.4% del PIL nel 1970, questa passò nel 1973 ad essere il 44.9%. Ma il dato forse più incredibile è legato al deficit fiscale, passato dal 2.1% nel 1970, ad un incredibile 24.7% nel 1973. Tutto questo deficit finanziato con emissione monetaria, come vedremo in seguito, portò l’inflazione a livelli record.
Crescita economica Per onestà, dobbiamo dire che Allende ricevette una economia stagnante, con una crescita economica praticamente nulla. Dopo alcuni successi nel primo anno di governo, di tipo totalmente artificiale e legati ad i classici effetti iniziali dell’emissione monetaria, già verso la fine del governo Allende si iniziò a notare una fortissima caduta del PIL, che nel 1973 registrò un drammatico -5.6%.
Inflazione A riprova che i primi successi in termini di crescita economica del governo Allende furono principalmente legati ad una forte iniezione di liquidità nell’economia, possiamo analizzare l’evoluzione dell’inflazione durante i tre anni di governo.
Come possiamo vedere dal grafico di seguito, nel 1971 l’inflazione si mantenne ai livelli dell’anno precedente, intorno al 35%. Ma già dal 1972 si incominciarono a notare gli effetti della massiva emissione monetaria, con un conseguente forte aumento dell’inerzia inflazionaria, culminata nel 1973 in uno strabiliante 605.9%.
Diventa quindi evidente la correlazione inversa tra crescita economica ed inflazione. Con l’aumento di quest’ultima, la crescita economica seguì un netto percorso inverso.
Salari reali I salari reali seguirono anche essi la stessa direzione degli altri indicatori macroeconomici. Dopo un aumento abbastanza forte dei salari nel 1972, con una crescita media intorno al 40% rispetto al 1971, nel 1973, la diminuzione fu nettissima, con una variazione del -47% rispetto all’anno precedente, e -24% rispetto alla situazione iniziale del 1971.
Anche questa diminuzione netta del salario reale, era legata all’aumento repentino della pressione inflazionaria, che finì per erodere fortemente il potere di acquisto dei Cileni.
Tra le altre cose, il ceto sociale che forse più fortemente risenti della caduta dei salari, fu proprio quello della classe operaia e dei lavoratori dipendenti, i quali Allende diceva di rappresentare.
Di seguito possiamo vedere l’evoluzione del salario minimo e medio di operai e lavoratori in Cile dal 1970 a 1973.
Come vediamo, tutte le categorie di lavoratori subirono perdite consistenti nel loro potere acquisitivo. Nei tre anni, gli operai persero circa un 20% dei salari medi e un 24% nei salari minimi, mentre che i lavoratori dipendenti videro addirittura il loro salario minimo più che dimezzato e il loro salario medio scendere del 22%.
Carenza di prodotti basici
La presidenza di Allende si caratterizzò anche per la scarsità di prodotti di prima necessità come latte, zucchero, pane, the, olio etc. Ovviamente la colpa di questa carenza generalizzata, cosi come anche in altre esperienze socialiste, fu data ai produttori e ad una fantomatica guerra economica perpetrata dagli Stati Uniti, che furono accusati di tentare di sabotare il governo Cileno.
Tuttavia, dal punto di vista economico, la causa di questo problema è semplicemente da attribuire agli serrato controllo dei prezzi, adottato dal governo del UP per combattere la crescente inflazione.
Come in ogni caso in cui un governo decide di impostare dei livelli di prezzo massimo al di sotto del prezzo di mercato, si crea allo stesso tempo un aumento della domanda, legato al fatto che i prodotti che prima erano più cari diventano improvvisamente più accessibili, e una riduzione dell’offerta, data dal fatto che per molti produttori diventa meno conveniente vendere determinati prodotti.
Tutto questo crea un gap tra offerta e domanda, che porta ai fenomeni di scarsità riscontrati in ogni esperienza storica in cui un governo abbia tentato di controllare i prezzi.
La fine del governo Allende
L’inizio della fine del governo del “Unidad Popular” avvenne il 22 Agosto 1973, quando la camera dei deputati Cilena si riunì per “analizzare la situazione politica e legale del paese“.
Da questa sessione si decretò un accordo votato da quasi i 2/3 della camera, nel quale si accusava il governo di 20 violazioni concrete alla costituzione e alle leggi del Cile. Tra le più importanti accuse mosse nei confronti del governo, troviamo:
La protezione di gruppi paramilitari;
Detenzioni illegali;
Attacchi alla libertà di stampa;
Manipolazione del sistema educativo;
Confisca arbitraria della proprietà privata.
Questo accordo formato da 15 articoli, costituiva un vero e proprio “accordo contro la tirannia” ed un appello disperato al presidente della repubblica e alle forze armate a mettere fine a queste gravi violazioni.
Lo stesso Allende aveva più volte attaccato nei suoi discorsi la costituzione cilena, definendola una “costituzione borghese” e proponendo un cambio costituzionale verso una “costituzione del popolo”. Possiamo immaginarci cosa esso potesse significare in termini pratici.
Anche la corte suprema Cilena, si confrontò svariate volte con Allende e integranti del suo governo, accusandoli ripetutamente di non rispettare il potere giuridico.
Con il paese ormai gettato nel caos più totale e praticamente sull’orlo di una guerra civile, la mattina del 11 Settembre 1973 vide l’intervento delle forze armate, guidate dal generale Augusto Pinochet, il quale rimosse Allende dal suo incarico.
In un interessante articolo del 13 Settembre 1973, “The Economist” analizza proprio la sua destituzione di Allende, avallando la tesi secondo la quale fu proprio il suo pessimo disimpegno politico e l’erosione del potere costituzionale, la causa della sua caduta. L’articolo apre con questa emblematica frase:
The temporary death of democracy in Chile will be regrettable, but the blame lies clearly with Dr Allende and those of his followers who persistently overrode the constitution.
The Economist, “The End of Allende”, 13 Settembre 1973
I paralleli con Cuba e Venezuela
Possiamo quindi asserire che senza un intervento delle forze armate, il Cile avrebbe seguito le orme di Cuba o del Venezuela?
Secondo la nostra opinione, molto probabilmente si.
Ci sono vari elementi che ci fanno pensare che se ci fosse stata una continuità del modello proposto da Allende, il Cile avrebbe preso una deriva molto simile a quella Cubana/Venezuelana, sia in termini economici, che dal punto di vista autocratico.
Come abbiamo precedentemente visto, nonostante una superficiale maggior attitudine democratica da parte del governo di Allende, nel fondo la sua agenda politica non variava quasi di una virgola rispetto a quella di altri governi di stampo Marxismo-Leninista visti in altri paesi in giro per il mondo.
Per fare un paragone, il programma del Venezuela di Chavez o quello della Cuba di Castro, erano praticamente identici a quello del Cile di Allende.
Anche essi includevano la nazionalizzazione di gran parte delle principali risorse economiche del paese, tra cui ad esempio, nel caso del Venezuela, dell’industria petrolifera, con un parallelo molto simile con l’industria del rame Cilena.
Inoltre includevano anche una riforma agraria e la nazionalizzazione del settore bancario. Possiamo quindi asserire, date le similitudini dei programmi, che anche i risultati economici del Cile sarebbero stati piuttosto simili a quelli di Cuba e del Venezuela.
Tra l’altro, molte delle conseguenze delle misure economiche adottate in Cile durante l’epoca di Allende, come l’inflazione galoppante, la scomparsa di prodotti essenziali di ogni genere, la forte caduta dei salari reali etc.. sono tutte cose che hanno caratterizzato anche l’esperienza Cubana e Venezuelana.
In fine, ci spingiamo anche a concludere che la deriva del governo di Allende sarebbe stata molto probabilmente autocratica. E questo è legato alla stessa natura del modello comunista, il quale, in ogni esperienza storica, ha sempre necessitato di tutta una serie di violazioni dell’ordine democratico per poter essere applicato con successo.
Lo stesso Castro era perfettamente cosciente della cosa. Non è un caso che egli stesso abbia mostrato più volte scetticismo verso la fattibilità della seconda via e di una rivoluzione non violenta. Pare anche che Fidel abbia avvisato Allende del fatto che “senza tenere sotto controllo l’opposizione, la rivoluzione non avrebbe avuto successo”.
Oltre a tutto ciò, come abbiamo potuto vedere in precedenza, lo stesso governo Allende si è comunque contraddistinto fin dall’inizio per una serie di gravi violazioni alla costituzione e al potere giuridico, che molto probabilmente, con l’intensificarsi della crisi economica e sociale, non avrebbero fatto altro che peggiorare nel tempo.
L’unico dubbio su una possibile deriva autocratica, nasce dalla figura di Salvador Allende stesso, il quale viene spesso descritto come un uomo mite, e probabilmente privo dell’attitudine da dittatore sanguinario e senza scrupoli, che ha invece contraddistinto tutti i suoi omologhi Marxisti. In fin dei conti, potrebbe essere stata proprio questa “carenza”, la causa principale della sua capitolazione nel settembre del ’73.
Perché socialismo, fascismo, comunismo e tutti gli altri statalismi, pur con le loro differenze, sono parimenti pessime idee? Cosa separa nettamente queste ideologie dal Liberalismo? Un socialista, certo, non ha esattamente gli stessi ideali ed obiettivi di un fascista, e lo stesso vale per un fascista ed un comunista.
Tutti e tre, però, condividono uno stesso principio chiave: il potere nelle mani giuste è il bene supremo, quindi anche la violenza è un bene se il suo scopo è dare potere a coloro che lo meritano.
Per il fascista, che vuole garantire il potere della sua nazione, la violenza è un legittimo strumento politico. Una nazione potente, infatti, non ha paura di combattere guerre per imporre la propria egemonia sulle altre nazioni. Allo stesso tempo, però, un forte esercito e grandi spese militari non bastano.
Una nazione potente, infatti, dev’essere anche una nazione unita e con una popolazione omogenea. Per questo, è necessario reprimere qualsiasi autonomia in favore di un governo centralizzato. Inoltre, bisogna eliminare fisicamente minoranze ed altri gruppi di potere al di fuori dell’autorità statale.
Per il comunista, che sogna la rivoluzione proletaria,la violenza è indispensabile ai fini del cambiamento. I porci capitalisti ed i loro lacchè, infatti, non metteranno mai volontariamente a disposizione dei proletari le risorse ed il potere necessari per realizzare il paradiso del lavoratore. Queste e quello, pertanto, devono essere strappati con la forza.
Ma la violenza non finirà una volta finita la rivoluzione. Una volta instaurata la dittatura del proletariato, infatti, c’è sempre il rischio che qualcuno non sia d’accordo con il nuovo corso, e che organizzi una controrivoluzione. Per questo, sono necessarie numerose purghe per estirpare il problema alla radice.
Fatta eccezione per i più radicali, i socialisti (specie quelli più vicini alla socialdemocrazia) di solito non si esprimono apertamente a favore della violenza fisica, piuttosto auspicano riforme graduali per raggiungere l’obiettivo della giustizia sociale. Ciononostante, anche i socialisti moderati sono favorevoli ad un certo tipo di violenza, più sottile ma non per questo inesistente.
Un socialista moderato certo non chiederà il sangue dei capitalisti e dei loro lacchè, ma chiederà politiche economiche redistributive. Non perseguiterà le minoranze, ma sarà a favore di leggi speciali per proteggere chi ritiene sia oppresso o discriminato, in antitesi con il principio liberale dell’isonomia (per intenderci, non esistono i diritti gay, esistono i diritti individuali).
Soprattutto, un socialista moderato sarà a favore della coercizione, e dell’accentramento del potere per creare un Leviatano statale strumento di tale coercizione. Questo perché, in quanto socialista, è convinto in buona fede che uno Stato che segue i cittadini dalla culla alla tomba sia un bene tale da giustificare la perdita di qualche libertà.
Così, anche il più mite e benevolo fra i socialisti moderati finisce, involontariamente, con l’aprire la porta ad i più radicali, ed infine ai violenti veri e propri. Se le cose stanno così per le varie forme di statalismo, qual è l’approccio liberale alla violenza?
Innanzitutto, bisogna dire che il pensiero liberale non è pacifista, cioè non cerca la pace ad ogni costo. A dispetto della bellissima citazione di Asimov che dà il titolo a questo articolo, i liberali sono pragmatici, pertanto riconoscono la necessità della violenza in determinate situazioni. Quindi, nessuna differenza con lo statalismo?
Quando gli statalisti ricorrono alla violenza, lo fanno come mezzo per acquisire più potere: il fascista combatte guerre per conquistare territori di altre nazioni, il comunista organizza una rivoluzione per sottrarre le ricchezze dei capitalisti, i socialisti fanno lo stesso ma in maniera più graduale.
I liberali, invece, sono disposti a ricorrere alla violenza per proteggere qualcosa che è l’antitesi del potere, qualcosa che tutti gli esseri umani possiedono come diritto di nascita: la libertà negativa.
La libertà negativa è, in poche parole, la libertà dallo Stato (contrapposta alla libertà positiva, libertà attraverso lo Stato), il quale non interferisce nella vita privata dei cittadini e garantisce il rispetto del loro diritto alla vita, alla libertà ed alla proprietà privata.
Quando lo Stato viola la libertà negativa dei cittadini questi, per dirla con i Padri Fondatori, hanno il diritto di rovesciare il governo, con le armi se necessario.
La differenza fra liberali e statalisti rispetto alla violenza, quindi, esiste, ed è vasta quanto la differenza fra i manifestanti di Hong Kong e le SS naziste. Mentre gli statalisti saranno sempre pronti a versare sangue per acquisire potere a danno dei loro nemici, il primo nemico dei liberali sarà sempre il potere stesso, i cui attacchi contro la libertà vanno respinti con tutto il vigore necessario, pena la rovina.
Benché i liberals (nell’accezione americana) ed i socialisti suonino insieme il tamburo dell’abbattimento della disuguaglianza economica, spesso finiscono per voler togliere il vero potere a tutti gli individui, cioè quello di poter partecipare al processo decisionale più attivamente. Questo potere si ha solo ottenendo la più alta decentralizzazione possibile, redistribuendo quindi non la ricchezza, ma il potere.
La decentralizzazione è la distribuzione di competenze e potere decisionale dal blocco principale ad organi periferici. In questa configurazione quindi un’organizzazione (come un’impresa od un governo) delega alcune materie ai livelli più bassi e in un’ottica governativa si traduce nella maggior autonomia in materia decisionale degli enti locali (comuni, province e regioni).
Ad una maggior decentralizzazione corrisponde dunque una maggior autonomia ai livelli più bassi (dal governo nazionale al comune). Esempi di paesi ad alto livello di decentralizzazione sono Svizzera, Stati Uniti, Canada, Australia e Germania, dove paesi come Regno Unito, Francia, Italia e Cina mostrano un basso livello di decentralizzazione, attribuendo un numero elevato di competenze al governo nazionale.
Il motivo per cui preferire la decentralizzazione è semplice: avvicinando il potere ai cittadini essi possono controllare meglio l’operato dei loro rappresentanti che vicini alle persone che influenzano con le loro decisioni sono soggetti a maggior scrutinio ed un malgoverno si traduce in effettive punizioni o ricompense.
Non solo: cittadini insoddisfatti del governo in una zona possono facilmente trasferirsi rafforzando il cosiddetto “voto con i piedi”, dove i contribuenti cambiano zona geografica in base alla miglior offerta non solo fiscale (tasse più basse) ma anche di costumi (per esempio leggi più o meno restrittive sull’aborto), innescando un vero e proprio processo di concorrenza tra apparati governativi che, come tutto ciò che è in competizione, si traduce in miglior offerta a costi più bassi.
Nel mondo di oggi, complesso e poco standardizzabile, le soluzioni che implicano centralizzazione hanno sempre meno spazio, limitandosi solo a casi di necessità di scalabilità (come difesa) e/o a basso contenuto di informazioni (come scegliere il tipo di presa elettrica). Dove queste condizioni non si verificano un approccio top-down si traduce in enorme perdita di informazioni e quindi alla creazione di sacche di inefficienza.
Vi è anche una forte correlazione tra decentralizzazione e prosperità, come evidenziato da un paper dell’OCSE, ma non solo: paesi più decentralizzati resistono meglio alle crisi economiche, con l’esempio di Svizzera e Stati Uniti, paesi altamente decentralizzati che durante la grande recessione in Occidente del 2009 hanno registrato bassa decrescita in percentuale e riprendendosi rapidamente.
Questi ritrovamenti sono confermati anche da un paper nel CESifo Economic Studies, che sottolinea anche la minor tendenza a fare deficit per spesa improduttiva, tendenza, ahinoi, tristemente comune in Italia. Quindi non solo paesi decentralizzati sono più resilienti e prosperi, ma anche più virtuosi e riescono ad allocare meglio le risorse.
Non è quindi un caso che i paesi più poveri siano non solo poco liberi economicamente, ma anche più centralizzati: socialismo ed accentramento del potere vanno a braccetto, con la scusa di livellare la disuguaglianza economica ma dimenticandosi di aggiungere che l’equalizzazione volge verso il basso, dando vita a paesi fragili e ricchi esclusivamente di tensioni sociali. E non serve nemmeno citare i soliti paesi comunisti che sono ormai un fallimento conclamato: la centralista Francia è infinitamente meno efficiente e desiderabile della più decentralizzata Germania.
In questo l’Unione Europea gioca un ruolo cruciale: la promozione del decentramento e l’idea di confederazione devono prevalere sul desiderio di centralizzazione e di Stati Uniti d’Europa, che riporterebbero l’Europa indietro in tutte le dimensioni di libertà, con l’armonizzazione fiscale come concetto più pericoloso in assoluto.
L’unica redistribuzione morale, efficace ed efficiente è quella del potere.
È abbastanza comune come pattern delle riforme liberiste vedere un iniziale periodo di rallentamento dell’economia e di aumento della disoccupazione, salvo avere una crescita negli anni successivi, quasi sempre superiore a quanto perso nel periodo precedente.
Invece il socialismo è differente: Quasi sempre c’è un periodo di relativo benessere seguito, poi, da un periodo di depressione economica.
Come mai? Vediamolo con una storiella:
Il villaggio dei 10.000 lavoratori
Immaginiamo un villaggio con 10.000 abitanti, tutti in grado di lavorare. Nel tempo i politici, per ingraziarsi le persone, hanno iniziato un piano di assunzioni pubbliche e si è passati, nel corso degli ultimi 20 anni, da avere 100 dipendenti pubblici a 1.000. Queste persone sono felici, hanno una casa, uno stipendio ma non producono benessere: vivono grazie al benessere prodotto dai 9.000 lavoratori reali.
Arriva un politico che propone di tornare ai 100 dipendenti pubblici e vince: in un momento 900 persone si trovano senza stipendio, magari con la necessità di cambiare casa verso una più economica e diminuendo i propri consumi vivendo di risparmi: l’economia si contrae.
Tuttavia col tempo 800 dei 900 licenziati riescono a entrare nel sistema produttivo e a produrre benessere: i loro consumi riprendono e, nel mentre, tutta la comunità beneficia di ciò, tant’è che si riesce ad istituire un aiuto per chi non ha trovato il lavoro.
Perché, alla fine, il socialismo fallisce
I motivi del fallimento del socialismo sono vari e variegati, troppi per essere sintetizzati in un pezzetto di testo, ma sintetizzabili in un fatto: la crescita economica è minima e i soldi da redistribuire finiscono.
All’inizio il socialismo piace perché prende ai ricchi per dare ai poveri, ma quando finiscono i soldi dei ricchi non offre un modello di sviluppo economico coerente senza introdurre elementi capitalisti. E quindi ciò che in Occidente è un minimo sindacale per non essere considerati in totale povertà, cioè un tetto, dei vestiti e qualcosa in tavola, in molti paesi socialisti è un considerevole beneficio.
Il problema si pone, in misura minore, anche nelle forme di forte statalismo come quello italiano: c’è sì un settore privato capace di restare in piedi ma lo Stato drena centinaia di migliaiadi persone dal settore produttivo pagandole coi soldi di chi produce.
La lezione da imparare
Il liberismo, riformando nettamente il ruolo dello Stato, non può non creare disagio nel primo periodo, tanto più grandi tanto più è grande il ruolo dello Stato.
Eliminare lavori sussidiati, enti, regolamentazioni, licenze toglie sicurezza a molte persone che per un periodo, quindi, consumeranno meno rallentando l’economia. E, sempre nel breve periodo, non è detto che il risparmio economico dovuto alla riduzione delle spese possa controbilanciare il tutto.
Ma sul lungo periodo ciò libera energie per i settori che veramente producono benessere e ciò porta ad una crescita economica maggiore, capace di poter coprire un moderato welfare per chi non ha competenze spendibili nel mondo del lavoro e non può apprenderle, come persone vicine alla pensione.
Il modello di sviluppo statalista, infatti, mostra spesso i propri limiti e ci obbliga spesso a fare manovre di austerità per renderlo sostenibile. Ma non sarebbe meglio fare le riforme liberiste e avere, finalmente, settori funzionanti e produttivi
Grazie al contante esistono i peggiori criminali del mondo: le nonne che, elargendo in cartamoneta ai nipotini laute mance, superano il limite annuo di donazioni esentasse togliendo soldi alle istituzioni di tutti.
Almeno pare così dalla rinata attenzione per l’eliminazione del contante, che sarebbe doverosa per porre fine all’evasione fiscale e arrivare, citando il premier Conte, “a pagare tutti per pagare di meno“.
Peccato che sia (e va detto in francese) una solenne stronzata.
Infatti, l’evasione fiscale da anni sta calando e gli introiti dello Stato aumentano, ma aumenta anche la spesa pubblica. Questo perché appena un politico vede un minimo spazio di manovra ci metterà qualche sua mancetta elettorale. E se aggiungiamo che questa spesa è fortemente inefficiente (giusto per dire, mentre state leggendo questa frase lo Stato ha appena sperperato 3000 Euro per l’istruzione) verrebbe da dire, alla Einaudi, che quasi quasi chi evade è un benefattore che prova a limitare l’idrovora statale. Poi ci si ricorda che le conseguenze le paga chi si sbaglia e dichiara un euro in meno del dovuto.
Tralasciando le considerazioni morali, parliamo di mercato. Il mercato, come mostrano varie economie, premia la moneta elettronica. Le ragioni sono diverse e le descriveremo più avanti. Ma i politici e parapolitici italiani soffrono del “gastrospasmo del fare”, usando un termine coniato da Paolo Attivissimo: “Non basta che ci pensi il mercato, noi dobbiamo fare qualcosa” e di solito questo qualcosa è negativo, come Confindustria che vorrebbe introdurre una tassa sul contante. Significherebbe pagare per usare i propri soldi, un qualcosa di cui solo un Paese totalitario andrebbe fiero, ma vabbè.
Perché il mercato premia l’elettronico
Comodità, sicurezza e praticità.
Se avete una carta prepagata con 500€ e 30€ nel portafogli e perdete il portafogli avete perso 30€ e qualche ora per bloccare e rifare la carta. Se invece i 500€ fossero stati in banconota avreste perso ben 530 euro.
Spesso, inoltre, il pagamento con carta è più pratico, specie per cifre non tonde dove bisogna mettersi a cercare spiccioli per avere o dare il resto.
E, soprattutto, una carta si può usare per fare acquisti online in modo semplice, mentre i contanti no.
Infatti, nei Paesi dove il digitale è diffuso da più tempo, la moneta digitale ha superato nettamente l’utilizzo del contante. In Italia, soprattutto chi ha meno di 30 anni, vede ancora nel pagamento elettronico un qualcosa di macchinoso e per grandi acquisti, ma già i giovani hanno un’idea diversa e usano la carta ben più spesso: ormai anche i badge universitari sono carte prepagate, ed esistono, grazie al mercato e non ad una legge, carte che si possono già avere a 12 anni a condizioni decisamente vantaggiose.
È quindi prevedibile che con l’avanzamento tecnologico e l’aumento della disponibilità economica dei giovani che oggi, magari, sulla carta ci mettono giusto qualche soldo per il pranzo, il pagamento elettronico diventerà ancor più diffuso.
Ma è un libero mercato?
Ni. Infatti c’è una cosa che fa imbestialire i commercianti, specie quelli più piccoli: essere obbligati a dotarsi di un qualcosa che va pagato, dove spesso si deve anche pagare un abbonamento mensile.
Se andate dal fruttivendolo e vi chiede 15€ e glieli date in contanti avrà 15€, se pagate con la carta avrà qualcosa in meno tra commissioni e costi fissi.
Il governo dell’epoca legiferò prevedendo delle commissioni agevolate. Ma, come mero esercizio intellettuale, se invece la soluzione fosse lasciar fare al mercato? Stabiliamo l’obbligo del POS ma lasciamo liberi i commercianti di far pagare le commissioni ai clienti.
Ciò, forse, avrebbe danneggiato per alcuni mesi chi paga con carta, ma alla lunga estenderebbe la concorrenza, portando ad avere carte a commissione agevolata e a POS con commissioni più basse per gli esercenti, favorendo ancor di più l’adozione della moneta elettronica.
Sempre in nome del libero mercato bisognerebbe permettere, anche solo per ristretti spazi temporali, di non accettare contanti. Pensiamo a luoghi dove servono alti livelli di igiene o ai negozi notturni (per il rischio di furto, ndr).
Davvero impedirebbe l’illegalità non avere il contante? E davvero vogliamo essere sempre tracciabili?
C’è anche chi dice che, abolendo il contante, potremmo eliminare fenomeni come lo spaccio di droga, anche specificando che non bisogna avere paura di avere una lista completa di ciò che si compera se non si ha nulla da nascondere.
Per prima cosa, noi dell’Istituto Liberale crediamo che ci sia una soluzione migliore sullo spaccio, ossia la legalizzazione. Ma, comunque, è abbastanza naif credere che basti impedire agli spacciatori di avere il POS per bloccare il loro business. Anche immaginando che in tutta l’eurozona si elimini il contante e si paghi con carta non puoi di certo impedire fisicamente allo spacciatore di farsi pagare in franchi svizzeri e cambiarli, a meno di abolire la convertibilità dell’Euro…
Anche con i traffici economici illegali vale il medesimo ragionamento: L’assessore corrotto non smetterà di farsi corrompere, semplicemente troverà un modo nominalmente legale per farlo, ad esempio facendo un lavoro iperprezzato e fatturandolo regolarmente, oppure accettando corruzione-merce, come un bel viaggio di lusso.
Seconda cosa: il “nothing to hide argument” funziona solo quando si ha la certezza assoluta che il governo la penserà sempre come noi. Perché non esistono solo spese illegali, ma anche spese immorali.
Da cose innocenti, come una ragazzina con genitori bigotti che vuole comprare qualche preservativo per divertirsi col fidanzato e non vuole lasciarne traccia, a cose magari più serie che potrebbero rovinare una vita se la notizia venisse allo scoperto.
Inoltre, l’esistenza del contante è una questione di libertà di scelta: Scegliere se usare o no il servizio di intermediazione, che si paga, delle banche.
Perché non lasciar lavorare solo il mercato?
Perché i politici vogliono meriti da attribuirsi e perché pensano di poter portare ordine nel caos di mercato. È un po’ come quando aumentano o calano le bollette del gas e i politici si danno meriti o demeriti e poi, alla fine, si scopre che la variazione era dovuta a qualche evento in Russia.
Tuttavia le proposte anti-contante hanno un problema: portano a estremizzare la questione. Se il processo di mercato difficilmente vedrebbe opposizioni, proporre la “tassa sui contanti” porta ad arroccarsi inutilmente in posizioni pro o contro la moneta elettronica, rischiando addirittura di rallentare l’adozione massiva delle nuove tecnologie.
È abbastanza improbabile che il contante scompaia completamente. Ci sarà sempre chi preferirà il contante, per abitudine o per ragioni ideologiche o economiche, così come ci saranno usi dove il contante sarà molto probabilmente preferito come nel dare la mancia ai bambini o per prendere un caffè sotto casa.
Ma, grazie al ricambio generazionale ed all’aumento della domanda, arriveremo anche in Italia ad avere giornate in cui un negoziante di minuteria la moneta fisica non la toccherà nemmeno.
Il concetto di lotta di classe è ormai quasi scomparso dal discorso pubblico. Oggi i politici e gli intellettuali che si rifanno a ideologie stataliste non parlano più di abolire la proprietà privata o di sterminare la borghesia; parlano invece della miseria ed infelicità dei poveri e degli emarginati, sostengono di avere a cuore la comunità, di voler aiutare e proteggere le persone.
Non spiegano mai, però, per quale ragione pensano di dover intervenire. Non rispondono mai a una semplice domanda: perché credete che gli esseri umani non siano in grado di cavarsela con le proprie forze (o aiutandosi volontariamente a vicenda)?
La realtà è che alla base di questi discorsi c’è una profonda sfiducia nei confronti della bontà e dell’intelligenza degli esseri umani.
La convinzione che gli individui siano incapaci di provvedere a sé stessi e che serva una mano benevola dall’alto a guidarli. La mano è ovviamente la loro, quella di una saggia élite in grado di comprendere le esigenze del popolo ignorante e meschino e di guidarlo verso destini migliori.
Questo atteggiamento di sfiducia verso il genere umano, è ciò che differenzia profondamente collettivisti e individualisti.
I liberali guardano il mondo odierno con gioia e stupore. Vedono un mondo dove il capitalismo e il libero mercato hanno condotto l’umanità a livelli di benesseremai sperimentati prima nella nostra storia.
Ciò è stato possibile grazie alla libera interazione di esseri umani, che hanno collaborato volontariamente portando ciascuno le proprie capacità e le proprie energie.
Questo risultato, se si guarda alla storia della nostra specie dalle origini fino all’età contemporanea, è tanto sorprendente da essere quasi miracoloso. Per quale ragione dovremmo affidarci a una guida dall’alto quando la cooperazione dal basso funziona così bene?
Negli ultimi anni l’attacco al liberalismo è stato condotto sfruttando l’ascesa della Behavioral Economics[1] e la diffusione della psicologia cognitiva e delle neuroscienze[2].
Ricercatori premi Nobel come Kahneman o Thaler[3] hanno dimostrato quanto spesso gli esseri umani prendano decisioni sulla base di bias, cioè di rapidi e pre-determinati meccanismi mentali, senza effettuare veri ragionamenti logici.
Per fare qualche esempio: fornite un campione di controllo di un numero di riferimento: anche se casuale, le persone tenderanno a usarlo come base per le loro stime (“bias di ancoraggio”); ed è molto forte l’abitudine degli individui di accettare solo informazioni che confermano una loro teoria precedente, trascurando i dati contrari (“bias di conferma”)[4]. La nostra tanto vantata razionalità non è utilizzata poi così spesso!
Tutto ciò mette davvero in crisi l’impianto politico ed economico liberale? La risposta è no, per tre semplici ragioni: la prima è che decidere se un’azione sia razionale o meno dipende molto dal punto di vista e dal sistema di valori del singolo individuo; per fare un esempio, il suicidio è considerato abitualmente una decisione irrazionale, ma quando è compiuto per ragioni patriottiche (come dai kamikaze giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale) si può ancora considerare tale? E chi lo decide?
La seconda è che gli stessi bias affliggono coloro che dovrebbero correggere e guidare gli altri esseri umani; e gli errori di chi è al potere sono ben più pericolosi di quelli della gente comune. La terza è che gli esseri umani sono molto bravi ad imparare ad agire con razionalità.
Vorrei in particolare approfondire quest’ultima osservazione. Molti degli esempi di irrazionalità dimostrati dagli psicologi cognitivi riguardano casi in cui gli individui devono affrontare situazioni nuove e prendere rapide decisioni; in questi casi è facile commettere errori, anche grossolani.
Le cose cambiano, però, quando si osserva il mondo reale: gli esseri umani si dimostrano sorprendentemente adattabili e capaci di modificare opinioni e comportamenti, quando hanno sufficiente tempo per riflettere e tentativi per guadagnare esperienza.
Un esempio perfetto in questo senso fu condotto in laboratorio nel 2004, simulando il funzionamento di un mercato competitivo in asimmetria informativa[5]; dopo appena una decina di interazioni i partecipanti ricrearono in maniera quasi perfetta l’andamento del mercato previsto dalla teoria economica, smentendo chi si aspetterebbe decisioni completamente irrazionali e basate su calcoli irrealistici.
Basti pensare, in scala più breve, a come siamo in grado di risolvere piccoli problemi della nostra vita quotidiana, quando impieghiamo le nostre capacità di ragionamento (dove spendere meno per i nostri acquisti, che strada seguire per evitare il traffico, ecc. ecc.).
La realtà è che l’essere umano ha capacità di apprendimento e adattamento impressionanti; e dispone di grande fantasia e immaginazione.
Queste qualità vanno sfruttate e incoraggiate, perché ci hanno già portato a livelli di benessere elevati e possono portarci ancora più in alto. Accettare una direzione dall’alto significa rinunciare alla nostra intelligenza e alla nostra capacità di coordinarci e aiutarci a vicenda, come liberi individui.
[1] La Behavioral Economics o economia comportamentale è una branca dell’economia che studia gli effetti di fattori sociali, psicologici e culturali sulle decisioni economiche degli individui
[2] Le neuroscienze e la psicologia cognitiva studiano rispettivamente il funzionamento del sistema nervoso e il modo in cui gli esseri umani formulano pensieri e ragionamenti
[3] Daniel Kahneman è uno psicologo israelo-americano, vincitore del Premio Nobel all’Economia nel 2002; Richard Thaler è un’economista americano, vincitore del Premio Nobel all’Economia nel 2017
[4] Per approfondimenti: Kahneman D., Thinking, Fast and Slow, 2011;Thaler R. e Sunstein C., Nudge: Improving Decisions about Health, Wealth and Happiness, 2008
[5] Esempio tratto da Levine D., Is Behavioral Economics Doomed?, 2012, capitolo 2
In Italia c’è un’ossessione per il Made in Italy agroalimentare, ovviamente sfruttata da vari politici. Se una persona vuole mangiare solo made in Italy, posto che ciò sia possibile, è una sua libertà fondamentale e inviolabile.
Tuttavia molti, dalla casalinga di Voghera al deputato, non si accontentano di scegliere legittimamente per la propria vita ma vorrebbero imporre la propria visione a tutti.
L’idea per cui il mercato cattivo uccide il Made in Italy contribuisce non poco all’atteggiamento anti-mercatista italiano: per la Lega, il libero mercato è un caos totale, una visione simile a quella di Fratelli d’Italia che contrappone l’apertura del mercato alla tutela del Made in Italy; il M5S vuole ogni tanto i dazi e, inoltre, condivide con Forza Italia un’idea fortemente dirigista dove si deve avere un sistema statale preposto all’esportazione del Made in Italy nel mondo. Il PD, spesso accusato di svendere il Made in Italy perché solitamente meno scettico della media sul libero commercio, purtroppo segue questo copione virandolo un po’ a sinistra e mettendoci di mezzo le multinazionali.
Ma per quali ragioni, fermo restando gli standard sanitari e l’onestà comunicativa, dovremmo importare prodotti stranieri? Ecco cinque ragioni.
Libertà individuale
Magari voi volete mangiare solo Made in Italy, è una scelta legittima. Ma magari c’è chi preferisce prodotti stranieri e questa preferenza non danneggia nessuno. Non è moralmente corretto, quindi, ostacolarla.
Dobbiamo abituarci ad una semplice idea: il mercato è democratico e ogni acquisto è un voto. Si può fare propaganda per la propria parte ma sopprimere un prodotto per favorirne un altro non è troppo diverso dal sopprimere un partito politico.
Di solito chi porta argomenti contro il libero commercio parla di “nostre tavole”. Niente di più sbagliato: la tavola è la mia, pago io, e vorrei decidere cosa metterci sopra.
Aiuta i più poveri
Magari per noi i trenta centesimi che ci possono essere di differenza tra un prodotto straniero e uno italiano sono poca cosa. Preferiamo un prodotto più buono spendendo di più, è la natura umana. Lo faccio anche io, quando prendo la pizza la prendo sempre con la bufala perché mi piace di più.
Ma per gli italiani più poveri quei trenta centesimi sono tanto. Sono soldi che potrebbero usare per comperare altro, per risparmiare, per realizzare un sogno o per investire e accrescere il proprio reddito.
Chiaramente di per sé trenta centesimi sono pochi ma sul totale il peso è considerevole. Un esempio abbastanza noto è quello del tanto odiato olio tunisino: costa significativamente meno rispetto all’equivalente italiano. Magari un signore anziano con la pensione minima preferirà condire la propria insalata con quest’olio, che a detta degli esperti non è affatto male, e avere più soldi per comperare altro, ossia abbiamo aumentato il suo potere d’acquisto.
Togliere la libertà di scelta danneggia soprattutto le fasce più deboli della società, ossia quelle che più beneficerebbero da prodotti a basso prezzo, nonché quelle a cui nominalmente i partiti si appellano di più.
Aiuta i Paesi lontani a svilupparsi
Si parla tanto di “aiutarli a casa loro”. E comperare i loro prodotti è il miglior modo di farlo. Gli aiuti continuati, come ben fa notare il buon Stossel in questo video, uccidono l’imprenditoria e quindi rendono, alla lunga, sempre più dipendenti dagli aiuti stessi.
Comperando, invece, si muove l’imprenditoria locale. Magari l’agricoltore che raccoglie a mano e fa un buon raccolto, riuscendolo a vendere in Occidente, potrà coi ricavi comperare nuovi strumenti e accrescere ulteriormente il proprio benessere economico e quello della propria comunità, in un ciclo virtuoso.
Mette in moto la concorrenza
C’è chi definisce l’Europa un ideale, chi un male necessario e chi come Satana. Io la definisco un’enorme organizzazione dedicata al limitare la concorrenza dell’agricoltura: infatti il 40% del bilancio europeo è destinato alla PAC, ossia la Politica Agricola Comunitaria. Il risultato? Meno del 2% del PIL europeo deriva dall’agricoltura.
In Nuova Zelanda l’agricoltura fu liberalizzata durante un governo laburista. Si temeva la distruzione della locale agricoltura ma, invece, oggi conta il 7% del PIL e della forza lavoro. In sostanza non esiste alcuna contrapposizione tra ruralismo e liberismo, anzi, le liberalizzazioni portano di solito ad un’agricoltura migliore.
La concorrenza non porterebbe alla fine della nostra agricoltura ma, invece, ad un miglioramento tecnologico: se esiste il caporalato, oggi, è soprattutto a causa della necessità di provvedere ad una richiesta agricola di basso livello, alla quale solo lavoratori di basso livello e pagati poco possono rispondere.
Quindi, se ci fosse più concorrenza, si arriverebbe a mutamenti tecnologici e dimensionali dell’impresa agricola in un settore con una dimensione ideale dettata dal mercato e non dalla Commissione europea. In questo modo, ed anche grazie alla tecnologia, è ben probabile che il benessere prodotto dall’agricoltura aumenti.
Dà importanza alle eccellenze
Ormai cito Giovanni Adamo II del Liechtenstein così spesso che, informalmente, chiamo il suo pensiero “la scuola di Vaduz“; d’altronde non è colpa mia se ha detto qualcosa di buono su qualunque cosa io scriva.
In un sistema protezionista ci sarà sempre una certa tendenza all’autarchia. Se l’industria agricola deve provvedere a produrre anche beni che si potrebbero produrre all’estero con una spesa minore, sta di fatto distogliendo persone e soldi dall’economia produttiva ma sta anche togliendo spazio alle eccellenze nazionali.
Ma, come fa notare il Principe, nel mondo odierno i commerci la fanno da padrona. Conviene puntare ad eccellenze da vendere a caro prezzo e delegare la produzione di beni semplici al mercato aprendo anche al mercato internazionale, invece di arroccarsi sulle proprie produzioni.
Questa, tra l’altro, è una delle ragioni per cui nel pensiero del Monarca gli Stati piccoli tendono ad essere più prosperi rispetto a quelli grandi: commerciano su tutto, avendo poche risorse naturali.
L’esempio del riso
Si parla tanto del riso italiano, minacciato dalla concorrenza sudasiatica. Eppure, parlando con un imprenditore del settore alimentare, ho scoperto una realtà che mai avrei immaginato: l’eccellente riso italiano sta scomparendo.
Più del 60% della produzione nazionale è Indica, un riso ad alta resa usato soprattutto per sushi, contorni, e insalate di riso. E, come dice il nome stesso, è un riso tradizionale asiatico.
Il riso italiano è diventato un riso cinese prodotto in Valpadana. Perché? Perché all’industria è stato chiesto di soddisfare la domanda di questo riso nel nome del nazionalismo alimentare, del “bisogna tutelare il riso italiano”.
Cosa potrebbe succedere se iniziassimo a importare il riso asiatico ad alta resa dall’Asia? Sicuramente libereremmo risorse per tornare a produrre il riso italiano d’eccellenza, quello che si vende a caro prezzo in tutto il mondo e permette di fare deliziosi risotti, invece di fare un riso normalissimo che chiunque può produrre senza particolare talento.
Robin Hood, eroe Ancap che combatteva contro le tasse imposte ingiustamente dallo Stato ai cittadini, è oggi inspiegabilmente noto ai più come una sorta di protosocialista che rubava ai ricchi per dare ai poveri.
Robin Hood, tuttavia, è solo una figura semileggendaria. Al contrario, gli aspiranti Robin Hood di oggi (Sanders ed i Socialisti Democratici, Corbyn, Mélenchon) sono purtroppo assai reali, e loro sì che intendono togliere ai ricchi per dare ai poveri (o meglio, di sicuro intendono togliere ai ricchi, il resto non è altrettanto certo).
Ma al di là del dibattito storico-letterario su Robin Hood, rubare ai ricchi per dare ai poveri è una buona idea? Può essere davvero una valida soluzione ai problemi economici?
Innanzitutto, qualche numero utile, preso dalla patria stessa del turbocapitalismo neoliberista, gli Stati Uniti. Ad oggi, l’uomo più ricco d’America è Jeff Bezos, con un patrimonio pari a circa 118 miliardi di dollari. In totale, oggi negli Stati Uniti vivono 705 miliardari, per un valore totale di oltre 3000 miliardi di dollari[1]. Sembra una cifra enorme, e lo è, ma la matematica non depone a favore di Sanders e dei Socialisti Democratici.
Il cavallo di battaglia di questi ultimi è il Green New Deal, il meraviglioso piano seguendo il quale un forte governo centrale (nelle mani delle persone giuste, naturalmente) potrebbe creare un paradiso di ecosostenibilità ed uguaglianza per tutti i cittadini americani. Il costo di questo bellissimo sogno? La modica cifra di oltre 16000 miliardi di dollari[2], e più potere nelle mani dello Stato[3].
Quindi, anche conferendo allo Stato il potere per confiscare in toto la ricchezza dei miliardari in perfetta legalità, resta un disavanzo di 13000 miliardi di dollari che potrebbe essere colmato solo in 2 modi: facendo debito o confiscando altra ricchezza (ma non quella dei pianificatori del Green New Deal).
Un altro numero utile: il budget federale fissato per il 2020 è pari ad oltre 4700 miliardi di dollari[4]. Quindi, anche inviando Bezos, Gates e tutti gli altri in un gulag, il denaro raccolto non sarebbe sufficiente neanche a mandare avanti il governo federale per un anno intero.
Qui poi bisogna aprire una parentesi: in realtà, già adesso sono gli odiatissimi ricchi a mandare avanti il governo federale, e di conseguenza a sostenere i programmi di welfare tanto cari ai Socialisti Democratici.
Le entrate del governo federale, infatti, derivano principalmente dalle imposte sul reddito. Nel 2016, il 50% più ricco della popolazione ha pagato il 97% delle imposte sul reddito, mentre l’altra metà più povera della popolazione ha pagato il restante 3%. In particolare, l’1% più ricco della popolazione da solo ha pagato il 37,3% delle imposte sul reddito[5].
Un ultimo elemento di cui bisogna tener conto: quando i populisti di sinistra propongono di far pagare ai ricchi “la loro giusta parte”, con delle leggi se possibile o con la violenza se necessario, probabilmente pensano che tutti i miliardi dei loro patrimoni esistano in contanti. Naturalmente, le cose non stanno così.
Jeff Bezos, infatti, non è Zio Paperone, non possiede un enorme deposito nel quale conservare i suoi 118 miliardi di dollari sotto forma di un mare verde di banconote. Il patrimonio complessivo di Jeff Bezos (immobili, azioni di Amazon e contanti) vale 118 miliardi di dollari, ma per confiscarli sarebbe necessario confiscare tutte le sue azioni e venderle, e solo un populista di sinistra potrebbe pensare seriamente di poter vendere tutte queste azioni senza far crollare il loro valore.
Risulta chiaro, pertanto, che “rubare ai ricchi per dare ai poveri”, lungi dall’essere una valida soluzione a qualsivoglia problema economico, non è nient’altro che uno slogan utile per la propaganda in tempo di elezioni, e questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore delle ipotesi, una massa critica di elettori potrebbe dare ascolto a questa propaganda, con conseguenze fin troppo ben immaginabili.