La coscienza del limite: rispettare la libertà del prossimo

La libertà è una caratteristica dell’individuo, non può essere sacrificata in nome di un bene superiore e comune.
La libertà di un uomo finisce dove inizia quella di un altro.

Un individuo ha la propria volontà, il proprio carattere, i propri gusti, le proprie inclinazioni, in base a ciò egli prende coscienza del proprio io e plasma la sua persona. Ognuno ha il diritto e il dovere di autodeterminare la propria vita. Corollario di questo ragionamento è che nessuno può imporre a un altro la propria volontà, sacrificando i desideri del prossimo in nome di un bene comune. L’abuso della libertà altrui condanna il prossimo all’infelicità, nonostante si abbiano buone intenzioni, nonostante lo si faccia “per il suo bene”.

Tutto bello in teoria, ma nella pratica l’applicazione è difficile. Per comprendere a fondo il concetto meglio tenere da parte per un attimo i discorsi filosofici, ci si deve concentrare invece sulle piccole situazioni che accadono nella vita di tutti i giorni.

L’esempio più banale e più profondo è l’amore.

L’innamorato, libero di provare un nobile sentimento per un’altra persona (ovviamente senza distinzione di sesso, razza, religione ecc.), deve farsi avanti e deve affrontare il sacrosanto limite della libertà dell’amato. Quest’ultimo ha di fronte una scelta da compiere, o accettare il sentimento dell’altro o rifiutarlo.
Se accade la prima cosa, ci sono le basi per costruire un tipo di relazione che vada oltre il “libero scambio”, la quale comporta anche dei sacrifici, che per essere tali, cioè “sacri” come da origine latina del termine, devono essere volontari.

La grande sfida è comportarsi da signori di fronte al rifiuto.

Se veramente si ama il prossimo, si accetta il rifiuto, si dà prova di intelligenza e umanità in quanto si dimostra di mettere davanti al proprio egoismo, la volontà, i gusti e la libertà della persona amata. Ciò che succede dopo, è affare personale dei due individui. Così si sceglie di essere felici, accettando la realtà e permettendo alla persona amata di costruire liberamente la propria vita. Si accetta che la libertà umana ha pari dignità, senza alcuna distinzione tra individui.

Se invece prevale la parte egoistica, inizia una vera e propria persecuzione nei confronti del prossimo, che da quel momento non può definirsi “amato”. Si attua una coercizione della libertà altrui, sacrificandola per il “bene superiore”, cioè l’amore che dovrebbe rendere felice il prossimo senza rispettarne la volontà. Un paradosso.

Si badi bene che non si parla di educazione, in cui il genitore ha il dovere di impedire al figlio una scelta avventata o sbagliata o insensata. Qui si parla di qualcosa di più profondo, cioè l’intrecciarsi di due vite, delle rispettive libertà e volontà, tra due individui adulti, consapevoli della propria persona e della propria unicità, entrambi dotati della somma ricchezza che un uomo possa possedere, la propria libertà.

In questo, il Cristianesimo, base della nostra civiltà occidentale, ci lascia due comandamenti, che è bene vengano presi come principi guida e valori fondanti della vita di un liberale:

“Ama il prossimo tuo come te stesso”
“Non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te”.

Confrontarsi con la realtà ci mette di fronte a dei limiti: alcuni sono fatti per essere superati, se concernono solo la volontà dell’individuo; altri per essere rispettati, se si mette in gioco la volontà del prossimo.

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico?

Il liberalismo può essere considerato un antidoto patriottico? Dipende da cosa intendiamo come patriottismo. Il patriottismo è spesso associato al nazionalismo, nonostante siano in realtà due pensieri politici molto diversi. Se un giorno dovessi spiegare che differenze ci siano tra i due pensieri, direi che il nazionalismo  è un aspetto oggettivo e il patriottismo un aspetto soggettivo.
 
Con il nazionalismo è lo Stato o il Governo che dice cosa dobbiamo fare per rendere forte l’Italia, con il patriottismo siamo noi cittadini che diamo qualcosa per rendere forte l’Italia. Facciamoci caso, i movimenti nazionalisti della storia italiana si sono sempre espressi come partiti socialisti, in quanto i cittadini si devono “sottomettere” al governo per il bene della nazione.
 
Queste politiche finivano sempre con il rafforzare qualcuno, mentre tanti finivano con l’essere indeboliti. Il socialismo rafforza chi rientra nelle grazie del Governo e dello Stato, ma indebolisce e rende poveri tutti gli altri cittadini.
 
Con il patriottismo, la situazione è molto diversa. Con il patriottismo, sono i cittadini che si rendono disponibili per il proprio Paese. Con i propri doveri, ciascun cittadino contribuisce per migliorare il proprio Paese.
 
In tutto ciò che rapporto esiste tra liberalismo e patriottismo? Se con il socialismo, non solo non siamo liberi, ma tendiamo a ricevere ingiustizie e tendiamo a diventare sempre meno civili con il prossimo, con il liberalismo, invece, nessuno è più penalizzato da tasse e tutti sono posti sullo stesso piano formale.
 
Essere costantemente “aggrediti” dalle tasse vuol dire che il reddito che noi produciamo, non solo finisce alle persone che non producono reddito, ma non riceviamo lo stesso equivalente in servizi da parte dello Stato. Questo provoca malumori, inciviltà e cattiva propensione verso la solidarietà.
 
In Italia la solidarietà imposta dallo Stato ha fallito.
 
Dunque è opportuno iniziare a cambiare questo Paese, iniziando a dare più potere ai cittadini e meno allo Stato. La solidarietà e il civismo possono essere stimolati anche senza ricorrere alle tasse. La solidarietà e il civismo non si stimolano rendendoci tutti “poveri” come pretendono di fare i movimenti o partiti socialisti.
 
In sostanza, il pensiero liberale è l’unico a poter sostenere e incoraggiare le virtù dei cittadini, in modo tale che grazie ai nostri comportamenti, altruisti o egoisti che siano, l’Italia possa essere forte, non solo nel proprio quartiere, ma anche nel mondo.
 
Avere una cultura liberale vuol dire sostenere la nazione senza dover penalizzare altre persone. Si tratta di approcci diversi, in quanto secondo le culture non liberali il cittadino deve sacrificarsi per il bene di tutti. Un liberale, invece, ritiene che il successo di una nazione dipenda dall’insieme dei successi dei suoi cittadini, permettendo a loro di poter dare il meglio di sé.

5 motivi per cui dovresti supportare il Libero Mercato

Prima di dire “il neoliberismo dei poteri forti ci renderà tutti schiavi”, è il caso di leggere attentamente i motivi per cui bisogna essere favorevoli al libero mercato.

  1. Il commercio stimola la crescita economica e riduce la povertà

    A partire dalla seconda guerra mondiale, si è assistito all’espansione del commercio internazionale, rafforzatasi quasi trent’anni fa con il crollo del comunismo sovietico. Forse saranno di parte, ma gli economisti ritengono che sia i mercati sia il commercio contribuiscano considerevolmente alla crescita economica e, dunque, alla riduzione della povertà. Gli studi a riguardo sono innumerevoli, basta una veloce ricerca su google per vedere come la povertà sia diminuita negli ultimi decenni grazie al mercato internazionale.

    Oltre ad un’enorme quantità di prove empiriche che supportano queste presunzioni teoriche,  vi sono forti prove che l’economia di libero mercato è economicamente superiore alla pianificazione centrale socialista e che il commercio è importante per la crescita.

    Una meta-analisi del 2013, di 60 studi (Link al pdf con la relazione riguardante gli studi) che hanno esaminato la performance economica delle economie socialiste pianificate  dopo aver subito la liberalizzazione economica (riforme pro-mercato), ha rilevato che la letteratura empirica indica che la liberalizzazione ha ridotto la crescita economica nel breve periodo, ma ha avuto forti effetti positivi sulla crescita economica nel lungo periodo. In particolare, “gli effetti positivi delle riforme superano i costi dopo circa un anno e quindi continuano a contribuire alla crescita economica“.

    La liberalizzazione del commercio, ovvero un processo che comporta la riduzione o la rimozione delle barriere erette dallo Stato di fronte al commercio internazionale, si è rivelato particolarmente vantaggioso. Secondo la suddetta meta-analisi, i costi a breve termine della liberalizzazione degli scambi sono inferiori del 20% rispetto ad una media riforma economica  e i benefici a lungo termine sono circa il 40% maggiori.

  2.   Il commercio riduce la disoccupazione

    Uno degli argomenti più comuni contro il libero mercato è che se i consumatori acquistano merci straniere al posto di beni nazionali, la disoccupazione del proprio paese aumenterà.
    C’è da aspettarsi che la concorrenza delle importazioni in un dato settore porti a perdite interne di occupazione, tuttavia, i soldi risparmiati dai consumatori acquistando beni stranieri possono essere spesi o investiti altrove, creando occupazione in altri settori. Non bisogna dimenticare, cosa ancora più importante, che la concorrenza favorisce il progresso, per poter rimanere sul mercato è necessario essere sempre innovativi, puntando su ricerca e sviluppo. Allora il guadagno è duplice: le aziende saranno stimolate a migliorare per non chiudere e al contempo si abbasseranno i costi, verrà migliorata la qualità e si apriranno nuovi ambiti lavorativi.

    Il pre-requisito fondamentale è la concorrenza leale, ovvero il rispetto di alcuni standard sulla tutela dell’ambiente e dei lavoratori. Qualcosa che nei paesi in via di sviluppo, ancora nessuno ha messo in discussione.

  3. Il commercio migliora gli standard lavorativi

    Gli oppositori del libero commercio hanno spesso sostenuto che questi conduca a una “caduta libera” degli  standard lavorativi. Sostengono che le pressioni concorrenziali indotte dal commercio potrebbero incoraggiare i paesi a competere gli uni contro gli altri riducendo gli standard lavorativi e le condizioni di lavoro al fine di ridurre i costi.

    Ma un’altra ricerca li smonta del tutto ( link a: National Bureau of Economic Research ), rivelando che:

    Gli studi empirici esistenti trovano scarso supporto per gli argomenti della “caduta libera”. Se non altro, ci sono prove che una maggiore apertura commerciale aumenta il livello e la conformità con i salari minimi e riduce il lavoro minorile. Allo stesso modo, ci sono poche prove che le riforme del commercio siano associate ad un peggioramento delle condizioni di lavoro.

  4. Il commercio riduce la probabilità di un conflitto armato

    I fautori del libero mercato hanno spesso sostenuto che l’interdipendenza economica sotto forma di commercio limita l’incentivo alla belligeranza interstatale sotto forma di conflitto militare. Il celeberrimo Frederic Bastiat ha  affermato che “se i beni non attraversano i confini, saranno i soldati a farlo“. In effetti, questa ipotesi potrebbe effettivamente essere vera e non soltanto un bellissimo aforisma: pare che lo confermino gli studi della Asian Development Bank, disponibili cliccando su questo testo.
    In altre parole, è ragionevole credere che le intuizioni di Bastiat fossero effettivamente vere. Il commercio internazionale si è espanso nel tempo e di conseguenza sembra che il mondo sia diventato molto più pacifico.

  5. Il commercio aumenta la speranza di vita e riduce la mortalità infantile

    Abbiamo precedentemente visto come l’apertura al commercio aumenti la crescita economica e quindi riduca la povertà, non dovrebbe sorprenderci che i paesi più aperti agli scambi generalmente abbiano migliori risultati in termini di salute. In questo caso, siccome l’affermazione è piuttosto forte, citeremo’ più ricerche scientifiche:
    – Dierz Erzer ( link alla ricerca )
    – Owen e Wu ( link alla ricerca )
    – Stevens ( link alla ricerca )
    L’apertura commerciale ha un effetto positivo a lungo termine sulla salute, misurato dall’aspettativa di vita e dalla mortalità infantile;  l’aumento degli scambi è sia una conseguenza che una causa di miglioramento della salute. Mi spiego meglio: è venuto a crearsi un circolo virtuoso per cui una salute migliorata porta a più scambi, e un aumento del commercio favorisce ulteriormente la salute della popolazione.

    Conclusioni:

    Vi sono prove piuttosto convincenti del fatto che politiche commerciali più libere conducano a una crescita economica più rapida e a  minori povertà e disoccupazione, contrariamente alle affermazioni avanzate dai protezionisti. Inoltre, l’adozione di politiche di libero mercato nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale ha contribuito a ridurre i conflitti militari. I vantaggi del libero scambio sembrano innegabili, e vale la pena tenerli a mente quando i neo-mercantilisti affermano che il miglior modo con cui un paese può diventare ricco è impegnarsi nel protezionismo e nel nazionalismo economico.

I postmodernisti della giustizia sociale vogliono la fine dell’Occidente liberale

Il tribalismo, il marxismo culturale e l’antiliberalismo che permeano la scena politica italiana sono nettamente evidenti a chiunque abbia prestato interesse al fenomeno della crescita metastatica dei movimenti contemporanei di “giustizia sociale”.

Il liberalismo nella sua interezza e nella sua filosofia ha sempre sostenuto valori come libertà di parola e di espressione, la discussione civile e il libero scambio di idee, ha sempre reputato corretto giudicare gli individui in base al loro carattere e alle loro qualità, e non per mezzo di caratteristiche superficiali come il colore della pelle o il genere di appartenenza.

Dati alla mano, i movimenti giustizialisti e illiberali si oppongono a questo complesso di idee e valori, e per capire il motivo è prima necessario approfondire l’ideologia dietro alla “giustizia sociale”.

Nel fulcro del pensiero, la filosofia del movimento per la giustizia sociale è saldamente radicata nel marxismo culturale. Proprio come Karl Marx vide il capitalista come l’oppressore sfruttatore della classe operaia, il collettivismo illiberale adotta una visione del mondo in cui gli uomini bianchi eterosessuali sono la classe degli oppressori e le minoranze, come stranieri e donne, sono gli oppressi.

Oppure, nel caso opposto ma sempre di un altro tipo di collettivismo illiberale, la visione è quella di un mondo in cui i diritti dei bianchi sono messi in discussione dai non bianchi.

Potremmo persino essere d’accordo con chi promuove attualmente le parità, se non fosse per la chiara divergenza nell’affrontare la questione: il collettivismo illiberale ha respinto la tendenza del liberalismo a giudicare gli individui come individui e ha invece adottato l’approccio marxista di giudicare le persone sulla base del gruppo a cui appartengono, interscambiando le identità di etnia e di genere per quelle economiche.

L’ascesa del populismo di destra è in parte una reazione alla politica dell’identità della sinistra socialista che dipinge gli uomini bianchi in una luce negativa.

Qualche tempo fa, in Inghilterra, è passata una notizia che può dare l’esempio più lampante dei classici “giustizieri sociali”; una donna, dopo aver impedito l’accesso ad un evento agli individui di sesso maschile, ha affermato di fronte ai giornalisti:

“I, as an ethnic minority woman, cannot be racist or sexist towards white men, because racism and sexism describe structures of privilege based on race and gender, and therefore women of colour and non-binary genders cannot be racist or sexist as we do not stand to benefit from such a system.”

(Fonte: The Guardian https://www.theguardian.com/world/2015/may/20/goldsmiths-racism-row-divides-students-bahar-mustafa )

La traduzione:

Io, una donna appartenente alle minoranze etniche, non posso essere razzista o sessista nei confronti degli uomini bianchi, perché il razzismo e il sessismo descrivono strutture di privilegio basate sulla razza e sul genere, e quindi le donne di sesso e di genere non binario non possono essere razziste o sessiste, dunque non siamo in grado di beneficiare di un simile sistema.

Come? Pensi sia una supercazzola del Conte Raffaello Mascetti?

Ovviamente, è innegabile la presenza del razzismo sul suolo nazionale ed europeo e non voglio assolutamente difenderlo in alcun modo, poiché è sintomo di una fortissima ignoranza proveniente da una mentalità pregiudizievole.

I primi promotori dell’odio fra classi (che, oltretutto, hanno imposto loro), fra etnie, fra sessi, fra gruppi identitari sono proprio i collettivisti.  Il loro tribalismo illiberale è chiaramente intento a soffocare la libertà di parola, la libertà accademica e il libero scambio di idee, il tutto nel nome della loro visione di giustizia sociale.

Inoltre, sebbene pretendano di ridurre la frammentazione e la segregazione razziale, etnica e sessuale, probabilmente non ha fatto altro che promuoverle. Per il bene della libertà, dell’uguaglianza formale (e non sostanziale!) e della società civile, i liberali occidentali devono fare del loro meglio per convincere i propri concittadini che la cultura regressiva e illiberale non è un’ideologia che merita di essere sostenuta.

Concentriamoci ancora un attimo sul razzismo: per definizione, è la convinzione che alcune razze siano naturalmente superiori alle altre e che la razza sia il fattore determinante principale dei tratti umani. La discriminazione razziale consiste nel trattare le persone in modo diverso esclusivamente sulla base della loro razza e non ha nulla a che fare con “strutture e privilegi”.

I giustizieri sociali come questa donna hanno letteralmente ridefinito il razzismo per giustificare il proprio razzismo. Dal loro punto di vista, le loro azioni sono giustificate in quanto sono una risposta naturale all’oppressione.

Quando a qualcuno viene detto, o è implicito, che ci sono individui cattivi e che lo sono a causa del colore della pelle, dell’orientamento sessuale o quant’altro, è naturale che questi inizino ad associarsi ancora di più con quell’identità di gruppo basata su tali caratteristiche piuttosto che vedere se stessi come individui.

Il metodo utilizzato è il medesimo sia a destra che a sinistra (sia in quel noto movimento giustizialista tanto di moda ultimamente), mentre noi liberali proponiamo l’implicita soluzione adeguatissima al caso.

Invece di promuovere una società unificata in cui le persone si vedono come individui piuttosto che come parte di un particolare gruppo, il movimento per la giustizia sociale è probabilmente responsabile di un’ulteriore divisione delle persone lungo linee tribali. Esistono mezzi molto migliori per sradicare il razzismo e il sessismo dalla società rispetto alla politica dell’identità su cui si basa il movimento per la giustizia sociale.

Perché questi movimenti tribali intolleranti sono anche illiberali?

Il marxismo economico vede i mercati liberi e i diritti di proprietà privata (cioè la libertà economica) come un mezzo per proteggere la classe capitalista dal proletariato che sfruttano per mantenere la loro egemonia socioeconomica.

Il marxismo culturale comprende allo stesso modo le libertà politiche fondamentali, come la libertà di parola e di espressione, come meccanismi con cui coloro che detengono il potere, principalmente uomini eterosessuali bianchi, usano per mantenere la loro egemonia socioeconomica a vantaggio delle minoranze e delle donne.

Perché rispettare i diritti della classe di cui stai cercando di distruggere il potere? E così, secondo il pensiero marxista, i tuoi diritti politici dipendono interamente dalla classe a cui appartieni.

Così, invece di vedere la libertà di parola come un diritto individuale sacrosanto, il tribalismo illiberale la vede come un ostacolo sulla via della giustizia sociale.

Abbiamo sentito parlare della legge sulle fake news, ma il dibattito che si cela dietro è ancor più importante: una buona parte della componente illiberale ritiene sia compito dello Stato la censura delle dichiarazioni offensive alle minoranze.

Questa constatazione è triste, poiché sembra che i giovani siano sempre più inclini a mettere a tacere le persone con cui non sono d’accordo piuttosto che impegnarsi a contrastarli nel dibattito civile. Questa censura sarebbe solo l’inizio di una lunga serie di riforme illiberali.

Quali sono i danni dei sindacati italiani?

 

In principio ci furono le battaglie sindacali degli anni sessanta. Si raggiungessero risultati importanti come lo Statuto dei Lavoratori (1970).
Per i sindacati e gli ambienti del comunismo si trattava di un passaggio storico per l’Italia con l’emancipazione del lavoratore. In realtà, si trattava dell’inizio di una serie di diritti riconosciuti che – con il passare del tempo – iniziavano ad apparire sempre più come dei privilegi.

Molte delle aziende coinvolte erano strategiche per lo Stato (vedasi FIAT) e di medie e grandi dimensioni, perché erano quelle più in grado di mettere in crisi un Paese (con scioperi e manifestazioni) e in difficoltà i governi.
Le lotte sindacali hanno permesso di raggiungere dei risultati, sia dal punto di vista contrattuale, con il contratto a tempo indeterminato sempre più forte e con i contratti collettivi, sia dal punto di vista economico.
Grazie alle lotte sindacali i lavoratori godevano di protezioni statali di ogni genere (malattia, maternità, disoccupazione parziale o temporanea) e di pensioni molto generose. Con le lotte sindacali nasce il famoso “posto fisso” della Prima Repubblica.

Questo modello si manteneva funzionale fino a quando c’era solo il padre di famiglia che lavorava (tranne alcune aziende che assumevano anche donne). Ma con il passare del tempo, con la globalizzazione, le dislocazioni e le diverse esigenze dei cittadini (e non solo dei datori di lavoro), le aziende che rientravano nella categoria dei protetti da Stato e Sindacati iniziarono a vacillare. In parallelo, con l’aumento delle tasse e del costo della vita, non bastava più il lavoro del padre di famiglia, ma serviva anche il lavoro della madre, con tutte le conseguenze che ne determinava, come pagare l’asilo nido.
Ma i sindacati, nonostante si autoproclamavano “difensori dei lavoratori”, si sono concentrarti solo su una parte sempre più minoritaria di lavoratori, ostacolando qualsiasi tentativo di riforma e garantendo proficue pensioni ai lavoratori di queste categorie.

  • Morale della favola è che oggi sono cambiate tante cose, ma dal punto di vista del lavoro:
  • I contratti collettivi a tempo indeterminato e le varie protezioni, nate con le battaglie sindacali, risultano troppo costosi e poco funzionali;
  •  chi è stato assunto fino a metà duemila, oggi risulta un grande costo sia per il datore di lavoro e sia per tutti i cittadini (visto il grande costo tra indennità, pensione e disoccupazione);
  • i datori di lavoro tendono ad assumere con altri contratti che godono di poche protezioni, ma sono meno costosi;
  • Chi viene assunto con contratti non-protetti, è costretto a pagare tante tasse per coloro che hanno avuto o hanno attualmente un contratto protetto.

In sostanza, i sindacati per proteggere una categoria di lavoratori, ha indebolito gravemente il resto dei lavoratori e contribuendo allo sviluppo di lavori irregolari e temporanei. Bisogna, dunque, riformare i contratti di lavoro anche di coloro che sono stati assunti in passato, perché siamo stanchi di vedere delle persone sacrificate per colpa di coloro che sono stati assunti con le condizioni stabilite durante le lotte sindacali. Per quanto riguarda i sindacati, sono per l’abolizione e la sostituzione con mediatori civili che sappiano essere imparziali e propositivi nel far raggiungere un punto d’incontro e per il reciproco rispetto tra datore di lavoro e lavoratori.

L’ascesa del Nazismo ci fu per colpa dei socialisti [Riflessioni su Hayek]

Friedrich Von Hayek, nel suo celeberrimo saggio La via della schiavitù evidenzia l’importantissima connessione tra gli intellettuali socialisti e quelli nazisti, profilando una manciata di importanti sostenitori marxisti tedeschi le cui convinzioni filosofiche si sarebbero radicalizzate durante la prima guerra mondiale.

Mentre le loro carriere accademiche erano incentrate sulla diffusione della filosofia socialista, molti in seguito giunsero alla conclusione che niente a parte il nazismo avrebbe aiutato a realizzare il necessario cambiamento rivoluzionario che ciascuno di loro desiderava, ovvero l’unione di tutte le forze anti-liberali nel socialismo.

Contrariamente al pensiero comune, Hayek sottolinea che il nazismo non è semplicemente nato in un pub della Baviera senza alcuna correlazione con la cultura tedesca, oltre al fatto che non abbia infettato come una malattia le pie anime dei tedeschi sotto il Kaiser. Le radici a cui fa riferimento crescevano negli ambiti accademici, riformulandosi nella tipica filosofia sintetizzabile nei seguenti precetti: la superiorità del popolo germanico (si può ben notare come fosse radicata da più di due secoli leggendo persino gli illuministi tedeschi pre-unitari), la rinuncia dell’Individuo e la distruzione della sua figura in favore della collettività (Hegel docet), la guerra ultima.

Il dodicesimo capitolo del saggio, intitolato “Le radici socialiste del nazismo“, inizia così:

È un errore comune considerare il nazionalsocialismo come una semplice rivolta contro la ragione, un movimento irrazionale privo di background intellettuale. Se così fosse, il movimento sarebbe molto meno pericoloso di quello che è. Ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità o più fuorviante.

Poche righe più avanti, disquisendo sui leader intellettuali del socialismo che in seguito aiutarono a gettare le basi intellettuali per l’ascesa del Terzo Reich, Hayek afferma:

Non si può negare che gli uomini che hanno prodotto le nuove dottrine fossero potenti scrittori che hanno lasciato l’impronta delle loro idee sull’intero pensiero europeo. Il loro sistema è stato sviluppato con una spietata coerenza. Una volta accettate le premesse da cui inizia, non c’è via di fuga dalla sua logica.

Continua poi:

Dal 1914 in poi nacque dalle fila del socialismo marxista un insegnante dopo l’altro che guidò, non i conservatori e i reazionari, ma il lavoratore laborioso e la gioventù idealista nella piega nazionalsocialista. Fu solo in seguito che l’ondata di socialismo nazionalista raggiunse un’importanza maggiore e crebbe rapidamente nella dottrina hitleriana.

Ora, l’analisi passa ai leader del pensiero socialista. Il primo della lista è Werner Sombart (1863-1941),  marxista devotissimo che in seguito abbracciò  calorosamente il nazionalsocialismo e la dittatura:

Sombart aveva iniziato come socialista marxista e, nel 1909, poteva affermare con orgoglio di aver dedicato la maggior parte della sua vita alla lotta per le idee di Karl Marx. Aveva fatto tutto il possibile per diffondere idee socialiste e risentimento anti-capitalista di varie sfumature in tutta la Germania; e se il pensiero tedesco era così intriso di elementi marxiani in un modo da non essere comparabile a nessun altro paese fino alla rivoluzione russa, questo era in gran parte dovuto a Sombart.

Quest’uomo era anche un forte sostenitore della guerra e del ruolo del soldato alla prussiana per ogni tedesco maschio e adulto. Aveva la forsennata convinzione che una guerra tra la società capitalista inglese di “venditori ambulanti” e la società guerriera tedesca di “eroi” fosse inevitabile e vitale per il progresso del mondo.

Successivamente Hayek si dedica al professor Johann Plenge (1874-1963), citando qualche brano di quest’ultimo:

È giunto il momento di riconoscere il fatto che il socialismo deve essere una politica di potere, perché deve essere un’organizzazione. Il socialismo deve conquistare il potere: non deve mai distruggere ciecamente il potere. E la questione più importante e cruciale per il socialismo nel tempo della guerra dei popoli è necessariamente questa: quale popolo è preminentemente chiamato al potere, perché è il leader esemplare nell’organizzazione dei popoli?

Anche questo, un altro fanatico pazzo. Eppure, fuori da queste righe, rispecchiava alla perfezione il pensiero socialista.

Hayek cita anche Oswald Spengler (1880-1936), il quale incanala il socialismo direttamente nel nazismo, come possiamo vedere da questo suo paragrafo:

La questione decisiva non solo per la Germania, ma per il mondo, che deve essere risolta dalla Germania per il mondo è: nel futuro sarà il commercio a governare lo stato, o lo stato a governare il commercio? Di fronte a questa domanda il prussianesimo e il socialismo hanno la stessa risposta. Prussianesimo e socialismo combattono l’Inghilterra che sta nel mezzo.

Direttamente nel nucleo socialista, e come specificato da questi pensatori tedeschi, il liberalismo era (ed è ancora oggi) l’arcinemico della pianificazione e dell’organizzazione. E a meno che non venisse adottato il nazionalsocialismo a tutti gli effetti, il concetto di individuo non sarebbe stato sufficientemente distrutto nella mente di tutte le persone da permettere il dominio autoritario.

Questo odio e timore nei confronti dell’individuo è la visione del mondo abbracciata da questi pensatori e continua con coloro che affermano di essere socialisti oggi. A meno che il concetto di individualismo non venga completamente sradicato dalla mente di ogni persona, lo Stato come Spirito Assoluto non può venire alla luce.

Ecco perché l’individualismo è estremamente importante: per evitare un nuovo dittatorialismo autoritario, dal quale saremmo destinati a non uscire più. È l’individuo, più di ogni altra arma, insieme alla visione filosofica che difende i suoi diritti, che presenta il più grande ostacolo al totalitarismo.

Legge Severino: tra Incostituzionalità e Strumentalizzazione

La legge Severino stabilisce l’incandidabilità per i condannati in via definitiva per una serie di reati, ma anche la sospensione temporanea dall’incarico per governatori, sindaci, e amministratori locali che abbiano anche una sola condanna, in primo o secondo grado.

Le argomentazioni riguardo la Severino sono tornate in auge in questi giorni perché, come ricorderete, ha sancito la decadenza di Silvio Berlusconi dal Senato e la sua incandidabilità, verdetto sul quale il patron di Mediaset ha fatto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e il 22 novembre scorso si è tenuta la prima udienza.

Le domande che ci si pone sono: questa legge è giusta? E’ in linea con la costituzione? E’ coerente con uno stato di diritto in regime di democrazia?

La Costituzione cita così: “art. 65 La legge determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità con l’ufficio di deputato o di senatore“, “art. 66 Ciascuna Camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità”.

Ad un occhio non particolarmente attento potrebbe sembrare chiusa la questione, ma non è così. Le cause d’incandidabilità configurano uno status di inidoneità funzionale all’assunzione di cariche elettive, le cause di ineleggibilità, servono invece a garantire la libera ed eguale espressione del voto del corpo elettorale. Dunque se le cause di ineleggibilità e incandidabilità non coincidono, è tutto da dimostrare che il legislatore possa definire incandidabile un cittadino alle elezioni per il Parlamento. Questo per quanto concerne l’art. 65 cost..

Per il successivo invece che stabilisce che «spetta alla Camera di appartenenza giudicare sui titoli di ammissione dei suoi componenti e delle cause sopraggiunte di ineleggibilità e di incompatibilità», ci si addentra nelle questioni di incandidabilità sopravvenuta, in sostanza si parla di retroattività. Cioè l’organo giudiziario (potere giudiziario appunto) con una sentenza, può modificare la composizione politica del parlamento (potere legislativo) potendo portare alla decadenza del parlamentare che è stato precedentemente votato democraticamente.

A mio avviso ci sono gli estremi per andare contro anche ad un altro articolo della Costituzione, il terzo: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Vien da chiedersi in fine, come una sentenza di primo (o secondo) grado, possa esser tenuta così tanto in considerazione, quando potrebbe essere sconfessata nei gradi successivi.

In conclusione, il mio parare sulla questione è che se un candidato non merita di sedere in Parlamento, questo deve essere sancito dall’elettore che democraticamente sceglierà di non votarlo conoscendo il suo pregresso giudiziario (o magari sì). Mai e poi mai, un potere diverso da quello legislativo deve poter influire sulle scelte democratiche dell’elettorato.

La libertà concessa per legge non è libertà

Una donna cinese disse del blocco del governo su Google:  “Il governo dovrebbe dare alle persone il diritto di vedere ciò che vogliono online“. Un classico esempio di mentalità statalista, sia da una parte sia dall’altra: il governo deve dirti in cosa sei libero, quanto sei libero, in che modo devi esercitare la tua libertà?

La signorina considera i diritti delle gentili concessioni da parte del governo, che possono essere date e tolte e, quindi, controllate e regolate.

Consideriamo la situazione economica in Cina. Gli affari vanno a gonfie vele. La prosperità è alle stelle. Il tenore di vita è al massimo storico. Molte persone stanno arricchendosi esponenzialmente (anche se molti di loro sono funzionari del Partito). Qual è la ragione di tutta questa vivacità economica?

Semplice. Sei in un sito liberale, di cosa starò per parlare? Il governo ha ridotto la quantità di controlli precedentemente esercitati sull’attività economica. Meno regolamenti. Meno tasse. Meno burocrazia. Ridotte le restrizioni all’importazione e all’esportazione. Più proprietà privata. E, pensa un po’, con queste piccole accortezze hanno stravolto il mercato globale.

Stai forse insinuando che i cinesi ora sono liberi, nel senso economico del termine?”  No, no, non esageriamo. Ciò che il governo cinese dà, il governo cinese può togliere. La questione è: il governo cinese sta permettendo alle aziende ed ai privati di avere una maggiore “libertà” economica. La parola chiave in tutto ciò è “permettere”. Quando qualcuno sta permettendo a qualcun altro di avere “libertà”, allora la persona non è libera affatto.

Il concetto che manca alla signorina cinese – anzi, ai socialisti in generale – è che i diritti sono fondamentali e innati. Come tali, vengono prima del governo. Pertanto, l’idea che il governo possa legittimamente dare e togliere e controllare e regolamentare i diritti delle persone è ridicola.

Qui però si parla, ma di quali diritti stiamo parlando? Esiste un unico diritto fondamentale, valido per tutte le persone, indipendentemente dall’etnia, dal colore, dal credo, dalla nazionalità, o qualsiasi altra cosa: è il diritto di vivere la propria vita con qualsiasi scelta si voglia, purché la condotta non infici nella libertà altrui o in quella collettiva.

Ahimè, è qui che casca l’asino. Gli statalisti nostrani considerano la libertà economica come un “diritto” che il governo dà alle persone. Dunque, non vedono nulla di sbagliato se sono i funzionari governativi a decidere chi può accedere a professioni e occupazioni, a controllare e regolare l’attività economica, a decidere in quale misura le persone saranno autorizzate a mantenere il proprio reddito ed a determinare come verranno spesi i soldi dei contribuenti.

A volte ci sono politici più gentili che consentono, una volta giunti al potere, ai privati di impegnarsi in attività economiche con meno controllo e tasse più basse. Ma non chiamiamoli liberali. La vera libertà implica vivere la propria vita come si vuole (purché bla bla bla) mentre il governo esercita il potere di fare nient’altro che proteggere l’esercizio di tale libertà.

Perché un omosessuale non dovrebbe essere socialista ma liberale

Socialismo e Omosessualità

Al giorno d’oggi è molto diffusa l’idea che a portare avanti le battaglie riguardanti i diritti omosessuali siano stati, nell’epoca moderna, sempre i socialisti.
Facendo questa assunzione si commette un gravissimo errore, poiché -andando indietro di un paio di secoli-i primi accenni ai diritti omosessuali derivano dall’Illuminismo. Chiaramente il concetto moderno di socialismo non era ancora nato, ma quando nacque la situazione non migliorò: pare che Marx ed Engels non fossero tanto disposti a ben accettare l’omosessualità, siccome non rientrava -a parer loro- fra le necessità della società.

Analizzando dunque la genealogia del pensiero, quali sono i motivi per cui i primi ad accettare l’omosessualità furono gli individualisti mentre a dichiararla fuori gioco furono proprio socialisti?

E’ anche vero fossero altri tempi, per cui il contesto sociale non permetteva una vera e propria accettazione di un pensiero così vicino a quello moderno, tuttavia il Socialismo si propone di perseguire l’evoluzione della società tramite la lotta di classe ambendo all’uguaglianza sostanziale.

Per poter arrivare all’uguaglianza sostanziale bisogna anzitutto trovare un modello perfetto che rappresenti ciò a cui tutti membri della società dovrebbero tendere; ma il problema risiede esattamente in questo loro precetto: fissati i parametri di uguaglianza sostanziale chiunque ne sia fuori dovrà raggiungerli.

Non è un caso che la destra socialista, fissati i parametri di rispetto nei confronti dei dogmi fra cui i classici Dio Patria Famiglia, affermi l’esclusione degli omosessuali dal bacino della normalità.

Questa destra è recalcitrante nell’accettare i diritti individuali: gli stessi che idolatrano lo Stato Sociale vedono come nemico colui che chiede di potersi esprimere, anche solo nel privato, in maniera diversa. La genesi di questo odio, in realtà, si ritrova nel conservatorismo in forma di limitazione mentale che non permette di accettare qualcosa di diverso dalla maggioranza, seguendo come gli animali l’istinto della conservazione e dunque volti a perpetrare -senza metterlo in discussione- ciò che ha concesso alla specie di andare avanti fino a quel momento.

Per compensare l’aver parlato di questa destra socialista, ora citerò Engels in una delle sue lettere a Marx:

«I pederasti [ndr: vezzeggiativo per “omosessuali”] iniziano a contarsi e scoprono di formare una potenza all’interno dello Stato. Mancava solo un’organizzazione, ma secondo questo libro sembra che esista già in segreto. E poiché contano uomini tanto importanti nei vecchi partiti ed anche nei nuovi, da Rösing a Schweitzer, la loro vittoria è inevitabile. D’ora in poi sarà: “Guerre aux cons, paix aux trous de cul!”» (Guerra alla gnocca, pace ai buchi di culo!)

L’enfasi sull’individualità nell’Illuminismo, la natura individualista del libero scambio e della libera associazione e la domanda di diritti individuali hanno indotto naturalmente a pensare più attentamente alla natura dell’individuo e a riconoscere gradualmente che la dignità dei diritti individuali deve essere estesa a tutte le persone.

Attualmente, molti omosessuali commettono l’errore di identificarsi in un gruppo di appartenenza, anziché identificarsi nella loro lotta per la conquista dei diritti individuali. In questa maniera non fanno altro che utilizzare lo stesso metodo dei loro avversari: creare un pensiero comune e autocefalo per contrastare un pensiero comune e autocefalo. (Benché di cefalico non ci sia molto, nella negazione dei diritti omosessuali)

I diritti individuali sono gli stessi per qualsiasi altra persona, è molto più equo  lottare maggiormente per i diritti individuali di libertà di scelta che per specifici diritti per gruppi, poiché ciò crea distinzioni e/o privilegi per i gruppi stessi.

Sessualità e Stato Autoritario

L’espressione sessuale umana può articolarsi in molteplici forme basate sulla scelta volontaria. La cultura occidentale ha la tendenza a limitare, inscatolare ed enumerare le possibilità delle persone; tutto ciò talvolta avviene tramite leggi, le quali non hanno più funzione limitativa bensì di catalogazione: ci dicono tutto ciò che possiamo fare, anziché ciò che non possiamo fare.

Per cui, gli individui non vengono più lasciati agire nella libertà, ma nel campo ristretto creato dalle leggi, non possono più effettuare scelte singolari riguardanti le questioni più intime, come religione e sessualità, venendo obbligati dalla società a dichiararsi cattolici, islamici, atei, oppure eterosessuali o omosessuali. Ciò che dovrebbe essere intimo, spesso diventa una bandiera alla vista di tutti.

Fino al 1750 circa gli uomini, in tutto il mondo occidentale, catturati in atti omosessuali furono bruciati al palo. Perché fino al 1750? Da allora una filosofia si stava diffondendo nel mondo occidentale, le cui dottrine individualistiche e umane dovevano alterare gli atteggiamenti pubblici e i codici legali. Questo era il liberalismo classico o, come direbbero ora, il libertarianismo, che insisteva nel limitare il potere dello Stato ad un minimo assoluto.

Così Jeremy Bentham, filosofo classico liberale e teorico legale, ha concluso che gli atti omosessuali volontari non dovrebbero essere vietati dalla legge, in quanto “crimini fittizi”, al massimo che danneggiano nessuno ma i partecipanti liberi. E John Stuart Mill, nel 1859, nel suo classico libertario On Liberty, ha presentato il seguente principio che, più di ogni altra formulazione, ha contribuito a liberare le persone gay dall’oppressione legale nel mondo inglese:

L’oggetto di questo saggio è quello di affermare un principio molto semplice come il diritto di governare i rapporti della società con l’individuo tramite compulsione e controllo […] Il principio è che il solo fine per cui l’umanità è tenuta, individualmente o collettivamente, ad interferire con la libertà d’azione di qualunque numero di essi è l’autoprotezione […] Il suo bene, fisico o morale, non è un mandato sufficiente […] Su di sé, sopra il proprio corpo e la propria mente, l’individuo è sovrano.

A causa del clima di opinione del loro tempo, la maggior parte dei liberali classici erano troppo prudenti per trarre le implicazioni logiche della loro filosofia specificamente per l’omosessualità; con il tempo è diventato sempre più evidente che la sovranità dell’individuo su sé necessariamente includeva le scelte sessuali.

 

Il punto di vista Individualista

Gli individualisti, i liberali ed i libertari non hanno mai dovuto sollevare la propria coscienza sul tema della “liberazione omosessuale” né costringerla a concedere anche agli omosessuali di essere cittadini di serie A, siccome lo erano già in partenza: un individualista promuove la piena libertà di sviluppo individuale per ogni persona, dunque crede implicitamente ai diritti gay.

Sul lungo termine, le persone omosessuali non avranno bisogno dell’aiuto dello Stato, non appena il progresso dei loro diritti e la relativa accettazione da parte della società saranno bisogni completamente espletati. Inoltre, è lo Stato stesso che ha per secoli demonizzato la figura degli omosessuali, condannandoli a morte o a rinnegare la propria sessualità, dunque come nessun individuo dovrebbe usare lo Stato e l’Autorità per imporre le proprie idee, nessuno dovrebbe imporre l’accettazione dell’omosessualità, benché sia un giusto principio individuale: ciò che lo Stato può imporre è il rispetto delle altrui Libertà, ma non deve opprimere chi la pensa diversamente.

Un accenno alle unioni civili: la vera questione che dovrebbe essere affrontata è il motivo per cui qualsiasi relazione richiede che la sanzione del governo sia valida. Non esiste alcuna funzione intrinseca che il governo esegue in un rapporto omosessuale o eterosessuale. Le licenze di matrimonio sono un buon flusso di entrate per lo Stato, ma non sono necessarie per un rapporto funzionale e soddisfacente. La classica risposta liberale al problema del matrimonio gay è quella di sostenere l’abolizione di tutte le licenze di matrimonio. Rimarranno quelle previste dalla religione, poiché il matrimonio è effettivamente un rito religioso.  Se ci sono certi diritti di eredità e determinazioni mediche, questi dovrebbero essere eseguiti contrattualmente indipendentemente da qualsiasi relazione matrimoniale o romantica. Allo stesso modo, se voglio designare un amico con cui non condivido una relazione romantica per questi stessi diritti, tale accordo dovrebbe essere consentito e supportato. Le licenze matrimoniali correnti dovrebbero essere eliminate e sostituite da una “licenza di reciproca dipendenza” o equivalente che consente agli individui di stabilire i diritti tradizionalmente associati al matrimonio, indipendentemente dalla natura della loro relazione o dal sesso di ciascun partner.

Su tutti questi aspetti – e su tanti altri – gli individualisti ed i liberali hanno adottato posizioni destinate a spostarci verso una società sostanzialmente più libera di quella che abbiamo ora. E nel nostro impegno verso un mondo dove gli omosessuali avranno la stessa opportunità di significato e dignità nella vita di tutti gli altri esseri umani, nessun altro ideale politico e filosofico potrà attaccarci.

Meccanismo di Trasmissione della Politica Monetaria (Prospettive Keynesiane e Monetariste)

Il meccanismo di trasmissione della politica monetaria descrive i cambiamenti indotti da politiche delle banche centrali, in particolare l’impatto dei tassi di interesse nominali a breve termine su variabili reali come l’output aggregato e l’occupazione. Infatti, le banche centrali hanno un potere di cambio solo per i tassi a breve e brevissimo termine.

Con questo strumento dei tassi a breve anche conosciuti “Money Market Interest Rates,” le banche centrali cercano di influenzare le aspettative sui tassi a più lungo termine relativi ai vari punti temporali della curva dei tassi. La curva dei tassi d’interesse rappresenta un indice sulla quale vengono calcolati sia le emissioni obbligazionarie che l’erogazioni di prestiti di un determinato paese, quindi ha un impatto molto immediato sull’economia.

A secondo della efficacia del lavoro di una banca centrale, l’intera curva d’interesse si sposterà il più vicino possibile alle aspettative iniziale della banca centrale stessa. Inoltre, va considerato l’obiettivo primario delle banche centrali. Ci sono banche centrali che hanno come obiettivo primario il controllo su prezzi e inflazione (Price Stability), altre banche centrali hanno come obiettivo primario la massimizzazione dell’occupazione e del PIL (Output).  

I canali del meccanismo di trasmissione monetaria influenzano l’economia reale, in linea generale, attraverso i tassi di interesse, i tassi di cambio, i titoli azionari e dei prezzi immobiliari e i prestiti bancari.

Linee di Pensiero sulla politica monetaria 

Keynesiani

L’economia keynesiana si basa su due idee principali: (1) la domanda aggregata è più soggetta che l’offerta aggregata a possibili shock, e di conseguenza la domanda aggregata e’ la causa principale di una recessione; (2) salari e prezzi possono essere rigidi, quindi in una recessione economica, può portare ad effetti come la disoccupazione e in casi peggiori di stagnazione. I Keynesiani ritengono che i prezzi, e in particolare i salari, rispondano lentamente ai cambiamenti nella domanda e nell’offerta.

I Keynesiani non credono nel legame diretto tra l’offerta di moneta e il livello dei prezzi che emerge dalla classica teoria della quantità di moneta. Rifiutano la nozione che l’economia sia sempre vicina al livello naturale di disoccupazione.

Inoltre, i Keynesiani ritengono che la domanda di investimenti sia inelastica, soprattutto quando c’è una recessione. Quindi politiche espansionistiche monetarie potrebbero essere inefficienti. Anche i cambiamenti significativi nei tassi di interesse non modificano molto l’investimento. Ad esempio, gli investimenti fissi in impianti e macchinari non sono molto sensibili agli interessi.

Secondo i Keynesiani la politica monetaria è probabile che sia efficace solo se le persone/mercato hanno fiducia in queste politiche. L’effetto psicologico può essere molto potente. Richiede tuttavia una grande capacità nel manovrarla, e quindi da parte delle banche centrali nel creare aspettative dal mercato per far si che le politiche monetarie creano effetti positivi.

Monetaristi

I monetaristi sostengono che la domanda di denaro è stabile e non è molto sensibile ai cambiamenti del tasso d’interesse. Di conseguenza, le politiche monetarie espansive servono solo a creare un surplus di denaro che le famiglie potranno spendere rapidamente, aumentando così la domanda aggregata. Ma queste politiche monetarie hanno un effetto limitato nel breve periodo ed invece non hanno effetti di crescita di reddito nel lungo.

I monetaristi sono particolarmente contrari all’abuso di tali politiche monetarie, e le vedono come un fattore di destabilizzazione del livello dei prezzi. I monetaristi credono che persistenti inflazioni (o deflazioni) siano solo fenomeni monetari provocati da persistenti politiche monetarie espansionistiche (o restrittive).

Come mezzo per combattere periodi di inflazione o deflazione persistenti, i monetaristi sostengono a favore di una regola fissa dell’offerta di moneta. Credono che la Banche Centrali dovrebbero condurre una politica monetaria tale da mantenere il tasso di crescita dell’offerta di moneta fissa, con un aumento di offerta monetaria che è pari al tasso di crescita reale dell’economia nel tempo. Pertanto, i monetaristi ritengono che la politica monetaria dovrebbe servire a compensare gli aumenti del PIL reale senza causare né l’inflazione né la deflazione.