Viaggio nella storia pensionistica italiana

In questo nuovo articolo della nostra campagna sulle pensioni faremo un viaggio nello statalismo assistenziale più spinto; ossia racconteremo la storia del sistema pensionistico italiano. È una storia che deve essere raccontata: per sconfiggere il tuo nemico, devi conoscerlo.

Nel nostro primo articolo avevamo invece rapportato la spesa pubblica italiana con quella di alcuni Paesi europei, lo potete ritrovare qui.

Il primo antenato dell’odierno INPS (Istituto Nazionale di Previdenza Sociale) fu istituito addirittura nel 1898 e subì numerose modifiche fino al 1943 quando, durante il regime fascista, prese le denominazione attuale. 

Inizialmente il sistema italiano era a capitalizzazione: i lavoratori versavano in fondi pensionistici quote del loro stipendio, che venivano accantonate e investite in modo da garantire a ciascuno una pensione in linea con quanto versato nell’arco di tutta la vita lavorativa.

Nel 1969 l’ordinamento a capitalizzazione fu definitivamente abbandonato a favore di uno a ripartizione: un sistema in cui i contribuenti pagano le pensioni erogate a chi ha già smesso di lavorare – con la speranza che un giorno i futuri lavoratori pagheranno la loro. 

La riforma del 1969 (legge Brodolini) istituì la pensione sociale per i cittadini con più di 65 anni di età con reddito considerato minimo, e quella di anzianità per i cittadini con 35 anni di contribuzione che non avevano raggiunto l’età pensionabile. Inoltre, era previsto che il calcolo della pensione fosse realizzato in base alla retribuzione degli ultimi 5 anni di lavoro, di conseguenza l’assegno percepito era mediamente più cospicuo rispetto ai contributi realmente versati. Infine, venne prevista la perequazione automatica delle pensioni, cioè la rivalutazione delle pensioni sulla base dell’indice dei prezzi al consumo.

Il sistema pensionistico concepito nel 1969 era molto più soggetto a generare squilibri di bilancio, coperti sistematicamente dallo Stato, rispetto a quello a capitalizzazione e segnalava la nuova ratio con cui la classe politica italiana intendeva gestire le pensioni: statalismo assistenziale spinto e feticismo per il debito pubblico.

Il passo successivo arrivò nel 1973, che verrà ricordato come un anno maledetto per la storia del bilancio pubblico italiano. Fu l’anno in cui il governo Rumor IV inaugurò la sciagurata stagione delle baby pensioni e i politici italiani scoprirono un altro modo per essere generosi con i soldi prelevati dalle tasche altrui. Venne quindi deciso che le donne sposate con figli potessero andare in pensione con 14 anni, 6 mesi e 1 giorno di contributi, gli statali con 20 e i dipendenti locali con 25. Curiosamente la riforma arrivò giusto due giorni prima di Natale, come un bel pacchetto da scartare per tutti gli italiani; peccato fosse un pacco bomba, scoppiato in faccia a chi si impegnava per lavorare onestamente e alle nuove generazioni. Basti pensare che nel 2018 la spesa per questa voce era ancora di 7,5 miliardi € l’anno, divisa tra 400mila privilegiati.

 

Dagli anni ‘90 ai giorni nostri

 

All’inizio degli anni ‘90 era ormai chiaro che il nostro sistema pensionistico non era più sostenibile. La riforma Amato del ‘92 fu il primo tentativo per risolvere il problema, innalzando l’età pensionabile così come la contribuzione minima per la pensione di anzianità. La riforma Dini del 1995 segnò invece il passaggio (parziale) [1] a un sistema a ripartizione di tipo contributivo, dove le pensioni sono calcolate sulla base delle somme versate nel corso della vita lavorativa (ma i contributi dei lavoratori continuano a pagare le pensioni attuali e non vanno ad alimentare un fondo).

Le due riforme non furono sufficienti a raddrizzare la situazione e si dovette intervenire ancora. Nel 1997 la prima riforma Prodi innalzò ancora i requisiti di contributi maturati per avere accesso alla pensione, eliminò le baby pensioni e ridusse le differenze di trattamento tra dipendenti pubblici e privati. Nel 2004 la riforma Maroni aprì il sistema pensionistico alla previdenza complementare e integrativa (dunque a fondi privati che potevano fornire una ulteriore pensione ai lavoratori che vi accedevano), nell’ottica di tutelare le generazioni più giovani, e introdusse lo “scalone” (un aumento dell’età anagrafica per uscire dal mondo del lavoro). 

La riforma Maroni sarebbe dovuta entrare in vigore a partire dal 1 Gennaio 2008, ma non ci riuscì mai. Nel 2007 il governo di centrosinistra fece una controriforma, sotto la pressione dei sindacati, e diluì le restrizioni ai pensionamenti che sarebbero dovute derivare dalla riforma Maroni. Essa viene ricordata ironicamente come quella degli “scalini”.

 

Le riforme degli anni ‘90 e primi Duemila non furono sufficienti a risolvere l’impatto del sistema pensionistico sulle casse pubbliche, già disastrate di per sé. Quando l’Italia fu investita da una delle più gravi crisi economiche della sua storia nel 2011, il governo tecnico Monti intervenne con misure radicali.

Il decreto Salva Italia venne immaginato per mettere in sicurezza la finanza pubblica e, ovviamente, non poteva mancare la parte dedicata alle pensioni, la famigerata riforma Fornero. Le idee di fondo erano l’equità intergenerazionale ed intragenerazionale, la maggiore flessibilità nell’accesso ai trattamenti pensionistici e l’adeguamento dei requisiti di accesso alla speranza di vita. Venne definitivamente abbandonato il sistema retributivo, rimasto in vigore per alcune categorie nonostante la riforma Dini, ed applicato il sistema contributivo per tutti i lavoratori. Data la bassa età reale di pensionamento (circa 61 anni per gli uomini, contro i 65 teorici), sono stati innalzati ulteriormente i requisiti d’accesso, 66 anni per gli uomini (dipendenti ed autonomi) e per le lavoratrici del pubblico impiego; a 62 anni per le lavoratrici dipendenti del settore privato; a 63 anni e 6 mesi per le autonome e la parasubordinate. 

Infine, la legge di bilancio del 2019, l’unica varata dall’allora governo Lega-M5S, conteneva anche una misura che impattava il sistema pensionistico: Quota 100. Essa prevede la possibilità di uscita anticipata dal mondo del lavoro per tutti coloro che vantano almeno 38 anni di contributi con un’età anagrafica minima di 62 anni. Quota 100 non è però una riforma strutturale; è stata infatti concepita come una deroga per gli anni 2019, 2020 e 2021, da confermare ogni anno.

Quello che manca nella deprimente storia delle pensioni italiane, è evidente, sono libertà e sicurezza. Ancora adesso i lavoratori italiani non versano i propri contributi in un fondo a loro scelta che li farà crescere e fruttare (e gli permetterà di godersi una serena vecchiaia); quei soldi finiscono a pagare le pensioni attuali. Certo, lo Stato promette che un giorno fornirà anche a noi una pensione (pagata da qualcun altro) ma che certezza ne abbiamo? Tutte le riforme degli ultimi 30 anni provano che quando un governo ha bisogno di soldi non si fa scrupoli a rinnegare le promesse fatte in precedenza.

In un mondo liberale nessun cittadino potrebbe essere obbligato a mantenere con le proprie tasse intere categorie favorite dallo Stato (come i dipendenti pubblici), ma dovrebbe invece avere il diritto di scegliere a quale fondo (pubblico o privato) versare i propri soldi, in modo da programmare a suo piacimento l’uscita dal mondo del lavoro. Questo è il mondo che immaginiamo, un mondo di libertà e opportunità.

 

 

Articolo ideato, scritto e curato da:

Francesco Chevallard

Leonardo Accardi

Alessandro Pala

Mattia Maccarone

 

 

Note

[1] In particolare, si passò a un criterio misto in cui l’assegno percepito era in parte legato alla retribuzione ed in parte legato ai contributi versati durante la vita lavorativa, e ad un criterio puramente contributivo per chi doveva ancora iniziare a lavorare.

Fonti

https://tesi.luiss.it/7708/1/paolillo-francesca-tesi-2014.pdf

http://www.fondapol.org/wp-content/uploads/2019/07/135-RETRAITES-ITALIE_VO_2019-07-11_w.pdf

https://www.inps.it/nuovoportaleinps/default.aspx?itemdir=52198

https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/focus-on/Previdenza-obbligatoria/Pagine/Evoluzione-del-sistema-previdenziale.aspx

http://www.covip.it/wp-content/uploads/evoluzionedelsistemapensionistico.pdf

http://www.covip.it/wp-content/uploads/EvoluzioneSistema.pdf

http://www.treccani.it/enciclopedia/sistema-pensionistico-a-capitalizzazione_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/

https://www.lavoro.gov.it/temi-e-priorita/previdenza/focus-on/Previdenza-obbligatoria/Pagine/Il-passaggio-dal-sistema-retributivo-a-quello-contributivo.aspx

https://tuttoprevidenza.it/wp-content/uploads/2016/10/CriptCompleto-Una-piccola-storia-della-previdenza-italiana.pdf

https://www.ilsole24ore.com/art/il-macigno-baby-pensioni-75-miliardi-costano-piu-quota-100-AEJcFAUG

https://st.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2013-12-26/pensioni-compie-40-anni-decreto-che-fece-nascere-babypensioni-e-che-ci-costa-ancora-oggi-04percento-pil-184329.shtml?uuid=AB9cLEm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-amato.htm

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-dini.htm

https://www.leggioggi.it/2018/05/02/pensione-calcolo-assegno-sistema-misto-e-sistema-contributivo/

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-maroni.htm

https://pagellapolitica.it/dichiarazioni/7973/fu-maroni-ad-agganciare-eta-pensionabile-e-aspettativa-di-vita

https://www.repubblica.it/economia/2016/04/13/news/pensioni_scheda-136973152/

https://www.borsaitaliana.it/notizie/speciali/pensioni/la-riforma-fornero.htm

OCSE (Pensions at a Glance 2011, https://www.oecd-ilibrary.org/docserver/pension_glance-2011-en.pdf?expires=1589191905&id=id&accname=guest&checksum=BD5629BC8909B455207AF6A32DA776A4)

https://www.pmi.it/tag/quota-100

Pim Fortuyn, martire gay per la libertà coerente

Si può morire per aver chiesto una società tollerante, che dia pari opportunità a uomini e donne e che riconosca le libertà delle persone in campo civile, come per le unioni omosessuali, ed economiche? E soprattutto, può ciò accadere in Europa e non a un politico progressista ma ad un politico di destra?

Quello che vi ho appena descritto è stato Pim Fortuyn, un politico olandese assassinato il 6 maggio 2002. Cresciuto come marxista negli ambienti accademici olandesi, fece coming out della sua omosessualità quando era ancora un atto di coraggio ma crescendo cambiò idea e si avvicinò a idee più liberali.

Egli vedeva le aree a prevalenza islamica del Paese, tipicamente abitate da persone scarsamente acculturate e povere, e vedeva come in esse vi fosse uno stile di vita incompatibile con la cultura umanista ed europea che egli amava.

I tre punti che per lui creavano un abisso tra le due culture erano principalmente tre:

  • Separazione Stato-Chiesa
  • Rapporti familiari
  • Diritti omosessuali

Tali concetti, diciamocelo, sono radicalmente differenti tra le due culture: nel mondo islamico, escludendo alcune lodevoli eccezioni, la condizione di donne ed omosessuali è nettamente peggiore e la separazione tra legge e religione quasi inesistente.

Fortuyn, però, a differenza dei politici anti immigrazione dell’epoca, era per l’integrazione: per lui chi veniva in Olanda doveva integrarsi nel tessuto sociale olandese, accettare la separazione tra religione e stato e l’uguaglianza tra uomo e donna.

Si distanziò ripetutamente da politici razzisti che chiedevano l’espulsione degli stranieri, ritenendolo un atto divisivo e dunque contrario alle sue idee. Chiedeva invece una moratoria da quel momento, per poter lavorare sull’integrazione di chi era già presente e una garanzia economica per i ricongiungimenti familiari, pratica che esiste anche in altri Paesi per evitare che il coniuge, in caso di separazione, andasse a pesare sui contribuenti.

E, in quanto gay, rifiutava anche dichiaratamente i partiti che si rifacevano ai valori della famiglia tradizionale. E si rifiutava anche di essere paragonato a politici di estrema destra come Jean Marie Le Pen. Preferiva paragonarsi alla Thatcher o a Berlusconi, seppur in generale non amando il doversi definire.

Economicamente era invece un classico liberale europeo: sosteneva un taglio della burocrazia e delle imposte per fornire servizi pubblici di qualità e vedeva l’Europa in modo blandamente scettico, al pari della Thatcher.

Non siamo chiaramente davanti ad un estremista di destra o ad un fascista: siamo davanti ad una persona che voleva conservare l’ampia libertà di cui godeva, e faceva uso in quanto gay, da una minaccia religiosa.

E bisogna dire che il tema Islam è molto caldo. E’ difficile ammettere che la cultura islamica sia spesso molto più restrittiva e arretrata di quella occidentale su molte libertà che noi diamo per scontato e che quindi sia, in un’ottica di mantenimento delle libertà, un’ottima idea integrare le persone di religione islamica nella nostra cultura in modo che l’Islam subisca i medesimi procedimenti che ha subito il cristianesimo e non sia più una minaccia alla società libera.

Accettare che invece le idee estremiste prosperino e non possano essere nemmeno contestate nel nome della tolleranza è una ricetta suicida che favorisce solo la violenza. Pensate solo se la stessa logica di incontestabilità fosse applicata al fascismo, ad esempio.

E infatti, come accennato, Fortuyn fu assassinato. Ma non da un fondamentalista islamico ma da un estremista verde che lo riteneva una minaccia per i deboli. Ma l’onda di violenza non si fermò: un estremista islamico uccise pochi anni dopo Theo Van Gogh per aver osato fare un cortometraggio sul tema della violenza sulle donne nel mondo islamico. E l’anno dopo vi fu un’ondata di violenza dopo che un giornale danese pubblicò delle vignette su Maometto. E nel 2015 dei barbari uccisero dei vignettisti francesi perché pubblicarono delle vignette, con il Papa cattolico che tutto sommato non pareva molto contrariato dalla cosa.

Ma non ha alcun senso combattere i tentativi della Chiesa di limitare le nostre libertà e poi lasciare una porta sul retro aperta nel nome della libertà.

E questa è la grande lezione di Pim Fortuyn.

Alcuni autori per conoscere il pensiero libertario

La libertà è il valore più importante per l’essere umano. Eppure quando cerchiamo di definirla, di catturarla o spiegarla attraverso simboli o concetti, ci troviamo di fronte a problemi insormontabili: tentare di definirla equivale a limitarla. 

Non è così per quell’insieme di filosofie politiche che cadono sotto la categoria del libertarianismo, corrente raffinata e pluralistica che considera la libertà come il più alto fine politico, senza restrizioni o imposizioni esterne, in primis statali. La libertà, secondo i libertari, si esplica in numerose forme: la libertà politica, la libertà individuale e la libertà economica come fulcro dell’intero assetto societario. Ben lontani dalla pedante distinzione di Benedetto Croce tra liberalismo e liberismo, che non ritrova riscontri nella terminologia e nel vocabolio anglosassone, il libertarianismo si rifà completamente al sistema economico capitalista, all’economia di mercato, alla politica economica del Laissez-Faire. Ovvero alla piena capacità dei mercati di equilibrarsi spontaneamente senza l’intervento dello Stato. 

Ed ecco il grande nemico della libertà: lo Stato, questo meccanismo astratto, questa potente macchina burocratica, questo Leviatano intollerante e artificioso, sovrano e paternalista. Con la biforcazione delle correnti del libertarianismo, troviamo differenti idee su come lo Stato possa e debba agire, ammesso che debba esistere. 

I miniarchisti prospettano uno Stato ridotto alla minima funzione di garante della libertà, un “guardiano notturno” della tradizione liberale, che deve garantire il rispetto dei contratti tra liberi individui.

Autori che hanno una valenza significativa nella teoria del miniarchismo sono, nel pantheon dei classici, John Locke ideatore del liberalismo classico, Friedrich Von Hayek della Scuola austriaca e Robert Nozick autore, tra le altre cose, della celebre opera Anarchia, Stato e utopia

Dall’altra parte della barricata si trovano, invece, gli anarco-capitalisti. Questi ultimi, attraverso una valida e argomentata filosofia, propongono l’eliminazione totale dello Stato, del suo monopolio nell’economia (attraverso l’abbattimento del regime delle imposte), nella sanità, nell’istruzione e nella giustizia.

Al posto di questo “meccanismo infernale”, l’anarco-capitalismo propone radicalmente una società di liberi individui legittimata da un sistema di privatopie. Entità territoriali auto-organizzate, capaci di offrire servizi di libero mercato, l’adesione volontaria degli individui alla regole della comunità, escludendo a priori l’esistenza di nazioni ed entità sovranazionali. La giustizia, il benessere e la pace della società, improntata al più vasto individualismo metodologico, può basarsi sul principio di non aggressione, insito nella natura umana. 

L’autore più influente della filosofia anarco-capitalista è stato Murray Newton Rothbard, già autore di un’opera straordinaria: For a new liberty.

In Italia, nonostante questo paese sia la culla dello statalismo assistenzialista, insieme alla figura del giurista “liberista” Bruno Leoni, il libertario per eccellenza impegnato in questa battaglia per la tutela libertà totale, contro qualsiasi collettivismo, è Leonardo Facco. Studioso ed editore poliedrico, critico e polemico, è stato autore di un libro del 2009 che fece molto scalpore: Elogio dell’evasore fiscale. All’interno del manuale possiamo trovare delle valide soluzioni per una rivolta fiscale densa di significato, improntata alla razionalità categorica. 

A livello internazionale occupa un posto di primo piano nel panorama libertario Javier Milei, economista argentino, promotore di una robusta critica al sistema politico vigente, figura presente nei dibattiti televisivi capace di sfoderare le armi della dialettica contro ogni censura liberticida che vuole soffocare la libertà in nome di un collettivismo socialista o di un assistenzialismo di Stato senza scrupoli. Il pensatore economico argentino ha un motto straordinario capace di infuocare gli animi libertari per tenere vivo il valore sacrale della libertà, contro coloro che vorrebbero sottrarcela:

Viva la libertad, carajo!

 

Il sistema pensionistico italiano: storia di assistenzialismo e statalismo

L’Italia annovera, tra i tanti servizi dello Stato inefficienti, quello pensionistico. Il sistema previdenziale italiano è un sistema vecchio e assistenzialistico; e le risorse spese per finanziarlo sono troppo grandi rispetto alla resa, se comparato a quello di altri Paesi. Come andremo a vedere più avanti in questa campagna, dietro al nostro sistema previdenziale è celata una storia di politiche economiche inutili volte a favorire determinate categorie, allo stesso tempo danneggiando il bilancio statale, incrementando il debito pubblico ed espropriando i risparmi degli italiani. 

In questo primo articolo della nostra serie di approfondimenti sul sistema pensionistico metteremo a confronto la struttura previdenziale italiana con quella di altri Paesi in Europa e nel mondo, evidenziando le principali differenze. I Paesi scelti sono Olanda, Svizzera, Svezia e Germania, tutte nazioni sviluppate e appartenenti al mondo occidentale, e con una struttura demografica simile alla nostra (seppure con una popolazione leggermente più giovane).

UNA COMPARAZIONE DEI COSTI (IN %) RISPETTO AL PIL:

Come è facile notare comparando i dati dell’OCSE, c’è una grossa differenza in merito alla percentuale di spesa pensionistica pubblica  sul PIL di questi Paesi. 

Nel grafico qui sopra si nota subito come nel 2015 lo Stato che spendeva nettamente di più fosse l’Italia, con un rapporto tra Spesa pensionistica pubblica e PIL pari al 16,2%, il doppio rispetto alla media OCSE. Un Paese ricco e considerato “socialdemocratico” come la Svezia spendeva appena il 7,2%, meno della metà di quanto fosse destinato al sistema pensionistico in Italia.

Una cifra oltretutto cresciuta moltissimo negli ultimi decenni, con un +100% circa rispetto al 1980, come si nota dal grafico sottostante. Un incremento casuale? O legato al naturale invecchiamento della popolazione? Non esattamente. Guardando al nostro pool di comparazione, vediamo che il trend di incremento dal 1980 è molto contenuto; Svezia e Svizzera hanno aumentato di meno del 20% la propria spesa, mentre Germania e Olanda spendono addirittura meno adesso rispetto ad allora. Dati in linea, tra l’altro, anche con la media OCSE, per cui risulta un incremento della spesa media dal 5,67% del 1980 che passa all’8,02% nel 2015 (risultando in un +40% circa, rispetto al +100% per l’Italia, nel medesimo periodo). 

La particolarità che contraddistingue questi paesi è l’adozione di sistemi pensionistici discretamente simili tra di loro, basati su una maggiore libertà di scelta da parte dei cittadini e con un sistema di fondi pensionistici privati molto sviluppato. 

UNA COMPARAZIONE VISTA DAGLI ESPERTI:

Per un’analisi più approfondita sul tema della spesa per le pensioni ci vengono incontro i dati del Melbourne Mercer Global Pension Index. L’indice è elaborato da un gruppo di ricerca australiano e ha come obiettivo quello di evidenziare fattori come la sostenibilità (prendendo in considerazione la crescita economica, la copertura pensionistica, la demografia, il debito nazionale e altro ancora), l’adeguatezza (benefici, risparmi, copertura fiscale, assets di crescita) e l’integrità (costi di operazione, protezione, comunicazione, regolamentazione). Una volta presi in analisi questi fattori viene stilata una “classifica” dei migliori sistemi pensionistici, assegnando ai vari stati una valutazione da A (massimo) ad E (minimo) in base all’index value che essi raggiungono. 

Rispetto agli Stati da noi presi in considerazione, il sistema migliore risulta essere quello Olandese, che raggiunge il punteggio di 81 e la valutazione “A”. Seguono i sistemi Svedese, Svizzero e Tedesco, con punteggi rispettivi di 72,3, 66,7 e 66,1, e una fascia di valutazione “B”. Nella fascia di valutazione “C+” troviamo il Regno Unito, con un punteggio di 64,4. L’Italia si trova molto più in basso e con un punteggio di 52,2 prende una C. 

Secondo Mercer il sistema previdenziale italiano è scadente soprattutto nell’ambito della sostenibilità, registrando il valore più basso in assoluto nell’indice, 19; la ragione è che si tratta di un sistema quasi unicamente pubblico e dove non c’è corrispondenza fra quanto versato da ogni cittadino e la sua pensione. I lavoratori italiani non versano i loro contributi in un fondo (pubblico o privato) che restituirà in seguito i loro soldi, ma pagano le pensioni attualmente elargite dall’INPS. Di conseguenza, quando finiranno di lavorare dovranno sperare che il bilancio pubblico sia in condizioni tali da permettersi di versare loro delle pensioni adeguate; il che, dato l’andamento dell’economia italiana e la scarsa crescita demografica nel nostro Paese, è sempre meno probabile. 

CONCLUSIONI

Il Mercer Index ci aiuta a capire quali Paesi hanno un sistema previdenziale più o meno efficiente e ci mostra come i Paesi più virtuosi sono quelli che si basano non solo sul settore pubblico, ma anche su quello privato. La presenza di un settore privato è fondamentale per aumentare le possibilità di scelta del cittadino e rendere più equo un sistema previdenziale. 

I sistemi pubblici obbligano i cittadini a lavorare fino a una data prestabilita dalle autorità e decidono dall’alto quale sarà la cifra ricevuta da ogni pensionato, spesso con criteri arbitrari – questa analoga attitudine ha favorito l’esistenza di accordi previdenziali particolarmente sfavorevoli od in certi casi più favorevoli di quanto il sistema stesso potesse permettersi, quali le baby pensioni italiane di cui parleremo in un prossimo articolo di questa serie.

Un sistema privato permette ai lavoratori di decidere in autonomia quanto versare per la propria pensione futura e quale sarà il momento più adatto per smettere di lavorare, garantendo loro più libertà di scelta ed un maggiore benessere. 

 

Articolo ideato, scritto e curato da:

Francesco Chevallard

Andrea Melcarne

Alessandro Pala

Mattia Maccarone

I fallimenti dell’Italia derivano dal Neoliberismo?

 

Turboliberismo, Deregulation, Instabilità economica e disuguaglianze? Nel dibattito politico e mediatico è facile sentire spesso questi termini, con la convinzione, da parte di molti, che i fallimenti economici del nostro Paese derivino da una politica economica Liberista. Cos’è il Liberismo? Ad oggi con Neoliberismo (espressione che sembra quasi lasciar trapelare un’ accezione negativa, usata con disprezzo, spesso, nel linguaggio comune dei talk show italiani ) si indica la dottrina di applicazione del sistema capitalista o meglio di un sistema di libero mercato. Esso consiste nella creazione di uno stato minimo, di uno sviluppo di una libera concorrenza, che viene incentivata da una bassa imposizione fiscale e una burocrazia snella. Per stato minimo, si intende uno stato che non interviene nell’economia,ma che, citando Hayek: “stabilisca le regole del gioco”. E questo per quale motivo? Quali sono i benefici di una politica di Lasseiz Faire, invece che predicare l’intervento dello stato nell’economia? Lo stato per intervenire nell’economia, deve procurarsi le risorse. Questo è possibile farlo in tre modi: 1) Stampando Moneta: questo è il metodo più folle di tutti; quante volte, avete sentito economisti affermare che basterebbe riacquistare la sovranità monetaria, per poter stampare moneta e così finanziare una ripresa economica. Se si immette moneta (stampata) nel mercato si verrà a creare un fenomeno chiamato inflazione, che consiste nella svalutazione della moneta, cui consegue un aumento dei prezzi e in aggiunta anche un aumento dei tassi d’interesse sul debito pubblico. 2) Deficit: L’idea che lo stato tramite la costruzione delle infrastrutture, finanziate attraverso il ricorso al debito, possa portare ad una crescita duratura è ormai diventato pensiero unico in Italia. Riflettendo attentamente però, attuare una politica economica Keynesiana a lungo andare può portare così tanti vantaggi? Lo stato si indebita: prende infatti in prestito soldi che poi dovrà ridare (o meglio le generazioni successive dovranno ridare) con un interesse più o meno alto; il tasso di interesse dipenderà dalla stabilità economica di uno stato e dalla fiducia che gli investitori internazionali hanno verso esso. Dunque, in conclusione, maggior deficit lo stato farà maggiori, in molti casi, saranno anche i tassi da pagare in futuro. In questo sistema, non è il mercato  a decidere dove allocare le risorse più opportune, bensì il pianificatore centrale che, nel momento in cui investirà in un determinato settore andrà a creare un danno ai vari settori concorrenti. Una volta superate le norme burocratiche ed eventuali indagini, come accade spesso in Italia, per concussione o peculato, la crescita che si verrà a creare a seguito degli investimenti fatti, non sarà una reale crescita dell’economia generalizzata, data da un aumento degli scambi tra privati, ma bensì una crescita drogata dall’immissione di denaro da parte dello stato. Come è semplice comprendere questo modo di creare crescita sarà a breve termine come testimoniato d’altronde dalle parole Keynes: “Sul lungo periodo siam tutti morti” e non comprenderà un aumento generale del l’economia, ma solo di determinati settori decisi dal pianificatore centrale. Una volta finito l’effetto della “droga” per non ricadere in “astinenza”, ovvero in crisi, si dovrà fare rifermento al medesimo strumento. 3) Alzare le imposte: Un ennesimo inasprimento delle imposte porterebbe il nostro Paese, come del resto tutti gli altri, ad un disastro economico senza precedenti. La cosiddetta Patrimoniale o la Robibtax, tasse etiche in nome della giustizia sociale, atte a colpire i ricchi, porterebbero ad un aumento della già consistente fuga di capitali dal nostro paese. Chi mai verrebbe ad investire in italia sapendo che oltre alla tassazione al 68% gli verrà anche tassato il patrimonio? Il nostro Paese malgrado il generalizzato astio verso i ricchi o le multinazionali nutre i suoi settori di punta come il settore automobilistico o navale, ma anche il campo della moda. Questo proprio grazie ad investimenti privati da parte di milionari e miliardari che, ovviamente, non rimarrebbero in Italia, nel caso in cui le condizioni lavorative divenissero ancora più sfavorevoli. L’Italia quindi è un paese Liberista? La risposta è assolutamente no. Anzi, è uno dei Paesi meno liberista d’Europa. Il nostro Paese ha fatto largo uso delle politiche economiche stataliste che ho descritto sopra. L’Italia negli anni ha fatto largo uso della spesa in deficit, come testimonia il nostro 136% di debito pubblico, che, a causa della crisi Covid, si attesterà per il prossimo anno per almeno un 158%. L’Italia è la prima in Europa per tasse sul lavoro, con il 68,4%,  e si trova al 80 esimo posto mondiale per libertà economica. Ha una burocrazia invadente, che si trova tra le più fitte e tortuose, una spesa per Pubblica Amministrazione che conta il 5.2% del PIL mentre la media europea è circa del 4%. Ha una pressione fiscale sulle imprese che arriva fino al 68% ed un Cuneo fiscale altissimo che rendono costosissimo per le imprese assumere nuovi dipendenti . Per citare altri dati, ha una pressione fiscale generale 45% spesa pubblica al  50% circa. Quindi cos’è che serve al nostro Paese? Un cambio di rotta, abbandonare lo statalismo che ha caratterizzato l’Italia per tutta la sua storia Repubblicana e abbracciare una svolta liberale, attuabile tramite: privatizzazioni, taglio di tasse e flessibilità sul lavoro.

Sindacati, come hanno impoverito gli italiani

Dopo aver trattato alcuni aspetti estremamente coercitivi e violenti del mondo dei sindacati, in un precedente articolo, in questo affronterò una diversa problematica. Analizzerò gli effetti socio-economici provocati dalla mano del sindacalismo in Italia, effetti provocati dalle loro lotte per il bene (presunto) dei lavoratori.

Ci si chiederà: come mai giungo ad una conclusione così drastica? Obiettivo di questo articolo è spiegare perché i sindacati non possono agire efficacemente verso tutti i lavoratori. La conclusione probabilmente lascerà tutti un po’ perplessi, ma è ben rafforzata da dati di fatto e argomentazioni molto nette e chiare. D’altronde viviamo in un contesto in cui spesso ci si limita ad aspetti superficiali. Non entriamo nel vivo della questione, guardiamo la copertina senza leggere il libro.

Esistono dei lavoratori soddisfatti, indubbiamente, ma davvero possiamo dire che tutti i lavoratori possono considerarsi tali? Preciso che chi scrive è un lavoratore che vuole spiegare perché, da liberale, i sindacati non possano essere realmente dalla parte dei lavoratori. Nel corso del testo, come nell’articolo precedente, inserirò qualche altra citazione di Sergio Ricossa.

[…] (1972, ndr) Il nuovo contratto di lavoro dei metalmeccanici è un volume di oltre duecento pagine a stampa, quasi tutte incomprensibili. C’è l’operaio “comandato in trasferta in località malariche ufficialmente riconosciute” che ha diritto a una indennità speciale; c’è l’impiegato che ha una “ricaduta nella stessa malattia entro il periodo massimo di due mesi dalla ripresa del lavoro”, e ha una anzianità di servizio oltre i tre anni e fino a sei mesi anni compiuti al quale compete la conseervazione del posto per tredici mesi e mezzo, di cui quattro e mezzo a intera retribuzione globale e nove a metà retribuzione; c’è l’apprendista che a partire dal primo gennaio lavora 41 ore settimanali, ma riceve in pagamento una “quota aggiuntiva” di 171 secondi ogni ora lavorata; c’è il rappresentante sindacale autorizzato ad assistere alle operazioni di vendita (lire tremila) del testo del contratto all’operaio che non si avvale della facoltà, “evidenziata in un modulo illustrativo”, di rifiutare l’acquisto. C’è tutto, meno il buon senso.

Analizzando la nostra busta paga di ieri e di oggi, possiamo dire di aver avuto un qualche beneficio favorita dai sindacati? I contratti collettivi, con le varie retribuzioni previste, rappresentavano una vittoria sindacale. Una vittoria assurda se consideriamo che veniva esaltato quel becero slogan del “il Salario è una variabile indipendente”. Come se il salario fosse qualcosa di astratto, qualcosa che esula dal processo economico di un’azienda con lo scopo di non consentire ai datori di lavoro di fissare una retribuzione inferiore a quella prevista e sindacalmente concordata. Un mezzo di tutela ma completamente illiberale, in quanto impedisce a qualsiasi persona di poter accettare un salario inferiore. D’altronde la mia provocazione non sarebbe così strana. Non mettiamoci a fare i conti in tasca a qualcuno. Il datore di lavoro accetta questa situazione coercitiva, legittimata dallo Stato, proprio perché è consapevole che il sindacato ha il potere di non permettere ulteriori assunzioni in azienda. È paragonabile all’imporre un prezzo fuori mercato a qualcosa con il risultato che sarà molto difficile che questa possa essere consumata in una quantità maggiore o uguale rispetto ad una condizione svincolata da imposizioni. Quindi vale sia quando andiamo ad acquistare qualcosa con un prezzo impostato dallo Stato e vale anche nel caso del salario.

Tavola rotonda presso La Stampa: Luigi Macario, sindacalista della CISL, ripete la barzellette della variabile indipendente. “Non solo è vero che noi consideriamo la politica salariale una variabile indipendente, ma ciò è indispensabile se noi vogliamo lottare efficacemente. […] Dopo una lunga chiacchierata sulla mancanza di case popolari, gli scappa di dirmi che lui, vicino a Roma, in barba ai piani regolatori, si è fatta una villa con le agevolazioni statali per le cooperative.

In ogni caso, l’imposizione a tavolino del salario si è rivelata, soprattutto in Italia, un effetto boomerang. Per svariati motivi. In primo piano, imporre un salario, se porta benefici nel breve termine, risulta dannoso nel futuro. Come dimostrato dal fatto che i salari italiani sono pressoché stabili da più di 20 anni. Dato allarmante se consideriamo che il potere d’acquisto dei cittadini è stato notevolmente ridimensionato dall’aumento della tassazione. In secondo piano, creare un contratto così pieno di burocrazia ha costretto le aziende a ricorrere a contratti atipici che hanno danneggiato e danneggiano tutt’ora i nuovi lavoratori, come i giovani.

I sindacati non solo non aiutano i lavoratori nel suo complesso, ma aiutano solo nel presente e particolari categorie. I sindacati in Italia hanno sfruttato a proprio favore l’ossessione statalista verso le “aziende strategiche”, imponendo regole molto restrittive, spacciate nel nome della libertà dei lavoratori, nei settori metalmeccanici o aziende estremamente strategiche (secondo i governanti). Questo non si riferisce solo alla storia degli ultimi decenni, un esempio è Alitalia. Ci si è mai chiesti il perché, tra i vari motivi, Alitalia sopravviva sempre e comunque? Si provi a licenziare un dipendente Alitalia.

[…] (1970, ndr) Nel ’69 gli scioperi in Italia hanno causato la perdita di trecento miloioni di ore di lavoro. E’ un record, ma un record da poco. Poiché i lavoratori sono venti milioni, è come se in media ciascuno avesse scioperato un paio di giorni. Una epidemia di influenza costa assai di più. Secondo le statistiche, giù nel 1910. in piena bella époque, si scioperava così. E’ solo cresciuto il danno, perché oggi si produce assai di più, ogni ora che si lavora. E tuttavia il danno peggiore deve ancora venire: verrà nel prossimo futuro con l’inflazione, che i cedimenti ai sindacati e alla piazza provocheranno.

Il sindacato favorisce la disoccupazione e la diseguaglianza dei salari. Il mercato, come la ricchezza, si basa sullo spostamento dei capitali. Imporre coercitivamente un determinato salario, comporta che l’azienda dovrà porre un prezzo maggiore ai suoi prodotti e i clienti potrebbero ritrovarsi impoveriti da questa situazione. Quindi, il cliente otterrà qualcosa che poteva ottenere ad un prezzo più basso e il lavoratore possiede un reddito maggiore di quello che avrebbe dovuto avere. Impoverire qualcuno a favore di altri. Mi ricorda qualcosa.

I sindacati non vogliono la libertà dei lavoratori perché, in presenza di completa libertà, i lavoratori non avrebbero mai bisogno dei sindacati. La libertà dei lavoratori passa dal libero mercato, l’unica vera via al progresso, non dalla coercizione dei sindacati.

“Se i sindacalisti rispettassero davvero gli operai, gli farebbero dei contratti di lavoro comprensibili”

 

Chi è il liberalconservatore di oggi?

Oggi il termine “conservatore” è diventato quasi una parolaccia, “liberale” è un insulto, “liberista” non ne parliamo; al contrario “nazionalista” viene percepito come un titolo di encomio. Che fine hanno fatto però i liberalconservatori? Chi è il liberal conservatore?

Oggi il termine sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Minoranza di una minoranza (i liberali), i liberalconservatori sono ritenuti ambigui proprio per la loro attitudine positiva verso il laissez-faire in economia e il conservatorismo relativo in alcuni cosiddetti valori, sebbene siano aperti alla cosiddetta “nuova generazione” dei diritti, senza dimenticare la centralità e l’unicità dell’individuo.

Nell’economia e nella società, il mercato è la loro guida. Sono tante le sfumature di liberalismo; le versioni occidentali non-anglosassoni, come evidenziato da Friedrich von Hayek, cercano disperatamente di tenersi alla larga dal liberalism, a cui si ispirano i movimenti del centrosinistra (e dalla ex Terza Via, in voga negli anni Novanta), che con John Locke o Adam Smith hanno poco a che fare.

Innanzitutto, quando si tenta di identificare i liberalconservatori c’è storicamente un’enorme confusione nei termini da utilizzare per definire la categoria. «Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi» ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 26 giugno 2019). Inoltre: «Un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni» (in questo senso, è avversario supremo dei demagogo-populisti di destra e di sinistra); «un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia Cristiana […] che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione.»

In Italia il liberalismo non ha attecchito granché (non stupisce dunque l’assenza o quasi dei liberalconservatori), ma sebbene la cultura liberale sia poco studiata e applicata in diversi campi sociali, questo non vuol dire che non sia presente.

Ai margini della vita politica ed economica del paese, i liberalconservatori vanno distinti categoricamente dalla destra sociale (quella sì ben presente in Italia), che a livello economico ha sempre promosso ricette e formule, semplificando, para-socialiste. La destra (più o meno sociale) non è affatto mancata nell’Italia repubblicana e non è stata neppure tanto una minoranza (sebbene mai maggioranza).

Solo nella cosiddetta Seconda Repubblica ce ne sono state addirittura tre: una postfascista, corporativista, antiliberale, nazional-statista (l’ex Movimento Sociale, poi Alleanza Nazionale, oggi Fratelli d’Italia); una leghista, protezionista, localistica, secessionista, anti-nazionalistica prima (Lega Nord 1987-2012) e nazionalista e a tratti xenofoba poi (Lega 2013 oggi); una berlusconiana, confusamente colbertista, a parole liberale, vagamente post-democristiana, antistatalista, affaristica (Forza Italia 1994-2008, Popolo della Libertà 2008-2013, Forza Italia 2013-oggi?).

A sua volta, la destra (di nuovo, più o meno sociale) va distinta dal “conservatorismo”. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 1° ottobre 2016), «cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il passaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti […]; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole.»

In tutto questo, c’è poco di liberale, ma un ponte primordiale con tale micro-universo politico lo aveva gettato nel 1972 nel Manifesto dei Conservatori Giuseppe Prezzolini, secondo cui «il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici, perché il Vero Conservatore intende “conservare mantenendo”, e non tornare indietro a fare esperienze fallite». In questo paradossale “progressisimo”, è vicino al liberale. Il conservatore può essere moderno e molto vicino a quest’ultimo (come ha spiegato proprio von Hayek). I due non sono incompatibili.

Una figura controversa nel mondo tradizionalista come Giovannino Guareschi scrisse ad Alcide De Gasperi sintetizzando bene alcuni elementi liberal-conservatori: «Siamo noi, […] noi cittadini liberi […] Noi che siam […] cristiani pur rifiutando sdegnosamente di metterci in testa papaline colorate, noi che sentiamo la necessità di una migliore giustizia sociale ma che mai accetteremo di fare alcunché di demagogico. Noi che per vivere dobbiamo lavorare duramente come l’ultimo dei proletari ma abbiamo l’orgoglio di essere borghesi. Noi che siamo per l’ordine ma che odiamo ogni tipo di dittatura. Noi che siamo per il trionfo dell’individuo ma non ammettiamo il divismo. Noi che abbiamo orrore della guerra ma che non ci siamo mai sottratti […] ai nostri doveri di cittadini […] Noi che sosteniamo il diritto di scioperare ma che non abbiamo scioperato mai […] Noi che vogliamo il trionfo dei nostri diritti ma ci preoccupiamo, prima di ogni altra cosa, di fare il nostro dovere.» (Il Candido, 1948, riportato da Bombardate Roma! di Mimmo Franzinelli).

Interessanti considerazioni su cosa sia un conservatore oggi – e quest’ultimo va conosciuto e studiato per differenziarlo dal liberale – le ha fatte Gian Enrico Rusconi nel suo Dove va la Germania?, in cui ha stabilito chiaramente le differenze tra il mondo conservatore e quello della destra (sociale): «Il conservatore sa che il cambiamento generale non può essere impedito: vuole dare forma a questo cambiamento. Il tradizionalista decide che tutto deve rimanere com’è. Il reazionario vorrebbe far tornare indietro la ruota del cambiamento. Il conservatorismo non conosce verità eterne, al contrario: […] difende oggi quello che ieri ha combattuto». Cosa che non è del tutto estranea all’immoderatezza, all’anticonformismo e all’effervescenza liberale.

A dispetto di quanto afferma chi lo identifica come populista, «il conservatore accetta la pluralità delle culture e la loro coesistenza. Quello di destra invece è un modo di pensare che mette al primo posto la (presunta) omogeneità del proprio gruppo, ed è indifferente verso le altre culture e forme di vita finché non interferiscono con la propria»; parliamo dei nazionalisti-populisti, o altrimenti detti, sovranisti. Profondamente collettivisti e, come tutti i collettivisti (di destra e di sinistra) – seguendo Ayn Randrazzisti.

Non da ultimo, continua Rusconi, «una differenza fondamentale tra conservatori e destra sta nel linguaggio. I conservatori sanno che molte delle loro richieste […] non trovano consenso maggioritario, ma non per questo recriminano parlando di “terrorismo” nei loro confronti o di “stampa bugiarda”, quando le loro opinioni non sono accolte. Un vero conservatore considera l’ordinamento liberale della società un valore in sé e la difesa più grande contro i tentativi autoritari.» Un conservatore è moderato individualista (lo è anche il liberale); un nazionalista è un estremista collettivista. I ponti tra liberali e conservatori ci sono. I liberalconservatori esistono.

 

Sindacati: violenze spacciate per libertà?

Se ripercorriamo la storia italiana, ma anche estera, possiamo notare come la violenza sia qualcosa di illegale per chiunque. Almeno apparentemente. Dipende, come ti chiami. Se ti chiami Sindacato, magari la violenza diventa espressione di libertà , di bontà. Magari è lo Stato a considerare positivo l’atteggiamento altamente pericoloso del Sindacato. Prima di continuare, avviso il lettore che mi riserverò di inserire qualche parte del celebre testo “Come si rovina un paese”, scritto da Sergio Ricossa.

[…] (1969, ndr) Il PCI e i sindacati chiedono e ottengono. La Confindustria concede alla Triplice sindacale l’abolizione delle zone salariali, verso una eguaglianza delle paghe e la caduta degli steccati tra operai e quadri. Da parte sua, il governo vara uno “Statuto dei lavoratori”. Dovrei essere lieto dello statuto: sono anch’io un lavoratore. Ma vi vedo dei semi antidemocratici, come sempre quando non si tutela il cittadino, ogni cittadino, ma solo un cittadino particolare (non importa se frequente e benemerito come il lavoratore). Tanto più che all’interno della categoria si scorge qualche lavoratore più previlegiato degli altri, fino al vero e proprio innalzamento del sindacalista sopra il livello del cittadino comune.

L’Articolo 39 della Costituzione italiana annuncia che “L’organizzazione sindacale è libera”. Quella che poteva rivelarsi una risposta storica al Fascismo, periodo in cui vennero sciolti o ridimensionati dall’estremo controllo dello Stato Corporativista Fascista. Ma quella che poteva rivelarsi una vittoria della libertà di associazione, almeno per i costituenti, non pare abbia avuto un percorso di continuità, all’insegna della libertà. Probabilmente siamo andati molto più oltre. L’impressione è che il sindacato abbia acquisito un potere superiore; un potere ancora maggiore rispetto a quanto previsto dalla Costituzione: questo lo possiamo riscontrare anche da certe leggi e certe politiche, non solo italiane.
In Gran Bretagna nel 1906 venne approvato il Trade Dispute Act che permetteva “al sindacato l’esenzione della responsabilità civile”. Negli Stati Uniti, nel 1932, approvando il Norris-La Guardia Act, si annunciò che il sindacato aveva tra le mani “l’assoluta immunità per trasgressioni compiute”. In Italia, lo Statuto dei Lavoratori non era solo lo statuto che legittimava certi diritti dei lavoratori, ma esaltava la figura, oltre ogni limite, del Sindacato.

[…] Mi correggo: il danno peggiore sarà morale, non economico. Nelle fabbriche si è imparato che la violenza paga. Gli industriali si sono umiliati fino a riassumere col tappeto rosso i picchiatori di chi tentavano di sbarazzarsi. E sovente si trattava di lavoratori che picchiavano altri lavoratori, capi-squadra, capi-officina. Nelle scuole, idem. Violenza significa meno studio, promozioni più facili.

Risultato? Da “libertà di associazione”, specie nel corso degli anni Settanta, siamo passati da l’obbligo onnipresente dei sindacati. Il dato allarmante è che la presunta libertà di associazione sindacale, ormai coercitiva e dannosa, viene legittimata dallo Stato e dall’opinione pubblica. Ma la domanda mi sorge spontanea: perché dovrebbero esistere senza consultare il parere dei singoli lavoratori? Perché quest’ultimi devono essere necessariamente ridimensionati e demoliti, in senso figurato. Che si tratti di un lavoratore o di un gruppo di lavoratori, è legittimo e normale tutelare la propria figura e la propria posizione. Si tratta di negoziare. Negoziare è libertà, come la libertà di contratto. Ma non è così normale che lo Stato imponga l’obbligo di un sindacato, non è così normale che il Sindacato debba partecipare solo perché è così dappertutto. Quasi a volere trovare, per forza, il pelo nell’uovo per far notare come i sindacati siano davvero dalla parte dei lavoratori. Quando lo Stato legittima la presenza del Sindacato non vuol dire che sta garantendo un diritto dei lavoratori, ma sta mettendo in condizione essi di poter fare quello che vuole, anche “picchettare”. Talvolta, agendo con pregiudizio.

[…] Il parlamento approva lo Statuto dei lavoratori, peggiorandolo o migliorandolo secondo i punti di vista. Esiste ormai una specie di presunzione di colpevolezza giuridica del datore di lavoro, sempre per la gioia dei “pretori d’assalto”, quelli dedicati ad assaltare il capitalismo.

Oggi i sindacati sono in palese declino. Eppure il rapporto con l’opinione pubblica risulta di alti e bassi. Seppur in alcuni casi i cittadini abbiano spesso rimproverato o denunciato certi comportamenti dei sindacati, l’impressione è che lo stesso cittadino non metta per nulla in discussione l’attuale posizione giuridica di questo istituto. La sensazione, forse errata o magari no, è che i sindacati abbiano sempre sofferto di quell’ansia di perdere appettibilità dinanzi ai lavoratori. Con il crescente declino, anche una “vertenza sindacale” – nata allo scopo di evidenziare una contrarietà rispetto alle retribuzioni o alle condizioni d’impiego -, sembra che venga adottata allo scopo di “farsi pubblicità” di fronte all’opinione riluttante. Nessuno riflette sul fatto che i sindacati, specie in Italia, siano tra i principali responsabili del declino economico. A tal proposito, sui danni dal punto di vista economico, ne parlerò un’altra volta.

Il potere coercitivo (e distruttivo) dei sindacati, oltre che infangare e calpestare qualsiasi principio di libertà, costituisce un puro danno per i lavoratori stessi. In primo piano, scusandomi per la banalità, coercizione verso il datore di lavoro, vuol dire anche coercizione nei confronti del lavoratore. Esercitare azioni coercitive limita la responsabilità del lavoratore, ma, soprattutto, lo ridimensiona. Anche lo stesso diritto di sciopero. Perché considerarlo diritto inalienabile dell’individuo se, nella maggior parte dei casi, il lavoratore è pressoché costretto a scioperare? Diversamente rischierebbe di lavorare in un ambiente ostile, in quanto i colleghi lo potrebbero considerare un “nemico”, qualcuno che non sta “dalla stessa barricata”.

(1963, ndr) Finalmente la Confindustria firma l’accordo sui metalmeccanici. Ma con l’aggiunta dei contratti integrativi aziendali ai contratti nazionali, i sindacati hanno raggiunto lo scopo di firmare la pace per poter ricominciare a combattere più di prima.

In sostanza, da libertà di associazione sindacale, siamo passati a legalizzazione di qualsiasi comportamento sindacale, seppur quelli estremamente penalizzanti nei confronto del prossimo. Ma i danni dei sindacati non si limitano a questo. Oltre alla sua libera attività coercitiva, ci sono ulteriori danni. Ma di questo ne riparleremo in un’altra occasione.

Paradisi fiscali: non parassiti, ma simbionti

Sul tema dei paradisi fiscali il dibattito è distorto come pochi altri: dall’accusa di parassitismo alla richiesta di un’imposta minima globale gli agitatori sono sempre e comunque rappresentanti o di paesi dalla tassazione altissima come Italia e Francia o di un’ala politica economicamente a sinistra.

Specialmente in un periodo di crisi queste voci si fanno più pressanti, ma c’è un motivo se nessun decisore politico ha effettivamente cercato di porre fine a regimi speciali di tassazione in altri paesi, specie in quelli dove vi è trasparenza e l’unico vero discriminante è la tassazione più bassa: i paradisi fiscali non solo stimolano la crescita economica nel mondo riducendo la tassazione ad imprese e persone, ma lo fanno anche nei paesi che si vedono “sottratti” aziende e gettito fiscale; di seguito, mostreremo come l’opposizione alla concorrenza fiscale non sia supportata da alcun dato empirico ma abbia solo motivazioni politiche, sfatando il luogo comune che i cosiddetti paradisi fiscali agiscano da parassiti nei confronti di giurisdizioni più fiscalmente onerose.

Da uno studio di Desay, Foley e Hines si evince che la presenza di paradisi fiscali in una regione promuove da un lato la riduzione dell’imposizione fiscale (che sappiamo stimola crescita economica), dall’altro stimola la crescita di vendite ed investimenti (variabili chiave per lo sviluppo di breve e lungo termine) proprio nei paesi non-paradisi. Più che di relazione parassitica dunque ha senso parlare di relazione complementare.

Un altro fattore che promuove la crescita economica è la profondità finanziaria (ossia la dimensione di banche, istituzioni finanziarie e mercati finanziari in un paese) come mostra la World Bank. La vicinanza a paradisi fiscali (Offshore Financial Centers come Lussemburgo e Svizzera) promuove la concorrenza bancaria e la profondità finanziaria, come mostrato da Rose e Spiegel: componenti che riducono il danno dell’eccessiva regolamentazione del comparto bancario grazie al quale oggi gode di sostanziose rendite economiche.

Di recente l’OCSE, che ha lanciato l’iniziativa per contrastare pratiche fiscali dannose sotto il nome di Action 5 BEPS non ha trovato dannose le pratiche fiscali di paesi come Lussemburgo, Paesi Bassi, Irlanda, Malta e Liechtenstein (comunemente menzionati come paradisi fiscali), i quali non compaiono nemmeno nella lista nera di paradisi fiscali non-cooperativi dell’Unione Europea (che è sicuramente un’organizzazione più politica), sfatando ulteriormente l’idea che i soli regimi fiscali più favorevoli rechino danno all’economia mondiale.

Insomma: se in passato paradiso fiscale era sinonimo di poca trasparenza, possibile riciclaggio di denaro e sperduti atolli, oggi sembra essere diventato un capriccioso: “qualunque paese che non ha tasse alte è un paradiso fiscale”, tipico approccio ideologico di chi è economicamente a sinistra.

Ma allora da dove derivano le fonti secondo le quali i paradisi fiscali rechino danno ai paesi “vittima” e debbano essere eliminati? Un’ONG britannica chiamata Tax Justice Network, il cui nome non fa trasparire proprio nulla d’imparziale, è alla base della maggior parte della ricerca anti-paradisi fiscali, analizzando il gettito fiscale sottratto ai paesi non-paradisi per promuovere la battaglia ai regimi fiscali più vantaggiosi. Eppure quando il TJN sostiene di aver screditato gli effetti positivi della concorrenza fiscale l’unica fonte è un link ad un sito chiamato Fools’ Gold che non funziona e sembra essere in disuso: le restanti fonti sono autoreferenziali e non hanno fondamenta accademiche. Insomma, gran parte delle proposte fiscali di questa organizzazione hanno ragioni puramente politiche e non giustificabili sotto alcun profilo economico.

La quantità di disinformazione sulla concorrenza fiscale è mastodontica, prestata a ragioni politiche ma che si scontra con la dura realtà e spiega perché nessun decisore politico e nessuna accademia abbia mai seriamente perseguito obiettivi di uniformazione fiscale. Ovviamente anche dal lato morale ci sono grosse riserve: le aziende e le persone non sono di proprietà dei burocrati che compongono un governo e nessuna giustificazione politica (che come dimostrato non ha nemmeno fondamenta pragmatiche) può cambiare questo principio.

Insomma: se la disonestà e l’ignoranza in materie sociali vengono spesso attribuite ai conservatori, quelle in materie economiche sono proprie, come sempre, dei progressisti e dei socialisti.

Fonti:

Effetti regionali sui paradisi fiscali:
https://www.nber.org/papers/w10806

Profondità finanziaria ed effetti dei paradisi fiscali: https://www.nber.org/papers/w12044
https://www.worldbank.org/en/publication/gfdr/gfdr-2016/background/financial-depth

OCSE: https://www.oecd.org/tax/beps/beps-actions/action5/

Blacklist EU: https://www.consilium.europa.eu/en/policies/eu-list-of-non-cooperative-jurisdictions/

Tax Justice Network e assenza di fonti peer-reviewed: https://www.taxjustice.net/faq/tax-competition/