Perché abbiamo bisogno di Hayek oggi

Centoventi anni fa oggi, l’8 Maggio 1899, Friedrich August von Hayek nasceva a Vienna. Il Premio Nobel per l’economia del 1974 ha vissuto, come Peter Boettke scrive nella sua recente edizione di “Great Thinkers“, una vita per niente banale.
… ha vissuto la disumanità della Prima Guerra Mondiale, la rovina economica della Grande Depressione, e il gioco pericoloso all’interno della stessa civiltà occidentale, con l’avvento del fascismo e del comunismo negli anni 30′ e 40′.

Alla fine sarebbe diventato uno dei pensatori più influenti del secolo, fornendo i mezzi intellettuali per persone come Margaret Thatcher, Ronald Reagan, e Ludwig Erhard e fungendo da eroi per liberali classici e conservatori di tutto il mondo. Allo stesso modo, fu uno dei principali artefici di un movimento in favore delle tesi classico-liberali, cercando di riunire scuole di pensiero antagoniste, come quella austriaca, qulla di Chicago, e quella tedesca degli ordoliberisti, grazie alla creazione della Mont Pelerin Society.

Eppure, oggi, la maggior parte delle persone non sa nemmeno chi sia Hayek o quali siano i suoi principali insegnamenti. Ancora più scandaloso, alcune parti del movimento che ha aiutato a creare vede in lui, nel caso peggiore, “un socialista” – forse un buon economista monetario, ma di nessuna utilità su altre questioni – e nel caso migliore, un piccolo Ludwig von Mises, una brutta copia che alla fine ha rubato il Premio Nobel destinato al suo mentore. Tutto ciò è piuttosto tragico. Sopratutto considerando il nostro mondo odierno – con minacce alle nostre libertà che si ergono da destra a sinistra (letteralmente) – l’incredibilmente complesso sistema di pensiero di Hayek, che attraversa economia, legge, cultura, politica, e filosofia, è cruciale.

Le idee di centralizzazione sono ancora più in voga oggi in Occidente rispetto a qualsiasi altro punto della storia successivamente alla caduta dell’ultimo stato ultra-centralizzato, l’Unione Sovietica, nel 1989. Si potrebbe forse pensare che il ventesimo secolo abbia mostrato abbondantemente che i mega-stati e il collettivismo di ogni tipo non possano funzionare. Tuttavia, questi sogni utopisti sono tornati negli anni recenti.

LA CENTRALIZZAZIONE NON FUNZIONA


Da sinistra, Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez negli USA, Jeremy Corbyn in Inghilterra, e molti attivisti in tutta Europa inneggiano al sogno del socialismo, mentre il suo esempio più prominente, il Venezuela, sta bruciando davanti i loro stessi occhi. Il giovane leader del centro-sinistra Social Democratico in Germania ha proposto la settimana scorsa che le aziende come la BMW dovrebbero essere nazionalizzate nonostante il fatto che un altro esperimento socialista, la Germania dell’Est, ha fallito proprio davanti ai suoi stessi occhi (è nato a Berlino est!). Tutti questi disastri non eranovero” socialismo, certo (non lo è mai), ma il prossimo tentativo funzionerà di certo. Per sconfiggere l’avarizia del libero mercato, c’è bisogno che sia sostituito da un governo autorevole.

Anche la destra non è molto meglio. I nazionalisti europei, da Marine Le Pen in Francia a Matteo Salvini in Italia, attaccano il capitalismo con la stessa ferocia della sinistra. Ma a differenza del socialismo, l’economia non è così importante. La nazione stessa è in ballo, e tutto deve essere messo da parte per la sua sopravvivenza -a prescindere che si tratti di libero scambio, immigrati, o persino Rule of Law, come in Ungheria.

In tutto ciò, è facile dimenticare che lo status quo – l’attuale establishment politico- non è, anch’esso, in favore delle libertà individuali o dell’economia di mercato. Nelle istituzioni Europee di Bruxelles, ma anche lontano dalla capitale Belga, un’opzione ancora più centralizzata è molto popolare. Un governo autorevole è nuovamente la risposta.

Il lavoro di Hayek offre una potente risposta a tutte queste domande diverse che suonano tuttora pericolosamente simili. Più centralizzazione non può essere la risposta, a prescindere da chi la proponga. Jonah Goldeberg ha centrato il punto in un recente articolo, quando ha chiesto ai conservatori di leggere Hayek nuovamente: sulla destra,
“I nuovi fautori del nazionalismo economico, non pensano più che le elites non siano in grado di mettere mano all’economia -ma solo che le elite liberal, o i globalisti, non possano farlo. Parte di ciò ha origine dalla convinzione spesso paranoica che le elite liberal abbiano brillantemente manovrato il sistema in loro favore. Quindi il pensiero che segue è, se possono farlo loro, possiamo farlo anche noi. Ma non funziona così.”

IL POTERE DEL VERO LIBERALISMO


Le richieste di un governo autorevole, responsabile di tutte le area della vita, stanno malinterpretando il mondo in cui viviamo. Per secoli, da quando l’industrializzazione ha messo il liberismo pienamente in gioco, il nostro mondo sta diventando sempre più complesso. Le economie largamente organizzate a livello locale sono cresciute nell’economia globale di oggi, dove ciascuno può scambiare liberamente con gli altri (fino a che il governo non interferisce).

Hayek ha chiamato questo mondo internazionale la “Grande Società“. E sebbene la diffusione di questo ordine ha certamente portato con se grandi fratture nelle comunità e nelle identità e ha sempre causato (temporanei) effetti economici negativi per alcuni, ha anche portato alla immensa ricchezza e prosperità che viviamo oggi.

Ciò che può risultare difficile da capire è che tale ordine è talmente complesso che nessuna singola mente è in grado di dirigerlo. Con miliardi di persone che interagiscono fra loro attraverso migliaia di chilometri ogni giorno, coinvolti in processi economici i cui prodotti sono creati da milioni di individui senza che nessuno conosca gli altri, questo ordine è difficile da comprendere. Ma è la nostra realtà quotidiana.

Chi potrebbe mai prendersi cura di ciò da solo senza distruggere la struttura stessa? Chi potrebbe conoscere ogni singolo dettaglio, conoscere cosa ogni individuo, dal contadino all’operaio all’ingegnere della Silicon Valley, pensa e fa in ogni momento? Questo ordine complesso, se lasciato a sé stesso, può pensare al proprio funzionamento. Tutte le piccole parti di questa fabbrica lavorano insieme, e se una cade a pezzi sarà presto sostituita da un’altra. Ma può un essere umano qualsiasi prendersi cura di tutto ciò (o anche solo produrre qualcosa di semplice come una matita allo stesso modo)?

Un buon dittatore -o presidente o anche parlamento- in carica potrebbe provare ad organizzare tutte queste attività. Ma fallirebbe. E con lui morirebbe l’ordine complesso in sé. Sarebbe impossibile funzionare da solo, essendo costantemente messo in difficoltà. Gli individui non potrebbero più dedicarsi a ciò che vogliono. Sarebbe solo l’uomo o la donna saggia a prendere le decisioni. I risultati sarebbero povertà e significativa perdita in libertà individuali.

RISULTATI, NON INTENZIONI


Sì, le intenzioni dei rappresentanti del popolo potrebbero essere ottime, ma le loro azioni sarebbero disastrose. Bernie Sanders, nel tentativo di aiutare i poveri in USA, li impoverirebbe, insieme al fantomatico 1%, portandogli via ogni modo di prosperare.

Marine Le Pen, tentando di proteggere la nazione francese, genererebbe una totalmente differente, Francia autarchica, che non farebbe altro, da quel punto in poi, che seguire la propria strada per la schiavitù verso un governo pienamente autoritario, perché tutto ciò che non sta aiutando la francia, nella sua mente, deve essere eliminato.

Come scrive Hayek,
Quando ammetti che l’individuo non è altro che un mezzo per il conseguimento del fine di una entità più alta chiamata società o nazione, la maggior parte dei metodi dei regimi totalitari che ci terrorizzano, sono necessariamente da mettere in atto.

Invece, Hayek sostiene, che dobbiamo abbandonare questi sogni. Dovremmo invece abbracciare l’idea di una società basata sulla libertà dei propri membri per trovare da soli lo scopo della loro vita.
Sulla pianificazione centralizzata di uno solo prevarrà la pianificazione individuale di tutti i membri della società, in collaborazione l’uno con l’altro. Hayek vede il ruolo del governo come quello di un giardiniere inglese: qualcuno che getta le basi del disegno e previene ogni chiara e pericolosa frattura della struttura generale ma non interferisce attivamente nei suoi processi – o tenta di pianificarli da solo.

Ciò non vuol dire che l’economia possa fare qualsiasi cosa voglia. Certamente, come Hayek sostiene, una economia libera avrebbe bisogno di fondamenta morali che possano sorreggerla e evitare che faccia di testa sua. Saranno istituzioni sociali, costumi, tradizioni, e abitudini, che si sono sviluppate attraverso i decenni e i secoli non grazie al governo ma attraverso le azioni degli stessi individui che interagiscono gli uni con gli altri, a fare da argine agli effetti indesiderati del mercato. Ecco perché una libera società avrebbe bisogno di una società sana al fianco di una economia libera.

Ed è da qui che molti dei Liberali Classici di oggi possano ancora una volta imparare da Hayek. Una società che non permette di esaminare criticamente alcun risultato del reame economico, anche se ci sono chiaramente conseguenze indesiderate in altri ordini della società, come un indebolimento aggiuntivo delle istituzioni sociali, fallirebbe anch’essa -e forse sta fallendo oggi stesso.

Non deve andare così. Il liberalismo può sopravvivere. Hayek ha coniato il “vero individualismo”, basato sulla visione che i liberi individui nascono in una società, una famiglia, e in altre istituzioni e che le relazioni umane influenzino gli individui in ogni punto della loro vita allo stesso modo in cui gli individui influenzano ciò che è nelle loro vicinanze. Gli esseri umani sono animali sociali, non animali razionalisti che aspirano al massimo guadagno economico.

Questo individualismo è basato sul presupposto che gli ordini sono creati spontaneamente, non centralizzati, e che le tradizioni, le regole sociali e le istituzioni -che determinerebbero la cultura- hanno importanza. E che gli esseri umani proprio perché sono animali sociali, a volte danno la priorità a cose diverse dalla semplice economia. Che hanno un innato bisogno di un senso di appartenenza, di un’identità che va oltre loro stessi, e di forti comunità che possano aiutarli in periodi crisi personali. E che comunque è basato sulla realizzazione di un’economia libera, al sicuro dalla costante pressione del governo, ciò può essere puro dinamismo per una singola comunità o nazione ma anche per tutta l’umanità -e per ogni membro della società.

La decentralizzazione e il localismo da un lato, il mercato e il globo dall’altro. Potrebbero sembrare in contraddizione a primo impatto. Ma ciò che Hayek ci ha mostrato è che con il giusto bilanciamento dei due, il successo è assicurato. Un genere di liberalismo che è attraente e sostenibile. Il genere di liberalismo di cui abbiamo bisogno oggi.

Liberamente tradotto dall’articolo di Kai Weiss.

Milton Friedman e la (sua) Flat Tax

Era il 1956 quando la mente brillante di Milton Friedman (1912-2006) elaborò l’idea della Flat Tax. Sono passati 63 anni ed oggi la sua proposta politica è diventata oggetto di numerose discussioni in tutte le economie mondiali, seppur con qualche imprecisione. Imprecisioni sia da parte di chi la sostiene, specie in Italia, che da parte di chi non la sostiene.

Questo è un indizio di come già in quell’epoca Friedman prevedeva le pecche, i difetti, i limiti del sistema statalista. In quel tempo, l’Europa era nel pieno del boom economico e l’interventismo statale era considerato un bene, ma lo stesso economista statunitense rilevava quei problemi che oggi sono ormai evidenti, in Italia e nella stessa Europa.

Come tutti sanno, la proposta della Flat Tax è uno dei cavalli di battaglia del partito Lega Nord. Lo stesso Matteo Salvini, oggi viceministro del consiglio, ha inserito la proposta di Friedman come il pilastro portante per assicurare una Pace Fiscale ai cittadini.

A tal proposito, nella proposta leghista si riscontrano alcune piccole ma significative differenze rispetto all’idea originaria. Pertanto, ritengo opportuno parlare della Flat Tax, raccontando semplicemente come lo stesso Friedman se lo immaginava.

Come punto di partenza, non possiamo non parlare della moneta e del suo rapporto con la persona. Per l’economista statunitense, la moneta è un “bene di lusso”. Pertanto, la considerazione di essa cambia a seconda del reddito della persona. Se la persona possiede un basso reddito, la moneta è molto veloce, dinamica. Basti pensare al fatto che il basso stipendio di una persona finisce molto rapidamente tra spese primarie o secondarie. Quando il reddito tende a salire, la moneta inizia ad avere una polifunzione. Non solo sarà utilizzata con lo scopo di soddisfare le spese primarie e secondarie, ma permette anche di fare investimenti oppure di organizzare la moneta in risparmi.

Ebbene, la Flat Tax ha lo scopo primario di permettere alle persone di costruirsi i propri risparmi e investimenti. Non solo, ma se la riforma fiscale venisse fatta con i sani criteri previsti dall’economista, sarebbe una vera e propria svolta per la società italiana. Oggi, la moneta vive un momento non felice. Se prima abbiamo sostenuto che la moneta, per una persona con basso reddito, è veloce e dinamica, nel caso di chi ha un reddito più alto, la situazione diventa preoccupante. Oggi abbiamo un fisco invadente che contribuisce a mortificare le persone da qualsiasi tentativo di risparmio o di investimento. Lo stesso regime progressivo lo dimostra, in quanto chi possiede un reddito maggiore deve pagare un’aliquota più alta, quasi come se fosse un reato guadagnare di più.

Come già accennato in precedenza, la Lega Nord è favorevole alla Flat Tax e già dalla campagna elettorale per le elezioni del 4 marzo proponeva un’aliquota fissa per le imposte sui redditi delle persone fisiche e delle imprese compresa tra il 15% e il 23%. Ma le intenzioni o gli obiettivi non sono gli stessi. Infatti, non prevale l’intenzione di far respirare le tasche dei cittadini, bensì quella di semplificare il rapporto cittadino-fisco e di diminuire l’evasione fiscale. Della serie “dietro una proposta liberista, si nasconde la stessa logica socialstatalista”.

La Flat Tax non deve essere un diversivo per arricchire diversamente le casse dello Stato. Altrimenti qui rischiamo di andare verso il principio “pagare tutti le tasse per pagare meno”. La Flat Tax deve avere come unico scopo quello di alleggerire gli italiani. Alleggerire per permettere loro dei consumi migliori, dei risparmi certi e degli investimenti stimolanti.

Sul semplificare possiamo, invece, andare tutti d’accordo. Oggi il sistema fiscale in italiano è sempre più garbugliato, confusionario, ma ha la straordinaria dote di costringere l’imprenditore o il libero professionista a chiudere la partita IVA o a trasferirsi altrove. Il lavoratore sente meno questo problema, perché oggi abbiamo la figura del sostituto d’imposta, ossia è il datore di lavoro ad occuparsi delle tasse del suo dipendente. Il Sostituto d’Imposta è la più grande genialità mai realizzata dai socialisti, poiché il lavoratore dipendente non avrà la piena consapevolezza di quanti soldi versa allo Stato ogni mese.

Secondo l’idea di Friedman, l’unica forma di progressività attraverso la creazione di una Flat Tax è attraverso una no tax area e con conseguente eliminazione della politica degli sgravi fiscali. In parallelo, lo stesso economista statunitense ha parlato di Tassazione Negativa di Reddito, specie per coloro che possiedono un reddito al di sotto di una certa soglia.
Altro dettaglio fondamentale, oggi trascurato da chi sostiene la Flat Tax, è che questa riforma può funzionare solo in un regime di bassa spesa pubblica. Da non trascurare se consideriamo che la spesa pubblica in Italia è giunta ad un livello molto più che preoccupante.

Prima di concludere ecco alcune significative affermazioni di Milton Friedman sul tema della Flat Tax

“[…] ciò costituirebbe una difesa contro l’aumento dell’aliquota. Adesso ogni volta che c’è un aumento di aliquota lo si giustifica dicendo che va a colpire qualcun altro. Non si tassa mai sé stessi ma il proprio vicino. In questo modo si nasconde il fatto che alla fine vengono tassati tutti. Con l’aliquota unica, con un’unica percentuale, pagata da tutti ad esclusione di quelli che hanno un reddito inferiore al minimo, sarà molto più difficile ottenere il sostegno popolare per un aumento di aliquota”

“Flat Tax non sostituisce le altre imposte? Certo, non ho mai sostenuto che l’imposta ad aliquota unica potrà, ad esempio negli Stati Uniti, sostituire altre tasse quali l’imposta sulla proprietà. Dubito che vi sarà il sostegno politico alla proposta di sostituire l’imposta sugli alcolici, sul tabacco, sulla benzina. Queste imposte sono di natura diversa fra loro. La tassa sulla benzina, per esempio, è una forma di finanziamento da parte degli utenti per la manutenzione delle autostrade.
Si tratta, se così si può dire, di una tassa per un servizio più che di una comune imposta.”

Capitalismo e ambiente. La rinuncia al primo favorirebbe il secondo?

La maggior parte degli ecologisti attribuisce al capitalismo e all’industria la colpa dell’eccessivo sfruttamento di risorse e della degradazione dell’ambiente, se ne dedurrebbe che l’abbandono del modello capitalista porterebbe ad una migliore condizione dell’ambiente.

Ma si potrebbe abbandonare il capitalismo? A che costo? Come?

Anche Karl Marx era convinto di poter arrivare ad abbandonare il capitalismo, ma solo dopo aver spremuto fino all’ultima goccia del suo progresso scientifico. Pertanto ne criticava la forma ma non il funzionamento definendolo un male necessario al fine di raggiungere il bene supremo: un mondo comunista talmente avanzato tecnologicamente da non necessitare più della spinta innovatrice dei privati.

Lo sviluppo economico è un viaggio in cui è certa la stazione in cui siamo arrivati, ma non possiamo sapere che successivamente non ne troveremmo di migliori. Non è possibile considerare un determinato livello di sviluppo umano come la sua massima espressione possibile, considerando infinite le idee.

Abbandonare il capitalismo avrebbe un costo incalcolabile, quello di abbandonare le scoperte ancora ignote per favorire quelle che abbiamo già a portata di mano. Il capitalismo viene considerato la sciagura per i problemi umani e ambientali, ma in realtà sarebbe la principale cura, se gli fosse concesso di agire secondo le proprie leggi intrinseche.

Adam Smith credeva in un disegno più grande che abbracciava l’economia di mercato (e l’ecologia di mercato, ndr). Vi è per lui un processo spontaneo che lega gli interessi particolari (degli industriali e dei consumatori) ai benefici universali (dell’ambiente). Colui che offre un prodotto deve andare incontro ai bisogni dei consumatori, essendo questi manovratori del sistema di mercato. Se i consumatori chiederanno più ecologia, i produttori non potranno ignorarli a lungo. Inoltre, la ricerca del profitto spinge ad offrire prodotti sempre migliori a un prezzo sempre minore per far fronte alla concorrenza.

Ciò genera innovazione tecnologica che innalza la qualità dei prodotti e l’efficienza che si traduce in un abbassamento dei costi di produzione. Chiaro che l’ambiente ne tragga un vantaggio in quanto eliminare i prodotti di scarto risulta una voce importante nelle spese di produzione. In un’ottica capitalista di mercato i rifiuti tenderebbero a cessare di esistere o non sarebbero più dei semplici scarti. Grazie alla volontà di profitto degli imprenditori, diventerebbero prodotti da vendere e non sarebbero più un costo, ma una possibilità.

Lo sviluppo tecnologico

L’economia circolare, nonostante i romantici la definiscano come “un nuovo modello di produzione”, non è altro che il vecchio modello esasperato nei benefici.

La spinta di mercato ha generato uno sviluppo tecnologico tale da rappresentare radicali miglioramenti già solo nell’ultimo ventennio. I consumatori hanno richiesto negli anni una sempre maggiore concentrazione di servizi considerando, ad esempio, i soli smartphone. Va da sé che gli altri apparecchi elettronici, ormai obsoleti, siano andati mano a mano diminuendo.

Per la stessa quantità di servizi al giorno d’oggi utilizziamo una minore quantità di risorse e abbiamo un minore impatto sull’ambiente.

Ulteriore esempio è il passaggio dalla carta alla memorizzazione elettronica sviluppatasi poi in modo sempre più efficiente. Appena venti anni fa per stoccare 8 GB di dati servivano migliaia di floppy, ora serve una sola chiavetta USB pertanto la quantità di materiali e plastiche per la fabbricazione di un oggetto dalla stessa capacità è notevolmente diminuita.

Il confronto fra la carta stampata e la memorizzazione elettronica è ancora più impietoso: è famosa la fotografia di Bill Gates imbragato e appeso a diversi metri di altezza con sotto di lui una pila di migliaia di fogli che contenevano gli stessi dati che era possibile immagazzinare nel CD-ROM che teneva nel palmo della sua mano.

Infine, abbandonare il capitalismo porterebbe a mantenere l’attuale sistema produttivo, ma senza un’efficiente allocazione delle scarse risorse, ignorando le possibili soluzioni future provenienti dal mercato e senza portare nessun vantaggio per l’ambiente.

Leggi anche “Ambientalismo e socialismo: una storia d’amore”.

La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will

Perché Greta Thunberg non salverà l’ambiente (ma il capitalismo sì)

La società negli ultimi duecento anni attraverso l’industrializzazione ha raggiunto livelli di comfort inauditi. Abbiamo sconfitto i grandi morbi dei secoli scorsi come mortalità infantile, poliomielite, meningite, malaria e fame. In cambio abbiamo ottenuto ricchezza, cibo a volontà e mezzi per spostarci in ogni parte del mondo.

Tutto ciò però ci è costato tanto. A causa dell’enorme crescita industriale, le emissioni di gas serra sono aumentate vertiginosamente provocando un aumento delle temperature. 

Media della temperatura globale

Per questo milioni di persone sono scese in piazza a Roma insieme a Greta Thunberg – giovane attivista svedese per il surriscaldamento globale – a ricordarci ancora una volta perché siamo spacciati e come moriremo tutti se non agiamo con azioni drastiche subito. (Ovviamente non riportando nessun dato scientifico a sostegno della sua tesi).

Secondo Greta il futuro dell’umanità è stato venduto perché poche persone possano fare soldi. L’unico modo per fermare il declino dell’ambiente e porre fine alla distruzione del mondo, che – secondo l’attivista – avverrà intorno al 2030, è quello di ridurre le emissioni del CO2 del 50%.

La giovane attivista propone di agire attraverso azioni concrete, politiche innovative, e soprattutto un nuovo modello di sviluppo. Ma c’è un problema: quali?

Quale sarebbe la magica panacea in grado di favorire lo sviluppo economico e nello stesso tempo salvaguardare l’ambiente?

Purtroppo è comune a tutti gli attivisti raccontare una realtà drammatica e catastrofica distorcendo la società attuale. Saranno sempre pronti a concentrare la nostra attenzione con storie eccitanti e distopiche.

Ma il cambiamento climatico è un problema serio, e come tale va affrontato in maniera razionale e scientifica. Bisogna prendere un bel respiro, analizzare i dati  e stare attenti a non intraprendere azioni drastiche. Gli allarmismi da parte di ragazzini di tutto il mondo non portano a nessuna azione concreta da intraprendere. 

In poche parole per risolvere questo enorme problema bisogna guardare in faccia la realtà.

Cerchiamo di fare il punto

La popolazione mondiale è composta da oltre sette miliardi di individui, dei quali un miliardo e mezzo circa, vivono in paesi sviluppati e hanno a disposizione cibo, acqua e cure a volontà (come gli Americani e gli Europei). I restanti cinque miliardi e mezzo, invece, vivono in paesi in via di sviluppo, cioè in condizioni di vita medio/basse (Cinesi o Indiani).

Ora c’è un problema: non possiamo fermare l’innovazione, non per cattiveria e malvagità ma perché semplicemente non si può pragmaticamente fare. Come si nega a sette miliardi di individui di fermare completamente il processo di industrializzazione per tornare ai livelli di iniquità del pleistocene? È oggettivamente impossibile.

Non si può, come propongono Greta e i suoi compagni d’avventura, dimezzare le emissione di CO2 o di altri gas serra per un semplice motivo: l’economia e la società attuale crollerebbe.

La soluzione quindi deve essere un’altra, anzi esiste già: il liberismo e il sistema economico capitalista.

Sembra un’antitesi affermare che il sistema industriale, la causa dei principali fattori di riscaldamento globale, dovrebbe essere lo stesso che ci permetta di risolvere il problema. Ma è cosi. (Prima di chiudere la pagina e tornare alla vostra home di Facebook, per favore continuate a leggere).

Emissioni di CO2 in paesi sviluppati (sinistra) e in paesi in via di sviluppo (destra)

Questi due grafici rappresentano le emissioni di CO2, il principale gas serra, emessi, nel primo, dai paesi sviluppati, mentre nel secondo, da paesi in via di sviluppo.

Grazie ai grafici possiamo sviluppare due asserzioni interessanti:

  1. È evidente come le emissioni dei “greenhouse gas” crescono esponenzialmente nei paesi in via di sviluppo mentre nei paesi sviluppati, dopo una crescita, diminuiscono.
  2. In generale si nota come nella prima fase dello sviluppo economico i paesi, a causa di macchinari e mezzi più vecchi, causano un enorme emissione di gas serra, per poi diminuire nel secondo periodo, nel quale i vari paesi riescono ad ottenere mezzi più efficienti che permettono un migliore uso delle risorse energetiche.

Infatti fra il 2007 e il 2017 le emissioni di CO2 sono diminuite dell’11% in USA e UE e aumentate del 29% in Asia e del 24% in Africa.* [2] E lo stesso sta avvenendo per tutti gli altri gas serra.

Emissioni di CO2 totale in paesi in via di sviluppo (developing Nation) e paesi sviluppati (developed Nation).
Si nota chiaramente come le emissioni nei paesi sviluppati stanno diminuendo.

Questo avviene poiché rispetto alle nazioni in via di sviluppo, i paesi più ricchi adottano sistemi sempre meno inquinanti grazie allo sviluppo capitalistico. 

In poche parole, il capitalismo, la nascita di nuove aziende e innovazioni, salveranno l’ambiente, Greta con la sua retorica apocalittica del “ora o mai più” no. (Anzi, rischia di far solo danni).

Certo, non dobbiamo aspettare le rimodernamenti industriali per salvare il pianeta, occorre nel frattempo assumersi le proprie responsabilità e agire consapevolmente cercando di avere uno stile di vita rispettoso nel confronti del clima e dell’ambiente.

Ma, a differenza di quanto Greta e gli altri attivisti vogliano farci credere, l’umanità non è spacciata, il riscaldamento globale non è un fenomeno irreversibile, bensì risolvibile (se affrontato cautamente con raziocinio), ma soprattutto ci ricorda ancora una volta come il capitalismo possa essere la valida soluzione anche a problemi così complessi.

Note

[1]  https://data.worldbank.org/indicator/en.atm.co2e.kt?end=2014&start=1960&view=chart

[2] https://wattsupwiththat.com/2018/07/03/bp-data-analysis-global-co2-emissions-1965-2017/

[3] https://wattsupwiththat.com/2018/07/03/bp-data-analysis-global-co2-emissions-1965-2017/

* Per il dato numero [2] il merito di averlo divulgato va a Costantino de Blasi su un suo post di Facebook (https://www.facebook.com/Sktrrbrain?epa=SEARCH_BOX)

I finanziatori di Hitler: una storia di “crony capitalism”

Molto è stato detto ed è stato scritto sui rapporti fra le alte gerarchie del Partito Nazista ed i grandi industriali tedeschi. Che tali legami siano effettivamente esistiti, e che siano stati essenziali per l’ascesa di Hitler, è un fatto storico innegabile.

I seguaci dell’ideologia marxista, quindi, sono soliti considerare questa verità storica come la prova schiacciante della compatibilità del capitalismo con il fascismo, o perfino dell’inevitabile tendenza di una società capitalista a degenerare nel fascismo.

In realtà, la collaborazione fra nazisti ed industriali non fu altro che un ennesimo esempio di quello stretto rapporto fra potere politico e potere economico che oggi viene definito come “crony capitalism”, o capitalismo clientelare.

Il “crony capitalism” è un sistema che in apparenza si basa sul libero mercato, ma che in realtà è dominato dalle leggi e dalle regolamentazioni statali, che vengono usate per promuovere gli interessi di un piccolo gruppo di magnati industriali e politici compiacenti.

Un sistema simile, in teoria capitalista, in pratica corporativista e statalista, era quello esistente in Germania durante il regime nazista. Grandi nomi dell’industria tedesca, come Gustav Krupp e Fritz Thyssen, finanziarono generosamente la causa di Hitler.

In cambio, una volta conquistato il potere assoluto, i nazisti non persero tempo per ripagare i favori dei grandi industriali. Le industrie Krupp, per esempio, specializzate nella produzione di acciaio, beneficiarono delle enormi commesse statali di armi e munizioni, facenti parte del programma di riarmo tedesco.

Ad ottenere ricchezza e successo, quindi, erano solo gli imprenditori con le dovute conoscenze nelle alte sfere del Partito. I piccoli e medi imprenditori, privi di legami privilegiati con il potere politico, non traevano vantaggi significativi dal sistema, spesso anzi il contrario.

Per esempio, nel 1933, venne creata la “Adolf Hitler Spende der deutschen Industrie”, una cassa intitolata ad Adolf Hitler alla quale gli imprenditori vennero obbligati a versare elargizioni “in segno di riconoscenza per il boom economico reso possibile dal Fuhrer”[1].

Gli ingenti fondi della Adolf Hitler Spende erano gestiti da Martin Bormann, segretario del Fuhrer, il quale poteva disporne a piacimento, per ricompensare i funzionari del Partito più servili e fanatici.

Quindi gli imprenditori tedeschi, per un boom economico fittizio, limitato a pochi grandi gruppi industriali, furono costretti ad autotassarsi per mantenere nel lusso Hitler e gli alti gerarchi dell’NSDAP.

A lungo termine, tuttavia, anche i magnati dell’industria, che avevano scelto di voltare le spalle al libero mercato per fare soldi facili con la protezione e la complicità delle autorità statali, arrivarono a pentirsi della loro scelta.

Dopo il 1942, con la situazione bellica che diventava sempre più critica, lo Stato (e quindi il Partito) iniziò ad esercitare un controllo più diretto sull’apparato produttivo tedesco. Aziende ed industrie private, progressivamente, passarono dalle mani dei loro proprietari in quelle dei funzionari nazisti.

Questo processo di centralizzazione delle attività produttive sotto il controllo del Partito, allo scopo di massimizzare l’efficienza dello sforzo bellico, fu dovuto tanto alle circostanze quanto ad una precisa volontà politica.

Da un lato, infatti, i bombardamenti sempre più devastanti costrinsero i proprietari delle fabbriche ad accettare l’aiuto dello Stato per trasferire la produzione sotto terra. In cambio, però, furono costretti a cederne il controllo alle autorità politiche locali.

Dall’altro, si fece progressivamente spazio nella mente di molti funzionari del Partito l’idea di una specie di “socialismo di Stato”[2]. In quest’ottica la nazionalizzazione dell’industria, che venne descritta agli imprenditori come una misura temporanea, sarebbe continuata anche in tempo di pace.

Naturalmente, la sconfitta della Germania rende impossibile sapere come si sarebbe evoluto il rapporto fra imprenditori e funzionari nazisti, o se il progetto di un “socialismo di Stato” di questi ultimi avrebbe avuto successo o meno. Tuttavia, dalla storia dei finanziatori di Hitler è possibile ricavare delle lezioni, per il passato e per il presente.

La prima è che, sul lungo termine, capitalismo e dittatura non possono coesistere: o il primo viene soffocato dalla seconda, o la seconda viene abbattuta dal primo.

Il primo caso è quello della Germania di Hitler, che progressivamente ha abbandonato il libero mercato ( adottando misure protezionistiche e politiche economiche quasi keynesiane per il riarmo bellico), per sostituirlo con il corporativismo e lo statalismo.

Il secondo caso, invece, è quello del Cile di Pinochet. Senza negare il carattere autoritario di tale regime, non si può non concordare con Milton Friedman nel riconoscere il ruolo centrale delle riforme economiche liberiste del regime nel porre fine alla dittatura stessa.

La seconda lezione, che riguarda da vicino il nostro presente, ma anche il nostro futuro, è che il “crony capitalism” inevitabilmente conduce, se non alla dittatura vera e propria, ad un accentramento del potere che è comunque inaccettabile per un liberale.

In un circolo vizioso, imprenditori corrotti finanziano politici compiacenti, che ripagano tali favori con i soldi dei contribuenti o con leggi a loro vantaggio, il tutto con il risultato di rendere sempre più ricchi e potenti sia i primi che i secondi, a discapito del resto della popolazione e della libertà. Ma è possibile contrastare il “crony capitalism”?

Forse, restando pragmatici, un modo c’è. Naturalmente, imprenditori corrotti e politici compiacenti sono sempre esistiti e sempre esisteranno. Quindi, cercare di rimuoverli interamente dalla società e dalla storia è impossibile.

Tuttavia, è possibile impedire loro di fare gravi danni, privandoli delle loro armi più potenti, quelle dello Stato. Il “crony capitalism”, infatti, esiste grazie al Big Government. Se lo Stato ha funzioni limitate, se politici e funzionari non hanno a disposizione grandi poteri e grandi quantità di denaro pubblico, allora l’incentivo a corrompere viene meno.

In uno scenario simile, molti lobbisti si ritroverebbero disoccupati, molti monopoli svanirebbero dall’oggi al domani e molti imprenditori si vedrebbero costretti a tornare all’unico sistema in grado di garantire prosperità economica individuale e collettiva, il libero mercato.

 

[1]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo VII

[2]Albert Speer, “Memorie del Terzo Reich”, capitolo XXIV

 

 

 

 

Stress test pensioni: 5 casi in cui il privato è meglio del pubblico

Spesso, a torto, si sente sostenere che l’attuale sistema pensionistico è da imputare a un sistema liberista volto a impoverire la popolazione italiana e farla morire lavorando.

Sfatiamo subito questo mito, a noi liberali questo sistema pensionistico non piace per niente, la riforma Fornero NON è stata una riforma liberista, bensì una riforma contabile.

Essa è stata una riforma inevitabile per la struttura del sistema pensionistico italiano perché è completamente concentrato nel perimetro pubblico e, per far sì che questo non implodesse, è stato necessario bilanciare le entrate e le uscite di cassa future con un aumento dei contributi versati, un aumento dell’età pensionabile e la riduzione degli assegni a causa della non indicizzazione all’inflazione.

È stata inevitabile e saranno inevitabili altre riforme di questo tipo perché, contrariamente a quanto viene propagandato spesso, i soldi non sono infiniti e lo stato, qualsiasi esso sia, non è onnipotente e non può incidere, se non in misura ridotta, in fattori di così grande portata come il trend demografico di una nazione.

Il nostro sistema pensionistico funziona come un enorme schema Ponzi nel quale si dovrebbe sperare che sempre più persone inizino a lavorare, quando secondo il trend demografico questo non sta accadendo, e che sempre più pensionati smettano di percepire l’assegno pensionistico lasciando al sistema i contributi non riscossi (lascio al lettore immaginare cosa voglia dire).

Alla luce di questo, il sistema pensionistico italiano, contributivo e a ripartizione, NON è il sistema di riferimento per i liberisti.

Un sistema liberista sarebbe uno a capitalizzazione individuale, il lavoratore metterebbe da parte i contributi su un conto previdenziale privato in modo da costruirsi la propria pensione personale che non sia dipendente da contributi di altri e dalla quale riceverebbe degli interessi, anche questi da reinvestire sul conto previdenziale in modo da aumentare ulteriormente la propria pensione futura.

Ora proviamo a immaginare in cinque situazioni di criticità come rispondono le pensioni contributive pubbliche e delle ipotetiche pensioni private a capitalizzazione individuale.

  1. Il primo elemento di criticità che quasi ogni giorno tiene banco nel dibattito pubblico è l’ingiustizia di andare in pensione in età avanzata dopo aver passato la vita con un lavoro usurante. Contro intuitivamente un sistema privato andrebbe a vantaggio principalmente di questa categoria, composta in prevalenza da persone scarsamente specializzate e che entrano precocemente nel mercato del lavoro, perché, anche se verserebbero un contributo più basso, inizierebbero a versarlo molti anni prima rispetto a altri lavori maggiormente specializzati caratterizzati da un ingresso nel mercato del lavoro in un’età più avanzata, facendo si che gli interessi, seppur su importi minori, agirebbero per un maggior numero di anni e favorendo la costituzione di un montante adeguato per andare in pensione prima rispetto a un sistema pubblico in cui l’età di pensionamento dipende esclusivamente dal decisore pubblico.
  2. Una seconda criticità dipende dalla percezione che i lavoratori hanno dei contributi previdenziali che le aziende versano in loro favore, oggi sono vissuti come una tassa (di fatto lo sono) perché non è esplicito quanto sia l’ammontare di contributi versati nelle casse dell’Inps  e non è chiaro, per chi non è un addetto ai lavori, come verrà calcolata la pensione. In un sistema pensionistico a capitalizzazione i contributi sarebbero percepiti come parte dello stipendio (di fatto lo sarebbero) perché confluirebbero direttamente nel conto previdenziale privato cioè nel patrimonio del lavoratore. Questo li allontanerebbe dal mercato del lavoro irregolare perché a parità di stipendio percepito, il guadagno del lavoratore in nero sarebbe nettamente inferiore a quello del lavoratore regolare e non potendo più terziarizzare i contributi, farseli cioè pagare da altri, sarebbe incentivato a farseli versare direttamente in azienda.
  3. Nel mercato del lavoro odierno, caratterizzato da una maggiore discontinuità lavorativa rispetto al passato, la perdita di lavoro corrisponde a un cessazione del versamento dei contributi, questo si ripercuote non solo sulla situazione reddituale presente, ma anche sulla situazione reddituale futura. In un sistema privato, essendo composto anche dagli interessi oltre che dai contributi versati, il problema, pur rimanendo, avrebbe un impatto negativo minore perché quest’ultimi continuerebbero a maturare a prescindere che il lavoratore stia o meno continuando a lavorare e versando i contributi.
  4. Mediamente in Italia viene percepito un assegno pensionistico fra il 70% e l’80% rispetto agli ultimi stipendi riscossi prima di uscire dal mercato del lavoro ed è la stessa percentuale che viene mediamente riscossa nei sistemi privati con la piccola differenza che in Italia i contributi pensionistici ammontano al 33% dello stipendio lordo mentre nei paesi che adottano il secondo sistema i contributi sono nettamente inferiori (in Cile ad esempio solo il 10%), le pensioni private quindi raggiungono lo stesso risultato, ma con un impiego di risorse economiche molto inferiore, questa differenza è una vera sottrazione di risorse private che potrebbe essere impiegata per consumi o investimenti dai quali, al giorno d’oggi, il lavoratori sono completamente esclusi. Inoltre contributi pensionistici così alti incidono negativamente sul cuneo fiscale, disincentivando l’assunzione. Abbassarli vorrebbe dire aumentare l’occupazione e disincentivare il lavoro nero.
  5. C’è un ulteriore aspetto che premia le pensioni private rispetto a quelle pubbliche ed è la reversibilità, non è raro che una persona muoia prima di aver maturato il diritto a riscuotere l’assegno pensionistico o prima di aver consumato completamente il proprio credito presso le casse previdenziali. Nel sistema pubblico spesso oltre al danno si assiste alla beffa. Dopo aver pagato una vita intera per poter godere di un servizio futuro, quale è la pensione, non solo ne si è esclusi personalmente dal consumo, ma ne sono esclusi anche tutti propri cari che non goderanno di questo servizio, se non in minima parte, costituendo, di fatto, un ulteriore tassazione a fondo perduto avvenuta durante la vita alla quale non verrà mai corrisposto il servizio promesso.

Leggi anche: “pensioni, sistema insostenibile

Perché in Italia i comuni non falliscono?

La notizia è fresca[1]: il governo ha deciso di intervenire a salvezza di Roma, dicendosi disponibile ad addossarsi i debiti del comune a partire dal 2021. Non che sia una novità[2], o tantomeno l’unico caso[3]; lo Stato italiano ha una lunga tradizione di interventi a tutela di comuni falliti. E, per essere chiari, la ragione di questi interventi non è solo la convenienza politica di togliere dagli impicci i propri compagni di partito (anche se questo motivo esiste, ovvio); a livello più profondo, deriva dalla concezione dello Stato presente in questo Paese e nella sua classe dirigente.

In Italia gli enti locali sono ancora visti come branche dello Stato centrale, che se ne serve per controllare meglio il territorio ed i cittadini. Anche quando concede, come nel caso delle Regioni, un certo grado di autonomia di spesa e decisione, mantiene comunque il diritto di intervenire sulla maggior parte delle materie su cui ha, a malincuore, ceduto il potere[4]; e non si sogna minimamente di creare un vero sistema decentrato, con poteri amministrativi e decisionali esclusi dagli ambiti più importanti.

I comuni soffrono in particolare questa situazione, perché da un lato ricevono sempre meno soldi dallo Stato (e non hanno sufficiente autonomia per procurarsi altri fondi) mentre dall’altro devono garantire una serie di servizi che i loro cittadini (ed elettori…) si aspettano.

Il risultato è che molti finiscono soffocati di debiti; e a quel punto interviene lo Stato con i suoi commissari e i suoi lunghi e complessi piani di rientro – che ovviamente non funzionano mai. La città finisce così per attraversare una crisi finanziaria dietro l’altra e rimane in uno stato di sovranità limitata per anni, a volte decenni.

Il punto è che ad essere sbagliata è proprio la concezione dello Stato che ha la nostra classe dirigente.

Il comune non dovrebbe essere visto come un organo dello Stato centrale, a cui si distribuisce denaro dall’alto per poi salvarlo quando le cose vanno male. Così non si crea una cultura della responsabilità, né presso gli amministratori locali né presso i cittadini; è solo un modo per mantenere il predominio del governo centrale e della sua classe di burocrati e politici.

Il comune dovrebbe invece essere un singolo ente autonomo, che si auto-finanzia presso i suoi residenti ed è responsabile di fronte a loro della sua condotta finanziaria. Se un ente del genere fallisce, a pagarne le spese saranno i suoi residenti, e solo loro; e non perché li si debba punire; ma perché solo commettendo errori e vedendone le conseguenze gli individui possono capire dove hanno sbagliato ed effettuare scelte migliori.

Del resto, non vediamola solo negativamente: un comune autonomo e ben amministrato potrebbe fornire servizi migliori ai cittadini – o addirittura abbassare le loro tasse!

I fallimenti sono importanti sia per un individuo che per un sistema (politico ed economico): permettono di individuare gli errori e di migliorare la qualità delle decisioni successive. Per quale ragione i comuni non dovrebbero poter fallire?

 

 

[1] Fonte: https://quifinanza.it/finanza/governo-paga-debiti-di-roma/267699/

[2] Dal 2009 l’enorme debito accumulato dalla capitale viene pagato al 60% con fondi prelevati dalla contabilità nazionale – soldi di tutti gli italiani dunque.
Fonte: https://www.nextquotidiano.it/debito-di-roma-chi-paga/

[3] Ad esempio Catania, nel 2008, cfr: http://www.repubblica.it/2008/10/sezioni/politica/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania/cavaliere-salva-catania.html

[4] Per come funziona il sistema delle competenze “condivise” e “residuali” fra Stato e Regioni, cfr: https://it.wikipedia.org/wiki/Potest%C3%A0_legislativa_in_Italia

Oscar Giannino: quando l’opinione diventa una colpa.

“Leggete e dite: che senso ha? Sono io da condannare? Diffamo chi in Rai lavora se dico che è lottizzata? Ma stiamo scherzando? No, è l’amara realtà. Che per me oggi ha un impatto grave, molto grave.” Queste, le parole scritte, nel post di Facebook del 10 Aprile, da Oscar Giannino.

Probabilmente lo avrete già sentito. Nel 2013 si presentò alle elezioni come capo di “Fare per fermare il declino”, una piccola lista composta soprattuto da importanti economisti di orientamento liberale.

Durante la campagna però, si scoprì che la laurea che Giannino sosteneva di aver conseguito all’università di Chicago risultò falsa e lo rivelò, causando un grande scandalo in tutto il paese.

Oggi però è emerso un nuovo scandalo che coinvolge Oscar Giannino.

In realtà l’episodio risale al febbraio del 2008, quando il giornalista scrisse un articolo nella testata giornalistica “Libero Mercato”- di cui era direttore – nel quale descrisse un documento riservato della Rai.

Nell’articolo in questione Giannino fece notare come “di 900 nomi di dirigenti tra società e controllate, oltre 900 si presentavano rossi o blu a seconda del padrinaggio politico, e solo meno di 1 su 3 era verde cioè non politicizzato.”

Naturalmente lo scopo dell’articolo era di dimostrare come all’interno della Rai si scegliesse guardando ai partiti e alla politica, a scapito della valenza e capacità dell’individuo, ergo: occorrerebbe che l’azienda fosse privatizzata.

In tutto ciò, però, – dettaglio importante- nessun nome dei 900 fu divulgato nell’articolo.

La pubblicazione tendeva semplicemente a criticare il sistema di criteri e giudizi con il quale venivano scelti i dipendenti. Non c’era nessuno scopo diffamatorio.

Ebbene, il 4 marzo 2019, dopo più di dieci anni dalla diffusione dell’articolo, Oscar Giannino, per effetto della decisione del giudice civile favorevole alla richiesta avanzata da numerosi dirigenti RAI, viene condannato a ben 144 342 euro di pignoramento. 

L’articolo citato pubblicato da Oscar nel 2008. Trovate le immagini nel post Facebook del giornalista.

No, non è un errore. Solamente per avere espresso la propria opinione riguardo la politicizzazione della RAI, Oscar si ritroverà a pagare ben -lo scrivo in lettere per confermare – centoquarantaquattromila euro.

Tutto ciò per confermare un labile presentimento che ormai in Italia si avverte da decenni. La libertà di parola si, ma sino ad un certo punto. Che vale intraprendere la carriera di giornalista, scrittore, divulgatore o politico se poi certi temi non si possono toccare poiché tenuti sotto controllo dalla politica?

La falsa libertà in Italia ha sempre fatto da padrone. Dal fascismo ad oggi si può criticare tutto purché non si tocchino certi tasti, che di certo, comodo non fanno.

A differenza dell’epoca di Mussolini, oggi però non ce ne rendiamo conto, rischiando di trovar soppressa da un giorno all’altro la nostra libertà d’opinione e d’espressione.

Notizie del genere non possono passare inosservate. Ci si ritrova davanti un giornalista, che pur con i suoi errori che egli stesso ha ammesso, ritrova un pignoramento di 144 mila euro semplicemente per aver espresso la propria opinione.

Secondo la RAI e il giudice civile, l’articolo causerebbe danni di credibilità e professionalità ai dirigenti. Ma dove? Dove sono nomi e cognomi, e dove le accuse e calunnie? 

Come al solito il cavallo di troia irrompe, chiedendo la difesa dei propri diritti, quando in realtà li si vuole negare a qualcun altro.

Non a caso, infatti, l’Italia ha uno dei tassi di libertà di stampa più bassi di tutta l’Unione Europea, classificandosi al 46esimo posto della comunità globale.

La percentuale della libertà di stampa italiana è del 70%. Viene considerato come un paese “mediamente libero”.

Italiani sveglia. Abbiamo combattuto con ferro, fiamme e sangue di nostri concittadini per ottenere la libertà di parola, e oggi, poiché non si vuole ammettere che, come al solito, le aziende pubbliche controllate dalla politica causano più danno che bene, la stiamo perdendo.

La Svezia e l’equivoco socialdemocratico

In Italia si parla spesso dei Paesi scandinavi come modelli alternativi, esempi di successo di politiche socialdemocratiche o addirittura socialiste; e recentemente questa moda ha preso piede perfino negli Stati Uniti[1]. Alla base di questi riferimenti c’è sempre la ricerca della mitica “terza via”, che permetterebbe di superare il capitalismo senza gli eccessi e i fallimenti del comunismo[2].

La Svezia, in particolare, è il Paese a cui tutti costoro guardano. “Ecco”, si dice, “una nazione che riesce a crescere e creare benessere per tutti con politiche sociali e attente ai poveri, rifiutando il perfido neoliberismo. Questo è l’esempio che dovremmo seguire. Freghiamocene di austerità, libertà economica e tassazione, a salvarci sarà la spesa pubblica!”.

Ovviamente, la realtà è un po’ diversa: la Svezia non cresce per via della sua alta spesa pubblica, ma al contrario si può permettere quel livello di spesa perché cresce. Sembra un gioco retorico, ma non lo è: la Svezia basa la sua crescita su un modello economico liberale, non su una fantomatica “terza via”.

Gli svedesi hanno dovuto capirlo e impararlo sulla loro pelle. Negli anni ’70 e ’80 la Svezia aveva creato un esteso sistema di welfare, che ancora adesso è in piedi (seppure ridotto). Ma in quegli anni i governi socialdemocratici utilizzarono anche politiche che definiremo per comodità keynesiane, utilizzando regolarmente la spesa pubblica per spingere la propria economia.

Fu in quegli anni che la tassazione svedese crebbe fino a livelli mai raggiunti nel mondo occidentale[3], mentre lo Stato acquistava centinaia di aziende private in crisi e cercava di rilanciarle con soldi pubblici. Nel corso degli anni ’80 lo Stato svedese era arrivato a pesare per oltre il 60% sul PIL del Paese; si sarebbe mantenuto su quei livelli fino a metà anni ‘90.

E quale fu il risultato? Negli anni ‘50 e ‘60 la Svezia aveva conosciuto una rapida e sostenuta crescita economica, fino a diventare il 4° Paese occidentale più ricco, per PIL pro capite, nel 1970. Vent’anni dopo, il Paese scandinavo era invece in profonda crisi: la Svezia era cresciuta di circa la metà rispetto alla media OCSE per tutti gli anni ‘80 e il suo PIL pro capite era ormai il 14° nel mondo occidentale. Il Paese era entrato in una spirale apparentemente irreversibile di spesa pubblica e tassazione crescenti e crescita asfittica.

Quale fu la soluzione del governo Bildt (il primo non socialdemocratico dopo decenni)? Proprio quella indicata dal pensiero liberista standard: privatizzazioni, de-regolamentazioni, calo delle tasse e della spesa pubblica[4].

L’impatto iniziale fu ovviamente molto pesante per la società svedese: disoccupazione e debito pubblico salirono rapidamente, mentre la crescita restava bassa e l’inflazione non accennava a diminuire; il nuovo esecutivo non volle comunque tornare indietro, convinto della correttezza del rimedio.

E in effetti la situazione economica stava cominciando a migliorare quando nel 1994 il governo conservatore cadde e tornarono al potere i socialdemocratici. Quel che successe dopo illustra chiaramente la qualità del dibattito pubblico svedese: il fallimento delle politiche keynesiane dei precedenti decenni era ormai talmente accettato e riconosciuto che il nuovo esecutivo non pensò neanche per un istante di invertire la rotta.

Da allora, le riforme pro-mercato sono proseguite fino ad oggi, sotto governi di ogni colore, creando una delle economie più business friendly al mondo: oggi l’indice Doing Business della Banca Mondiale considera la Svezia come il 12° Paese al mondo dove è più semplice fare impresa[5].

“Miracolosamente”, in seguito a queste riforme la Svezia è tornata a crescere e ad essere il Paese ricco e prospero che già era stato. I suoi tassi di crescita sono regolarmente intorno al 2-3%, quando non più alti, la produttività del lavoro cresce più della media OCSE, disoccupazione e inflazione si mantengono basse[6].

Cosa ci insegna questa storia? Che non esistono ricette speciali o magiche per far crescere un Paese; tutto quello che serve è non soffocarlo di tasse e regole e lasciare libertà di azione agli individui. Questa è la rivoluzione culturale che la Svezia effettuò trent’anni fa – e che noi ci auguriamo anche per il nostro Paese.

 

[1] https://www.huffingtonpost.com/bernie-sanders/what-can-we-learn-from-denmark; https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-01-06/ocasio-cortez

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Terza_via

[3] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[4] http://www.reforminstitutet.se/wp/wp-content/uploads/2014/03/Twentyfiveyearsofreform140301.pdf

[5] http://www.doingbusiness.org/en/rankings

[6] Dati ricavati da archivi World Bank