Crisi identitarie, errori e scomuniche della sinistra occidentale

Da anni il populismo di destra, il cosiddetto sovranismo, ha preso le redini della scena politica mondiale: arrivato al potere in diverse realtà sociali (locali e nazionali), lo sciovinismo ultra-conservatore (ma ultra-statalista nel dirigismo economico e nel bastone per quanto riguarda sicurezza ed immigrazione) sembrerebbe molto più appealing di tutte le forme di progressismo riciclato. In altri termini, nella promessa pauperista del “più sicurezza”, “più Stato”, “più isolazionismo”, i partiti demagogici e populisti di destra hanno più successo dei loro cugini di sinistra. Come mai questi ultimi, nonostante posseggano l’ampio arsenale retorico di populismo, sembrano in perenne crisi? Perché dalla fine della Guerra Fredda i partiti di sinistra – sia nella loro versione populista che in quella moderata – si sono via via eclissati in Occidente?

Ilvo Diamanti e Marc Lazar (Popolocrazia) spiegano che «è prassi comune associare il populismo all’estrema destra. Nella maggior parte dei media, viene fatto probabilmente per semplificazione. Nel mondo della politica viene fatto soprattutto dalla sinistra, che lancia […] un anatema contro qualsiasi movimento o leader che si appella al popolo su basi che non le vanno a genio, e cerca così di riattivare a fini strategici la potente arma della mobilitazione antifascista per vincere le elezioni o per minimizzare l’ampiezza di una disfatta elettorale.» A parte lo stantio appello antifascista – che non fa altro che svilire il concetto – sono poche le idee che i movimenti di sinistra hanno portato nel dibattito pubblico degli ultimi anni; d’alta parte, l’atteggiamento di scomunica nei confronti dell’avversario politico ha sempre trovato riscontri a sinistra. Il tutto parte dal fatto che da tre quarti di secolo la sinistra, specialmente quella italiana, (si) è costretta a «campare di Antifascismo» per dirla con Giampaolo Pansa. Un Fascismo del tutto immaginario: un comodo feticcio.

A sinistra si crede sempre di disporre del “monopolio del bene”. Nel Novecento erano i proletari, i poveri, i cosiddetti ultimi, ma via via, come scrive Luca Ricolfi (Sinistra e popolo), «proprio perché aveva cessato di occuparsi seriamente degli ultimi, la sinistra è stata costretta a cambiare pelle, puntando buona parte delle sue carte su temi soft, o non strettamente economici: diritti dei gay, coppie di fatto, quote rosa, aborto, fecondazione assistita, ambiente, riscaldamento globale, pena di morte, indulto, amnistia, depenalizzazione dei reati minori, eutanasia, testamento biologico, linguaggio sessista, omofobia, alimentazione corretta, diritti degli animali […] Proprio perché non si occupava più di operai, braccianti e disoccupati nativi, alla sinistra non è parso vero di avere a disposizione degli “ultimi” di cui farsi paladina.» Da qui l’attenzione nei confronti dei migranti e la strumentalizzazione dei medesimi; questo, un fenomeno che dunque non appartiene solo alla destra populista.

Il monopolio e il fascino che i movimenti cosiddetti progressisti esercitavano nei confronti delle classi operaie – il più delle volte mai veramente aiutate da chi a parole diceva di difenderle – sembra essersi recentemente spezzato a favore di altri movimenti (verdi e populismo di destra, ad esempio). I movimenti della sinistra occidentale si sono progressivamente staccati dal loro elettorato di riferimento: non stupisce dunque che il mondo progressista si sia rivolto ad altri soggetti. Continua Ricolfi: «la sinistra ha bisogno, un assoluto bisogno, degli immigrati e delle politiche dell’accoglienza perché i migranti, in quanto deboli e ultimi per definizione, sono l’unico segno rimasto della sua vocazione a occuparsi di chi sta in basso. I migranti sono la sua patente di progressismo, la sua assicurazione contro il naufragio della propria identità.»

La sinistra di oggi scomunica i volgari, si autoproclama nobile minoranza eletta; proprio come le élite del passato che tanto criticavano. La sinistra di oggi risulta arrogante e scollata dalle esigenze dei più e questo viene percepito dall’elettorato. La sinistra di oggi riconosce di aver perso la presa sulla società, ma comunque si sente moralmente superiore rispetto alla plebe. La sinistra di oggi è assolutamente autoreferenziale, parla – tre quarti di secolo dopo – di totalitarismo di destra, giustificando il Comunismo “occidentale” all’acqua di rose. La sinistra di oggi è ossessionata dal Fascismo, facendo finta di non sapere che non c’è alcun Fascismo alle porte; il Fascismo è un atteggiamento di intolleranza, violenza e annichilimento della libertà, corroborato dal dirigismo statalista: proprio come lo è il suo genitore, il Socialismo. La sinistra di oggi offende la memoria della Resistenza (un patrimonio nazionale e politicamente eterogeneo, non l’arma della superiorità morale). La sinistra di oggi ammira Sergio Marchionne; quello che, seguendo una certa retorica di qualche anno fa, stava nel “salotto borghese”, frequentava gli ex presidenti americani e i big del tech.

Arrivata al potere negli anni Novanta (dopo un breve revival negli anni Settanta), la sinistra occidentale ha incassato i dividendi delle politiche neoliberiste, poi prolungate nel tempo e nello spazio per non scomparire politicamente. In altri termini, la sinistra della Terza via, la New Left, la Neue Mitte, ha cavalcato il potente equino neoliberale, salvo poi mandarlo al macello: perduta l’identità sotto le macerie del Muro di Berlino (che a sinistra tutti hanno tollerato e/o hanno fatto finta di non vedere per quasi tre decenni), la sinistra ha deciso che per rimanere a galla fosse necessario abbracciare il grande nemico: non solo copiare grossolanamente, ma anche dilatare deleteriamente le idee di Milton Friedman, salvo poi prenderne tatticamente le distanze e parlare di “neoliberismo”. A parte che una volta arrivata al potere in Occidente non ha (fortunatamente) stabilito il Socialismo che hanno predicato nei decenni passati, la sinistra post-comunista occidentale ha operato una virata culturale identitaria ed economica importante che è stata percepita dal suo elettorato come inaccettabile.

In quella che scienziati politici come Timothy Snyder e Ivan Krastev hanno definito la “politica dell’imitazione”, la sinistra ha continuato a praticare (a suo modo) politiche liberiste iniziate dai conservatori liberali e ha abusato della deregulation (che, se troppo estesa e smoderata, non ha fa che danneggiare le classi operaie). Perso dunque il proprio elettorato di riferimento, la sinistra di oggi racconta storielle e filastrocche sui migranti; non vede i disagi delle masse che si sentono tradite dalla gauche au caviar e oggi votano i movimenti della destra xenofoba. Molti leader a sinistra non solo hanno conti milionari in banca e sono sempre pronti per la photo-opportunity, ergendosi a guru e guide morali. Per dirla con Sergio Ricossa (Straborghese) a sinistra «amano il popolo come astrazione, lo detestano probabilmente come insieme di persone vive, e cioè rumorose, sudate, invadenti, volgari. Il popolo vivo sembra essere sopportabile solo se lo si guarda dall’alto di un palco ben isolato ed elevato.»

Il concetto di sicurezza a sinistra sembra non trovare ospitalità: il che, intendiamoci, non vuol dire che a sinistra si è per il Far West o l’incitamento alla violenza. Di nuovo un illuminante Ricolfi: «per offrire protezione, bisognerebbe riconoscere l’esistenza di un pericolo. E la sinistra questo passo non pare in grado di compierlo. Anzi, con i suoi politici, i suoi giornalisti, i suoi intellettuali […] la sinistra impegna le sue migliori energie comunicative per dissolvere i problemi che la gente normale percepisce come tali […] La gente pensa che gli immigrati siano un pericolo? La sinistra le spiega che […] gli immigrati sono una straordinaria occasione di arricchimento culturale. La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità. La gente pensa che l’Unione Europea sia un problema? La sinistra le spiega che l’Europa […] è la soluzione. La gente pensa che il terrorismo islamico abbia dichiarato guerra all’Occidente? La sinistra le spiega che […]  l’Islam non c’entra nulla».

Distanza dal senso comune, indifferenza verso i fatti e gli “ultimi” che una volta diceva di proteggere, sentimento di superiorità morale, la convinzione di essere sempre “la parte migliore del paese”: il tutto portato avanti con lo strumento della scomunica morale dell’avversario. Dall’alto di un trono immaginario e sacerdotale, la sinistra non solo ha perso la sua “vocazione” operaista (se mai l’abbia avuta), ma si è spinta a nascondere a se stessa le proprie inadeguatezze e al contempo ha dipinto l’avversario politico (che le ha rubato il monopolio sullo scontento) come male irrimediabile. I partiti della sinistra occidentale si sono autodefiniti progressisti, ma non hanno capito le svolte storiche imposte dalla globalizzazione; si sono malamente riciclate; hanno abbracciato il grande nemico neoliberale; sono diventate elitarie. Hanno perso la loro identità.

Amedeo Gasparini

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Lady “TINA”, la donna di ferro che curò la Gran Bretagna

Speriamo possa ispirare qualcuno in Italia, dove la cultura liberalconservatrice è praticamente assente, la nuova biografia in italiano di Margaret Thatcher, Margaret Thatcher. La biografia della donna e della politica (Mondadori, 2019), firmata da Elisabetta Rosaspina. Che, nello stile delicato e documentato si conferma giornalista di pasta montanelliana. Nel corso dell’opera, la giornalista del Corriere della Sera fa compiere al lettore un viaggio di circa duecentocinquanta pagine nell’universo britannico del secolo scorso, partendo dagli occhi di una donna – la Lady di Ferro del mondo occidentale – che ha cambiato la Storia europea, nonché il suo paese e partito. L’intento di Rosaspina è quello di offrire un ritratto di Thatcher che vada oltre la sua mirabile carriera politica; banalmente, la leader dei Tory è stata la prima donna del mondo occidentale a ricoprire la carica di Primo Ministro, nonché la prima a giustificare le sue mosse politiche con la fortunata sigla “TINA”, “There is no alternative”.

Controversa, odiata e amata allo stesso modo sin dall’inizio della sua carriera politica, “TBW” – “That Bloody Woman” – non era arrivata a Downing Street tramite quote rose o atti compassionevoli: fiera lottatrice, determinata, ambiziosa, Thatcher – unica donna in un modo di uomini (quello di Westminster) – non godeva del supporto dei movimenti femministi. La Signora leggeva molto, amava strafare, essere protagonista, non le importava di essere impopolare; adorava imporsi e condurre battaglie di principio. Senza essere arrogante o presuntuosa, era competitiva, solitaria, decisionista e a tratti anche autoritaria (in molti hanno scritto a proposito di un autoritarismo-populista thatcheriano). La “figlia del droghiere” era un personaggio complesso: Rosaspina racconta con efficacia la donna oltre la feroce maschera della politica, quella che spaventava e assoggettava non solo gli avversari, ma anche i colleghi di partito.

Rosaspina ripercorre meticolosamente l’intera biografia di Thatcher: circa due terzi del libro sono dedicati alla scalata al potere della Lady di Ferro. L’ultima parte verte grosso modo sulla politica estera, che subì picchi nel primo mandato governativo con la battaglia delle Falkland e nel terzo mandato con la fine della Guerra Fredda, il crollo dell’URSS e la “costituzionalizzazione” dell’Unione Europea a Maastricht.

Alla seconda gravidanza della moglie, Beatrice Stephenson, Alfred Roberts – piccolo commerciante metodista, scampato alla Grande Guerra per via della miopia – sperava in un maschietto, ma il 13 ottobre 1925 a Grantham (paesino in seguito gravemente danneggiato dai bombardamenti tedeschi) era nata un’altra femmina. Con Margaret il padre aveva un rapporto speciale: a lui doveva moltissimo, tra cui l’amore per la politica che investì la giovane Roberts sin dalle riunioni rotariane degli anni Trenta, anche se furono le robuste letture a consolidare il legame tra padre e figlia. Amante di Rudyard Kipling, il padre «le insegnava il coraggio delle propri opinioni conservatrici», scrive Rosaspina. In gioventù, così come per il resto della vita, poche furono le amiche di Maggie (a scuola era nota come “snobby Roberts”, viste le attitudini da secchiona); decisivo fu il conflitto mondiale in cui la Gran Bretagna entrò alle 11:15 del 3 settembre 1939, «l’unica domenica della sua infanzia in cui fu autorizzata a disertare la messa».

Diciottenne squattrinata, nel 1943 Margaret studiò chimica ad Oxford senza borsa di studio e risultati eccelsi; il padre auspicava per lei un futuro da insegnante. Formativi nella sua adolescenza furono The Wealth of Nations (di Adam Smith) e The Road to Serfdom (di Friedrich von Hayek, del quale adotterà una volta al governo diverse politiche economiche, sventolando in faccia ai colleghi di gabinetto e all’opposizione l’altro grande successo dell’economista austriaco, The Constitution of Liberty). Quattro anni dopo entrò alla BX Plastics nell’Essex come ricercatrice, ma la sua passione era la politica. Alle riunioni cittadine del Partito Conservatore, la giovane Roberts si stava costruendo una certa visibilità.

Di lì a poco Margaret conobbe Denis Thatcher, l’amore di una vita (“amico”, come lo chiamò in diversi interventi). «Denis era un uomo fuori dal comune. Sapeva di politica quasi quanto me, e di economia molto di più», avrebbe detto. A trentasette anni, ricorda Rosaspina, il signor Thatcher «aveva fretta di diventare padre. Desiderava tanto prima un maschio e poi una femmina», solo che due gravidanze erano davvero troppo per la giovane Lady, che comunque – già all’epoca recordwoman, con sei settimane d’anticipo – «raggiunse lo stesso risultato con un parto gemellare, il 15 agosto 1953.» Allevare i figli non pregiudicò il conseguimento di una seconda laurea, ma negli anni, con rammarico, la Signora di ferro avrebbe riconosciuto di aver messo in disparte i figli per perseguire la carriera politica.

In seguito, si presentò al collegio di Finchley, «una roccaforte dei conservatori una dozzina di chilometri a Nord di Londra, […] indebolita dalla reputazione antisemita di alcuni di loro, implicati nell’esclusione di soci ebrei dal club di golf locale». Margaret – ora “la” Thatcher – vinse con distacco un seggio alla Camera dei Comuni. Per la neo-Onorevole era il sogno di una vita: a trentatré anni, ricorda Rosaspina, «era una delle venticinque deputate, tra cui dodici conservatrici, che entravano a Westminster». Contrariamente a molti parrucconi (tra laburisti e conservatori) dell’epoca, sin dal 1966 Thatcher «era a favore della depenalizzazione dell’omosessualità […] e per l’autorizzazione dall’aborto, se il feto fosse stato a rischio di sviluppare malformazioni o problemi mentali […] Sul divorzio era possibilista, ma prudente.» Il tutto al netto della rigorosa educazione metodista. Insomma, Thatcher era molto più progressista di tanti progressisti.

Junior Minister all’Istruzione dal 1970 al 1974 nel governo di Edward Heath, che conosceva sin dai tempi di Oxford («dieci anni dopo sarebbe diventato in nemico dichiarato»), Thatcher si costruì la fama di “ladra di latte” (“milk snatcher”), visti i tagli dell’emissione gratuita della bevanda dalle scuole pubbliche. In quell’occasione, Heath non difese la ministra, «la donna più odiata del regno», secondo The Sun, che guardava divertito le manifestazioni anti-thatcheriane dei primi anni Settanta, leggerissimo antipasto di quello che sarebbe arrivato dopo l’ingresso della Lady al numero 10 di Downing Street. Il taglio del latte portò ad un risparmio di appena nove milioni di sterline, mossa chiaramente di facciata che le sarebbe stata rinfacciata anche da Primo Ministro dagli avversari politici, tra sarcasmo e sdegno. Nonostante questo, Thatcher continuava a mantenere il filo diretto con i propri elettori «scriveva e rispondeva personalmente a centinaia di lettere, partecipava a tutte le riunioni pubbliche, visitava mercati e fabbriche», ricorda Rosaspina.

Poi la lobby dei minatori dichiarò sciopero per cinquanta giorni: e il Governo Heath si piegò alle richieste; ennesimo smacco per il fragile Esecutivo conservatore.  A parte l’entrata nella Comunità Economica Europea (CEE), «Heath e i suoi ministri avevano raggiunto ben pochi […] obiettivi». Perse le elezioni del 1974, il Partito Conservatore, che non era riuscito a trovare un’intesa elettorale con i liberali, passò all’opposizione. «Margaret nutriva un genuino rispetto il capo del governo in carica, Harold Wilson [Primo Ministro dal 1964 al 1970 e dal 1974 al 1976]. Ma detestava i principi del Socialismo e del collettivismo; e azzannare ai polpacci il Cancelliere dello Scacchiere, il laburista Jim Callaghan […] si rivelò un’occupazione molto più piacevole del previsto.»

Poi il grande salto: dopo il flop dei Conservatives, la Lady (non ancora di “ferro”) avrebbe tentato la scalata al vertice del partito, provocando i malumori di Heath («Se proprio devi …») e l’incredulità del marito («Devi essere impazzita»). L’ex Primo Ministro mobilitò mari e monti per scalzare l’avversaria, che lo batté di undici preferenze al congresso per la leadership, dove la neoeletta proclamò: «Il nostro sistema capitalista produce standard di prosperità e di felicità ben più alti, perché è un sistema che crede negli incentivi e nelle opportunità e perché si fonda sulla dignità e sulla libertà dell’uomo». Era l’inizio della stagione thatcheriana, cosa che, innanzitutto, avrebbe richiesto anche un cambio di look della Lady: se le perle che le aveva regalato Denis in occasione della nascita dei figli «non erano negoziabili», il filtro tra vita pubblica e vita privata venne apposto nel campo dell’alimentazione e del vestiario. La pettinatura venne ulteriormente studiata, il colore degli abiti doveva sempre richiamare al colore dei Tory.

Callaghan – successore di Wilson dal 1976 al 1979, «apprezzato perfino da una parte dell’elettorato conservatore» – venne sconfitto alle urne da Thatcher e dal fortunato slogan «Labour isn’t working» (i disoccupati erano oltre un milione e mezzo). Con quarantatré seggi di maggioranza a Westminster, quando Thatcher arrivò a Downing Street nel maggio 1979, la Gran Bretagna – il gran malato d’Europa – era costellata da scioperi selvaggi, scontri, blackout, crisi energetiche, razionamenti scolastici, sindacati e minatori onnipotenti. Puntualissima, come d’abitudine, venerdì 4 maggio Elisabetta II la ricevette a Buckingham Palace. L’anomalia – per il tempo – di una donna Primo Ministro attirò l’attenzione di tutta la stampa occidentale. Scrive Rosaspina: «E chi le domandava come ci si stesse “a essere un Primo Ministro donna” era freddamente liquidato in automatico: “Non so, non ho mai sperimentato l’alternativa”, nella speranza di far sentire l’interlocutore almeno un po’ stupido.» There was no alternative.

Difatti, la politica interna di Thatcher fu caratterizzata dal(la scusa del) “TINA”. Al governo del paese per oltre un decennio, Thatcher diede pesanti sforbiciate alla spesa pubblica improduttiva: l’inflazione – che era in doppia cifra e penalizzava i meno abbienti – venne abbassata. In seguito, dopo tre mesi di sciopero, fece chiudere gli stabilimenti improduttivi di acciaio in Galles; «lo Stato non poteva farsi più carico delle aziende in perdita.» Il Governo Thatcher fu il primo ad uscire vincitore dal braccio di ferro contro i minatori e la questione dei pozzi di carbone. Secondo la Lady, l’abbandono dei pozzi improduttivi era d’obbligo. Ricorda Rosaspina che «in nove anni dal suo insediamento a Downing Street, Mrs Thatcher sarebbe riuscita a ridimensionare l’aliquota massima sui redditi dall’ottantatré al quaranta per cento, senza aumentare il deficit.» L’amministrazione americana dell’epoca condusse sì la medesima politica, «ma raddoppiò il deficit di settantanove miliardi.» E ancora oggi c’è chi accusa Thatcher di populismo, quando la demagogia populista impone l’uso smodato della spesa pubblica per comprarsi il consenso elettorale.

Difetti tanti, pregi altrettanti. Margaret Thatcher era intransigente, una grande lavoratrice: amava lo studio, simbolo del merito. «Non sono stata fortunata, me lo sono meritato», disse più volte. Negli anni, Thatcher aveva stretto e rafforzato un patto implicito con gli elettori: risanare l’economia britannica, whatever it took.

Tratto distintivo della sua azione politica era l’assoluta indifferenza all’impopolarità che le scaturiva dai tagli dell’enorme spesa sociale. In altri termini, Thatcher non si curò dell’abbattimento del welfare e dell’enorme impopolarità che questo comportava: gli scioperi erano all’ordine del giorno, ma col tempo i suoi tre governi riuscirono a ristabilire il law and order, condizione che in primis aiuta i lavoratori. Thatcher sembrava completamente disinteressata ai disagi sociali che diverse sue politiche provocarono: piaccia o non piaccia, la cura da cavallo imposta alla Gran Bretagna degli anni Ottanta era parte necessaria (“TINA”, ancora).

Amedeo Gasparini

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L’orgoglio di essere borghesi secondo Sergio Ricossa

La crisi economico-finanziaria che si è abbattuta prima sugli Stati Uniti e poi sul Vecchio Continente ha avuto diverse ripercussioni globali, ma c’è però un aspetto che colpisce in maniera particolare. Da allora, gran parte della borghesia è scomparsa.

Scomparsa o quasi: il ceto medio è stato il più colpito dalla crisi e, a grandi numeri, si è andato a riposizionare in una fascia sociale inferiore. Dal 1990 al 2013, le persone sotto la soglia di povertà nel mondo sono passate da due miliardi a 767 milioni, cioè dal trentacinque per cento a poco più del dieci: a uscire “vincitori” dalla globalizzazione sembrerebbero dunque i più ricchi e i più poveri. E la borghesia? I perdenti sono le fasce intermedie che hanno perso il lavoro, il reddito, ma soprattutto lo status sociale. Ceto medio vuol dire anche borghesia e borghesia vuol dire anche ceto medio. In Straborghese, libricino di quarant’anni fa, Sergio Ricossa individuò – tra filosofia e goliardia, tra paradosso e polemica – le caratteristiche essenziali del borghese, un dinosauro semi-estinto al giorno d’oggi.

La borghesia, ovvero lo strato sociale entro cui il borghese interagisce, secondo Ricossa è un carattere; innato o da coltivare. Un atteggiamento e un’attitudine. «Non contano i soldi e la posizione sociale», spiega il professore torinese; «si può nascere mezzo borghesi in una famiglia contadina od operaia»: borghesi lo si è nell’anima/o, in sostanza.

L’essere borghesi è uno stile di vita: è l’individuo che, con personale etica e rigore, sceglie questa “modalità” per portare avanti i propri interessi. Nella sua vita il borghese sperimenta, crea, innova: cerca di migliorare l’ambiente attorno a sé e di migliorarsi interiormente; due elementi che renderanno le sue azioni più proficue. Insomma: fa di testa sua, tocca con mano, sperimenta, rischia.

Ricossa mette in guardia chiunque voglia diventare borghese, perché «la borghesia trasforma la vita in una continua competizione». È dunque chiaro che il borghese sia un essere irrequieto: non è calmo, non conosce riposo.

«Il borghese è essenzialmente chi vuole farsi da sé.» Colui che crede nel libero mercato e nella libera competizione tra gli individui, animati dalla voglia di fare, produrre ed inventare.

Il borghese lo si riconosce per l’individualismo, «lo spirito di indipendenza, l’anticonformismo, l’orgoglio e l’ambizione, la volontà di emergere, la tenacia, la voglia di competere, il senso critico, il gusto della vita.» “Gusto della vita” che non vuol dire sprecare o scialacquare le risorse a propria disposizione (il borghese ha rispetto del denaro); «la borghesia odia […] che si sprechi anche solo una briciola.» Specialmente perché sa quanto ci vuole per guadagnarsi ogni singolo centesimo. Il borghese è l’homo ludens, «cioè chi ama vincere, in gara con gli altri o con se stesso.»

Continua Ricossa: «il borghese ha fede in se stesso e poco altro», non si fida molto degli altri, tuttavia non è sospettoso di principio e soprattutto non è in malafede.

Egli «si studia intensamente, si conosce senza ipocrisie, vede le sue debolezze.» Non mente di fronte allo specchio. Il borghese non “si” racconta bugie: cerca di non essere ipocrita – aborrisce l’ipocrisia imperante nella società dei teatrini e dei costumi delle (finte) “buone maniere” –; ha dunque ha un “suo” orgoglio.

Il borghese «morirebbe di fame pur di non chiedere l’elemosina. Perciò il mendicante non lo impietosisce oltremisura» così come «il fallimento altrui non lo disturba» più di tanto. Ben lontano dall’immagine dell’egoismo che gli viene affibbiata dagli invidiosi di turno, il borghese basa la propria etica e convinzione eco-social-politica «sulla responsabilità individuale, sulla colpa individuale e sulla punizione individuale». Il borghese si autoregola ed ha un forte senso del dovere: sa che ad ogni azione o parola corrisponde inevitabilmente una conseguenza; e non fa finta di credere che non sia così.

Il borghese riconosce ed ama il rischio: di far successo e di fallire dopo tanto lavoro, «ma disprezza chi è avanti senza merito, per privilegio, o chi dà via l’indipendenza per avere protezione». In soldoni: adora la meritocrazia e cerca di promuoverla; forte è il suo disprezzo per ciò che è immeritato.

Il borghese «giustifica la sua avidità col merito individuale, [mentre] il collettivista deve inventare il merito collettivo, di razza, di nazionalità, di classe, di corporazione». Il borghese non è razzista, perché non crea classi: crede solo nell’uomo e nel suo potenziale individuale a discapito dello stato sociale, della religione, dell’etnia, del credo politico. Contrariamente a quanto è stato predicato per anni, specialmente a sinistra, il borghese non ha buoni rapporti con l’aristocrazia. Il borghese non è un aristocratico. De facto, non sopporta la nobiltà; l’aristocrazia, dal canto suo, disprezza il borghese perché ha paura di essere spodestata dall’operosità di chi fa la gavetta.

Il borghese è tirchio ed avido? Nient’affatto! A parte che crede nel merito individuale, egli «sente poco la solidarietà in generale, perché pensa che se egli si fa da sé, senza aiuti, tutti debbano farsi da sé. Lottatore, nega tuttavia la “lotta di classe”». Il borghese è un solitario, individualista; «si trova aggredito da ogni parte. Non ha alleati fuori della famiglia, fuori da una piccola cerchia di amici.» Per questo è totalmente un individuo a sé: fondamentalmente è solo.

Il borghese crede nel miglioramento individuale; non è bellicoso e pertanto non è marxisticamente invidioso di chi ha più di lui. «Il borghese è scarsamente missionario: la gente faccia quel che vuole, purché non dia fastidio.» Secondo lui, la tanto celebrata “gente” deve essere quanto più diversificata; gli individui sono tutti diversi ed eterogenei.

Il borghese spende liberamente il danaro che si è conquistato con fatica e sudore, senza dover rendere conto a nessuno; «non agli invidiosi, non ai conformisti, non ai filistei, non agli innumerevoli che pretenderebbero di vivere alle sue spalle.» Inoltre, il borghese pensa che il mercato debba essere fondato sul laissez-faire; un sistema molto democratico per la conquista individuale dei beni: molto più “equo” ed efficiente di uno Stato-imprenditore assistenzialista che concede il razionamento al suddito.

Il borghese, ovviamente, disprezza la burocrazia improduttiva: in questo senso, per lui lo Stato non esiste più di tanto e deve fare poco; tra cui regolare la sicurezza e amministrare la giustizia. Infine, «non è vero che tutti i lavoratori abbiano i medesimi interessi e che il sindacato tuteli gl’interessi di tutti i lavoratori. Un contratto collettivo di lavoro, che trattando tutti allo stesso modo indiscriminato favorisce di fatto i meno produttivi, danneggia i più produttivi.» Il borghese, lo stra-borghese di Sergio Ricossa, conosce e predilige la libertà all’uguaglianza.

Amedeo Gasparini

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Chi è il liberalconservatore di oggi?

Oggi il termine “conservatore” è diventato quasi una parolaccia, “liberale” è un insulto, “liberista” non ne parliamo; al contrario “nazionalista” viene percepito come un titolo di encomio. Che fine hanno fatto però i liberalconservatori? Chi è il liberal conservatore?

Oggi il termine sembrerebbe una contraddizione, ma in realtà non lo è. Minoranza di una minoranza (i liberali), i liberalconservatori sono ritenuti ambigui proprio per la loro attitudine positiva verso il laissez-faire in economia e il conservatorismo relativo in alcuni cosiddetti valori, sebbene siano aperti alla cosiddetta “nuova generazione” dei diritti, senza dimenticare la centralità e l’unicità dell’individuo.

Nell’economia e nella società, il mercato è la loro guida. Sono tante le sfumature di liberalismo; le versioni occidentali non-anglosassoni, come evidenziato da Friedrich von Hayek, cercano disperatamente di tenersi alla larga dal liberalism, a cui si ispirano i movimenti del centrosinistra (e dalla ex Terza Via, in voga negli anni Novanta), che con John Locke o Adam Smith hanno poco a che fare.

Innanzitutto, quando si tenta di identificare i liberalconservatori c’è storicamente un’enorme confusione nei termini da utilizzare per definire la categoria. «Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi» ha scritto Angelo Panebianco (Corriere della Sera, 26 giugno 2019). Inoltre: «Un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni» (in questo senso, è avversario supremo dei demagogo-populisti di destra e di sinistra); «un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia Cristiana […] che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione.»

In Italia il liberalismo non ha attecchito granché (non stupisce dunque l’assenza o quasi dei liberalconservatori), ma sebbene la cultura liberale sia poco studiata e applicata in diversi campi sociali, questo non vuol dire che non sia presente.

Ai margini della vita politica ed economica del paese, i liberalconservatori vanno distinti categoricamente dalla destra sociale (quella sì ben presente in Italia), che a livello economico ha sempre promosso ricette e formule, semplificando, para-socialiste. La destra (più o meno sociale) non è affatto mancata nell’Italia repubblicana e non è stata neppure tanto una minoranza (sebbene mai maggioranza).

Solo nella cosiddetta Seconda Repubblica ce ne sono state addirittura tre: una postfascista, corporativista, antiliberale, nazional-statista (l’ex Movimento Sociale, poi Alleanza Nazionale, oggi Fratelli d’Italia); una leghista, protezionista, localistica, secessionista, anti-nazionalistica prima (Lega Nord 1987-2012) e nazionalista e a tratti xenofoba poi (Lega 2013 oggi); una berlusconiana, confusamente colbertista, a parole liberale, vagamente post-democristiana, antistatalista, affaristica (Forza Italia 1994-2008, Popolo della Libertà 2008-2013, Forza Italia 2013-oggi?).

A sua volta, la destra (di nuovo, più o meno sociale) va distinta dal “conservatorismo”. Secondo Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 1° ottobre 2016), «cultura conservatrice vuol dire identificazione ragionata con il lascito del passato, con gli edifici, il passaggio e i costumi di un luogo, l’attaccamento ai valori ricevuti […]; e poi senso delle istituzioni, considerazione non formale per i ruoli, i saperi, le competenze, rispetto delle regole.»

In tutto questo, c’è poco di liberale, ma un ponte primordiale con tale micro-universo politico lo aveva gettato nel 1972 nel Manifesto dei Conservatori Giuseppe Prezzolini, secondo cui «il Vero Conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici, perché il Vero Conservatore intende “conservare mantenendo”, e non tornare indietro a fare esperienze fallite». In questo paradossale “progressisimo”, è vicino al liberale. Il conservatore può essere moderno e molto vicino a quest’ultimo (come ha spiegato proprio von Hayek). I due non sono incompatibili.

Una figura controversa nel mondo tradizionalista come Giovannino Guareschi scrisse ad Alcide De Gasperi sintetizzando bene alcuni elementi liberal-conservatori: «Siamo noi, […] noi cittadini liberi […] Noi che siam […] cristiani pur rifiutando sdegnosamente di metterci in testa papaline colorate, noi che sentiamo la necessità di una migliore giustizia sociale ma che mai accetteremo di fare alcunché di demagogico. Noi che per vivere dobbiamo lavorare duramente come l’ultimo dei proletari ma abbiamo l’orgoglio di essere borghesi. Noi che siamo per l’ordine ma che odiamo ogni tipo di dittatura. Noi che siamo per il trionfo dell’individuo ma non ammettiamo il divismo. Noi che abbiamo orrore della guerra ma che non ci siamo mai sottratti […] ai nostri doveri di cittadini […] Noi che sosteniamo il diritto di scioperare ma che non abbiamo scioperato mai […] Noi che vogliamo il trionfo dei nostri diritti ma ci preoccupiamo, prima di ogni altra cosa, di fare il nostro dovere.» (Il Candido, 1948, riportato da Bombardate Roma! di Mimmo Franzinelli).

Interessanti considerazioni su cosa sia un conservatore oggi – e quest’ultimo va conosciuto e studiato per differenziarlo dal liberale – le ha fatte Gian Enrico Rusconi nel suo Dove va la Germania?, in cui ha stabilito chiaramente le differenze tra il mondo conservatore e quello della destra (sociale): «Il conservatore sa che il cambiamento generale non può essere impedito: vuole dare forma a questo cambiamento. Il tradizionalista decide che tutto deve rimanere com’è. Il reazionario vorrebbe far tornare indietro la ruota del cambiamento. Il conservatorismo non conosce verità eterne, al contrario: […] difende oggi quello che ieri ha combattuto». Cosa che non è del tutto estranea all’immoderatezza, all’anticonformismo e all’effervescenza liberale.

A dispetto di quanto afferma chi lo identifica come populista, «il conservatore accetta la pluralità delle culture e la loro coesistenza. Quello di destra invece è un modo di pensare che mette al primo posto la (presunta) omogeneità del proprio gruppo, ed è indifferente verso le altre culture e forme di vita finché non interferiscono con la propria»; parliamo dei nazionalisti-populisti, o altrimenti detti, sovranisti. Profondamente collettivisti e, come tutti i collettivisti (di destra e di sinistra) – seguendo Ayn Randrazzisti.

Non da ultimo, continua Rusconi, «una differenza fondamentale tra conservatori e destra sta nel linguaggio. I conservatori sanno che molte delle loro richieste […] non trovano consenso maggioritario, ma non per questo recriminano parlando di “terrorismo” nei loro confronti o di “stampa bugiarda”, quando le loro opinioni non sono accolte. Un vero conservatore considera l’ordinamento liberale della società un valore in sé e la difesa più grande contro i tentativi autoritari.» Un conservatore è moderato individualista (lo è anche il liberale); un nazionalista è un estremista collettivista. I ponti tra liberali e conservatori ci sono. I liberalconservatori esistono.

 

Mitteleuropa e totalitarismo in Kafka, Kundera e Havel

Il libro di Stefano Bruno Galli “Václav Havel, Una rivoluzione esistenziale” è anzitutto il tentativo para-filosofico di capire il mondo intellettuale del Novecento ceco; un insieme di piccole storie della cultura letteraria boema e morava. Certo, la spina dorsale del libro è articolata a ridosso della vita di Václav Havel, dissidente e politico ceco, ma le punte di eccellenza della cultura e della letteratura ceca vengono altresì considerate nell’opera. Nonostante titolo e copertina del libro siano dedicati allo statista praghese, la proiezione di ricerca di Galli è più culturale che politica: è quasi una rincorsa alla ricerca di un “io” (la propria individualità) in un determinato luogo (la Mitteleuropa), attraverso lo sguardo degli scrittori – eternamente “minoranza” – Franz Kafka («intrigante esploratore del paradiso della mente») e Milan Kundera (leader dell’Unione degli scrittori cechi negli anni Sessanta, quelli pre-Primavera di Praga).

I tre intellettuali cechi sono collegati tra di loro da quello che Michael Žantovský nella prefazione del volumetto definisce come un «bisogno esistenziale dell’individuo di vivere una vita autentica e impregnata dalla consapevolezza della propria corresponsabilità verso la comunità e i destini degli altri esseri umani.» Quella che Havel definisce come “autocoscienza civile”, da opporre – e questa volta le parole solo di Kafka dal Processo – alla «repressione poliziesca, oppressione burocratica, corruzione dei funzionari di Stato, assenza di giustizia sociale, concentrazione e anonimato del potere.» Per vivere in una società veramente libera – non oppressa dall’Impero asburgico kafkiano o da quello comunista haveliano – è dunque necessaria la responsabilizzazione del singolo individuo. La sua presa di coscienza e di responsabilità lo rende libero.

In momenti diversi, i tre autori si sono sempre espressi in merito all’appartenenza cecoslovacca al blocco dell’Ovest. Affezionati ad una libertà antica che tutti e tre si videro rubare, percepivano il loro Paese e la loro cultura come profondamente occidentali. «Per il suo sistema politico, l’Europa centrale è all’Est; per la sua storia culturale, è a Occidente», avverte Kundera. In questo senso, la Cecoslovacchia è una Mitteleuropa; una terza Europa, di mezzo, di confine tra Est ed Ovest: dall’Impero Austro-Ungarico, in cui viveva Kafka, al mondo della Guerra Fredda di Kundera e Havel. Terra di confine, terra di emigrazione; mobile, simbolo di una coscienza sociale, ancor prima che un’entità culturale nel suo insieme.

«La Mitteleuropa non è uno stato, è una cultura o un destino», scrive Galli. «I suoi confini sono immaginari e devono essere ridisegnati al formarsi di ogni situazione storica» (e così è accaduto: basti pensare agli eventi del 1918, del 1938 e del 1989, tre anni simbolo per la Cecoslovacchia). La Mitteleuropa è indipendenza, è «il rifiuto di una politica autoritaria e totalitaria», continua l’autore, dal momento che è un insieme di culture diverse non separabili da loro. «La Mitteleuropa è una cultura e un destino; una sorta di cittadinanza storica». La Mitteleuropa è un sogno, un’utopia, un Eldorado, uno spazio storico-culturale.

Infestata dal virus totalitario, per diversi decenni la Mitteleuropa si è come spenta ed è stata dimenticata nel panorama storico e geopolitico mondiale. Il Partito Comunista Cecoslovacco fu in grado, con il 38% dei consensi nel 1946 – e il golpe del 25 febbraio di due anni dopo, quando di lì a poco avrebbe ottenuto quasi il 90% – di monopolizzare l’orizzonte culturale del Paese. Con la nazionalizzazione di fonderie, miniere, banche e assicurazioni – nonché l’esproprio proletario – il regime si assicurò illegalmente il controllo assoluto dello Stato. L’industria culturale era preziosa in Cecoslovacchia, data anche l’assenza della televisione in molte case; essa, in qualche modo, doveva prevenire – e possibilmente evitare – la degenerazione nel totalitarismo. Quello che statalizza tutto, falsifica il passato e la realtà oggettiva, che emargina, punisce, reprime e, dove può, elimina.

I tre intellettuali cechi – tutti e tre, a loro modo, autentici dissidenti e ribelli – hanno saputo illuminare migliaia e migliaia di concittadini con il loro esempio individuale; per questo erano ritenuti pericolosi dai regimi: sia Kafka, che Kundera che Havel sono stati messi ai margini della società. Di fatti, l’intellettuale è come se fosse un dissidente ante-litteram; uomo potente e fragile allo stesso tempo, che dispone solo della parola scritta come arma di consenso per esporre le proprie idee. Secondo Havel, il dissidente – così come la figura dell’intellettuale – combatte il potere «borioso» e «anonimamente burocratico», sviluppando un’azione culturale che i cittadini elaborano. «Uno spettro s’aggira per l’Europa orientale: in Occidente lo chiamano “dissenso”», ha scritto Havel ne Il potere dei senza potere.

Negli anni Settanta «la normalizzazione aveva determinato la completa emarginazione degli intellettuali, relegati a un’esistenza clandestina», scrive Galli, dando vita ad una “polis parallela” alla nomenclatura ufficiale, alla struttura del partito e le sue appendici sociali. L’ideologia che i regimi, totalitari e post-totalitari, intendono conferire alla struttura sociale serve ad impadronirsi dell’uomo, «generando una fitta rete di menzogne e di ipocrisie, di mistificazioni e di nascondimenti della realtà». Il sistema totalitario priva i cittadini – resi sudditi, dunque schiavi – della loro libertà originaria: rivoluziona la loro esistenza. La rivoluzione esistenziale è emancipazione, ma è anche, seguendo le parole di Havel, «una mobilitazione generale della coscienza umana, dello spirito umano, della responsabilità umana, della ragione umana.»

La libertà riacquista nel 1918 (quando nacque la Cecoslovacchia sotto il segno culturale di Tomáš Masaryk) e nel 1989 (quando rinacque sotto quello di Václav Havel) è una sorta di emancipazione; e non può prescindere dalla responsabilità. Libertà è responsabilità: è dover alzarsi e avere anche il diritto di dissentire; ed essere pronti a pagarne le conseguenze, a schiena dritta (Havel andò in galera due volte e a lungo nella sua vita). Sia il 1918 che il 1989 sono stati momenti di grande libertà per le terre boeme, morave e slovacche; hanno svegliato «le coscienza assopite dei cittadini, che devono assumersi le proprie responsabilità, costruendosi una propria identità culturale specifica, fondata sullo spirito critico e lontana dall’anonimato diffuso», continua Galli. Il che vuol dire anche, nelle parole di Havel, prendere la parte «della verità contro la menzogna, dell’intelligenza contro l’assurdo, della giustizia contro l’ingiustizia.»