Liechtenstein, uno Stato liberale retto da un monarca miniarchico

Lassù, sul giovane Reno, sporge dalle alture alpine il Liechtenstein. Queste sono le prime parole dell’inno di uno dei Paesi più particolari del mondo, il Liechtenstein.

Frutto della necessità della famiglia austriaca Von Liechtenstein di avere un territorio sotto il governo diretto dell’Imperatore per partecipare alla Dieta, solo nel 1938, dopo più di 200 anni, i principi del Liechtenstein vanno a viverci.

Da una prima occhiata, pare uno Stato poco interessante per un progetto liberale: monarchia costituzionale con un forte potere del Principe regnante che può nominare giudici, sciogliere il governo e porre veto su ogni legge. Inoltre è uno Stato fortemente cattolico: la fede cattolica è ufficiale e, ad esempio, l’aborto è vietato quasi in ogni caso.

Basta tuttavia un’analisi più approfondita per convincersi dell’utilità di analizzare il caso del Principato del Liechtenstein: è uno dei Paesi con il PIL pro capite più alto al mondo; la pressione fiscale è di poco superiore al 15% e c’è un forte uso della democrazia diretta. Ma, soprattutto, c’è uno Stato leggero che lascia ai propri cittadini un’enorme libertà di scelta. Libertà solo nella propria scelta economica ma anche su questioni che in Italia sarebbero impensabili, come rovesciare la monarchia, cambiare regnante o secedere.

Abituati culturalmente a considerare la monarchia come un retaggio del passato che vuole conservare l’antichità, potremmo immaginare che il popolo del Liechtenstein abbia conquistato queste libertà in una costante lotta contro un tradizionalismo monarchico.

Ma il vero catalizzatore di queste riforme, alle volte così estreme da venir rigettate dal popolo, è stato il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II. Questo, incaricato dal padre negli anni ’70 di riordinare il patrimonio di famiglia, si convinse di come per uno Stato fosse necessaria un’ampia decentralizzazione, la possibilità di cambiare Stato o di fondarne uno nuovo per le comunità locali. Ciò visto anche come incentivo allo Stato a rimanere concorrenziale e utile e, in generale, invertendo il paradigma che quindi vede lo Stato al servizio del cittadino.

Il Principe si dimostra essere fermamente contrario al protezionismo, che considera come una misura che rallenta il progresso e favorisce la povertà, ed anche al proibizionismo sulle droghe, a supporto della lotta alla malavita. Ha sottolineato come l’inventore della guerra alla droga sarebbe un buon candidato ad un ipotetico premio Nobel per la stupidità. In questo, comunque, il popolo non l’ha seguito e le droghe sono tuttora illegali nel Principato.

Pur avendo ampi poteri, non ne ha mai abusato e non ha mai usato il suo diritto di veto. Il padre lo usò solo una volta, per porre veto su una legge sulle riserve di caccia; il figlio, reggente, l’ha minacciato due volte: sull’aborto e sul potere di veto stesso.

Nel 2003, Giovanni Adamo vince un referendum che permette alla Costituzione da lui emendata di entrare in vigore e inserire questi principi nel suo Stato. Ma già da prima si impegnò per essi: nel 1993, poco dopo l’ingresso del Liechtenstein nelle Nazioni Unite, fece all’Assemblea Generale un discorso difendendo il diritto di autodeterminazione e chiedendone una reale applicazione e garanzia a livello internazionale. Gli Stati nazionali, ovviamente, hanno rigettato la proposta.

Ma l’obiettivo del principe era ben più libertario: avrebbe voluto stabilire persino il diritto di secedere dallo Stato per il singolo individuo. A impedirlo è stata semplicemente l’impossibilità di coniugare tale norma con il diritto internazionale, che difficilmente prevede la fattispecie di Stati-individuo.

Nel 2009 viene pubblicato il suo volume “Lo Stato nel Terzo Millennio” in cui, dopo un’attenta analisi storica, ipotizza un nuovo modello di Stato applicabile sia a grandi Stati come l’Italia sia agli Stati piccoli come il Principato. Un modello basato sullo Stato come impresa pacifica al servizio dell’umanità e dei propri cittadini, che decentri fortemente spese e amministrazioni e garantendo i diritti fondamentali delegando le infrastrutture alle autonomie ed ai comuni.

È chiaro come il successo del Liechtenstein sia dovuto anche al non aver dovuto affrontare spese militari e diplomatiche, essendo il tutto demandato alla vicina Confederazione Svizzera. Ma se gli Stati europei agissero in tal modo, riducendo il peso dello Stato nella vita dei cittadini, riconoscendo il loro diritto di scegliere nel libero mercato e riconoscendo decentramento e autodeterminazione delegando la difesa ad un’entità unica (magari lasciando il diritto di essere armati ai cittadini) non sarebbe già un inizio?

Concorrenza federale e secessione

Non serve indossare un elmo verde con le corna o bere l’acqua del Po per parlare di federalismo e secessione.

Anzi, basta un bagno di realtà e guardarci attorno per avere dubbi sul paradigma dello Stato sovrano nazionale, messo in dubbio sia in zone ricche e produttive (si veda la crisi catalana) sia in zone povere (come in Corsica), sia in zone grossomodo normali come la Scozia.

Ci si può arroccare in parole scritte su carta, facendo finta di credere alla nazione “una e indivisibile”, oppure si può pensare a come riformare lo Stato, guardando ad esempi funzionanti, come in Europa abbiamo la Svizzera e il Liechtenstein.

Svizzera: Federalismo concorrenziale

Seguendo una discussione sull’autonomia lombardo-veneta, mi è capitato di leggere che “grande è meglio”.

Il bello è che stavo leggendo questa discussione mentre ero seduto su una panchina a Chiasso. Ero appena uscito dalla Regione più ricca del “grande Stato” per approdare in un Cantone povero del “piccolo Stato”… e il cantone era superiore praticamente in tutto. Si tratta di aneddoto, ma basta controllare qualsiasi statistica per vedere la Confederazione battere l’Italia, una e unitaria.

La ragione è semplice: i Cantoni sono in concorrenza tra di loro. Quando il Direttorio, il Parlamento o il Popolo decidono qualcosa devono aspettarsi che ciò abbia delle conseguenze.

Quindi, in sostanza, se Zugo decide di finanziare un Reddito di Cittadinanza tassando chi produce non può lamentarsi se qualcuno sposta la sede legale a Zurigo, a pochi chilometri di distanza. Questo è un “voto con i piedi“.

In Italia, invece, sappiamo bene come funziona: con la logica assistenzialista e con una centralizzazione tale che tutte le scelte politico-economiche vengono prese a Roma, c’è una grande distanza (o, perlomeno, molta confusione) fra chi paga i servizi assistenziali e chi li riceve.

Cosa sarebbe successo in un’Italia “svizzera“, ad esempio, col Reddito di Cittadinanza?

Per prima cosa, sarebbe stata una misura adottata a livello regionale/provinciale. Magari anche in modo coordinato tra varie Regioni, ma sta di fatto che ogni Regione avrebbe pagato il proprio Reddito e che qualche Regione nemmeno l’avrebbe adottato.

Consideriamo il fatto che ogni Regione avrebbe pagato il suo reddito: sarebbe dunque necessario per tale Regione tassare di più cittadini e imprese. Ma ricordiamoci che le imprese possono rapidamente spostare la sede legale in un’altra Regione, più libera economicamente. Quindi il governo di una Regione deve pensarci non una, non due ma cento volte prima di chiedere soldi per misure che non generano benessere.

Liechtenstein: Secessione legale

Abbiamo visto scene vergognose in Catalogna, roba che avrebbe fatto vergognare persino Josef Radetzky, che non voleva processare Cattaneo e ordinò ai propri soldati di non nuocere ai bambini.

Altri Stati, con governi più maturi, hanno provato a rispondere a queste istanze: in Italia, ad esempio, dopo il referendum indipendentista della Lega Nord vi fu una riforma autonomista voluta dal centrosinistra.

Ma un piccolo fazzoletto di terra tra Austria e Svizzera è andato oltre: il Liechtenstein, infatti, permette ai propri comuni di secedere per via referendaria, un’azione seguita poi da un trattato o da una legge e da un referendum conservativo.

Qualcuno obietterebbe che in Italia tale sistema sarebbe impossibile dato che, con tutta probabilità, giungerebbe alla Corte Costituzionale una richiesta dalla Lombardia il giorno stesso dell’approvazione della legge.

Non voglio aprire uno spinoso dibattito se la libertà valga più dell’unità, ma se penso a tutti i vantaggi che ha la Lombardia a non essere uno Stato sovrano, come ad esempio il poter contare sulla forte diplomazia italiana o il non dover mantenere un esercito, evidentemente c’è un problema in Italia, ossia la mancanza di federalismo concorrenziale.

Il diritto di secessione, in tal caso, si costituirebbe come ultima difesa contro il parassitismo di Stato che non potrebbe sviluppare misure impopolari solo in una parte del Paese, in quanto tali parti potrebbero secedere.

Cosa dobbiamo imparare

All’Italia serve al più presto un federalismo ad ogni livello, per avvicinarsi il più possibile all’individuo e renderlo più cosciente di come avvengono le spese vicino a lui.

Ciò non vuol dire solo federalismo regionale ma anche provinciale e comunale: giacché alcuni servizi dovrebbero per forza essere esercitati da Roma,  è altrettanto ovvio che molti più servizi, se fossero di competenza locale, sarebbero notevolmente migliori e rischierebbero molto meno gli effetti del clientelismo e della burocrazia.

A livello costituzionale, comunque, è a mio parere storicamente e logicamente sensato, in un contesto di sussidiarietà già descritto, definire le Regioni come federate a formare la Repubblica italiana, che poi potranno, nelle loro Costituzioni e a seconda delle loro necessità, decidere se agire come semplici strutture decentrate o anch’esse come federazioni.

Riguardo alle secessioni dovrebbe essere l’Europa a muoversi e a impedirci di rivedere scene come quelle catalane: definire un quadro unico europeo che coniughi principi come la legalità di una dichiarazione d’indipendenza secondo il diritto internazionale, come definito nell’advisory della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Kosovo, con le necessità degli Stati e delle loro spese fatte nelle Regioni è, oltre che un modo per fornire garanzie ad entrambi, un enorme passo verso un’unità europea che non si limiti a controfirmare le velleità protezionistiche dei propri membri ma che provi a portare concordia ove vi è discordia.

La solidarietà continua ad impoverire il terzo mondo

Durante la sua visita ufficiale in Tunisia lo scorso Ottobre, il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani ha proposto di attivare un “piano Marshall” per l’Africa. Rievocando il piano di sussidi che gli Stati Uniti concessero ai Paesi dell’Europa occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale, Tajani ha stimato il costo di un analogo piano per l’Africa a 40 miliardi di €.

L’obiettivo di questi investimenti sarà la costruzione di nuove infrastrutture, il supporto alle piccole e medie imprese (SME in inglese), l’incoraggiamento all’imprenditoria giovanile e all’occupazione, nelle nazioni del continente africano.

Inoltre, Tajani ha sottolineato come senza una soluzione a questi problemi “migliaia, e in futuro saranno milioni, di persone potrebbero lasciare il proprio Paese.”

Nondimeno, il fine del libero mercato non giustifica i mezzi del trasferimento di risorse da parte del governo. La mia natia Spagna, che ha il secondo tasso di disoccupazione più alto fra i 28 Paesi della UE, lo prova.

Fra le regioni europee con maggior disoccupazione e minor PIL, ce ne sono due spagnole: Estremadura e Andalusia. Ma nonostante i sussidi del governo nazionale e regionale per “promuovere la creazione di nuove imprese”, la Spagna pone più ostacoli a fare impresa di tutti gli altri Paesi OCSE, secondo il Fondo Monetario Internazionale.

L’Africa è ancora il continente più povero al mondo. Il suo PIL pro capite è di quasi 8.500 $ inferiore alla media mondiale. Ma ci sono segnali di speranza: le carestie sono quasi scomparse al di fuori delle zone di guerra; l’aspettativa di vita è cresciuta dai 50,3 anni del 2000 ai 50,9 del 2015. Tutto questo progresso si è verificato grazie a riforme economiche pro-mercato.

Secondo la Heritage Foundation, lo score complessivo in libertà economica dell’Africa sub-Sahariana è pari al 55%, quasi 3 punti più alto che al principio del secolo. La libertà di commercio, in particolare, è cresciuta di 18 punti; il carico fiscale sembra essere in diminuzione.

Eppure, nessun Paese africano si posiziona fra le 20 economie più libere al mondo. Lo Stato di diritto latita e la repressione del dissenso prevale troppo spesso.

Nel lungo periodo, riforme economiche in direzione laissez-faire sono l’unica strada per la prosperità. Allo stesso tempo, la corruzione deve essere combattuta efficientemente. Il Botswana è un modello, in questo senso: è uno dei Paesi più ricchi in Africa, il meno corrotto, e fra le 34 economie più libere del pianeta (nonché la seconda più libera nel continente).

Non esistono, invece, casi di Paesi usciti dalla miseria grazie ad aiuti umanitari e sussidi allo sviluppo. I fondi di questo tipo sono solo trasferimenti da un apparato di governo ad un altro.

La Singapore post-coloniale era ben lungi dall’essere un Paese ricco pochi decenni fa, ma è oggi un caso di studio per i sostenitori di economie aperte. Politiche orientate verso il libero mercato e l’attrazione di investimenti esteri l’hanno aiutata a crescere e prosperare.

Il Parlamento Europeo non ha alcuna competenza, né responsabilità, al di fuori della propria giurisdizione. Ma questo non significa che non possa fare nulla per migliorare la condizione economica dell’Africa.

Più nello specifico, vi sono alcune politiche Europee che stanno ponendo ostacoli allo sviluppo degli imprenditori e commercianti del Terzo Mondo. La famosa Politica Agricola Comune (PAC) rende più complicato per i Paesi in via di sviluppo esportare i propri prodotti verso la UE, perché applica una discriminazione economica particolarmente rilevante verso gli agricoltori non Europei.

Queste politiche protezioniste non hanno portato l’agricoltura a diventare una forza economica trainante per la UE. Nonostante un budget annuale di 59 miliardi di euro (utilizzato per supportare il reddito dei contadini e finanziare programmi di sviluppo rurale, che Paesi meno sviluppati non possono permettersi), l’agricoltura contribuisce a meno del 2% del PIL della UE.

Esiste un modello per il tipo di transizione che la UE dovrebbe avviare, per concedere un accesso più libero ai mercati europei da parte dell’Africa: La Nuova Zelanda, il cui settore rurale era simile a quello Europeo 3 decenni fa, ha condotto un processo di liberalizzazione economica.

C’erano diffusi timori sul rischio di vedere molte aziende agricole fallire, ma alla fine solo circa 800 dovettero chiudere. Gli agricoltori che speravano di competere cominciarono a cooperare in maniera più efficiente e innovativa sulla base di condizioni di mercato. Ad oggi, l’agricoltura contribuisce ancora per il circa 7-10% al PIL della Nuova Zelanda.

Indubbiamente, la soppressione delle misure agricole protezioniste condurrebbe a feroci proteste a Bruxelles e nelle altre capitali: gli Europei sono abituati all’interventismo statale.

Perfino gli Euroscettici mostrerebbero la propria indignazione. Nonostante tale rischio, però, i politici dovrebbero cercare di spiegare questi cambiamenti di policy in una maniera più precisa, tale che sia più efficace, tanto da far presa da un punto di vista sia morale che logico.

In una ipotetica campagna per la liberalizzazione del mercato agricolo, i politici e i sostenitori della libertà non dovrebbero focalizzarsi solo su statistiche del PIL e altri dati macroeconomici.

Dovrebbero invece sottolineare che i cittadini europei potranno comprare prodotti più economici, dato che al momento pagano i costi dei sussidi e delle regolamentazioni, e che potranno effettuare scambi commerciali con un numero più ampio di Paesi non Europei.

Ancora più importante, da un punto di vista etico così come nella vita reale, è facile comprendere come il commercio sia un modo per beneficiare sé stessi e i propri vicini: prezzi più bassi lasciano alle famiglie più risorse a disposizione per le loro altre priorità.

Allo stesso tempo, gli Africani possono cominciare a espandere i loro mercati di esportazione e avere più denaro per le loro necessità di base. Ognuno ne trae beneficio: il commercio è un modo di donare vita ad altri. Dall’altra parte, i boicottaggi commerciali sono invece un modo per eliminare i punti di vista che non vogliamo riconoscere.

I miei compatrioti Europei devono giungere a vedere la liberalizzazione del commercio come un modo di esprimere solidarietà ai lavoratori del Terzo Mondo, di risollevare la parte di Africani in miseria e di ottenere benefici per se stessi grazie a prezzi più convenienti e mercati più ampi.

Devono vedere questa decisione come giusta e morale perché “Quando l’etica è messa in primo piano, l’umanità fiorisce”. [1]

[1] Traduzione dall’inglese dell’articolo apparso di recente su Acton.org, a firma di Ángel Manuel García Carmona, cfr.: https://acton.org/publications/transatlantic/2017/11/20/marshall-plan-africa-wont-help-africans-free-trade-will

Gli orfani del Comunismo strizzano l’occhio all’Islam radicale

Mi resta da capire per quale motivo si debba mettere sul banco degli imputati un paese che fino a prova contraria è una dichiarata democrazia, posta nel nostro caro Occidente democratico e obbligata, di volta in volta, a rispondere delle proprie azioni di fronte ai trattati e alle convenzioni internazionali. Mi sto riferendo agli Stati Uniti d’America.

Non per pregiudizi, o forse anche per essi, ma io tenderei in data odierna ad inquisire maggiormente la Repubblica Islamica dell’Iran, il cui nome, senza l’aggiunta di ulteriori particolari, fa alternativamente pisciare addosso dalle risate e crepare di paura. Basta conoscerne un minimo la storia, consci quindi di come il popolo iraniano abbia, decenni or sono, salutato l’ayatollah Komeini che ritornava dall’esilio manco fosse un eroe: si trattava semplicemente di una guida spirituale suprema col potere di contare e di intervenire con maggior incisività rispetto alle autorità politiche. Alcuni esponenti politici nostrani dovrebbero rabbrividire di fronte ad una realtà simile, e invece preferiscono prostrarsi ai loro piedi col capo coperto. Questione di trasformismo.

Pare, a detta del premier israeliano Netanyahu, che la repubblica degli ayatollah ci abbia presi per i fondelli quando ci raccontava che stava rispettando l’accordo sul nucleare tanto voluto da Obama: in realtà, ne stavano continuando la produzione come meglio credeva. Obama, in quanto nobel per la pace, ha siglato un accordo mai rispettato dalla controparte e scatenato la così detta Primavera Araba, mentre Trump, in quanto uomo bianco brutto e cattivo, ha messo al suo posto a suon di minacce quel pupazzo vivente di Kim Jong Un e adesso si appresta a fare la medesima cosa con Rouhani e le rozzissime guardie della rivoluzione.

Eppure, anche nel caso del leader nord coreano, le domande che l’intellighenzia occidentale si poneva riguardavano tutte la condotta di Trump e la sua aggressività. Niente da dire, però, su un pazzoide che effettuava test nucleari nel Pacifico facendo tremare mezzo mondo. Sembra quasi che la bontà, dai nostri dirimpettai, non la si debba mai pretendere, mentre su noi stessi tranciamo giudizi duri e intransigenti. Capisco il pretendere sempre il meglio da sé stessi, ma a fronte di un parlamento iraniano che brucia in mondo visione la bandiera degli Stati Uniti in segno di odio e sdegno, non comprendo perché si debba reagire misurando ogni singola parola che esce dalla bocca di Donald Trump.

Il dubbio, che in realtà è una certezza, è che non sia più una questione di giusto e di sbagliato, di strategia politica e di astuzia, bensì il solito odio verso sé stessi, verso l’Occidente capitalistico, grosso modo liberale, laicizzato, secolarizzato e dunque agli antipodi rispetto al mondo arabo-islamico. Quest’ultimo rappresenta, per coloro che amo definire “orfani del comunismo”, una nuova terra promessa, una nuova frontiera culturale, una nuova fonte di pensiero cui abbeverarsi, una inestinguibile sorgente di odio e di disprezzo verso quel mondo (il nostro) che ha trionfato sul socialismo e sul comunismo, su Marx e sui quattro rimbecilliti che ancora oggi vanno dicendo che la proprietà privata è un furto e che i mezzi di produzione non devono appartenere ai padroni.

È cosa nota che le sinistre in tutta Europa stiano scomparendo come neve al sole. Il motivo è facilmente intuibile: sono fuori tempo massimo, barcollano nel buio leggendo il loro libretto rosso di Mao (love is love, l’immigrato è sempre una risorsa, redistribuiamo la ricchezza, i ricchi aumentano e i poveri anche, Berlusconi è un mafioso e Trump un mezzo stupratore) e non sono in grado di fornire risposte soddisfacenti perché il solo approccio costruttivo, realistico e mai ideologico è quello liberale.

Abbiamo i nostri autori, abbiamo i nostri testi, ma stiamo al passo coi tempi comprendendone il cambiamento perpetuo. A noi interessano i singoli individui, a loro quell’unico blocco chiamato “società”. Epperò, con la ferita che brucia perennemente, perché il socialismo nel mondo miete ancora vittime ogni giorno mentre il capitalismo produce inequivocabilmente benessere, l’islam e le sue istituzioni anti-occidentali divengono degli alleati naturali, ovvii e scontati. 

Insomma, basta che dalla Palestina, allo Yemen, all’Iran e all’Egitto la propaganda sia contro il cattivo Occidente dei visi pallidi per potersi stringere la mano in segno di fratellanza. Che poi da quelle parti i “froci” li impicchino e le donne le infibulino, poco importa: pedine sacrificabili.

L’ipocrisia dell’Europa verso il Sahara Occidentale

Con la risoluzione dell’ONU n.1542 del 1960 il Sahara Occidentale fu inserito nella lista dei territori “non autonomi” dall’assemblea generale. Il territorio era posto sotto il controllo del comitato di decolonizzazione delle Nazioni Unite, dopo che dal 1885 fu colonia del regno di Spagna.

14 anni dopo, nel 1974 con la risoluzione n. 3292 l’Assemblea Generale, in risposta alle rivalse del Marocco e della Mauritania, pose il quesito se il Sahara Occidentale potesse considerarsi “terra nullius” o da annettere al Marocco oppure alla Mauritania. La Corte, effettuate le dovute verifiche, stabilì che avrebbe dovuto proseguire il processo di decolonizzazione e che questo sarebbe dovuto sfociare nel compimento del diritto di autodeterminazione del popolo Sahrawi.

Nel 1975, in seguito alla “marcia verde” condotta da cittadini marocchini (qualche migliaio) che fu di fatto un’invasione, seppur pacifica, gli spagnoli abbandonarono definitivamente il territorio che venne spartito con gli accordi di Madrid, tra Marocco e Mauritania.
In seguito, in ottemperanza al diritto internazionale, i mauritani nel 1979 lasciarono i territori occupati mentre i marocchini non solo continuarono l’occupazione, ma condussero forti attacchi contro il fronte polisario (popolo saharawi) con l’uso, tra le altre, di armi al fosforo.

Dal 1991 l’ONU istituì la missione MINURSO, tutt’ora in corso, il cui end state sarebbe dovuto essere il referendum per l’autodeterminazione del popolo sahrawi. Nello stesso anno il Marocco, costruì un muro di 2000 km, che tutt’ora divide longitudinalmente il sahara occidentale, mantenendo l’occupazione della parte est.

Al momento 82 stati riconosco quella marocchina come occupazione (tutti gli stati africani, l’America latina e in Europa la sola Albania). L’Unione Europea e l’ONU non riconoscono la Repubblica Saharawi ma riconoscono  che la sovranità del Marocco sia indebita. A queste si aggiungono la lega araba e la maggior parte della comunità internazionale, ma solo gli stati che riconoscono il fronte polisario come unico rappresentante legittimo del Sahara Occidentale gli riconoscono lo status di governo in esilio.

 L’autodeterminazione del sahara occidentale è quindi, in base al diritto internazionale, espressamente riconosciuta. L’ultima battaglia, a favore del popolo sahrawi, è stata il 10 dicembre 2015, giorno in cui la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ha annullato l’accordo commerciale di libero scambio tra Marocco e UE, in quanto lo stato nordafricano, scambiava merci frutto del territorio occupato, che di fatto non può essere riconosciuto come Marocco e violava quindi i diritti del popolo autoctono. La Corte ha quindi riconosciuto totale illegittimità alla sovranità marocchina in quelle terre, considerando illegale l’occupazione e lo sfruttamento del territorio.

Come mai in tutto questo tempo nessuno ha imposto realmente al Marocco di abbandonare i territori? Come mai l’UE da una parte riconosce l’occupazione e dall’altra il suo parlamento vota per accordi commerciali con il Marocco in cui non è specificato che le merci non devono provenire dal sahara occidentale? Perché se ci sono dal 1991 forze ONU sul terreno con lo scopo di giungere al referendum per l’autodeterminazione, questo ancora non si è tenuto?

Non entro nei dettagli ma è solo ed esclusivamente una questione economica. Ricordiamo che la Francia è membro permanente del consiglio di sicurezza e ha diritto di veto su tutti i provvedimenti proposti. Quest’ultimo è il problema più grande. La Francia, comunque, non è la sola ad avere interessi economici in quei territori, ne hanno di importanti anche Spagna e Germania. E l’Italia? Beh l’Italia come spesso accade non si schiera, si conforma al resto dell’Unione (a trazione guarda caso franco-tedesca).

Vien amaramente da sorridere, a pensare che non ci si soffermi molto a prendere in mano situazioni molto meno gravi e invece una violazione del diritto internazionale e dei diritti umani che si perverta da decenni come la questione del western sahara, venga lasciata nella totale noncuranza, o meglio, vi si pone un finto interesse ipocrita.