L’economia riparte grazie alla marijuana

Bisogna legalizzare la marijuana non solo perché è giusto, ma anche perché ci conviene.

NB: questo testo non vuole in alcun modo sponsorizzare l’utilizzo di marijuana e suoi derivati.

Fumare marijuana è l’evidente dimostrazione di quanto sia assurdo pensare che determinate abitudini, nelle quali non abbiamo alcun interesse, debbano essere necessariamente sbagliate: è ancora più assurdo assumere che si possa porre un veto su di esse, anche se non danneggiano nessuno – meno chi accetta la responsabilità che deriva dalle proprie azioni -. 

Nessuno può negare la libertà di essere conservatori, ma allo stesso modo non si può impedire a nessuno di fare, secondo la propria libertà e responsabilità, ciò che più gli aggrada.

Tendenzialmente, la marijuana o altri tipi di sostanze, potrebbero non rappresentare alcuna attrattiva, qualcuno potrebbe motivatamente esserne disgustato, ma la convenienza per la società che deriverebbe da una sua legalizzazione sarà comunque innegabile, che l’argomento vi tocchi o meno.

Legalizzare la marijuana porterebbe innanzitutto benefici ai consumatori, che ora sono costretti a rivolgersi ad un mercato fuorilegge per l’acquisto e, complice la mancanza di competitività e di un naturale rapporto tra domanda e offerta all’interno dello stesso mercato, non sanno mai precisamente cosa stanno comprando né hanno alcuna garanzia dai venditori: gli spacciatori spesso rimangono anonimi, e questo li porta (come è ovvio) fuori da un sistema di trasparenza.

Se fosse permesso alle aziende di esistere in questo mercato e commercializzare questo prodotto – sia perché potrebbero esistere normative generiche, sia per fidelizzare i consumatori – non lo taglierebbero con sostanze dannose come avviene con i fiori di canapa tessile aggiunti ad henné e paraffina per la produzione di hashish, queste componenti amplificano e aggravano le conseguenze negative della sostanza.

Inoltre portare la marijuana fuori dal mercato illegale allontanerebbe i consumatori dagli ambienti criminali e renderebbe più difficile che entrino in contatto con droghe pesanti, che hanno tutt’altre conseguenze sulla salute delle persone e sul tessuto sociale.

I benefici non si fermerebbero a chi ne fa un uso ricreativo, ma anche a chi deve assumerla per questioni mediche.

Oggi, come riporta il Corriere della Sera, in Italia la produzione di marijuana per uso medico è sotto il monopolio dello stabilimento chimico farmaceutico militare italiano.

Un laboratorio che principalmente produce e studia 5 farmaci orfani (quelli per le malattie rare) che sono difficili da finanziare sul mercato e che dal 2014 ha avviato appunto la produzione della marijuana per uso medico.

La legalizzazione renderebbe possibile alle aziende farmaceutiche italiane (prime produttrici in Europa) di investire sul settore, esponendole ai vantaggi che porta un sistema di mercato: aumenterebbero  le quantità disponibili (nel 2018 il laboratorio militare ha prodotto solo 110 kg a fronte di un investimento di un milione di euro), si ridurrebbe ancora di più il prezzo delle medicine (come è già successo con l’ingresso del laboratorio statale in un mercato fino a quel momento composto dalle sole importazioni dall’Olanda), e si intensificherebbe la ricerca in questo campo.

Se tutto quello scritto finora non bastasse, i benefici sull’economia sarebbero molteplici, guardando al paese che più si sta avvicinando alla diffusa legalizzazione della marijuana non si può non guardare agli Stati Uniti d’America.

Il trend di legalizzazione ha avuto inizio nel 2012 quando il Colorado ha aperto a questo mercato, da quel momento il settore è stato sempre in crescita e come riporta il Financial Times “gli investimenti sono arrivati nel solo 2018 a 10 miliardi” il doppio rispetto al triennio precedente secondo NBCnews (per avere un termine di paragone sono 11 miliardi gli investimenti stanziati nei prossimi tre anni dalla finanziaria 2019) sebbene il paragone possa sembrare improprio, c’è in realtà da considerare il campione di popolazione dei 10 stati che hanno avviato questo iter, che ammonta a 65 milioni di abitanti, praticamente simile all’intera popolazione italiana che ne conta circa 60 milioni.

Negli Stati Uniti non è stato ancora riconosciuto come legale il mercato della marijuana a livello federale e questo implica che venga completamente tagliato fuori dal settore bancario.

Conseguentemente, le aziende che operano nel settore non possono accedere a finanziamenti, inoltre esse rimangono escluse dall’utilizzo dei servizi bancari, quali ad esempio semplici operazioni di routine, come un bonifico bancario.

questo ha indubbiamente frenato il trend di crescita rispetto al proprio potenziale.

Anche i numeri sull’occupazione sono impressionanti, come riporta CNBC sono circa 65 mila i nuovi posti di lavoro creati nel 2018 nel mercato della marijuana che portano  a un totale di 210 mila lavoratori nel settore.

Anche il settore turistico non potrebbe che guadagnare dalla legalizzazione della marijuana, l’emcdda (european monitoring centre for drugs and drug addiction) ha stimato che “su 4,5 milioni di turisti che si recano ad Amsterdam in vacanza  circa il 25% visiti in coffe shop nel proprio periodo di permanenza in città” questo porterebbe un vantaggio competitivo per le nostre città in confronto alle altre mete europee concorrenti.

Leggi anche: “Legalize them all: perché droghe libere.

Legalize them all: perché droghe libere.

Prima di analizzare le varie conseguenze positive che la legalizzazione di sostanze stupefacenti porterebbe al nostro bel Paese, occorre chiederci una domanda fondamentale: in tutti questi anni il protezionismo, la lotta alle droghe ed i controlli sempre più severi hanno raggiunto il loro obbiettivo? Come vedremo, la risposta è no.

Attenzione: con questo articolo non voglio promuovere nessun uso di sostanze stupefacenti, qualsiasi droga fa male, e ne sconsiglio vivamente l’uso.

Fatta questa doverosa premessa, possiamo iniziare.

È l’uso eccessivo del telefono che causa problemi, non il telefono in se. Lo stesso vale per le droghe, è l’abuso della sostanza che porta a problematiche psicologiche, economiche e sociali serie per l’individuo. La condanna a priori di un qualsiasi oggetto o sostanza è sbagliata. Ragionando in questo modo dovremmo proibire qualsiasi bene poiché, in fondo, anche l’acqua in dosi eccessivi provoca danni.

Il mercato, cioè dove avvengono gli scambi di prodotti, beni e servizi, è soggetto alla legge della “domanda e offerta”. Cioè alla richiesta di un bene (domanda), il produttore risponde creando il bene richiesto (offerta) stabilendo un prezzo che varierà in base alla dimensione della domanda. L’obbiettivo del proibizionismo è, attraverso arresti e sanzioni, l’eliminazione dell’offerta del bene richiesto, per far si che non venga consumato.

Come la storia insegna, però, il protezionismo non ha mai eliminato nulla. Il mercato prosegue lo stesso. L’unica differenza è che lo scambio del prodotto diventa illegale. Semplicemente “dove non c’è mercato, c’è mercato nero” direbbe Alberto Mingardi. Economicamente parlando, quando è presente un’offerta e una domanda, il meccanismo non può essere eliminato dallo Stato.

Non solo il proibizionismo non ha diminuito lo scambio e l’uso di droghe ma lo ha aumentato! 

Un esempio lampante è la proibizione di alcool avvenuta in America dagli anni ’20 agli anni ’30.

Ho fatto i soldi fornendo un prodotto richiesto dalla gente. Se questo è illegale, anche i miei clienti, centinaia di persone della buona società, infrangono la legge. La sola differenza fra noi è che io vendo e loro comprano. Tutti mi chiamano gangster. Io mi definisco un uomo d’affari.

-Al Capone in una celebre intervista

L’uso di alcool è effettivamente diminuito, ma soltanto per i primi 365 giorni. Infatti a partire dal secondo anno in poi dall’entrata in vigore della legge, il consumo è aumentato rispetto a quando fosse legale. La diminuzione del consumo nel primo anno è dovuta semplicemente ad un periodo di assestamento nel quale la criminalità organizzata doveva preparare la propria strategia per la vendita di alcolici. 

Il proibizionismo fu così efficace che il governo fu costretto a rendere di nuovo legale la vendita di alcool provocando, nei 10 anni di protezionismo, danni ingenti che ancora oggi vengono pagati.

Rispetto alla politica intrapresa in America, il governo del Portogallo insieme ad una commissione di esperti decise che, per rispondere all’uso eccessivo di droghe (specialmente di eroina dove il tasso era il più alto di tutta Europa), si dovesse ricorrere alla depenalizzazione del possesso e consumo di droghe.

Dopo 17 anni dalla depenalizzazione, i casi di HIV sono calati drasticamente passando da 1016 e 56 nel 2012, mentre le morti per overdose sono scese da 80 a 16. Inoltre anche il consumo generale di droghe, soprattutto di eroina, è diminuito di ben il 70%, classificando il Portogallo tra i paesi europei con il minor uso di sostanze stupefacenti.

Il punto:

La spiegazione di tutto ciò è semplice: grazie alla liberalizzazione, le droghe vengono studiate e vissute come un problema medico e non giuridico. E a conti fatti la situazione è proprio cosi. Perché imprigionare, riempiendo le carceri ed aumentandone le spese, individui che avrebbero bisogno semplicemente di aiuto? L’assistenza medica è molto più efficace della prigione nel convincere un tossicodipendente a non consumare droghe. È grazie al non avere paura di sanzioni o reclusioni che l’individuo è autonomamente più propenso a chiedere aiuto. Ormai la psicologia lo ha dimostrato da cento anni che le punizioni non portano alcun beneficio.

Per non parlare delle ingenti spese statali che potrebbero essere diminuite. Si stima che tra il 2008 e il 2013 lo stato italiano abbia speso circa 180 milioni di euro l’anno in attività di contrasto alle droghe. Nel 2018 le operazioni anti droga nelle scuole sono costate 500 euro a grammo requisito. Spese decisamente eccessive per delle misure che rappresentano il totale fallimento delle azioni repressive contro questo tipo di sostanze.

Dati ancor più allarmanti si trovano analizzando le spese del sistema giudiziario. Il 35% delle persone che oggi è in carcere, lo è per reati legati alla droga. Oltre infatti a far lievitare il numero di detenuti nelle carceri italiane, contribuendo quindi al grave problema del sovraffollamento, le precedenti legislazioni sarebbero state strutturate per colpire i “pesci piccoli,” senza spaventare le associazioni criminali più organizzate.

Inoltre il proibizionismo causa un enorme problema legato alle sostanze nocive inserite di proposito nelle droghe per aumentarne il peso e massimizzare i profitti sul venduto. Quando l’alcol era illegale, in America, veniva miscelato con l’acquaragia. Ancora oggi hashish e cannabis vengono tagliati con ammoniaca, lacca e piombo. La liberalizzazione porterebbe un innalzamento della quantità e qualità dell’informazione, ma soprattutto un incremento dei controlli sulle sostanze. Per quanto la droga possa far male, va ricordato che migliaia di giovani oggi ne fanno uso ed inconsapevolmente introducono ulteriori sostanze che arrecano demenza, tumori, e altri danni che gli stupefacenti da soli non riuscirebbero a provocare.

Quindi la liberalizzazione porterebbe a:

  • Minor utilizzo di droghe;
  • Riduzione di morti per HIV e overdose;
  • Diminuzione delle spese statali;
  • Indebolimento della criminalità organizzata;
  • Maggior disponibilità di celle carcerarie;
  • Crescita dell’efficienza lavorativa di poliziotti e guardia di finanza;
  • Incremento della qualità delle droghe.

Perché continuare a combattere una battaglia già persa in partenza, quando cambiando mentalità potremmo finalmente raggiungere gli obbiettivi tanto ambiti dalla battaglia alle droghe?

È veramente tutta colpa del capitalismo?

La crisi del 2008, i cambiamenti climatici, il lavoro sempre più asfissiante, lo stress in aumento, i poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi, insomma, per qualsiasi male di questo mondo la colpa è del capitalismo . È il nuovo morbo del ventunesimo secolo, tutti gli danno la caccia, ma nessuno sa cosa sia. 

Una parola che ormai ha perso il suo vero significato, un orpello ideologico a cui dare la colpa se qualcosa non funziona. Ma cerchiamo di capirne qualcosa.

Il capitalismo è l’attuazione di quell’ideologia chiamata “liberismo”. Ma il liberismo in realtà non esiste, non è mai esistito e non esisterà mai. É semplicemente la libera cooperazione di individui, che senza aver bisogno di un “progettista”, lo stato o il dittatore che sia, fanno fronte alle difficoltà installando relazioni l’un l’altro per trovare la soluzione ai problemi. 

L’unica regola da accettare per un sistema capitalista è la seguente: lasciare gli individui liberi di approcciarsi alla propria vita e ai propri beni come vogliono, a patto di non danneggiare gli altri.  John Locke, John Stuart Mill, Immanuel Kant, Karl Popper, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, tutti questi pensatori si sono battuti per enunciare qualcosa di fondamentale alla società: la libertà personale non produce caos, povertà e iniquità ma bensì armonia, progresso e benessere.

Se qualsiasi sistema sociale non ha mai funzionato, se controllato da qualcuno o da qualcosa, il motivo è semplice: la realtà è estremamente complessa per capirla. In un sistema liberista, non c’è nessuna presunzione di conoscere la realtà in quanto tale, ed è proprio per questo che il capitalismo ha creato un benessere esponenziale.

Basti pensare ai grandi obbiettivi raggiunti negli ultimi anni. In cinquant’anni la popolazione mondiale è raddoppiata[1], sintomo che il benessere è aumentato e le malattie mortali diminuite.

Infatti è grazie alla cooperazione internazionale di menti di tutto il mondo che abbiamo debellato malattie un tempo endemiche come la meningite e il vaiolo. Inoltre la penuria non è più un problema, e le morti per incidenza di omicidi sono al di sotto del 1%.[2]

In soli cento anni abbiamo avuto, l’iPhone, la lavatrice, il PC, internet, l’aria condizionata e un aumento della ricchezza generale di ogni individuo. 

Secondo i critici del capitalismo, la crescita della popolazione non è una giustificazione, infatti, dicono, le diseguaglianze sono aumentate rendendo i poveri sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. Se si analizzano i dati, però, si nota come se ne 1820 l’84 % delle popolazione mondiale viveva ancora in condizioni di estrema povertà, oggi la percentuale è scesa al di sotto del 10 per cento e continuare ad andare giù!

I decessi per carestia sono infimi rispetto al passato, il reddito pro capite è oggi il decuplo di quanto fosse nel 1850 e l’italiano medio è quindici volte più ricco che nel 1880. [3]

Per i più scettici, osserviamo l’esempio della Cina: da quanto si è aperta al capitalismo, 700 milioni di cinesi sono stati sottrarti alla povertà estrema. [4]

In poche parole, oggi, grazie al capitalismo tanto odiato; viviamo più a lungo, siamo pieni di cibo, le malattie non sono più un problema e siamo tutti più ricchi.

Ma di fronte questo benessere allora perché il capitalismo ci sta antipatico? Dietro i giudizi più drastici e negativi sul sistema capitalista ci sono in realtà umanissimi bisogni di trovare un ordine nelle cose e cercare un colpevole per i nostri problemi personali: e c’è la furbizia tutta politica di attribuirli alle forze impersonali dell’economia.

Il bias della negatività è non è mai stato più forte; tendiamo ad esagerare l’importanza delle cose che vanno male dimenticando quelle che invece vanno bene. Il liberismo è il capro espiatorio, il colpevole a cui attribuire ogni complicazione della vita.

La società moderna ha ancora molti problemi da affrontare, ma se oggi abbiamo raggiunto gli obbiettivi così ambiti in passato, è grazie a quel capitalismo che tutti odiano.

[1] https://ourworldindata.org/world-population-growth

[2] Yuval Noah Harari, “Homo Deus”, p. 19-20, Ediz. Bompiani

[3] Rutger Bregman, “Utopia per realisti”, p 2-3-4 Ediz. Feltrinelli

[4] Rutger Bregman “Utopia per realisti”, p 7 Ediz. Feltrinelli

 

 

 

Più armi vuol dire più crimine?

Da quando in Italia si discute di modificare in senso leggermente meno restrittivo le norme sulla legittima difesa qualcuno strilla al far west, alle armi facili e dunque all’aumento delle morti, spesso citando statistiche americane, che includono i suicidi.

Ma è davvero così?

Le armi in America

Negli Stati Uniti d’America il diritto a portare e possedere armi è sancito dal secondo emendamento della Costituzione che stabilisce come sia necessario, per uno Stato, una milizia ben regolamentata.

I Padri Fondatori, ben memori dell’esperienza di guerra necessaria per liberarsi dal colonialismo inglese e dei pericoli presenti nel Continente, preferirono una nazione dove -potenzialmente – ogni cittadino avrebbe potuto avere un’arma, rispetto ad uno Stato dove solo l’Esercito è armato.

Si tratta di una finezza non avuta dai costituenti europei, nonostante vari Stati europei siano nati da esperienze di resistenza armata: In un certo senso i Padri Fondatori hanno avuto l’intuizione che il Popolo avesse la necessità di rescindere, anche tramite forze in armi, dall’adesione al governo; quelli italiani si sono detti “siamo una democrazia e lo saremo per sempre”.

I vari Stati dell’Unione, comunque, possono porre limiti al porto in pubblico e sottoporlo a licenze, che attendono a concessioni somministrate alla richiesta, se si posseggono determinate caratteristiche di legge o discrezionalmente.

Nessuno nega che in USA ci sia un problema di violenza. Tutti gli americani con cui ho parlato, dai sandersiani convinti ai trumpisti, passando per i libertarian: concordano sul fatto che le armi da fuoco siano semplicemente un mezzo di espressione, se non le avessero userebbero altre armi, ma al contempo sono anche un mezzo di difesa, infatti alcune importanti stragi sono avvenute in luoghi “gun-free”.

Le armi in Europa: Svizzera e Cechia

In linea di massima l’Europa ha leggi abbastanza restrittive in materia di armi. Questi due Stati, tuttavia fanno eccezione e hanno normative abbastanza liberali.

La Svizzera, di per se, ha una normativa non troppo speciale: Per comprare un’arma viene richiesto un permesso che si ottiene con relativa semplicità, se si hanno i requisiti, mentre per il porto in pubblico serve un ulteriore permesso, concesso con parsimonia.

Tuttavia in Svizzera esiste il servizio di leva, i cittadini portano a casa il fucile d’assalto e una volta terminata la leva possono acquistarlo.

Ciò porta a un ciclo virtuoso: Se avere un’arma in strada è relativamente raro, è però possibile difendersi nel proprio domicilio e, in caso, difendersi da un invasore armato o da una deriva dittatoriale del governo federale.

Sticker pro-armi ceco che recita “Vorresti davvero non aver nessun portatore di armi legale nelle vicinanze?”

 

In Cechia, invece, c’è un modello più individualista e la permissiva normativa – “diamo a Cesare quel che è di Cesare”, che è stata approvata persino dal socialdemocratico Zeman – permette il possesso e il porto a chi ha i requisiti di legge.

Inoltre, una volta ottenuto il permesso, è abbastanza semplice comprare pistole e fucili ad azionamento singolo, mentre è richiesto un ulteriore permesso per le armi semiautomatiche.

Questa volontà di mantenere le armi libere è stata una delle varie ragioni di contrasto tra il governo e il popolo ceco, inclusi i partiti più europeisti come TOP 09, e l’Europa unita: I Cechi credono che sia meglio avere una nazione armata, anche per combattere il terrorismo.

E, quando sentiamo in TV “le squadre anti-terrorismo posso intervenire in mezz’ora” dovremmo anche chiederci: quante persone disarmate può uccidere un terrorista in quel periodo di tempo?

E l’Italia?

In Italia è relativamente facile ottenere il permesso per tenere un’arma in casa, se si rispettano i requisiti di legge. La stessa cosa vale per le licenze di tiro sportivo e per la caccia.

Non vale per la difesa personale: Infatti è abbastanza difficile ottenere un permesso per difesa personale, che comunque vale solo un anno, e viene rilasciato tipicamente a gente che maneggia denaro o gioielli, o a medici notturni.

Ironico il fatto, comunque, che armi non letali come il Taser o le pistole a proiettili di gomma non possano essere portate, mentre le pistole classiche sì: In Italia, in sostanza, non puoi difenderti in maniera non letale, nemmeno se vuoi farlo.

Nel nostro paese, comunque, questo approccio è dovuto anche ad un problema culturale: raro è infatti trovare un serio fronte in favore delle armi sicure e legali; si passa da chi ritiene necessario disarmare i cittadini, e per il quale è meglio un cittadino onesto morto e un ladro in vita, rispetto all’inverso – colpevolizzando la legittima difesa- e chi invece vuole le armi libere senza alcun criterio di regolamentazione.

Da liberali dovremmo porci contro chi ci vuole sudditi dello Stato, tutti disarmati e in balia del primo che si procura una Glock al mercato nero (perché le leggi non possono nulla contro chi già sta agendo illegalmente), ma anche contro chi pensa di risolvere le dispute a colpi di rivoltella.

Il possesso di un’arma dovrebbe essere un diritto che attiva di conseguenza una serie di un doveri civici. Ed, esattamente come la possibilità di guidare un veicolo, dovrebbero essere contemplate cause che lo limitino o lo impediscono totalmente, da certificarsi tramite un corso ed una visita medica, senza per questo limitare immotivatamente la libertà personale.

Follie anti-nucleari

Non sono un fan a tutti i costi del nucleare: ritengo che, prima di parlarne seriamente, sia necessaria un’attenta analisi sui costi che includa anche le possibilità di sviluppo tecnologico nei prossimi anni.

Tuttavia, da diplomato tecnico e studente nel campo STEM, ogni volta che leggo le ragioni ecologiste contro il nucleare mi viene un piccolo colpo al cuore.

E la ragione è semplice: sono ridicole!

Per prima cosa giova parlare un po’ di energia: per generare sufficiente energia per un Paese come l’Italia esistono essenzialmente due tecniche: la combustione in centrali termoelettriche, che l’Italia fa in loco, e la trasformazione dell’energia nucleare in calore che alimenta una turbina, che l’Italia ha delocalizzato in Svizzera e Francia. Esiste poi una forma di energia, rinnovabile, che può coprire un certo fabbisogno, ossia l’idroelettrico.

Le altre energie rinnovabili, ad oggi, sono favolette capaci di generare solo uno sputo d’energia e che vivono solamente grazie ai sussidi fatti da politici che credono di essere verdi e che, più di aiutare l’ambiente, aiutano le tasche di chi ha un bel tetto.

L’idroelettrico è molto bello, solo che è limitato. Se nel tuo territorio hai un tot di fiumi hai un tot di potenziale energetico, e l’Italia usa bene il suo.

Il termoelettrico è pessimo: ha una scarsa resa energetica e, soprattutto, scarica gran parte delle proprie scorie in aria.

Ciò nonostante gli “ecologisti” preferiscono continuare a inquinare quando l’energia nucleare scarica in aria solo vapore.

Certo, esistono le scorie radioattive, ma a differenza delle polveri sottili possono essere rinchiuse e stipate in modo sicuro e relativamente semplice.

Inoltre, i tanto vituperati Chernobyl e Fukushima hanno causato in totale poco più di 4’000 morti. In Italia, ogni anno, ci sono 22 Chernobyl solo di morti per inquinamento dell’aria, cosa che il nucleare potrebbe evitare in larga parte, sia direttamente, con la dismissione o la riduzione del termoelettrico, sia indirettamente con l’elettrificazione di servizi oggi non elettrificati come il riscaldamento (che in Giappone, paese fortemente nuclearista, è in gran parte elettrico).

Tra l’altro, in Italia, un incidente con le rinnovabili, quello del Vajont, ha fatto quasi la metà dei morti di Chernobyl. Nessuno che parla di dighe assassine o mai più idroelettrico, mentre l’errore umano a Chernobyl dovrebbe gettar fango su tutto il nucleare.

L’odio per il nucleare è figlio della stessa semplificazione del mondo che porta allo statal-collettivismo: se esistono i poveri è colpa dei ricchi e se abbiamo paura dell’atomo basta scrivere per legge che un pannello solare alimenta tutto ciò che vuoi e, nel frattempo, bruciare l’improbabile e inquinare l’aria all’inverosimile in attesa che l’utopia del pannellino diventi realtà.

Ambientalismo e socialismo: una storia d’amore

“Gli ambientalisti sono come i cocomeri: verdi all’esterno, rossi all’interno”, dice il vecchio adagio. Questa piccola metafora contiene in sé un’importante verità. Quando, dopo il crollo del blocco sovietico, l’ideologia marxista perse gran parte della sua credibilità, i suoi seguaci si ritrovarono privi di un ideale da seguire. Molti di essi, quindi, abbandonarono la bandiera rossa in favore della bandiera verde.

Non è un caso, infatti, che i partiti Verdi come li conosciamo oggi siano nati tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta. Allo stesso modo, non è un caso che i Socialisti Democratici negli Stati Uniti abbiano fatto del “Green New Deal” un loro cavallo di battaglia.

Mentre si avvicinano le elezioni del 2020, sono sempre più numerosi i progressisti pronti a dare il loro endorsement a questo programma ambizioso, che già nel nome riprende lo spirito del fallimentare “New Deal” implementato da FDR negli anni Trenta.

Salvaguardare l’ambiente è un nobile obiettivo, condivisibile da tutti al di là del credo politico. Tuttavia, esistono alcuni punti di contatto fra ambientalismo e socialismo che possono essere sfruttati a scopo politico. In questo senso si può parlare di “ecosocialismo”.

Il primo ed il più evidente è la profonda sfiducia verso il capitalismo. Nello specifico, gli ambientalisti (o meglio, gli ecosocialisti) mettono in discussione la capacità di adattamento del sistema. Non solo, molti di loro sono genuinamente convinti che l’abolizione della civiltà capitalista sia necessaria per scongiurare un’apocalisse sempre più vicina.

Fortunatamente, tali profezie apocalittiche sono state più volte smentite dai fatti, i quali dimostrano la resilienza del capitalismo. Un esempio su tutti: la rivoluzione verde.

Nel 1968 Paul R. Ehrlich, ambientalista e biologo statunitense, pubblicò il suo bestseller “The Population Bomb”. In quest’opera egli dipingeva un futuro drammatico (gli anni Settanta), nel quale centinaia di milioni di persone sarebbero morte per via di carestie dovute alla sovrappopolazione.

La storia, come sappiamo, non è andata così. Tra il 1950 ed il 1970, lo sviluppo di nuove tecniche agricole, finanziato dalle industrie e da enti come la Rockefeller Foundation, ha reso possibile un incremento senza precedenti della produzione alimentare (rivoluzione verde).

Simili risultati, tuttavia, sono invisibili agli occhi degli ecosocialisti. La loro sfiducia verso il capitalismo resta granitica, e li spinge verso una strada già percorsa dai loro predecessori, l’intervento statale.

Gli ecosocialisti amano la burocrazia, le regolamentazioni, la visione top-down dell’economia e della società. Nel loro mondo ideale tutto, dal numero di figli che si possono avere alla quantità di acqua per lavarsi, è deciso a tavolino in un’economia pianificata, per ridurre al minimo l’impatto ambientale.

Si potrebbe pensare che la perdita di libertà sia un prezzo accettabile per salvare l’ambiente. Il problema è il seguente: l’unico risultato certo di questa linea d’azione sarebbe l’accentramento di potere nelle mani di pochi ecosocialisti. Una volta a capo dell’economia pianificata, il loro arbitrio sarebbe totale, mentre nulle sarebbero le garanzie di successo del sistema.

A dir la verità, i risultati a livello ambientale di questo sistema sono stati tutt’altro che incoraggianti in passato, come mostra il caso del lago di Aral. Il lago di Aral è, o meglio era, un grande lago salato situato fra Kazakistan ed Uzbekistan.

In epoca sovietica, i principali immissari del lago sono stati deviati per ordine delle autorità statali al fine di soddisfare i bisogni agricoli dell’Urss. In quarant’anni, i loro piani economici hanno ridotto gran parte del lago di Aral in un deserto tossico, uno dei peggiori disastri ambientali del secolo scorso.

Quindi un’economia pianificata, come proposta dai socialisti ieri e dagli ecosocialisti oggi, non solo non è più efficace nel salvaguardare l’ambiente rispetto ad un sistema capitalista basato sul libero mercato, bensì è potenzialmente molto più pericolosa.

Questo perché il secondo sistema ha una dinamicità invidiabile, che è il segreto del suo successo. Tutti sono protagonisti attivi nel libero mercato, tutti contribuiscono con le loro azioni e le loro idee alla direzione seguita dal sistema.

Certo, il contributo di un grande imprenditore, di un Elon Musk, non sarà lo stesso di una persona comune, ma la natura del sistema impedisce anche ai più ricchi industriali di ignorare le esigenze ed i desideri dei loro consumatori. In questo senso, un boicottaggio è uno strumento più potente di una rivoluzione.

Questo non accade in un’economia pianificata. In tal caso i pianificatori, una volta ottenuto il potere assoluto facendo grandi promesse, non hanno alcun incentivo reale a mantenerle, ed in caso di fallimento non corrono alcun rischio.

Esistono solo due tipi di ecosocialisti. I primi, che sanno tutte queste cose, sono spinti solo dall’avidità e dalla sete di potere, e sono parte del problema.

I secondi, che hanno realmente a cuore la causa e che sono ingannati dai primi, sono quelli che vorrei raggiungere con questo articolo.

Dimenticate la storia che vi raccontano da sempre, quella dell’imprenditore cattivo che cospira contro la Madre Terra e del politico buono che lo sconfiggerà (dopo essere stato eletto o rieletto, naturalmente).

Invece di delegare ad un politico il potere di costringere gli altri a vivere come voi vorreste che vivano, siate individualisti. Scegliete per voi stessi di vivere una vita a basso impatto ambientale, e lasciate agli altri questa stessa libertà.

Lasciate che il libero mercato sia vostro alleato, premiate con il vostro denaro le imprese che danno ascolto alle vostre richieste, e boicottate (a titolo personale) quelle che non lo fanno. Ormai è giunta l’ora di porre fine a questa storia d’amore tossica con il socialismo, ed andare avanti senza più credere nelle sue menzogne.

 

Sussidi di disoccupazione? Opponiamoci con l’Imposta Negativa sul Reddito

Purtroppo per noi, purtroppo per l’Italia, il Reddito di Cittadinanza (RdC) è sempre più realtà. Ormai siamo ai ritocchi, siamo arrivati al livello di chi e come dovrà essere gestito.

Non nascondo che tutto ciò mi fa molta paura, anzi più di una paura. Paura per oggi perché il RdC tenderà ad aumentare la già eccessiva spesa pubblica italiana.

Già, la spesa pubblica, quella voce terribilmente conosciuta, sia dai cittadini e sia da alcuni addetti ai lavori. Una spesa pubblica, oggi con livelli davvero altissimi, che sta penalizzando l’italia e gli italiani. Paura del domani perché questo tipo di misure dovranno essere drasticamente gestite in futuro.

La spesa pubblica, quella spesa pubblica nata per esaltare il principio di giustizia sociale. Un principio, a dir poco assurdo, che pretende di combattere la povertà e le disuguaglianze, penalizzando chi ha un reddito al di sopra di una certa soglia.

Un principio che pretende di governare la ricchezza, con il pretesto che esso si distribuisca male se lasciato alla libera scelta. Il reddito di cittadinanza viene considerato il tentativo più grande mai compiuto – di un governo – di redistribuzione della ricchezza e dei redditi. Sin dagli anni sessanta, tutti i governi hanno cercato di provare a governare la ricchezza, con pessimi risultati.

Quando l’Italia andava verso la recessione, gli addetti al lavoro socialisti, piuttosto che prendersela con le proprie politiche, erano dell’opinione che le manovre di distribuzione erano troppo deboli. In poche parole, la ricchezza doveva essere governata sempre di più.

Ecco, perché penso che il reddito di cittadinanza sia l’ultimo grande tentativo dei socialisti.

Noi individualisti siamo fieri di essere contrari al RdC perché siamo convinti che fare assistenzialismo con i soldi degli altri, non sia corretto. Siamo fieri di essere contrari al RdC perché siamo convinti che questo tipo di misure, con il passare del tempo, tenderà a impoverirci tutti.

Pertanto, l’assistenzialismo deve essere sostituito con l’investimento sociale. Se lo Stato deve spendere per una persona, deve essere allo scopo di stimolarlo a far meglio.

Invece, l’impressione è che si voglia usare il Rdc come antidoto alla disoccupazione. Ecco, lo slogan esatto per opporci al RdC è “l’assistenzialismo non è un posto di lavoro”.

Per questo motivo, la vera risposta al RdC è l’Imposta Negativa sul Reddito (INR), proposta da Milton Friedman. Il principio è quello di “aggiustare il reddito” del contribuente che percepisce al di sotto di una certa soglia. Quella soglia è il simbolo del minimo reddito che dovrebbe percepire una persona o una famiglia per garantirsi il minimo indispensabile.

Ma come funzionerebbe l’INR?
Funzionerebbe come le aliquote fiscali che prevede l’IRPEF, con la differenza sostanziale che qui parliamo di quanto dovrebbe dare lo Stato al cittadino, e non viceversa.

Ecco qualche esempio:
CASO A
Soglia minima 1000€
Reddito contribuente 500€
Differenza tra soglia minima e Reddito contribuente 500€
Aliquota 50%
Sussidio 250€

CASO B
Soglia minima 1000€
Reddito contribuente 100€
Differenza tra soglia minima e Reddito contribuente 900€
Aliquota 50%
Sussidio 450€

L’INR è l’unica forma di assistenzialismo perfettamente in linea con la proposta dei liberali di un sistema con tasse minime. Con questa misura, il cittadino è giusto che venga risarcito, piuttosto che tassato. Le tasse non possono e non devono indebolire il cittadino; per questo motivo, l’INR riduce le tasse ad un livello basso, da consentire un reddito sufficiente per soddisfare le proprie esigenze.

Ovvio che per noi liberali non è mai positivo attuare qualsiasi tipo di assistenzialismo. Ma se vogliamo essere per lo Stato Minimo, quindi per uno Stato che garantisca infrastrutture, giustizia, sicurezza, è giusto che si occupi anche di tutelare i poverissimi.

Ebbene, l’INR permetterebbe di assistere i poverissimi, ma senza viziarli come il RdC. L’INR permetterebbe di assistere i poverissimi, ma senza incorrere in spese troppo eccessive. L’INR permetterebbe di assistere i poverissimi, evitando inutili caos burocratici, come invece previsti dall’INPS.

Se il Reddito di Cittadinanza equivale a considerare l’assistenzialismo come un posto di lavoro, con l’Imposta Negativa sul Reddito mettiamo in condizione il cittadino di mettersi ad un livello minimo che gli permetta di vivere meglio la propria vita e che gli permetta di costruire meglio un risparmio per sè e per la propria famiglia.

Socialisti contro ricchi: la fobia del benessere

Le imprevedibili virtù dell’ignoranza

Le fila dei socialisti democratici statunitensi (liberal*, democratic socialists, social justice warriors, etc.) traboccano di personaggi tanto interessanti quanto ridicoli: Bernie Sanders, il multimilionario buon samaritano che predica l’uguaglianza e la redistribuzione dalla sua terza casa di proprietà da $600,000 [1]. La senatrice Elizabeth Warren, che per ottenere qualcosa dalla vita ha dovuto fingere di essere una nativa americana per poi essere pubblicamente svergognata dal recente test del DNA [2], e infine l’astro nascente dei guerrieri della giustizia sociale: Alexandria Ocasio-Cortez!

Questa giovane donna rappresenta la versione americana dei mali che da tempo affliggono il nostro paese: l’analfabetismo economico, l’idea “uno vale uno”, la totale assenza di vergogna o pudore nell’affermare incorrettezze, la fascinazione dell’ignoranza.

Ma come ha fatto una cameriera del Bronx – che nonostante una laurea in Relazioni internazionali accusa Israele di occupare militarmente la Palestina – non in grado di distinguere le tre funzioni dello Stato, a diventare la figura di riferimento della Sinistra radical-liberal* statunitense?

La ricetta economico-politica della Ocasio-Cortez è estremamente semplice quanto pericolosa: [3]

  • Assistenza sanitaria gratuita per tutti
  • Educazione gratuita per tutti
  • Reintroduzione del Glass-Steagal Act
  • Diritti delle donne e delle minoranze
  • Salario minimo di 15 $/h aggiustato al tasso di inflazione
  • Lotta al cambiamento climatico (il ridicolo Green New Deal)
  • Lotta alle armi
  • Abolizione dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement)
  • Ritiro delle truppe dal Medio Oriente

Come al solito un bel programma, pieno di proposte che vanno al cuore degli elettori, al punto che sorprende non trovare l’abolizione della fame nel mondo, la fine di tutte le guerre, e unicorni-arcobaleno per tutti.

Tuttavia, nonostante la varietà di ideali, questo progetto rimane drammaticamente povero in contenuti, povero in dati, e dal costo economico spropositato. La domanda è semplice: chi pagherà i 33 TRILIONI di dollari che Medicare For All – da solo – potrebbe costare solo nei primi dieci anni? [4]

Ovviamente i più ricchi, il Top 1%, che negli ultimi trent’anni avrebbe mangiato in testa al povero lavoratore americano. La proposta della Ocasio-Cortez è quindi naturale: introdurre una nuova aliquota fiscale marginale del 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari, che metterà finalmente fine ai tempi d’oro in cui l’1% più ricco pagava molto meno del restante 99%.

O forse no.

No. Perché tutti i dati economici mostrano in realtà esattamente l’opposto.

 

Cosa dicono i dati?

I dati dell’IRS (Internal Revenue System, l’Agenzia delle Entrate statunitense) mostrano come nel 2014 i 400 maggiori contribuenti americani per reddito (i Top 400) abbiano versato quasi 30 miliardi di dollari in tasse, il 2.13% del totale delle tasse federali per il 2014, con una media di 75 milioni di dollari a testa, coprendo di fatto DA SOLI il budget annuale della NASA e dell’EPA (Ente Protezione Ambientale). [5][6]

Osservando il grafico inoltre, si può notare come questa percentuale sia più che raddoppiata negli anni, passando dall’1.04% del 1992, al 2.13% del 2014, aumentando nonostante il taglio delle tasse sui redditi più alti, operato da George W. Bush nel 2003; in quegli stessi anni (2003-2007) il contributo dei Top 400 crebbe considerevolmente piuttosto che diminuire.

Un altro dato estremamente interessante è quello secondo il quale, sempre secondo l’IRS, negli ultimi anni, nonostante il livello di tassazione sui redditi più alti sia progressivamente diminuito dal 1945 ad oggi, il contributo totale del Top 1% sia vertiginosamente aumentato fino a superare definitivamente quello del Bottom 90%. In poche parole, l’1% della popolazione americana paga più tasse del 90% dell’intera popolazione messa insieme. E si noti sempre come il tax-cut di Bush nel 2003 non abbia minimamente fatto diminuire il contributo dell’1% più ricco, ma al contrario l’abbia incrementato. [7]

Al giorno d’oggi l’1% più ricco paga il 40% del totale delle tasse sul reddito. Ma il dato diventa ancora più significativo se consideriamo quello che in America viene definito il Top 5%, il secondo gruppo dei più “privilegiati”: la classe media-alta. Questi due gruppi combinati, il Top 1% e il Top 5%, contribuiscono da soli per il 60% del totale delle tasse versate allo Stato americano. [8]

E sempre i dati dell’IRS ci mostrano come i redditi più alti non solo contribuiscono in modo straordinario alle entrate, ma pagano anche molto di più in percentuale rispetto ai redditi più bassi. Al punto che il 50% dei contribuenti versa il 97.3% delle tasse. [8]

La progressività del sistema fiscale americano è rimasta invariata negli ultimi 30 anni (quando non è addirittura aumentata) nonostante la progressiva diminuzione delle aliquote sui redditi più alti, e anzi, come abbiamo visto, il contributo del Top 1% è aumentato significativamente fino ad arrivare al 40% del totale delle tasse versate in un anno. E solo nel 2006 le politiche fiscali statunitensi hanno redistribuito circa 1.4 trilioni di dollari dal 40% più ricco al 60% più povero, mentre le diseguaglianze nella distribuzione del reddito si sono stabilizzate. [8] [9]

Inoltre, per comprendere la completa follia della proposta della Ocasio-Cortez di un’aliquota marginale al 70% sulla parte di reddito eccedente i 10 milioni di dollari l’anno basta analizzare le prospettive di gettito fiscale aggiuntivo che questa potrebbe generare.

Secondo un recente studio della Tax Foundation, un’aliquota marginale del 70% applicata ai redditi oltre i 10 milioni di dollari l’anno porterebbe infatti nelle casse dello Stato americano 291 miliardi di dollari nel periodo 2019-2028 a fronte di una spesa di 32.6 trilioni nello stesso periodo solo per la prima delle promesse elettorali, Medicare For All, l’assistenza sanitaria gratuita e universale. [10]

A peggiorare questa abissale disproporzione tra gettito aggiuntivo e nuova spesa, si consideri che i risultati di questa politica fiscale potrebbero essere decisamente inferiori, dal momento che un simile aumento esponenziale dell’aliquota massima potrebbe scoraggiare i contribuenti a dichiarare o realizzare livelli di reddito superiori ai 10 milioni di dollari l’anno.

 

La parola ai fatti, non alle buone intenzioni

In conclusione, nessun sistema fiscale è perfetto, ma la storia degli ultimi decenni di quello statunitense è la storia di una semplice ricetta economica che ha funzionato: più bassa è la pressione fiscale, più tasse vengono pagate (dai più ricchi in primis), più l’economia cresce. Infatti, una pressione fiscale accettabile non solo non scoraggia il contribuente, costringendolo a limitare le sue prospettive di crescita per evitare il passaggio all’aliquota successiva, ma permette una maggiore immissione di liquidità nell’economia reale sotto forma di spesa e investimenti, gli unici due fattori in grado di supportare un crescita solida nel lungo periodo.

Le politiche e le proposte della sinistra liberal americana sono dettate da una precisa agenda fondata sull’invidia sociale, l’odio di classe, e la finta giustizia sociale, condite dalla più assoluta ignoranza economica e dal rifiuto dei dati empirici.

Questa agenda mira alla distruzione della più florida economia mondiale e dell’unica nazione fondata su una promessa di Libertà: è infatti evidente che la dittatura economica a cui mirano i Democratic Socialists sia solo l’anticamera della dittatura morale dello Stato etico e del politicamente corretto, a cui segue necessariamente la morte del diritto di parola e della libertà espressione.

 

 

 

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

FONTI:

[1] https://www.washingtonexaminer.com/bernie-sanders-slams-billionaires-gets-reminded-he-owns-3-houses

[2] https://www.foxnews.com/politics/warren-expressing-concern-about-releasing-dna-analysis-on-native-american-heritage-report-says

[3] https://ocasio2018.com/issues

[4] https://www.bloomberg.com/news/articles/2018-07-30/study-medicare-for-all-bill-estimated-at-32-6-trillion

[5] https://www.cato.org/blog/taxes-tippy-tippy-top?fbclid=IwAR1SWwcNuR-7aHT_kIb8FcHV7RzUUmYOsN99l_Cnvo-zFgI7dXI82vzWFTI

[6] https://www.irs.gov/statistics/soi-tax-stats-top-400-individual-income-tax-returns-with-the-largest-adjusted-gross-incomes

[7] https://taxfoundation.org/top-1-percent-pays-more-taxes-bottom-90-percent/

[8] https://taxfoundation.org/summary-latest-federal-income-tax-data-2016-update/

[9] https://taxfoundation.org/official-statistics-inequality-top-1-and-redistribution/

[10] https://taxfoundation.org/70-percent-tax-analysis/

 

N.B. tutti i dati della Tax Foundation sono dati ricavati dal sito dell’IRS, consultabili attraverso i link riportati in fondo agli articoli in citazione.

Perché essere liberali

È dura essere liberali in Italia. Tanto per cominciare, di solito nessuno sa neanche cosa sia o a cosa creda un liberale. I pochi che lo sanno ti collegano subito a qualche personaggio o partito politico ed è difficile spiegargli che il liberalismo non è esattamente quella cosa lì. Va pure peggio se ti dichiari liberista. Lì sì che capiscono… e ti chiedono subito perché odi i poveri o se godi a sfruttare i bambini (questo è all’incirca il pensiero medio); se poi va proprio male li senti pontificare sulla necessità dello Stato e l’importanza degli stimoli alla domanda (“non sai che Keynes ha risolto la crisi del ’29??[1]”). A quel punto la reazione tipica è tirare un sospiro e provare a spiegare con calma che liberismo non significa né Far West né sfruttamento. Il liberalismo è molto di più: è un’ideologia politica ancor prima che economica.

Non starò qui a raccontare cosa è il liberalismo, tante persone l’hanno già fatto prima e meglio di me. Voglio spiegare invece cosa significa per me essere liberale. Io questa ideologia sono arrivato per caso, ero liberale prima ancora di sapere cosa volesse dire. Ci sono arrivato partendo da una cultura di sinistra (e tuttora continuo a considerarmi di sinistra)e votare tendenzialmente di là), per gradi, a partire da riflessioni personali. Ho scoperto solo in seguito che ciò che sentivo e pensavo era già esposto in brillanti opere scritte molto prima che io nascessi.

Sono diventato liberale perché non mi piacevano le risposte semplici (“noi siamo bravi e intelligenti e potremmo sistemare il mondo, purtroppo il popolo è stupido e non ci capisce”), perché ho un forte senso di giustizia (con che diritto si può obbligare un individuo a essere “solidale” con un altro, ad esempio?), perché non sopporto il group thinking, perché mi fanno ridere coloro che credono di avere tutte le risposte e di poter decidere cosa è meglio per gli altri – anche nella mia vita privata sono così: non amo dare giudizi sulle vite altrui e do consigli solo quando esplicitamente richiesti.

Ma soprattutto sono liberale perché detesto l’idea che qualcuno abbia il diritto di controllarmi e dirmi cosa posso o non posso fare. Voglio poter vivere la vita a modo mio, senza essere obbligato a seguire regole decise da chissà chi. E l’unica ideologia politica che ti propone ciò è il liberalismo. Socialisti, fascisti, fanatici di varie religioni, tutti loro pretendono di insegnarti qual è il giusto modo di vivere, cosa puoi o non puoi leggere e ascoltare, chi devi ammirare e chi odiare, chi puoi e non puoi amare. Al liberalismo tutto ciò non interessa perché sa che ognuno di noi è un individuo unico, diverso da ogni altro: non esistono regole di vita valide per tutti. Siamo delle eccezioni, ognuno di noi. E dobbiamo liberamente cercare la nostra strada.

Il liberalismo è ottimista, ha fiducia nel genere umano e nelle sue capacità. Ritiene gli uomini generalmente buoni e intelligenti, capaci di aiutarsi a vicenda e di inventare continuamente modi per migliorare la condizione della nostra specie. Per questo non ama le regole (se non quelle di base necessarie per una convivenza pacifica): servono solo a controllare e tenere a freno gli esseri umani e la loro naturale bontà e intraprendenza. Lasciati liberi, gli uomini riescono a ottenere risultati straordinari, e la storia degli ultimi 250 anni è lì per dimostrarlo. Non bisogna avere paura della libertà.

Il liberalismo mi ha conquistato perché mi comunica leggerezza e serenità, ottimismo e fiducia. Okay, può essere un po’ naive nel suo credere alla bontà e intelligenza degli uomini. Ma non è meglio un’ideologia che ci insegna a stimare e confidare negli altri esseri umani, piuttosto di quelle che ci vogliono divisi in gruppi e categorie e destinati a odiarci l’un l’altro? Per me la scelta è facile, ed è la scelta della libertà.

[1] Leggersi Rothbard, Friedman et alia per capire perché non è affatto vero

L’assistenzialismo sta uccidendo l’Italia

Il Fascismo e gli anni sessanta. Cosa accomuna il Fascismo con gli anni sessanta? L’intervento statale. Durante il Fascismo, vi era la convinzione che lo Stato dovesse mettere in cammino il paese, attraverso le politiche keynesiane. Uno dei principi fondanti del keynesismo è che lo Stato debba creare debito, emettendo moneta nella società che si impegnerà per rimetterla in circolo attraverso lo scambio di beni e servizi.

L’Italia, ai tempi del fascismo, era un paese povero e, per certi aspetti, in macerie, soprattutto per colpa della Prima Grande guerra. Non era l’Italia degli anni sessanta, sicuramente. L’Italia era un paese, economicamente parlando, in grande salute. Veniva dal suo primo boom economico, con un benessere che cresceva in quasi tutto il territorio nazionale, ma se ai tempi del fascismo, c’era la convinzione che dovesse esserci una mano statale che fosse in grado di alzare economicamente l’Italia e gli italiani, negli anni sessanta c’era la convinzione che dovesse esserci una mano statale che fosse in grado di governare, di coordinare, di distribuire la ricchezza.

Se ai tempi del fascismo, la ricchezza era inesistente, negli anni sessanta la ricchezza era tanta, ma secondo i favorevoli all’intervento statale quella ricchezza era maldistribuita.

Tra il fascismo e gli anni sessanta, manca una parte fondamentale. Il periodo 1947-1962 fu un periodo straordinario di crescita economica per l’Italia e gli italiani: mai il nostro Paese fu in grado di raggiungere un livello tale di crescita economica.

Ma che cosa conta sottolineare di questa fase della storia? Conta sottolineare che l’Italia, soprattutto grazie alle politiche adottate da Luigi Einaudi, primo presidente della Repubblica italiana, nel suo unico anno come Ministro delle Finanze nel 1947, riuscì a salvare la Lira e a favorire i risparmi e gli investimenti.

Come disse lo stesso Sergio Ricossa, il Boom Economico italiano fu un processo spontaneo favorito da politiche di non interventismo statale, quelle stesse politiche che favoriscono la libera iniziativa degli individui che, senza alcun ostacolo o retrizione, sono messi nella condizione di avere un capitale e di sfruttarlo per i propri sogni, progetti, ambizioni.

Era l’Italia degli anni cinquanta, l’Italia che sognava di diventare grande liberamente. Era l’Italia che diventava capitalista spontaneamente. Ma questo non era di gradimento per tutti. Se l’Italia diventava capitalista, con molta probabilità, se qualcuno si arricchiva per le proprie intuizioni, per il proprio spirito imprenditoriale, per i propri sacrifici e per i propri meriti, c’erano anche persone che non vivevano tutto questo boom economico. C’erano persone che vivevano la povertà più assoluta.

Ma anziché dare fiducia al capitalismo e al mercato, anziché convincersi che il benessere di pochi avrebbe creato un benessere diffuso spontaneo, si erano convinti che solo la mano della Stato avrebbe aggiustato ed equilibrato le differenze di reddito.

Pertanto, si cominciò incaricando lo Stato nel garantire una Sanità che fosse accessibile gratuitamente per tutti, per evitare che chi disponeva di meno risorse economiche non potesse curarsi; desideravano uno Stato che sapesse garantire una Scuola per tutti, per evitare che chi disponeva di meno risorse economiche non potesse avere un’istruzione; desideravano uno Stato che sapesse fare l’imprenditore, che potesse subito impiegare i disoccupati, senza dover perdere tempo a cercare un lavoro.

Ma per esaudire tutti questi desideri, occorreva uno Stato con molte risorse economiche. Fra le tante cose, la principale fonte da “strozzare” economicamente erano i redditi medio-alti. Loro hanno le risorse per permettersi quasi tutto, pertanto è giusto che una parte della loro ricchezza venga destinata ai più bisognosi. Ma quel “strozzare” non bastava per soddisfare i desideri degli amanti della mano pubblica.

Se da una parte, i redditi medio-alti si ritrovavano impoveriti rispetto a prima, gli amanti della mano pubblica sostenevano che il problema non fosse lo Stato, ma che il prelievo precedentemente fu insufficiente. Occorreva un prelievo maggiore dei redditi medio alti. E prelievo maggiore fu. Ma non servì a nulla.

Per farla breve, sono passati cinque decenni dagli anni sessanta. L’Italia ha una sanità pubblica che fa acqua da tutte le parti già dalla sua nascita (fine anni settanta). L’Italia ha una scuola pubblica che fa acqua da tutte le parti già dalla sua nascita. Per colpa di quelle politiche, oggi l’Italia è costretta a mantenere economicamente dei baby pensionati, ex dipendenti pubblici, ex dipendenti di aziende statali, attuali dipendenti pubblici.

Non solo, poi ci sono quelli che avevano un reddito medio-alto. Chi aveva un reddito medio, molto probabilmente, ha disperso la propria ricchezza nelle casse statali. Chi aveva un reddito alto, è riuscito con bravuta a mantenere intatta la propria ricchezza.

Ma nel complesso, seguendo il sogno di alcuni socialisti di usare lo Stato per garantire una sanità, una scuola e una protezione economica per i più bisognosi, l’Italia dagli anni sessanta ad oggi è cresciuta economicamente, ma con il freno a mano tirato, almeno fino agli anni novanta. Ma nel duemila è cambiata la musica e nemmeno con la crescita ai minimi storici, l’Italia riesce a salire.

Ora siamo in recessione, ma ancge se l’Italia va sempre più verso la povertà totale, continuano a dominare gli amanti della mano statale.

Vogliono rincarare la dose; vogliono il reddito di cittadinanza; vogliono le assicurazioni auto decise dallo Stato; vogliono aumentare le case popolari. Vogliono continuare a derubare i redditi medio-alti per riuscire ad ottenere quel sogno mai realizzato dai socialisti, quello stesso sogno iniziato negli anni sessanta.

Continuano a dirci che il problema non è il loro progetto, ma che i soldi vengono sprecati, che i soldi vengono usati per corruzioni, che i soldi vengono usati per i vitalizi dei politici. No cari, il problema è che esistete voi, voi socialisti.