La verità di José Piñera su Pinochet e Allende

José Piñera è noto per essere stato il tecnico padre, durante il governo dittatoriale di Pinochet, del Miracolo del Cile. Tuttavia ha anche espresso alcune opinioni interessanti sulla salita al governo di Allende e sul golpe, e relativi effetti sul Cile, che meritano di essere analizzate.

Per prima cosa chiariamo che una dittatura, come quella di Pinochet, che ha usato ampiamente la tortura è un male. Anche José Piñera era di tale avviso, infatti governò con i militari solo per tre anni, per poi divenire oppositore del regime.

Per secondo, sono d’accordo con Milton Friedman: Le riforme di mercato hanno reso possibile dare alla dittatura una vita breve. Avere investitori, sia interni che esterni, che hanno potuto fare pressione sul Cile per mettere da parte Pinochet, ma non la sua politica economica che è stata portata avanti da molti altri presidenti cileni, anche nominalmente socialisti, è stata la salvezza del popolo cileno.

Se tutto fosse stato dello Stato, chi avrebbe potuto sovvertire questa dittatura? Nessuno, non senza spargimenti di sangue o un enorme sconvolgimento, come accadde nelle rivoluzioni dell’autunno delle nazioni.

Allende: Un martire?

Allende è spesso dipinto come un martire dei militari e degli USA, ma Piñera fa notare una cosa: Ad aver chiesto l’intervento dei militari fu il Parlamento, che vide nelle azioni compiute da Allende, come gli espropri e il governare per decreto, una violazione della Costituzione e lo depose.

Dunque Piñera ritenne il golpe un male minore e un qualcosa di formalmente legale, condannando poi le successive azioni della junta, come l’aver sciolto il Parlamento.

Piñera fece un contestato paragone con l’ascesa di Hitler, pienamente legale e democratica, e fece notare una certa collusione di Allende con la sinistra armata, alla quale offrì posti di governo.

In sostanza, per il tecnico cileno la vera causa del golpe è da ricercarsi nelle azioni antidemocratiche e illiberali di Allende, che hanno offerto ai militari uno spunto, legale, per fare un colpo di Stato e instaurare una triste dittatura, comunque meno triste di ciò che le collettivizzazioni avrebbero portato.

Le riforme di Piñera

Piñera fu autore di varie riforme, la più nota fu quella delle pensioni, che da statali divennero private e a capitalizzazione. Con tale sistema si è garantito un basso costo del lavoro per le imprese e un’ampia libertà di scelta per i lavoratori, che hanno permesso all’economia di crescere.

Un’altra riforma importante fu quella dell’istruzione, messa in concorrenza con i voucher, un sistema restato in piedi per più di 25 anni e solo di recente modificato, con l’aggiunta di un sussidio maggiore per i più poveri, il cui costo per l’istruzione è risultato maggiore.

Fu sempre grazie a lui che il governo di Pinochet chiamò i Chicago Boys e privatizzò vari settori dell’economia, aprendo la strada al Miracolo del Cile.

Cosa possiamo imparare?

Certe riforme andrebbero fatte perché portano benessere e crescita per tutti. Pur senza arrivare all’estremo di un colpo di Stato, un’opzione sicuramente estrema da adottare solo in caso di attentato alla democrazia, possibilmente senza compierne un altro poco dopo, bisogna considerare come il cambiamento non potrà mai arrivare dalla politica ma dovrà arrivare dalla società civile.

La politica ha come unico scopo, essenzialmente, raccogliere voti, e lo fa bene con misure assistenzialiste. Bisogna far capire alla maggioranza come l’assistenzialismo sia semplicemente parassitismo di minoranza che li danneggia.

Impossibile? In Brasile in una decina d’anni, grazie alla diffusione del liberismo da parte di competenti istituti, sono passati dal Partito dei Lavoratori a Bolsonaro con Guedes all’economia.

Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien: un inno al Liberalismo

J. R. R. TOLKIEN E IL LIBERALISMO

 

Il Signore degli Anelli, di John Ronald Reuel Tolkien, è considerato l’opera fantasy più acclamata del XX secolo, con circa 150 milioni di lettori in tutto il mondo. Nella prefazione, Tolkien, che sentiva la necessità di spiegare in maniera più dettagliata l’obiettivo della sua opera, scrisse che:

Il motivo primo è stato il desiderio di un narratore di provare a cimentarsi in una storia veramente lunga che potesse attirare l’attenzione dei lettori, divertirli, deliziarli e a tratti anche eccitarli o commuoverli.

Per Tolkien, dunque, l’obiettivo principale dell’opera era dilettare e divertire se stesso e, come ogni autore che si rispetti, desiderava che la sua storia fosse divertente da leggere quanto lo era stato per lui scriverla. Diede vita alla Terra di Mezzo solo perché sentiva la necessità di dare un contesto ai propri piacevoli esercizi linguistici – adorava creare nuove lingue, grammatiche, ortografie, etc. – e successivamente si innamorò di questo nuovo mondo, che continuava a crescere in profondità ed estensione.

La Terra di Mezzo di Tolkien è, in fin dei conti, un prodotto eminentemente individuale, specchio del proprio essere. Ed egli prende la felice decisione di condividere una parte di questa sua visione del mondo con i suoi lettori, ossia, con tutti noi: la sua opera riflette tutto ciò che l’autore considera buono, spregevole, gradevole, sgradevole, morale, immorale. Ed è proprio la particolare visione del mondo di Tolkien, satura di profonde e personali impressioni filosofiche, teologiche e politiche, che ha finito per regalarci una delle opere più meravigliose del suo genere. Un’opera repleta del più puro liberalismo e della più sincera difesa dell’individuo!

È possibile analizzare l’opera di Tolkien attraverso diverse “chiavi di lettura”, ma mi atterrò, per ovvie ragioni, alla chiave di lettura politica.

Nella prima opera pubblicata, Tolkien dà i natali a una razza molto particolare: gli Hobbit. Questi sono un riflesso dell’autore stesso, della sua visione del mondo e dell’importanza che egli dava alle cose: l’Hobbit è un piccolo-borghese, avvezzo alla vita nei campi, attaccato alle piccole comodità domestiche (come i 6 pasti quotidiani), che, improvvisamente, viene chiamato ad essere protagonista dei grandi eventi della propria epoca, e non si nega a tale ruolo.

Tolkien era un umile professore universitario che all’improvviso si vide catapultato nelle trincee della Prima Guerra Mondiale. Bilbo era un Hobbit semplice e mite che inaspettatamente si ritrovò alla ricerca dei tesori nascosti nella Montagna Solitaria, che era stata saccheggiata e conquistata dal terribile drago Smaug, responsabile della sottomissione del più grande regno dei Nani dell’epoca.

La storia di Bilbo Baggins, in tal senso, mostra la fede di Tolkien nella capacità dell’individuo – anche del più semplice e pacato, anzi, talvolta proprio del più semplice e pacato – di realizzare grandi sacrifici, di uscire dalla propria comfort zone, di prendere in mano le redini del proprio destino e di essere capace di grandi atti di coraggio ed eroismo in nome di una giusta causa.

Ma Lo Hobbit – mi perdonino i fan più appassionati dell’opera prima di Tolkien – è un semplice assaggio rispetto alla grandezza che ci aspetta ne Il Signore degli Anelli. Ivi veniamo a contatto, grazie alla genialità di Tolkien, con il liberalismo nella sua forma più pura: la diffidenza nei confronti del Potere.

Lord Acton, il celebre storiografo britannico, affermò una volta, giustamente, che:

Il potere tende a corrompere, il potere assoluto corrompe in modo assoluto. I grandi uomini sono quasi sempre malvagi.

Tale visione del mondo rappresenta l’essenza stessa de Il Signore degli Anelli, com’è possibile percepire in diversi momenti dell’opera. Cercherò di raccontarvi gli episodi che considero più rivelatori, giacché, data la vastità dell’opera, la sua densità e la ricchezza di dettagli, non mi sarebbe possibile esaurire l’argomento in un breve articolo.

L’Unico Anello, l’Anello del Potere, rappresenta il fulcro del libro e si configura come la rappresentazione più esplicita del “Potere”, appunto, che può essere assimilato al concetto di “Stato”. Il dialogo tra Boromir e Aragorn ne La Compagnia dell’Anello è, in tal senso, rivelatore. Quando a Gran Burrone Boromir scopre che Gandalf e Frodo possiedono l’Anello, propone, con molta naturalezza, che venga utilizzato per combattere Sauron, ossia, per combattere il Male[1].

Per Boromir, chi è in possesso del “Potere”, ha davanti a sé un immenso ventaglio di opportunità: è possibile usare il Potere per correggere – magari addirittura sconfiggere – il Male. Il Potere Assoluto, chiaramente, potrebbe addirittura annientare il Male Assoluto: potrebbe concederci “il Paradiso in Terra”. Boromir è un costruttivista, crede che sia possibile la disgregazione dello status quo in favore della costruzione di un futuro migliore, ideale, perfetto, dove il Male non esista. Ritiene che sia possibile costruire, in maniera premeditata, il Paradiso in Terra. Come? È sufficiente usare l’Anello, riunire nelle proprie mani il Potere Assoluto con buone intenzioni e l’obiettivo di fare del bene. Boromir è, purtroppo, la rappresentazione della mentalità maggioritaria dei nostri giorni, della fede puerile nella capacità di riscrivere tutto da zero. La convinzione che, con le persone giuste, si possa raggiungere qualsiasi obiettivo.

Aragorn controbatte con fermezza che è da ingenui pensare che l’Anello possa rispondere a qualcuno al di fuori di Sauron – ossia, che il Potere possa rispondere a qualcosa di diverso dal Male. In altre parole, non è possibile fare del bene attraverso il Potere, per quanto buone possano essere le intenzioni di chi lo adopera. Infatti, è evidente come Aragorn non dubiti della purezza e della virtù degli intenti di Boromir, ma semplicemente nutra una profonda diffidenza nella possibilità di usare il Potere per (ri)costruire qualcosa di positivo – e la sua storia familiare, ossia la morte del Dùnedain Isildur ai Campi Iridati, rappresentava per lui il più fulgido ricordo dei risultati di questo tipo di fede.

Tolkien, come il buon liberale che era e in virtù della naturale sfiducia che nutriva nei confronti del Potere, si servì di altri due momenti e di due personaggi totalmente distinti per dimostrare la fallacia e l’ingenuità del raziocinio costruttivista, oltre alla necessità di una fortissima convinzione e di principi ben radicati per resistere alla soluzione più semplice (e catastrofica).

Il primo personaggio è Gandalf.

Quando Frodo, all’inizio de La Compagnia dell’Anello, atterrito dall’immensa responsabilità che rappresentava l’Anello di Bilbo appena ricevuto, decide di offrirlo a Gandalf, il mago, personificazione della prudenza e della saggezza, nonché della coscienza stessa di Tolkien, risponde:

“No!” gridò Gandalf, saltando in piedi […] “Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare! Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo”[2].

Per Frodo, Gandalf è un uomo molto più saggio e assennato di quanto egli stesso potrebbe mai sognare di essere, per cui decide, in nome della prudenza, di affidargli l’Anello. E Gandalf, proprio per essere un uomo tanto saggio e assennato, riconosce l’Anello come un oggetto oscuro, degno del più profondo timore, e non osa toccarlo neanche per un solo istante, riconoscendo la tentazione irresistibile che esso rappresenta.

L’Anello (o il Potere) ci si offre come la soluzione più semplice a tutti i nostri intenti, anche ai più puri, lodevoli e irreprensibili, come la pietà verso i deboli, la misericordia e la necessità premente di fare del bene. La risposta dell’Unico Anello ai nostri più profondi desideri è ciò che vi è di più tentatore: “il mondo è una successione infinita di ingiustizie, ma, se mi terrai con te, avrai nelle tue mani tutto il Potere che occorre per correggerle e sanarle. Io ti darò il Potere di aggiustare tutto. Ti basta mettermi al dito”.

La tentazione dell’Anello – o la tentazione del Potere, ai giorni nostri – è in grado di corrompere anche i migliori di noi e nel buio incatenarli. E Gandalf, il liberale, ne era consapevole.

Il secondo personaggio è Faramir, fratello di Boromir.

Frodo e Sam, nel loro viaggio verso il Monte Fato per distruggere l’Anello, lo incontrano insieme ai suoi soldati, di pattuglia nel territorio di Gondor. Il prudente e lungimirante Faramir, prima di eseguire i rigidi ordini del Signore di Gondor (sentenziare a morte qualsiasi individuo si aggirasse per il regno senza autorizzazione), decide di ascoltare ciò che i due piccoli uomini sconosciuti – che successivamente scopre essere “Hobbit” – hanno da dire.

Faramir viene così a sapere che Frodo e Sam fanno parte della Società dell’Anello insieme a suo fratello Boromir e finisce per ricevere la conferma della morte di questi. Frodo e Sam, visibilmente a disagio una volta saputa la parentela di Faramir e Boromir, dal momento che quest’ultimo aveva cercato di convincerli con la forza a consegnargli l’Anello proprio prima di morire in un’imboscata degli Orchi, rimangono sorpresi dalla schiettezza e dalla cautela di Faramir, che sembra “meno ambizioso e orgoglioso, e al tempo stesso più saggio e severo”[3] del fratello:

“Che cosa sia in realtà tale Oggetto, ancora non saprei dire; ma deve trattarsi di qualcosa di assai potente e periglioso. Un’arma crudele forse […] Se questo oggetto poteva procurare vantaggi a un guerriero, comprendo bene come Boromir, fiero e spericolato, sovente avventato, sempre ansioso di vedere la vittoria di Minas Tirith (e con essa la propria gloria), potesse desiderarlo ed esserne attratto. Ahimè, perché partì lui per quella missione? Mio padre e gli anziani avrebbero dovuto scegliere me, ma egli si fece avanti, essendo il maggiore e il più ardito, e non si lasciò distogliere da nessuno”[4].

E, vedendo come gli Hobbit siano ancora molto timorosi e sospettosi, Faramir conclude, in uno dei momenti più profondi e intrisi di significato dell’opera:

Ma non avere più timore! Io non m’impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e io solo potessi salvarla, usando così l’arma dell’Oscuro Signore per il bene della mia città”.

Con queste parole e con questo esempio, Faramir, che ha Sam e Frodo sotto custodia militare e può benissimo impadronirsi dell’Anello (il Potere Massimo e Assoluto) e servirsene (per raggiungere il bene comune) a proprio piacimento, rappresenta per la seconda volta e in una circostanza critica del libro l’atteggiamento di un autentico liberale.

Faramir, come Gandalf, come Aragorn e come lo stesso Tolkien, diffida del Potere. E tale diffidenza lo conduce attraverso un sentiero etico e morale talmente solido da portarlo ad affermare che non si servirebbe del Potere neanche se ne entrasse in possesso per caso (cioè se lo ottenesse senza sforzo e senza coercizione) o se rappresentasse l’unica possibilità di salvezza e di fare del bene per il proprio regno in rovina.

E, considerando la situazione in cui fa tale affermazione, Faramir non sta solo pronunciando belle parole prive di significato.

In quel momento, mentre le proferisce, ha appena incontrato per caso il Potere Assoluto e, per quanto ne sa, l’Anello rappresenta l’unica possibilità di salvare Gondor dalla rovina causata dalle orde quasi infinite del Signore Oscuro. Ciononostante, non se ne appropria. Pronunciando quelle parole, Faramir le mette in pratica: parla e agisce in accordo con i propri principi di libertà.

Con tale affermazione, Faramir si configura come un gigante liberale. In tale contesto, si dimostra più grande di quanto il più grande guerriero di Gondor, suo fratello Boromir, sia mai stato. Perché la cautela di Faramir è la risposta giusta, non l’ansia di salvare tutto e tutti, costi quel che costi, di Boromir.

Nell’ansia di salvare Gondor, Boromir quasi la distrugge. Mentre, in un momento di cautela liberale – che sembra anticipare i brillanti insegnamenti di Hayek [5] – Faramir la salva.

Dunque, alla fine del libro, tocca al piccolo Frodo Baggins compiere la difficile missione che nessun uomo, per quanto grande e nobile fosse, era stato fino ad allora in grado di portare a termine: lanciare l’Anello tra le fiamme del Monte Fato, spazzando via per sempre il Potere Assoluto dalla Terra di Mezzo. Se neanche il leggendario Dùnedain Isildur ci era riuscito, come può Gandalf affidare una missione così difficile a Frodo? Come può un piccolo uomo riuscire dove anche i più grandi uomini hanno fallito?

Per Tolkien, non vi è di che sorprendersi. Nella sua visione del mondo, la domanda si inverte: come potrebbe l’umile e semplice Frodo non farcela? E, pensandola come Tolkien (o pensandola come un liberale, che è lo stesso), si comprende molto facilmente la scelta di Gandalf.

Mi spiego: mentre Saruman è ossessionato dalle antiche pergamene, dagli affari della Corte di Gondor, dal Regno degli Uomini, dalla grandezza e dalla gloria di Númenor (insomma, dalla storia dei “grandi uomini” di Lord Acton), Gandalf si è sempre interessato agli Hobbit. Interesse estremamente indicativo della visione del mondo del mago.

In uno dei pochi momenti in cui la trilogia The Hobbit di Peter Jackson riesce a captare con profondità la visione del mondo di Tolkien, Gandalf, interrogato da Galadriel sulla ragione per la quale ha scelto proprio un Hobbit per compiere quella missione, afferma:

Saruman ritiene che soltanto un grande potere riesca a tenere il male sotto scacco. Ma non è ciò che ho scoperto io. Ho scoperto che sono le piccole cose… le azioni quotidiane della gente comune che tengono a bada l’oscurità. Semplici atti di gentilezza e amore.

Ed è ciò che Frodo, nella storia, rappresenta per Tolkien. Egli è un medio termine tra l’uomo con common sense di Chesterton e l’introspezione liberale, con un pizzico di rassegnazione stoica. È proprio in virtù del suo essere piccolo, del suo non essere superbo, che riesce a non cedere, per tutto il suo lungo viaggio, alle tentazioni del Potere. È il suo essere piccolo, umile, che lo spinge a distruggerlo, anziché a usarlo. Frodo riconosce i propri limiti umani e, così facendo, riconosce i limiti dell’intera umanità. Pertanto, egli sa che nessuno sarebbe capace di fare un buon uso di un Potere così grande.

Egli non vuole a tutti i costi risolvere tutti i problemi del mondo, è pienamente cosciente del fatto di non conoscere il metodo infallibile per risolvere e correggere tutto – o per cercare di attuare lo stesso piano di sempre, fallendo per la millesima volta (“perché stavolta andrà tutto bene, lo giuro!”). Frodo è Hayek che afferma che il curioso compito dell’economia è insegnarci quanto poco sappiamo riguardo a ciò che crediamo di sapere. Frodo è Tolkien, che sostiene:

My political opinions lean more and more to Anarchy (philosophically understood, meaning abolition of control not whiskered men with bombs) – or to ‘unconstitutional’ Monarchy.  […] Anyway, the proper study of Man is anything but Man; and the most improper job of any man, even saints (who at any rate were at least unwilling to take it on), is bossing other men. Not one in a million is fit for it, and least of all those who seek the opportunity. And at least it is done only to a small group of men who know who their master is. The medievals were only too right in taking “nolo episcopari” as the best reason a man could give to others for making him a bishop. [6].

E, come previsto da Gandalf, questo piccolo uomo riesce laddove tutti prima di lui hanno fallito: porta l’Unico Anello al Monte Fato, a Mordor, e lo distrugge tra le fiamme.

Tutta l’opera letteraria di Tolkien è straordinaria e incredibile, e spero quanto prima di poter scrivere un articolo riguardo a Il Silmarillion. Per il momento, mi piacerebbe reiterare quanto ho affermato all’inizio, con la speranza che questa chiave di lettura politica sia stata utile per tutti i lettori giunti fino alla conclusione di questo articolo.

Il Signore degli Anelli è un’opera grandiosa, dotata di un’intensità e di una ricchezza di dettagli impareggiabili. Ma soprattutto, in diversi momenti, sembra rivolgersi direttamente a noi, sembra dialogare intimamente con noi riguardo a diverse questioni contemporanee. Mi piace pensare che ciò si debba all’essenza profondamente liberale dell’opera, che fa sì che non invecchi mai, conservando sempre la sua innata freschezza e genuinità.

Mi sembra evidente che in Tolkien scorgiamo la soluzione a molti dei nostri problemi. Egli ci insegna a riconoscere i nostri limiti e, in tal modo, a riconoscere i limiti delle altre persone. Egli ci dice che un individuo, anche il più piccolo, è capace di atti di coraggio ed eroismo. E questo individuo non ha bisogno e mai avrà bisogno dell’Anello per salvare se stesso e gli altri dalla rovina – e non deve mai cadere nella tentazione di pensare il contrario. Questa è la lezione che dobbiamo imparare da Tolkien.

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[1] Il Male, che nel libro viene impersonificato da Sauron, ex-generale di Morgoth, può (e deve) essere inteso, in tale analisi politica, non come qualcosa di astratto, ma come qualcosa di molto concreto. Il Male è tutto ciò che si considera sbagliato, come la miseria, la disuguaglianza, la mancanza di opportunità, l’ingiustizia, le istituzioni imperfette, etc. Il male è tutto ciò che non dovrebbe essere, ma che, purtroppo, è.

[2] TOLKIEN, J. R. R. La Compagnia dell’Anello, Bompiani, p. 135.

[3] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 415.

[4] TOLKIEN, J. R. R. Le Due Torri, Bompiani, p. 424/425.

[5] Discorso di Hayek in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel per l’Economia del 1974: “Agire nella convinzione di avere la conoscenza e il potere che ci permettono di modellare i processi della società interamente a nostro piacere, conoscenza che in realtà non possediamo, probabilmente ci porterà ad arrecare molti danni. Nelle scienze fisiche ci possono essere poche obiezioni al tentativo di fare l’impossibile; si potrebbe persino pensare che non si debba scoraggiare il presuntuoso o l’arrogante, perché i suoi esperimenti potrebbero, dopotutto, produrre qualche nuova intuizione. Ma nel campo sociale, la convinzione errata secondo cui esercitare un certo potere avrebbe conseguenze favorevoli, è probabile porti all’affidare a una certa autorità un nuovo potere di coercizione sugli uomini. Anche se tale potere non è in sé cattivo, il suo esercizio è probabile impedisca il funzionamento di quelle forze d’ordine spontaneo da cui, senza capirle, l’uomo è, in effetti, è aiutato tantissimo nel perseguimento dei suoi obiettivi. […] Se l’uomo non deve fare più male che bene nei suoi sforzi per migliorare l’ordine sociale, dovrà imparare che in questo, come in tutti gli altri campi in cui la complessità essenziale di un genere organizzato prevale, non può acquisire la conoscenza completa che permette la padronanza degli eventi. Quindi dovrà usare la conoscenza che può ottenere, non per modellare i risultati come l’artigiano modella i suoi oggetti, ma per coltivare una crescita fornendo l’ambiente adatto, così come fa il giardiniere per le sue piante. C’è un pericolo, nell’esuberante sensazione di sempre maggiore potere che il progresso delle scienze fisiche ha generato e che tenta l’uomo, ‘ubriaco di successo’ per usare una frase caratteristica del primo comunismo, a cercare di soggiogare al controllo della volontà umana non solo il nostro ambiente naturale ma anche quello umano. Il riconoscimento dei limiti insormontabili alla sua conoscenza deve, effettivamente, insegnare allo studioso della società una lezione di umiltà, la quale dovrebbe impedirgli di diventare complice nel fatale tentativo di controllare la società – un tentativo tale da renderlo non solo un tiranno dei suoi compagni, ma il distruttore di una civiltà non progettata da nessun cervello, ma nata dagli sforzi liberi di milioni di individui”.

[6] The Letters of J. R. R. Tolkien; Lettera 52.

Istruzione e libertà di scelta

L’argomento della libertà di scelta nell’istruzione è molto importante per i liberali e liberisti all’estero: Ad esempio ne hanno parlato Milton Friedman Margaret Thatcher.

In Italia sul tema istruzione c’è purtroppo molta disinformazione. La maggioranza delle persone ha frequentato la scuola pubblica di Stato, dunque non ha mai dovuto approfondire il sistema di istruzione in Italia. Ci sono quindi molte cose da apprendere e approfondire anche per chi è già a favore della libertà di scelta in materia di istruzione.

I due volti dell’istruzione pubblica

La scuola pubblica di Stato

La scuola pubblica di Stato è quella che viene tipicamente chiamata “scuola pubblica”, quella fondamentalmente gratuita e frequentata dalla gran parte degli italiani.

Ha ovviamente vari difetti, solo che non vedendo l’alternativa per molti è arduo arrivarci da soli.

Il primo è che non esiste alternativa didattica: Il metodo didattico della scuola pubblica statale è solo uno, con limitatissime alternative sperimentali.

Eppure, diceva Margaret Thatcher, esistono studenti che danno il meglio con un modello tradizionale e altri con un modello progressista. La scuola pubblica non offre questa libertà di scelta: si crea dunque un modello mediocre che prova ad accontentare tutti, non riuscendoci.

Seconda cosa: modificarla è impossibile in un sistema statalista, dato che la scuola muove centinaia di migliaia di voti.

Tra docenti e aspiranti tali che con una riforma di mercato rischierebbero di doversi mettere in gioco personalmente invece di contare sulla graduatoria un partito che dice no a questo sistema alienerebbe tutti questi voti. E, in Italia, la coerenza non è di casa nella partitocrazia, che preferisce i voti al bene dei cittadini.

Terza cosa: Non c’è incentivo a migliorare.

Una cattedra è praticamente a vita, una volta ottenuta, nessuno è responsabile dei risultati e non ci sono incentivi per i docenti più meritevoli. Non esiste, in sostanza, un meccanismo virtuoso.

Infatti, si può lavorare anche il minimo indispensabile e per il sistema si è uguali ad un docente che lavora perfettamente. Questa è un’onta per quei docenti che ogni giorno, magari in situazioni difficili, si mettono in gioco per dare il meglio e ottenere il meglio dagli alunni.

La scuola pubblica paritaria, l’illusione dell’alternativa

Colpo di scena: La scuola privata, quella invisa agli statalisti poiché “non darebbe le stesse opportunità a tutti” (implicita ammissione di superiorità), è pubblica, a norma di legge, infatti emette titoli di studio validi, solo che si paga a parte.

Essendo parificata porta con sé alcuni dei difetti della scuola pubblica statale, come l’unicità del metodo didattico (non sarebbe possibile, ad esempio, avere una scuola paritaria organizzata a modello universitario o aperto).

Migliora invece l’incentivo ai docenti, che non sono assunti vita natural durante e che vengono scelti direttamente dalla scuola, non con una graduatoria, ma debbono comunque sottostare alle limitazioni previste per i docenti della scuola pubblica.

Inoltre, cosa non da poco, nella scuola paritaria l’alunno porta soldi, ergo la scuola ha tutto l’interesse a trattarlo bene, mentre la pubblica statale può tranquillamente permettersi l’abbandono scolastico, non venendone toccata economicamente.

Perché illusione?

In Italia chi parla di libertà di scelta, tipicamente politici di centrodestra ma esistono anche lodevoli eccezioni nel centrosinistra, intende favorire l’accesso alla scuola paritaria.
Per uno Stato come l’Italia sarebbe già un forte passo avanti, ma non toglie la necessità della libera scelta didattica.

Se ad esempio uno studente è particolarmente dotato in alcune materie ma non in altre potrebbe trovarsi bene in un sistema simil-universitario ove il progresso viene certificato non di anno in anno ma materia per materia.

Ad oggi non sarebbe possibile, purtroppo, ma esiste un sistema che lascia libertà didattica e mette lo Stato in un più accettabile ruolo di garante e certificatore, più accettabile rispetto al ruolo enorme della scuola pubblica.

Istruzione parentale: La vera libertà, ma a caro prezzo

Questo sistema è l’educazione parentale, riconosciuta dalla legge italiana come assolvimento dell’obbligo di istruzione.

Nel sistema di educazione parentale i genitori si assumono l’onere di istruire il figlio, le cui competenze vengono testate annualmente (anche se alcune scuole, specialmente quando si parla di elementari, sono lascive e ammettono esami più rarefatti) da una scuola pubblica, statale o paritaria.

Tuttavia spesso i genitori non hanno le competenze, il tempo o le possibilità di istruire i propri figli, in questi casi possono intervenire le vere scuole private, che istruiscono l’alunno per conto dei genitori preparandolo agli esami statali che certificheranno le competenze.

La cosa bella di queste scuole è che, non avendo vincoli statali, esistono in svariate forme.

C’è chi vuole ricordare la scuola pubblica, chi fa corsi interamente online, chi fa corsi in stile universitario, tutto ciò in considerazione del pubblico (ovviamente un corso per le superiori viene considerato diversamente rispetto a un corso per le elementari).

Si tratta dunque di un sistema vicino all’individuo, spesso adoperato da chi ha, ad esempio, impegni sportivi che non permetterebbero una regolare frequenza in una scuola pubblica ma ha ugualmente le capacità per il diploma

Il modello a voucher, la risposta liberale

Il sistema a voucher è la risposta liberale all’istruzione pubblica, ideato da Milton Friedman.

In questo sistema l’istruzione è garantita a tutti tramite un voucher spendibile presso la scuola privata scelta dall’alunno e dalla sua famiglia, che copre la stragrande maggioranza delle scuole.

Tale sistema sarebbe prima di tutto vantaggioso economicamente per lo Stato: Una scuola paritaria o privata costa, in media, dai 3’000 ai 6’000 euro l’anno mentre la scuola pubblica ci costa 8’000 euro l’anno ad alunno.

Lo scarto è dovuto alle inefficienze e agli sprechi del sistema pubblico, ovviamente. Dunque un sistema del genere darebbe libertà di scelta in due modi:

  1. Quello palese, ossia permettendo di scegliere qualsiasi scuola senza limiti economici
  2. Quello implicito: 2’000 euro in meno di spesa per alunno vorrebbe dire meno tasse, ossia più libertà d’acquisto per tutti

In questo sistema, volendo mantenere il valore legale del titolo di studio, il ruolo dello Stato si limiterebbe a svolgere periodici esami per garantire il livello d’avanzamento, lasciando la famiglia e l’alunno libero di scegliere il proprio modello preferito per prepararsi a questi esami.

Tale sistema permetterebbe anche di creare scuole di genitori, cosa utile in zone disagiate o isolate: Se oggi una persona che vive in un paesino senza scuola non ha alternativa, con un sistema del genere i genitori del pase potranno investire il proprio bonus per creare una piattaforma educativa per i propri figli.

Anche le comunità con una lingua diversa da quella dello Stato avrebbero da guadagnarci: Oggi in Italia esistono circa trenta lingue che potrebbero godere della tutela prevista dalla Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie, di esse solo undici sono tutelate ufficialmente dallo Stato e solo due godono dell’insegnamento scolastico.

Col voucher scuola i genitori di minoranza o interessati a far studiare i figli nella lingua del territorio, la cosiddetta immersione linguistica, (ricordiamo che frequentare una scuola bilingue dà un vantaggio nell’apprendimento delle terze lingue, non è pertanto una cosa così strana voler far frequentare al proprio figlio una scuola di minoranza se magari già sente la lingua dai nonni) potranno associarsi per finanziare l’istruzione nella loro forma preferita oppure, se c’è un forte interesse, potranno nascere scuole classiche con l’immersione linguistica. Ah, ovviamente, con questo sistema non saranno possibili solo scuole lombardofone o sardofone ma potranno nascere scuole che educano in altre lingue o anche in più lingue contemporaneamente.

Parliamo dunque di un sistema che:

  • Premia docenti e allievi meritevoli
  • Costa meno allo Stato
  • Lascia libertà di scelta su tantissimi fronti

Quali ragioni, a parte voler conservare i propri privilegi, per dire no?

Dovremmo rivalutare Marx e Marxismo? (Spoiler: no)

Dicevamo del paese dei due pesi e delle due misure. In quest’orizzonte rientra il nuovo libro di Marcello Musto,Karl Marx. Biografia intellettuale e politica.[1] Lui, come molti altri fanno ogni giorno, si è chiesto se “la dottrina marxista non fosse salvifica e geniale e se non siano stati certi uomini nella storia ad averla mal interpretata se non addirittura usata come scudo dietro cui nascondere i propri progetti perversi e violenti”.

Lenin e Stalin sono stati due attenti discepoli di Marx oppure si è trattato solamente di due criminali che avrebbero potuto utilizzare le idee partorite anche da Tizio o Caio? “È doveroso distinguere la concezione di Marx da quelle dei regimi che, nel XX secolo, dichiarando di agire in suo nome, perpetrarono, invece, crimini ed efferatezze”.

L’operazione, sebbene intrigante, è già vista e rivista, e vuole in ogni modo operare arbitrariamente una scissione tra il marxismo e i circa cento milioni di morti che vengono addebitati ai regimi comunisti più noti. Sebbene il comunismo continui a mietere vittime, prosegua nel generare miseria, perpetui nell’annientamento dell’individuo: sembra essere oggi ancora in voga; non mancando di protoumani che, con le terga a mollo nelle acque occidentali, si sgolino nel tesserne le lodi. 

Nonostante questo, il tentativo di edulcorarne i difetti, risulta del tutto velleitario: per ogni ideologia, l’unico giudizio possibile è quello riguardante la sua concreta applicazione nella realtà e sugli individui in un dato momento storico. Non esiste altra possibilità per giudicare le idee di qualcuno, altrimenti useremmo lo stesso criterio con cui si tende ad ignorare i risultati referendari: inaugurando nuovi referendum, sin quando non uscirà il risultato desiderato, come per la Brexit. Ecco, il marxismo ha generato i regimi comunisti, e questo è per adesso l’unico dato possibile cui dobbiamo attenerci. 

La dottrina marxista è accentratrice, fortemente statalista e interventista nell’economia e, dunque, nelle vite dei cittadini. I prncipi fondamentali del Marxismo, ossia l’accentramento dei mezzi produzione nelle mani dello Stato e l’abolizione della proprietà privata, prevedono il ruolo preponderante dello Stato che sarà chiamato a regolamentare ciò che -nella società capitalistica- sorge spontaneo.

Il marxismo è difatti anti-mercatista, nega la libertà di scambio degli individui, e sopperisce a questa mancanza con l’interventismo dello Stato centrale, che dovrà pianificare la creazione dei beni e il loro successivo movimento nelle mani dei cittadini.

Inoltre, l’assunto “Il lavoro crea valore”, ossia “il mero lavoro conferisce valore ai beni prodotti” è errato, ed è evidente, poiché sono i movimenti insiti nel mercato ad aumentare o diminuire il valore di un bene, ossia la maggiore o la minore domanda da parte dei consumatori, i quali, fuori dalla logica marxista, potranno liberamente chiederne e acquistarne nelle quantità desiderate conferendogli inevitabilmente maggior valore.

In Unione Sovietica difatti è stata creata una quantità enorme di lavoro, ma chissà come mai la miseria rimaneva preponderante e invincibile. Il marxismo, e la sua mania accentratrice, va di pari passo col giacobinismo noto nella Rivoluzione francese, e chiediamoci come mai noi oggi viviamo in un Paese fondato su decentramento dei poteri alle autonomie locali.

Lenin, in Stato e rivoluzione, scrisse che “il socialismo consiste nella distruzione dell’economia di mercato. Se rimane in vigore lo scambio, è persino ridicolo parlare di socialismo”.[2] E poi, da altri testi fondanti, ricordiamo che “la società va concepita come un grande ufficio e una grande fabbrica, dove vi sarà la sostituzione totale e definitiva del commercio con la distribuzione organizzata secondo un piano”, cosicché lo Stato sia in grado di “tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico”, “giungendo in tal modo alla centralizzazione assoluta”. 

E oggi dovremmo perder tempo nel ritenere che Stalin e i suoi colleghi non facessero riferimento a questa dottrina durante la creazione dei loro piani quinquennali? Si basavano forse sulla dottrina della favola di Cappuccetto rosso? Senza alcun tipo di rispetto per la realtà, e per ciò che quella realtà tragica racconta, Musto afferma che “molti dei partiti e dei regimi politici sorti nel nome di Marx hanno utilizzato il concetto di dittatura del proletariato in modo strumentale, snaturando il suo pensiero e allontanandosi dalla direzione da lui indicata. Ciò non vuol dire che non sia possibile provarci ancora[3]“. Il suo auspicio, dunque, è questo: tocchiamo ferro, sperando che tutto ciò rimanga un mero vaneggiare.

L’aspetto divertente del tutto, riallacciandoci con la premessa iniziale dei due pesi e delle due misure, consiste in un esercizio mentale che tutti noi dovremmo fare: proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se un autore avesse scritto che il razzismo in sé è un valore da tenere in considerazione, e che la sua applicazione hitleriana fu un banale errore, se non una mistificazione della dottrina in sé. Beh, innanzitutto nessun editore lo avrebbe pubblicato. Se, poi, qualche coraggioso gli avesse concesso spazio avremmo assistito a uno stracciamento di vesti collettivo, con annessa discesa in campo di associazioni e politici in difesa della giustizia sociale.

Alcuni intellettuali, poi, ci avrebbero ammorbato, furoreggiando in diretta nelle tv nazionali, trovando inspiegabili nessi tra l’apologia del nazismo e la criminalità organizzata. Di Hitler sono innominabili anche i quadri (sì, disegnava e non era granché), altrimenti intervengono i guardiani sempre svegli del politicamente corretto, che sanzionano e puniscono; come alcuni insegnanti nelle scuole spesso già fanno, varcando i limiti della propria professione.

Perché, siamo chiari, anche Stalin era solo un incompreso.

Note: [1] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.

[2] Lenin, Stato e Rivoluzione.

[3] Marcello Musto, Karl Marx, biografia intellettuale e politica, Einaudi.

 

L’intervento statale ci rende poveri

Fascismo, Boom Economico, Primo Governo del CentroSinistra “Organico”, conservatorismo statalista. Quattro parole chiave utili per descrivere il percorso economico dell’Italia, dagli anni venti ai giorni recenti. L’Italia fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento era paragonabile ad un neonato che cresceva, che iniziava a fare i primi passi, fino a diventare un adolescente, con tutte i suoi errori e debolezze che sono palesi in quella fase di vita.

Ma poi arrivò qualcuno, chiamato Intervento Statale, che decise di prendersene cura senza che qualcuno gli avesse chiesto qualcosa.
L’intervento Statale è
“l’atteggiamento di uno Stato che, oltre a fissare le regole del mercato, mette in pratica attività o interventi che condizionano l’economia con obiettivi diversi, dall’aiuto alla crescita economica e all’occupazione all’aumento dei salari, dall’aumento o riduzione dei prezzi alla promozione dell’uguaglianza e alla riparazione di quelle che il governo considera falle o inefficienze del mercato”.

Tutto iniziò con il Fascismo. Dopo una brevissima iniziale fase di snellimento della macchina statale, la politica fascista intraprese un progetto di Intervento statale totale. L’obiettivo era quello di creare un macro-azionista, neutrale e al disopra delle parti, che si limitava a investire e a fare in modo che i propri investimenti aziendali avessero lo scopo di creare un’organizzazione armonica tra lavoratori e datori di lavoro. Oltre agli aspetti industriali, l’interventismo statale del fascismo era soprattutto assistenzialismo.

Giusto per fare un breve elenco:
Assicurazione invalidità e vecchiaia; Assicurazione contro la disoccupazione; Assistenza ospedaliera ai poveri; Tutela del lavoro di donne e fanciulli; Opera nazionale maternità ed infanzia; Assistenza illegittimi e abbandonati o esposti; Assistenza obbligatoria contro la Tubercolosi; Esenzione tributaria per le famiglie numerose; Assicurazione obbligatoria contro le malattie professionali; Opera nazionale orfani di guerra; Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.); Settimana lavorativa di 40 ore; Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.).

Prima ho fatto l’esempio di un’Italia simile ad un neonato/adolescente, proprio per far capire che si trattava di un Paese, soprattutto dopo la Prima Guerra Mondiale, che era molto debole economicamente. Doveva crescere economicamente e i fascisti ritenevano che questa ricchezza dovesse essere creata dallo Stato per poi essere diffusa fra la popolazione. Ma l’Italia produceva solo debiti e scarsa ricchezza nazionale. Migliorava il benessere degli italiani, ma non rispettava le aspettative dei fascisti. Anzi, in alcune zone del meridione, la povertà continuava a dominare e le misure assistenzialiste “viziavano” i cittadini meridionali.

Dopo il fascismo, nella fase caotica 1943-1947, le casse statali e i cittadini italiani erano al macello, economicamente parlando. La Lira era in uno stato comatoso e i cittadini italiani vegetavano nella povertà più assoluta. Ma in quella straordinaria fase della storia italiana, l’Italia ebbe la fortuna di ritrovarsi nelle mani di un liberale come Luigi Einaudi. Lui era un liberista ossessionato dal risparmio e dal contenimento della spesa pubblica. In quegli anni riuscì a salvare la moneta italiana e a far ripartire l’Italia. Riuscì a far ripartire l’Italia riducendo drasticamente l’interventismo statale.

Lo stesso Boom Economico fu un processo spontaneo favorito dalle politiche pro-risparmio e antistataliste di Luigi Einaudi. Il Boom Economico fu favorito dal fatto che, contenendo le tasse, i cittadini potevano sfruttare al meglio i risparmi del presente per il futuro. Il periodo dal 1947 al 1958 ritengo sia stata l’unica fase antistatalista in Italia. Non sorprende che l’unica politica di interventismo statale di questo periodo, la Cassa del Mezzogiorno, si sia rivelata disastrosa e fallimentare.

Quel Boom Economico portò benessere, tantissimo benessere per gli italiani. L’Italia diventò un paese industriale proprio in quello straordinario periodo. Ma secondo i favorevoli all’interventismo statale, quella ricchezza era caotica e maldistribuita. A detta loro, non andava bene che alcuni  si fossero arricchiti, mentre altri erano ancora poveri. Pertanto, occorreva ridistribuire la ricchezza.

Ed ecco che si giunge al primo governo di centro-sinistra d’inizio anni sessanta, che riportò con forza il culto dell’interventismo statale. La classe dirigente di quella fase politica esprimeva frasi come “Se il popolo ha un problema, lo Stato deve intervenire”, frasi come “se un’azienda privata non può sopravvivere senza profitti, l’azienda pubblica si”. E così si decise di adottare misure come lo “statuto dei lavoratori”, il monopolio ENEL e numerose assunzioni in posti pubblici per garantire un reddito a chi non ha alcuna speranza di essere assunto altrove.

Governando la ricchezza, l’interventismo statale iniziò a diminuire il benessere degli italiani. Dagli anni sessanta, proprio grazie all’interventismo statale, l’Italia iniziò un lento percorso di declino. Governare la ricchezza voleva dire tassarla, ossia gestire i soldi di uno per il bene degli altri. Ma quest’ultimi, all’aumentare del costo della vita, pretendevano sempre di più dallo Stato. Pertanto, più alto il costo della vita, più assistenzialismo, più tasse, più povertà e addio ricchezza.

Questa fase si concluse negli anni ottanta. I favorevoli all’interventismo statale si resero conto di aver esagerato, ma pur di non ammettere i propri errori inaugurarono la politica del conservatorismo statalista. Questa politica consisteva nel tenere ben saldi quei diritti acquisiti che ormai avevano il sapore del privilegio.

L’obiettivo era mantenere i privilegi, anche fino a sfiorare il ridicolo. Mentre le casse statali andavano in tilt, il conservatorismo statalista cercava di fare manovre di salvataggio con tasse di eccezione o tagli “a indovinare”. Ma senza toccare le principali voci della spesa pubblica, i taglietti o le tasse speciali non solo non risolvevano i problemi, ma tendevano anzi ad amplificarli.

Fino a giungere ad oggi, dove la povertà è dominante. Se i redditi stagnano da vent’anni, il costo della vita è cresciuto tantissimo. Come ho già scritto sopra, più alto è il costo della vita, più alto è il desiderio di essere assistiti dallo Stato. Ma questo vuol dire avere più intervento statale, più tasse e più povertà. Il circolo vizioso continua, purtroppo.

NO all’assistenzialismo

Italiani o stranieri. Solo italiani o solo stranieri? Questo è l’attuale dibattito sull’assistenzialismo in Italia. Ormai non ci sono più dubbi, in Italia è tornato il culto per l’assistenzialismo statale nei confronti delle persone. Non si respirava quest’aria, nel nostro Paese, almeno dai tempi dei governi anni sessanta. In quel tempo, stavamo vivendo la fase di post-boom economico, periodo in cui i governanti ritenevano che l’Italia fosse diventato un paese più ricco, ma con un problema. Secondo loro, questa ricchezza era mal distribuita e pertanto occorreva una mano, la mano dello Stato, per ordinare questa ricchezza.

Dagli anni sessanta ad oggi, l’Italia è diventata un modello – negativo a mio parere – per gli studiosi di welfare. Un modello che ho già avuto modo di spiegare in un altro articolo (clicca qui per la lettura). Il presupposto di questo modello è che la povertà sia una sorta di sentenza, se nasci povero morirai povero. Pertanto, occorre uno Stato che si prenda cura di queste persone povere, per mantenerle e far raggiungere loro un certo livello di benessere.

Le assunzioni nella Pubblica Amministrazione avevano per l’appunto lo scopo di mettere in una condizione di sicurezza permanente quelle persone nate povere. Modello tuttora presente se penso che nel mio comune di origine, in provincia di Cagliari, ci sono le assunzioni basate sul reddito. Se ho un reddito basso e sono ignorante, ho più speranze di essere assunto di te che hai un reddito leggermente più alto e hai un curriculum migliore.

Ebbene, io ritengo che sia arrivato il momento di dire con forza “NO ASSISTENZIALISMO”. Negli anni sessanta era necessario ordinare la ricchezza. Oggi, i pro-assistenzialisti ritengono che lo Stato debba salvare le persone dai cattivoni o da qualche multinazionale. Negli ultimi anni, siamo stati abituati a misure come “80 euro Renzi”, “Reddito di Inclusione” (che potrebbe tramutarsi nel folle Reddito di Cittadinanza), per poi fare un salto indietro con “Assegno Familiare”, “Cassa di Integrazione” e Vitalizi vari.

L’assistenzialismo, unitamente alle pensioni, è uno dei principali motivi dell’altissimo livello di Spesa Pubblica, uno dei principali motivi dei deficit degli ultimi 40 anni, uno dei principali motivi del livello del debito pubblico. Ma nonostante tutto, i governanti sognano di sforare il 3%, imposto dall’Unione Europea. Questo perché ritengono che sforare il tetto per l’assistenzialismo sia un’operazione che avrà dei risultati  positivi.

Ma andiamo per ordine. Io sono favorevole ad uno Stato Minimo che, oltre al suo compito principale di garantire la sicurezza, la giustizia ed il rispetto delle regole, si impegni per la tutela dei più poveri. Ma tutelare non vuol dire assistenza per l’eternità.

Dobbiamo iniziare a fare una piccola ma decisiva distinzione, io sono favorevole all’investimento sociale e sono contrario all’assistenzialismo. Che differenza possiamo trovare tra i due? Se l’assistenzialismo prevede un atteggiamento negativo e pessimista nei confronti della società, l’investimento sociale prevede un atteggiamento positivo e ottimista.

Io preferisco investire sui migliori talenti con difficoltà economiche, piuttosto che regalare 780€ a vita a delle persone che “forse” nemmeno lo meritano.

Avere un atteggiamento positivo e ottimista nei confronti della società vuol dire considerare uno strumento di assistenzialismo un optional su cui ricorrere in rarissimi casi, poiché sono le regole del mercato che determinano l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Non l’attuale mercato del lavoro, attualmente nel caos per colpa di burocrazia e agevolazioni buttati “qua e là”.

Voglio un mercato del lavoro che sappia mettere al primo punto la produttività, le qualità e il valore nel medio e lungo termine del singolo lavoratore. L’assistenzialismo non può continuare ad essere la soluzione a tutti i nostri problemi. L’assistenzialismo non può essere la soluzione alle frustrazioni delle persone.

Il welfare state dovrebbe essere smantellato, a favore di altri modelli di welfare che sappiano tenere conto di altri valori umani. Valori come la meritocrazia, valori come la competizione, valore come l’investimento.

A tal proposito, sto preparando un articolo che parlerà dei punti chiave che dovrebbe contenere un manifesto di welfare liberista liberale. Un manifesto che sappia dimostrare perché i liberali hanno a cuore le difficoltà, ma vedono una soluzione differente rispetto ai piagnoni socialisti.

Come il “politically correct” ci rende persone peggiori

Se mai è esistita una società attenta a non urtare la sensibilità altrui, è senz’alcun dubbio la nostra. In nome del “politically correct”, grandi crociate sono state portate avanti per trovare e condannare i promotori d’idee ritenute, per un motivo o per l’altro, offensive. Eppure, dopo anni di sforzi, basta un breve giro in rete per rendersi conto del marcio dietro a questa facciata di progresso. Questo perché il “politically correct” non ci rende persone migliori. Anzi, esso contribuisce attivamente a renderci persone peggiori.

La via per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, ed il “politically correct” non fa eccezione. Certamente esistono molte persone che, in buona fede, considerano la cultura politicamente corretta (PC culture) come uno strumento in grado di rendere il mondo un posto più accogliente e gradevole per tutti. Sfortunatamente, non è così che essa si manifesta nella vita quotidiana.

Il “politically correct” si manifesta, innanzitutto, come censura. Se un’idea è politicamente scorretta, cioè offensiva, allora non merita di essere discussa. Se questa offende molte persone, allora non si può consentire ai suoi sostenitori di parlarne, per il bene superiore. I sentimenti della maggioranza, infatti, sono più importanti della libertà di parola della minoranza.

Una simile intransigenza è, in primo luogo, incompatibile con i valori che hanno reso grande l’Occidente. La speculazione ed il dibattito fra tesi opposte sono la base del vero progresso, e non possono essere soggetti a censura. Ma questo non è l’unico problema della “PC culture”. Essa, infatti, è anche inutile e controproducente.

Il “politically correct” è inutile, in quanto non elimina il marcio, ma si limita a nasconderlo. I fanatici e gli zeloti di tutte le bandiere, infatti, non sono scomparsi, si sono solo nascosti. Inoltre, hanno elaborato sofisticate strategie per aggirare gli ostacoli dovuti alla PC culture”. L’esempio più comune è il dog whistle”.

Il dog whistle”, come suggerisce il nome, è un segnale, un messaggio che solo un pubblico ben preciso è in grado di recepire. Per esempio i neonazisti, per non essere riconosciuti come tali, hanno a disposizione una vasta gamma di termini, gesti e simboli. Inseriti in un discorso, solo altri neonazisti coglieranno il vero significato del messaggio, che passerà invece inosservato agli occhi degli altri.

Il “politically correct”, dunque, non è efficace contro i target della sua attività, ma non solo. Esso è controproducente, in quanto contribuisce alla formazione di nuovi fanatici e zeloti. Questo meccanismo è diabolico nella sua estrema semplicità.

I veri bersagli dalla “PC culture”, infatti, sono persone che hanno idee più conservatrici rispetto alla massa, specie in ambito sociale. Ma non sono jihadisti, neonazisti o ultraconservatori. Sono solo persone normali un po’ più all’antica, che non vogliono imporre agli altri le loro idee, ma non vogliono neanche rinunciarvi.

Questo è inaccettabile per i paladini del “politically correct”, per i quali il mondo si divide in progressisti (loro) e non progressisti (tutti gli altri). Ma se non sei un progressista, allora devi essere automaticamente un nazista/omofobo/sessista. Di conseguenza, o rinneghi in toto le tue idee, o diventi un paria.

Quindi è comprensibile, anche se non condivisibile, che molte di queste persone un po’ all’antica finiscano con l’essere attratte, in cerca di sostegno, dall’estremità opposta dello spettro ideologico. Del resto, come detto in precedenza, i fanatici sono diventati abili nel mascherare il loro fanatismo.

Pertanto la gente, nauseata dal “politically correct”, si rivolge verso il politicamente scorretto. Ed utilizzando il politicamente scorretto come esca, i veri estremisti conquistano un pubblico e potenziali nuovi seguaci.

Sfatiamo anche questo mito: il politicamente scorretto non è un baluardo contro le follie della PC culture. Il politicamente scorretto è una conseguenza della “PC culture”, che spesso gente priva di scrupoli usa a proprio vantaggio, per ottenere denaro, fama o sostenitori.

Ma se neanche il politicamente scorretto può fornire una via d’uscita da questo circolo vizioso, che è alimentato dall’intransigenza e dal fanatismo delle persone, e che genera a sua volta fanatici ed intransigenti, allora com’è possibile fermarlo?

Per farlo, bisogna ricorrere allo strumento che tutti gli estremisti temono: il dibattito, e di conseguenza la libertà di parola. Molti pensano che la censura sia un male necessario per difendere la libertà di parola, ma questo è un ossimoro: censurando le parole delle persone, non le cambi nel loro intimo.

Con la censura, le persone razionali continuano ad essere tali, così come i fanatici. Ma con la libertà di parola, e quindi con il dibattito, c’è la possibilità di combattere i nemici della società aperta, mostrando alla gente chi sono veramente.

Certo, se si sceglie la libertà di parola bisogna anche accettare il rischio opposto, cioè che demagoghi senza scrupoli la usino per i loro scopi. Ma questo, purtroppo, è un rischio insito nella democrazia stessa.

Per questo la libertà di parola è così importante: senza un dibattito costante che convinca le persone dell’importanza della libertà, si apre la porta ai fanatici, e quando i fanatici conquistano il potere, solo le pallottole possono toglierglielo.

 

 

Senza mutande e in libertà. Ecco Alessandra Cantini.

NOTA: L’intervista non rappresenta in alcun modo il pensiero de L’Individualista Feroce, essendo -di fatto- un’intervista.

Alle 4 di pomeriggio stava uscendo da un ristorante di Livorno. Un pranzo a base di crudo di mare. È famosa, è nota, ha fatto parlar di sé in ogni modo possibile, sia per ciò che ha scritto e sia per ciò che ha fatto. Alessandra Cantini risponde al telefono ma mi dice che mi avrebbe richiamato venti minuti dopo. Passano dieci minuti e squilla il mio telefono. Eccola.

Ciao Alessandra, come va il raffreddore? Mi hai detto l’altro giorno che ti sta martoriando.

Ciao, va meglio. Ieri è stata la giornata peggiore, oggi sto piuttosto bene.

Mi verrebbe da dirti che il raffreddore viene a chi si scopre troppo. E ogni riferimento alla tua performance da Chiambretti è puramente casuale.

Sì, hai ragione, ma in realtà mi sono raffreddata giorni fa mentre mi recavo a un evento della Lega: sono caduta in una pozzanghera e mi sono bagnata. Ero a Firenze e c’erano 4 gradi. I numerosi che mi hanno soccorsa avevano previsto questo raffreddore.

È questo un periodo in cui passi diverso tempo scoperta. C’è chi spera allora che tu incontri sempre più pozzanghere sul tuo cammino. Ma come mai eri a un evento della Lega?

Adoro Salvini, adoro quel che sta facendo, adoro la sua coerenza. Sta facendo ciò che aveva promesso. Ha le palle.

In che senso ha le palle? In tutti e due i sensi?

Scommetto di sì. È un sacro maschio. Ha le palle quando lavora e si inimica senza pensarci i buonisti italiani e ha le palle come uomo, ne sono certa. Ha quell’atteggiamento duro e risoluto che solo un uomo con le palle può avere.

E la Luxuria, con cui ti sei scontrata a Chiambretti, cos’è? 

Di certo non è una donna. Ha le palle anche lei ma solo in senso stretto. È assurdo che una persona non accetti il genere con cui è nata. E le palle in senso metaforico non ce le ha perché si schiera sempre dalla parte facile, quella comoda, quella politicamente corretta. A me sta sulle palle una come lei nonostante io non ne sia munita.

Vista la sua particolarità, c’è qualcosa che non le hai detto ma che avresti voluto dirle?

Avrei dovuto chiederle di alzarsi la gonna come ho poi fatto io, provando così la sua tanto sbandierata femminilità. Io, quando la Zanicchi mi ha sfidato, ho accettato la sfida senza pensarci un attimo e mi sono alzata la gonna. Ed ecco il mio adorabile culo in prima serata. Lei, se le avessi chiesto di far la stessa cosa, avrebbe piantato una grana delle sue accusandomi di chissà quale odio verso quelli come lei.

È una trans?

Non ne ho idea di cosa sia.

Nemmeno io, e chi cazzo se ne frega. 

I froci, allo stesso modo, dovrebbero piantarla di rompere le palle con le loro rivendicazioni. Devono sapersi accettare ed evitare di trasformarsi. Noi etero mandiamo avanti il mondo procreando. Fossimo tutti froci, l’umanità avrebbe i giorni contati.

Tu vuoi proprio essere arsa viva in pubblica piazza, eh?

Farò la fine di Giovanna d’Arco, che me ne frega, ma almeno avrò vissuto dicendo ciò che penso in libertà. Io i froci li chiamo froci o al massimo ricchioni. Come fa Feltri, un altro sacro maschio senza peli sulla lingua e per questo condannato dal tribunale del bon ton politicamente corretto.

Dovresti creare un movimento ideologico in cui racchiudere le tue idee. 

In favore degli eterosessuali. Alla fine noi rappresentiamo la stragrande maggioranza della popolazione, eppure sembriamo una esigua minoranza. È assurdo. Eppoi vorrei rispondere ai loro gay pride con un atto osceno in luogo pubblico. D’altronde loro fanno di tutto durante i loro eventi, ma io se mostro il culo in tivù vengo tacciata di puttanesimo. Sì, l’atto osceno in luogo pubblico s’ha da fare. 

Io mi prenoto come partner o come accompagnatore o come aiutante. Insomma, una parte la voglio! Come si chiamerà il movimento?

Si chiamerà The Venusians, come il mio blog. Combatterà per la bellezza e per l’importanza di Venere da cui tutto discende.

Aggiudicato. Ma poi com’è andata la vicenda della gonna alzata?

La signora Zanicchi pensava di trovarsi difronte a una qualunque. Io sono di parola e quella sera ero da Chiambretti senza mutande.

Con un perizoma fine avresti potuto tenerle nascoste. Dai dimmi la verità.

La verità è quella che ti ho appena detto. Ero senza mutande come dovrebbero fare tutte le donne. Tanto non è antigienico e soprattutto non cela la parte vitale di ogni donna che ci contraddistingue dagli uomini. 

Dopo la tua performance in quanti ti vengono dietro?

Non lo so perché non tengo il conto. Posso però dirti che il numero di followers su Instagram è aumentato sensibilmente. E dei moralisti, poi, non me ne frega niente. Persone buone solo a bacchettare gli altri quando non possono più dare il cattivo esempio, come diceva giustamente De André. 

Ho anche scoperto che hai una vena da imprenditrice. Sei una mercatista: hai messo in vendita le tue mutande sul tuo blog. Ho anche visto che Cruciani ne apprezzava molto l’odore, l’altro giorno durante La Zanzara.

Sì, credo nel libero mercato perché si basa sulla libertà degli individui e sulle loro capacità. Le persone in un regime capitalistico danno il meglio di sé. Io sto dando il meglio di me ma molto deve ancora venire. Io ho creato un bisogno e ne sto ricavando un guadagno.

Quale sarebbe questo bisogno?

È il bisogno di avere a che fare con donne disinibite e disincantate. Oggigiorno gli uomini sono vessati dalle femministe talebane che da una parte fanno le libertine invocando diritti su diritti ma dall’altra denunciano vent’anni dopo una leccatina di figa. Ah, secondo me l’Argento gliel’ha data subito a Weinstein.

Soprattutto è arduo pensare a una violenza consistenza in un cunnilingus.

Ma certo. Sono tutte idiozie inventate e raccontate da donne morte di fama, e come al solito è un sacro maschio ad avergliela poi concessa. L’uomo, per sua natura, sparge il proprio seme. A me è capitato di trovarmi in situazioni non propriamente divertenti ma ho sempre accettato le conseguenze delle mie azioni. Beninteso: una violenza va denunciata e punita, ma se si entra in una camera da letto non ci si può meravigliare se si finisce scopate. 

Tu che rapporto hai con le relazioni serie? Ho letto la tua idea di poligamia tacita dovuta alla necessità dell’essere umano di interagire con gli altri.

Sì. Io ero impegnata fino a poco tempo fa con un lord inglese. Vivevo in una gabbia dorata e la prigione era la sua gelosia. Ad un certo punto ho iniziato a nutrire fantasie non consone alla monogamia. Volevo spiccare il volo e fare ciò che desideravo. L’idea di poligamia tacita è nata in quel momento.

Perché il tuo libro si intitola Sacro maschio?

Perché l’uomo è sacro in un momento di gravi violenze nei suoi confronti. L’uomo è vessato, malinteso, accusato, considerato colpevole fino a prova contraria. Un macello. 

E la donna?

La donna è il collo su cui si poggia la testa. Lei alla fine dirige perché ha un sacco di capacità che un uomo si sogna. Ma il suo ruolo rimane quello e non può pensare di oltrepassare i confini dei ruoli. 

Quante mutande hai già venduto?

Boh, alcune, forse poche, forse tante. Ti consiglio di comprarne un paio. Non hanno un odore troppo forte perché sono completamente sana pur non indossandole, ma rendono comunque.

Ci penserò. E tu pensi mai a chi in questo momento probabilmente sta annusando un paio delle tue mutandine?

In effetti no, ma è un’idea carina questa. Alcuni uomini mi stanno annusando sebbene siano distanti da me. Il mio odore, come il mio verbo, conquisterà il mondo.

Che combini per Natale e per Capodanno?

Natale coi tuoi e Capodanno con chi vuoi.

Non era riferito alla Pasqua?

No, anche al Capodanno. Forse mi farò rapire o forse andrò a Monaco, un paradiso. Lì le donne non rompono i coglioni e si godono la vita accompagnandosi con signori facoltosi e magari vecchi. A dirlo oggi sembra un’eresia. 

Già. Le ragazze che frequentavano Berlusconi vennero massacrate da quelli che si ergevano a protettori.

Sì, hai ragione, ma di Berlusconi non mi interessa più niente. È inconcepibile che un uomo così intelligente e potente si faccia sempre metter sotto dalle donne. Amiche, colleghe, compagna, moglie. Il sacro maschio è Salvini. 

Per conquistarti cosa si deve fare?

Evitare assolutamente i fiori. Odio i fiori. Una volta un tizio mi regalò cento rose rosse. Finirono nel bidone poco dopo. Se vuoi spendere, regalami un braccialetto di Hermes o dei mocassini di Gucci. Dei cioccolatini o un peluche. Io non sono ipocrita. Sono per i regali seri e per la scopata libera. 

Libertà, libertà! Al posto di onestà, onestà!

La libertà è per chi vuol lottare per sé stesso e per la propria felicità. L’onestà lasciamola agli ipocriti. Il fine giustifica i mezzi. Sempre. 

L’oscurantismo comunista minaccia le università

Il fatto

La mattina del 27 Novembre, all’Università “La Sapienza” di Roma, una legittima opinione ha dovuto nuovamente combattere contro l’oscurantismo comunista e il rifiuto che gli appartenenti a questa setta, fra le più sanguinarie della storia, hanno verso qualunque opinione non riconosca nel Comunismo il bene assoluto, eterno ed universale. Nell’atrio della facoltà di Lettere sono stati esposti dei pannelli che raccontano la Rivoluzione d’Ottobre dal punto di vista di un movimento studentesco vicino a Comunione e Liberazione, associazione cattolica italiana.

Naturalmente la versione raccontata difende la Russia zarista e cristiana, portando dati a sostegno della tesi per cui la Russia, prima dell’Ottobre, vantasse un’economia in espansione e un principio di progresso che la Rivoluzione bloccò. I baldi giovani comunisti della FGC, allergici alle libere opinioni come io lo sono al polline, davanti ad un’idea diversa dalla loro hanno avuto un attacco di starnuti e lacrimazione. Hanno dunque deciso di salvare dagli sbalzi di salute gli altri che, certamente intolleranti come loro alla libertà di pensiero, ne avrebbero potuto soffrire.

Pertanto, la mattina hanno coperto i pannelli incriminati con la loro “controinformazione”, con la loro “verità”, in un blitz o falsh mob che è stato rivendicato il giorno stesso sulla loro pagina Facebook. Questo non è certamente il primo episodio di questo genere in un’Università, anzi è ormai una prassi consolidata che mina sempre più la libertà di parola e pensiero negli atenei. Chi volesse, in preda a non so quale follia, permettersi di esporre una propria opinione che non citi testualmente il Capitale di Karl Marx in un’Università sa a quale rischio va incontro.

 

Una prassi consolidata

Qualche mese fa il collettivo Link Sapienza ha cacciato dalla stessa facoltà degli studenti che facevano una campagna di sensibilizzazione pro-Vita, costringendoli a sgomberare il loro presidio, regolarmente concesso dal Rettore dell’università. Ma si sa, chi è un banale rettore davanti a dieci gloriosi imbecilli? Qualche anno fa, ennesimo esempio che mi viene in mente, ma che non è che una goccia di un oceano. Alla Federico II di Napoli gli studenti del centro sociale che poi formò Potere al Popolo occuparono una facoltà per impedire a Massimo D’Alema di parlare.

L’Università, per eccellenza luogo di incontro, analisi, dibattito e confronto è evidentemente sotto attacco. La libertà di pensiero e di manifestazione che l’hanno sempre contraddistinta sono in pericolo. Ma da un attacco, naturalmente, ci si deve sempre difendere. E se non se ne ha il potere, si fa appello a chi lo ha affinché lo eserciti.

Per cui chiedo, e se vorrete unirvi a me dirò “chiediamo”, perché mai se un tifoso ripetutamente crea disordini allo stadio, impedendo agli altri di godere di ciò per cui ha pagato, questi viene interdetto dal frequentare quella sede con un Daspo, mentre le associazioni comuniste che ripetutamente violano uno dei principi fondanti non solo dell’Università, ma anche del nostro Stato, rivendicando fra l’altro il tutto ogni volta su Facebook, possono fare il buono e cattivo tempo liberamente senza che vengano presi provvedimenti?

Non vanno neanche scovati o cercati, ogni volta che tappano la bocca a chi esprime un’opinione diversa dalla loro producono un ridondante comunicato in cui spiegano quanto sono stati vigliacchi. Perché alle liste che portano lo squadrismo dentro gli atenei è permesso di candidarsi alle elezioni del Consiglio? Perché nessuna ripercussione sugli studenti che ne fanno parte viene minacciata? Ma soprattutto mi chiedo questo, non sapendo darmene risposta: perché i giovani comunisti hanno una tale riluttanza verso le opinioni che non appartengono al Vangelo secondo Marx?

 

Comunismo e ignoranza dogmatica

Come è possibile che non si riescano a capacitare del fatto che le opinioni diverse sono una ricchezza? Perché, cari comunisti, non riuscite a rispettare chi la pensa diversamente, perché non riuscite a guardare gli altri esprimere le proprie convinzioni per poi, pacificamente ed educatamente, esporre le vostre in antitesi? La vostra ideologia deriva da Marx e quindi da Hegel, per cui il meccanismo della dialettica dovreste averlo presente, ammesso sempre che abbiate la minima idea di ciò di cui parlate. Lasciate le tesi dei giovani di Comunione e Liberazione affisse nella facoltà e chiedete al Rettore di esporre le vostre quando le loro verranno ritirate. In un Paese liberale si fa così. E dal momento che sembrate non volerne rispettare le leggi e i principi, non lamentatevi della repressione delle vostre idee, quando siete i primi a reprimere chi invoca la libertà di opinione.

 

 

Disclaimer

Il giornalista deve cercare di esprimere le proprie opinioni il meno possibile per conservare la propria obiettività, ma mai averne vergogna. E dato che già sento le accuse che mi saranno mosse contro, ossia di simpatizzare per Comunione e Liberazione, di essere contro l’aborto o di amare alla follia D’Alema, la violenza di opinioni che in questi tempi devasta questo Paese mi costringe a fare uno strappo alla regola per mettere le mani avanti e per dimostrare che qualcuno che commenterà non avrà letto fino in fondo, come ormai troppi fanno.

Perciò: non credo che la Russia zarista fosse un esempio di economia ruggente, ma anzi la considero un regime illiberale che andava certamente superato. Ho antipatia verso il movimento di Comunione e Liberazione e sono ateo, per giunta non battezzato. Infine sono per la libertà di scelta in materia di aborto e ho poca simpatia verso Massimo D’Alema. È solo che, cari compagni, ho un terribile ed inguaribile feticismo per la libertà di opinione.

Che liberale sei? Cinque liberali per trovare la tua strada

Il liberalismo ha sicuramente dei valori fondanti, ma non esiste un manifesto del partito liberale e potremmo dire che ogni liberale ha la sua personale ideologia, che poi può essere raggruppata in una delle macroaree che compongono il liberalismo.

In questo articolo parleremo di cinque liberali diversi tra loro, anche in modo radicale, per dare alcuni spunti ai lettori.

Margaret Thatcher: Liberismo conservatore

Margaret Hilda Thatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1990 fu protagonista di una vera e propria rinascita economica del Regno Unito, all’epoca lacerato da sindacati che dettavano legge, lavori inutili per l’economia ma intoccabili e, in generale, da una società ancora ancorata all’economia pre guerra mondiale.

La Thatcher si contraddistinse per la sua giusta caparbietà: Nota è la sua frase “The lady’s not for turning“, non si torna indietro. Infatti nei primi anni le sue politiche, eliminando lavori inutili, crearono disoccupazione che solo dopo qualche anno rientrò nella norma, dimostrando come in effetti il mercato sia stato in grado di regolarsi.

Credeva inoltre fortemente nel principio per cui tutti sono capitalisti: Favorì infatti la vendita delle case popolari a chi ci viveva dentro e la vendita delle azioni delle aziende statali, privatizzate, ai lavoratori.

Durante il suo governo si vide un’ampia crescita del PIL, una riduzione del debito ma soprattutto un calo costante dell’inflazione.

A dispetto del nome dell’ideologia per la sua epoca la Thatcher si rivelò abbastanza progressista: Fu tra i pochi deputati tory a votare la depenalizzazione dell’omosessualità maschile e dell’aborto e, mentre in USA si faceva la guerra alla droga senza quartiere, prese misure per tenere i tossicodipendenti al sicuro dall’HIV, ad esempio fornendo aghi puliti per prevenire gli scambi.

Luigi Einaudi: Ordoliberalismo all’italiana

Luigi Einaudi fu il secondo Presidente della Repubblica Italiana, monarchico e membro del Partito Liberale come il suo predecessore Enrico De Nicola.

Nominato Senatore del Regno nel 1919, supportò per le elezioni dello stesso anno una piattaforma che proponeva il decentramento, la fine del protezionismo e l’europeismo ante litteram, supportò la prima politica economica fascista in risposta ai dazi doganali del governo Giolitti per poi distaccarsene e diventare profondamente antifascista.

Dopo il referendum del 1946 divenne ministro nell’area dell’economia, dove pose le basi per il boom economico degli anni ’50 e ’60.

Einaudi era fortemente contrario ai sussidi, che riteneva svantaggiosi e dannosi per il progresso, e supportava una tassazione proporzionale, a patto che ad essa corrispondessero servizi migliori e infrastrutture più efficienti e non fosse un vuoto sistema per raggiungere una presunta giustizia sociale.

Pim Fortuyn: Liberalismo conservatore

Pim Fortuyn fu un politico olandese, dipinto dai giornali di sinistra come paradosso: Gay ma fortemente anti islamico.

Il paradosso, ovviamente, non c’è da nessuna parte: Pim Fortuyn, barbaramente assassinato da un estremista ambientalista che voleva difendere “le minoranze”, credeva semplicemente che una società islamizzata non potesse garantire alcuna delle libertà a cui egli fortemente teneva come i diritti gay, l’uguaglianza tra i sessi e la libertà di parola.

In economia Fortuyn era fortemente liberista: Amante di Margaret Thatcher sosteneva la deregulation, il laissez faire e il governo minimo, oltre che repubblicano.

Fortuyn fu dunque un conservatore nel senso più nobile della parola: Voleva conservare le libertà dal nemico che voleva abbatterle e che, in Olanda, era più l’islamismo che il comunismo. A molti non piace dirlo ma è ovvio: Una società che ha come costituzione il Corano non può aver nulla a che fare col liberalismo.

Inoltre ebbe una forma di comunicazione populista, aprendo una stagione di liberalismo populista ancor oggi esistente: Il motto della sua lista era “at your service” ed è ben noto un video in cui Fortuyn fa il saluto militare agli elettori ponendosi al loro servizio.

Vaclav Havel: Liberalismo verde

Classificare politicamente Vaclav Havel, ultimo presidente della Cecoslovacchia e primo della Cechia è abbastanza difficile perché ricoprì sempre ruoli più onorifici che pratici. Si potrebbe dire che Havel fu un amante della libertà nel senso più ampio del termine, che sviluppò il suo pensiero politico, forse inconsapevolmente, nel solco dell’ordoliberalismo.

Fu grande avversario sul campo di Vaclav Klaus, suo successore alla presidenza e noto liberista hayekiano: Si oppose principalmente alle privatizzazioni a voucher, col timore che portassero a povertà e magheggi, come accadde ad esempio in Russia.

Punti principali dell’idea di Havel furono l’ambientalismo, tanto da portarlo ad aderire ai Verdi Cechi, partito di centro, dal 2004 alla sua morte (prima supportava l’Alleanza Civica Democratica, partito di centrodestra che candidò per la prima volta Karel Schwarzenberg, altro nome del liberalismo ceco nonché consigliere di Havel) e l’esistenza di una società civile, idea invece fortemente avversata da Klaus.

Havel è ritenuto uno dei più importanti avversari del comunismo nell’Europa orientale e ha goduto del plauso di gran parte del mondo libero e, grazie alla sua propensione al dialogo, ha unito gran parte della società ceca: Dalla destra conservatrice al centrosinistra socialdemocratico passando per il centro cattolico o hussita.

Camillo Benso: Liberalismo classico

Camillo Benso, Conte di Cavour, primo ministro italiano e fautore dell’Unità d’Italia. Benso fu uno dei pochi liberali classici della storia: Sostenitore di un modello italiano semi-federale a livello regionale, sosteneva l’integrazione europea su modello confederale e riteneva il libero mercato la base di tutto e le infrastrutture, da costruire con aiuto pubblico ma da parte di privati, il sistema operativo di esso. Ovviamente si oppose con forza ai dazi, da evitare a tutti i costi a suo parere.

Benso propose dunque un’Italia, purtroppo, mai attuata: Decentrata, liberale ed europea, un modello ancor oggi vincente e, soprattutto, possibile