Post-Modernismo: il marxismo 2.0

Il Comunismo in senso stretto non esiste più, in pochi lo difendono apertamente e i partiti che si rifanno ad esso sono ridotti a misere percentuali. Eppure, l’egemonia culturale comunista non può essere scomparsa di colpo: che fine ha fatto?

C’è ancora ed è più forte che mai, perché è in incognito. Fa finta di non essere marxismo, ma lo è all’estremo: è il post-modernismo, il marxismo culturale, da cui discendono il buonismo, l’ultra-progressismo, i movimenti per i diritti delle minoranze e via dicendo.

Ciò che ha trasformato i presupposti marxisti in post-modernismo, a partire dagli anni ’70, è il fatto che il proletariato non vuole più ribellarsi e sovvertire il sistema perché, anzitutto, i proletari-lavoratori stanno aumentando il proprio benessere [grazie al libero mercato] e ciò ha completamente smontato la base rivoluzionaria del Comunismo, siccome per continuare a ribellarsi i proletari avrebbero dovuto continuare ad essere poveri e malmessi; secondariamente, il marxismo in Russia, a Cuba, in Venezuela e ogni altro posto in cui è stato provato ha generato solamente catastrofi e genocidi e non è desiderabile nemmeno dai vecchi sostenitori del Comunismo italiano, tranne per quei quattro gatti che inneggiano ancora a Stalin mentre parlano di plusvalore e valore-lavoro.

Purtroppo per noi, hanno avuto un’intuizione malefica, che possiamo immaginare abbiano articolato più o meno così: “dobbiamo trovare un nuovo modo di giocare la partita ‘oppressori contro oppressi‘ riformulando capitalisti contro proletari… Eureka! Possiamo introdurre le politiche dell’identità per gruppi: non sei più oppresso perché fai parte della classe dei lavoratori, tu ora sei appresso perché sei una donna, o perché appartieni a un’etnia differente da quella della maggioranza, o perché le tue preferenze sessuali sono in qualche maniera fuori dalla norma. Insomma, sei oppresso perché fai parte di una minoranza“.

E non ci stancheremo mai di dirlo: la più piccola minoranza sulla Terra è l’Individuo, le leggi devono essere uguali per tutti gli individui al fine di togliere privilegi a chi li ha senza doverli concedere a chi ieri era discriminato, altrimenti si creerebbe un nuovo ciclo di discriminati e discriminanti.

Nuovamente purtroppo per noi, hanno trovato un campo fertile, perché è innegabile che ci siano razzisti, omofobi, maschilisti o discriminazioni di ogni genere, dunque hanno individuato dei nuovi oppressori da combattere, generalizzando al massimo le loro caratteristiche. Il cattivo ora è quello che non viene discriminato: basta che sia bianco, eterosessuale, uomo, capitalista.

In questo modo, distruggono il valore delle proteste per i veri diritti, avviliscono chi desidera avere pari opportunità, chi lotta per una società giusta, libera e di equità, chi desidera un mondo in cui sia le donne sia gli uomini siano liberi di scegliere e di fare. E non finisce qui: come ben possiamo vedere in Italia, questi sentimenti del post-modernismo generano il nemico che loro stessi lottano, poiché pur di opporsi al post-modernismo le persone finiscono per diventare il mostro identificato come razzista, sessista, maschilista, misogino, omofobo.

Definiscono fascismo ogni cosa, ma finiscono a deturpare il significato della parola fascismo affibbiandola a chiunque non abbia le loro idee. Esistono pure gli estremisti, che dicono cose come “è giusto che [inserire qui una minoranza qualsiasi] abbiano più diritti degli altri perché sono stati discriminati ed ora hanno il diritto di pareggiare i conti discriminando gli oppressori“.

Insomma, hanno iniziato a traslare il carattere totalitario del marxismo verso gli ambiti culturali e sociali, tanto da corroborare le proprie idee con l’intolleranza. I post-modernisti non credono che esista la competenza e debba essere remunerata né credono che esistano strutture valoriali in base alla cultura che si possiede, ad esempio quella Occidentale, non credono nemmeno che gli individui abbiano un background biologico da cui dipendono alcuni tratti della loro personalità, chiamano tutto ciò costruzione sociale.

Eppure, il mercato può funzionare solo se viene premiata la competenze, poiché in tal modo il venditore può fornire ciò che il compratore desidera ed è proprio il compratore a decidere chi premiare; la cultura Occidentale, per quanto abbia ancora molti difetti e non sia libera dai pregiudizi, è quella che concede le maggiori libertà agli individui; quelli che vogliono fare costruttivismo sociale, inventare paradigmi nuovi a seconda di come gira, a seconda di chi sembra più oppresso, sono proprio loro, i nuovi nemici della libertà, della tolleranza e della pace sociale: i post-modernisti, ossia i comunisti 2.0.

Stipendio Minimo, ossia come affossare il mercato del lavoro

Breve storia della follia socialista

Negli ultimi 20 anni i movimenti liberal* e progressisti statunitensi hanno chiesto al Congresso, sempre più insistentemente, prima l’approvazione, poi l’aumento, del Minimum Wage, il salario minimo garantito. Nel 2009, sotto la presidenza di Barack Obama è stato stabilito a livello federale un salario minimo garantito di $7,25 all’ora. Nonostante questo provvedimento drastico e discutibile, dal 2009 in poi, sempre più numerosi membri della sinistra americana sostengono che $7,25 non siano sufficienti e che, addirittura, bisognerebbe raddoppiare il Minimum Wage, portandolo a $15,00/h.

La sinistra liberal, i progressisti, e il partito Democratico in primis, credono che questa misura sia efficace e fondamentale per:

  • ridurre la povertà
  • ridistribuire ricchezza
  • garantire la possibilità di vivere dignitosamente anche lavorando full-time a salario minimo
  • creare posti di lavoro
  • aumentare la quantità di denaro circolante (e quindi i consumi)
  • ridurre i programmi di assistenza sociale

 

Questo provvedimento, come tutte le crociate di giustizia sociale, presenta tuttavia dei gravi difetti. Si concentra infatti sui risultati nel breve termine, è un salasso economico per le piccole-medie imprese. Inoltre distorcendo completamente il mercato e le sue leggi, ottiene l’effetto opposto ai propositi di partenza:

  • non riduce la povertà, la accresce
  • non ridistribuisce la ricchezza, la riduce
  • non crea posti di lavoro, crea disoccupati

 

Perché solo 15$/h? Perché non 45$/h?

Per capire l’errore di fondo del Minimum Wage e le sue nefaste conseguenze dobbiamo prima ricordare qual è il significato del salario.

Siamo pagati per i benefici e i miglioramenti che apportiamo alla società in termini materiali o morali. Lo stipendio, in quanto corrispettivo di questo miglioramento, tiene conto della complessità della mansione svolta, del relativo rischio, della sua unicità o peculiarità. È quindi evidente che un lavoratore scarsamente qualificato debba necessariamente avere uno stipendio inferiore rispetto a uno altamente qualificato. Questo non per fare un torto, ma perché la sua specifica mansione potrebbe essere svolta da una qualunque persona con una preparazione minima e senza particolari titoli di studio.

 

L’errore del Minimun Wage

Il Minimum Wage è una radicale distorsione delle necessità di mercato, della legge della domanda e dell’offerta e perfino dell’umano buon senso. Se l’attuale salario minimo di 7,25$/h è un provvedimento discutibile, 15$/h sarebbero un colpo devastante anche per un mercato del lavoro mobile ed elastico come quello statunitense. I più importanti difetti di questa misura sono:

  • aumento radicale del costo del lavoro e della manodopera
  • onere pesantissimo, soprattutto per le piccole-medie imprese
  • obbligo per i datori di lavoro di ridurre le ore di lavoro dei dipendenti per contenere i costi di produzione
  • fine per i giovani delle possibilità di trovare facilmente uno “starting job” ed inserirsi nel mondo del lavoro
  • contrazione della domanda di manodopera e aumento della disoccupazione
  • chiusura di attività produttive perché nell’impossibilità di sostenere l’aumento dei costi di produzione
  • ricorso a macchine per sostituire la manodopera umana ormai troppo cara

 

Per concludere, vorrei ricordare una delle più profonde e significative argomentazione della sinistra americana a favore del Minimun Wage, e cioè che chiunque, lavorando full-time da McDonald’s, dovrebbe essere in grado di condurre una vita dignitosa. Nonostante il lavoratore abbia tutta la mia simpatia, il problema è che, in un mercato del lavoro flessibile ed insaziabile come quello americano, in cui il tasso di disoccupazione ha toccato i minimi storici del 3,5%, non si dovrebbe anche solo lontanamente credere che McDonald’s possa o debba offrire posti di lavoro che permettano di vivere dignitosamente lavorando 40 ore a settimana.

 

 

*con il termine statunitense liberal si indica una corrente politica che in Europa verrebbe definita “socialista”. Il termine liberal non ha alcuna affinità con il Liberismo economico, il Liberalismo classico, o il Libertarismo americano.

 

 

Essere (felicemente) schiavi di se stessi

In questi giorni, si parla tanto di schiavi del lavoro, di dignità, di chiudere la domenica, di chi ha un salario troppo basso. Tutto ciò trascurando il fatto che esistono tantissime persone che decidono di essere padrone del proprio destino. Si tratta di una decisione responsabile, quella di puntare tutto su te stesso e di prendere in mano la tua vita, incurante di ciò che accade intorno a te.

Chi compie questa decisione spesso non rispetta un vero e proprio orario di lavoro, potrebbe lavorare sia in ufficio che a casa, anche solo per la programmazione del lavoro futuro. Ma prima di continuare vorrei riportare queste tre citazioni:

Sono convinto che circa la metà di quello che separa gli imprenditori di successo da quelli che non hanno successo sia la pura perseveranza. Steve Jobs

L’ingrediente critico è alzare le chiappe e metterti a fare qualcosa. È così semplice. Un sacco di gente ha delle idee, ma sono pochi quelli che decidono di fare qualcosa a riguardo subito. Non domani. Non la prossima settimana. Ma oggi. Il vero imprenditore è un uomo d’azione. Nolal Bushnell

Dietro ogni impresa di successo c’è qualcuno che ha preso una decisione coraggiosa. Peter Ferdinand Drucker

 

A coloro che parlano tanto di dignità e schiavi, siete consapevoli che tante di queste persone che hanno deciso di mettersi in proprio, sono obbligate a lavorare di giorno e pensare di notte?
Forse non sapete che tante di queste persone, che sono ancora agli inizi, si ritrovano costrette a dover far tanti sacrifici?
Questo perché l’imprenditore, il commerciante ed il libero professionista sono spesso (felicemente) schiavi di se stessi, alla ricerca di continue soddisfazioni personali, economiche e professionali.

Non hai datori di lavoro, non hai un giorno prefissato per la bustapaga, devi riuscire a coniugare il tuo guadagno con le tasse da pagare e, se si è imprenditori con dipendenti, pagare gli stipendi. Come detto in precedenza, fare impresa in Italia è roba da eroi e coraggiosi, perché chi ha il capitale da investire viene spesso scoraggiato dall’altissima pressione fiscale, e dalle spese per l’iter burocratico.

Rispetto ai nostri genitori, riscontro nei giovani un’ammirevole volontà di mettersi in gioco, di voler rischiare, di voler tentare una strada alternativa rispetto al declino italiano. Questo è di buon auspicio per tutta la nazione, in chiave futura, in quanto credo che per essere imprenditori non si debba necessariamente aprire un’azienda. Anche un operaio (o un dipendente) potrebbe essere imprenditore di se stesso.

Infatti esserlo non è soltanto una scelta, ma soprattutto un atteggiamento. In Italia ci hanno abituati a “vegetare” nella stessa azienda per 30-40 anni. In futuro sarà sempre più una rarità vedere un dipendente lavorare nella stessa azienda per tutta la vita lavorativa, proprio perché il lavoro diventerà sempre più flessibile e dinamico.

Ciò che stiamo vivendo in Italia è una fase del lavoro flessibile-statica, in quanto si cambia spesso lavoro, ma le retribuzioni sono le stesse, o persino più basse. Oggi riusciamo a raccogliere tante esperienze professionali, ma a questa esperienza non corrispondono stipendi più alti o impieghi più delicati ed importanti. Questo perché i contratti di lavoro tradizionali sono troppo carichi di tasse, sia per l’imprenditore che per il lavoratore, e sono troppo carichi di burocrazia, compresa la presenza (inutile?) dei sindacati.

Pertanto, occorre lavorare affinché il mondo del lavoro diventi flessibile e dinamico, in modo tale che anche chi ha un contratto a tempo indeterminato sia spinto a non accontentarsi del posto fisso, bensì a tentare qualcosa di nuovo, ed investirci sopra.

Adam Smith diceva che la forza lavoro è la prima proprietà privata dell’uomo, ma di questo parleremo un’altra volta.

Poll Tax, esperimento liberale malriuscito?

Chi mi conosce è perfettamente a conoscenza di quanto sia thatcheriano. Io adoro Maggie Thatcher, adoro la sua politica, adoro il suo carattere e, grazie anche alle tante letture sul suo operato, non potrei dire che avrei fatto qualcosa di diverso, rispetto a quanto ha fatto lei.

Non è solo una questione di idee. La politica non è così semplice come potrebbe apparire per alcuni accademici. Sono anch’io uno studioso, però ritengo che la politica, per quanto non sia per tutti, non è fatta solo di schemini, di matematica, di logica.

Scusatemi se prendo una citazione scritta per il calcio e il tifoso calcistico di Fabrizio Caramagna.

“Per un tifoso ci sono molte più terre inesplorate in un campo da calcio che in ogni altro angolo del mondo. E ogni partita è un viaggio alla scoperta di qualcosa di mai visto.”

Perché ho voluto riprendere questa citazione? Perché ritengo che sia la perfetta citazione del politico. Il politico, all’interno delle sue mure, ha una visione e un progetto ben preciso. Al di fuori, deve incontrare numerose esternalità. Il politico che avrà le capacità di gestire questo viaggio “misterioso”, riuscirà nel suo obiettivo. Il problema da non sottovalutare è quando il politico non è in grado di produrre un progetto ben preciso.

Non è il caso di Margaret Thatcher. Lei aveva un obiettivo ben preciso. Per raggiungerlo licenziava ministri, collaboratori, aveva mezzo partito contro. Margaret Thatcher aveva carattere, aveva una mentalità vincente e vinse tanto.

Il suo obiettivo era chiarissimo, specie se leggiamo una della sue storiche citazioni.

“Ho assunto la carica con un deliberato intento: cambiare la Gran Bretagna da società dipendente a società autosufficiente, da una nazione “dare-a-me” ad una nazione “fai-da-te”. Una Gran Bretagna “alzati e fai”, invece di una Gran Bretagna “siediti e aspetta”

Però alcuni liberali, quando sentono parlare della Thatcher, pensano solo ad una cosa: Poll Tax. Questa tassa viene considerata l’errore più grande della Thatcher. La macchia più grande del suo percorso politico.

In questo articolo, proverò a dimostrare perché la Poll Tax non è la classica tassa socialista; proverò a dimostrare perché la Poll Tax è una decisione liberale.
La premessa iniziale sul fatto che il politico debba vivere, ogni giorno, un viaggio misterioso è stata fatta proprio in riferimento alla Poll Tax.

La Poll Tax fu un esperimento straordinario liberale della Thatcher. Misura politica, purtroppo, irrealizzabile proprio perché esistono delle numerose variabili esterne. La Poll Tax è la dimostrazione che la teoria in politica non basta. Proverò a spiegare perché la Poll tax sia una politica liberista.

La Poll Tax era un testatico, una tassa sulla persona. Il presupposto della Thatcher era che considerava antimercato che i cittadini pagassero le tasse locali sulla base del reddito.

Esempio:
Cittadino A (reddito 100000). Per acquistare il pane spenderà 2.
Cittadino B (reddito 1000). Per acquistare il pane spenderà 2.
Perché per le spese locali, per ricevere lo stesso servizio perché il primo deve spendere il 30% e il secondo il 20%?

Pertanto, la Thatcher voleva che, come nel mercato, la tassa fosse personale. Il costo per te deve essere pari al mio. Non più proporzionale al reddito, ma allo stesso prezzo per tutti. Come nel caso del voto, se il mio voto ha lo stesso valore per te, anche le tasse devono essere di pari trattamento.

Una mossa audace ma molto rischiosa. La Poll Tax, sin da subito, riscontrava alcuni limiti difficili da colmare. Se nel mercato, il cittadino decide di acquistare un bene X volontariamente, quando si tratta di pagare le tasse, spesso e volentieri, il prelievo dello Stato è riscosso coattivamente. Per non parlare del fatto che se acquisto il pane è perché voglio soddisfarmi consumando il pane comperato. Nel caso delle tasse, i cittadini sono spesso costretti a pagare per soddisfare un’esigenza collettiva, piuttosto che personale.

Inoltre, il secondo problema della Poll Tax era dovuto al fatto che diventa una tassa insufficiente se lo Stato ha una spesa pubblica medio-alta. Se la tassa è individuale, quindi alla portata di tutti (per esempio, 100€ all’anno per tutti), deve essere drasticamente abbassata per tutti. Un aspetto sicuramente positivo, soprattutto per noi liberali che vogliamo una tassazione minima, ma difficilmente applicabile nel brevissimo futuro, se pensiamo all’Italia e ad alcuni paesi europei.

Il terzo problema è dovuto al fatto che la Thatcher aveva dato libertà ai consigli locali di applicare liberamente l’aliquota della Poll Tax, con il risultato inevitabile che qualche governo locale esagerò, provocando disordini sociali. Questo terzo problema sarebbe stato evitato se il governo avesse imposto, sin da subito, dei limiti ben precisi alla scelta dei governi locali.

In conclusione,
Possiamo tirare tre Pro e tre Contro, in riferimento alla Poll Tax della Thatcher.

PRO

La Poll Tax rispetta il reddito del cittadino, in quanto la tassa è personale e uguale per tutti.
La Poll Tax tende ad abbassare drasticamente la pressione fiscale locale.
La Poll Tax presuppone un livello basso di spesa pubblica.

CONTRO

La Poll Tax non tiene conto delle diverse dinamiche che esistono nel rapporto cittadino/mercato rispetto al rapporto cittadino/stato.
La Poll Tax funziona se lo Stato ha un livello di spesa pubblica ai minimi storici.
La Poll Tax, visto che si tratta di una tassa alla portata di tutti, è una tassa insufficiente per soddisfare le esigenze statali.

Quando Cavour convinse il parlamento a costruire la TAV

Riportiamo il discorso parlamentare tenuto dal Presidente della Camera Camillo Benso di Cavour il 27 Giugno 1857; all’opposizione, contrari al Traforo del Moncenisio (esattamente dove oggi sarebbe il traforo per la TAV), molti parlamentari guidati dal Deputato Moia, che sia per assonanza sia per l’ideologia si potrà scambiare per qualche politico odierno.

« Signori, l’impresa che noi vi proponiamo, non vale il celarlo, è impresa gigantesca; la sua esecuzione dovrà però riuscire a gloria e a vantaggio del paese.
Ma se le difficoltà che si debbono incontrare sono molte, non è meno grande la speranza che abbiamo di poterle vincere. Le grandi imprese non si compiono, le immense difficoltà non si vincono che ad una condizione, ed è che coloro a cui è dato di condurre queste opere a buon fine, abbiano una fede viva, assoluta, nella loro riuscita.

Se questa fede non esiste, non bisogna accingersi a grandi cose né in politica, né in industria; se noi non avessimo questa fede, non verremmo ad insistere avanti a voi chiamando sul nostro capo una così grave responsabilità.

Se fossimo uomini timidi, se ci lasciassimo impaurire dal pensiero della responsabilità, potremmo adottare il sistema del deputato Moia [=rinunciare per potenziare altre linee].

Voi mi direte, o signori, dove noi, che in qualità di uomini di Stato non dovremmo lasciarci dominare dall’immaginazione, dove abbiamo attinta questa fede, che in certo modo può, se non trasportare, almeno traforare i monti. Ve lo dirò.

Noi abbiamo fede nel giudizio di una Commissione la quale conta nel suo seno scienziati di prim’ ordine, ingegneri abilissimi, giovani professori di un tal merito, che in pochi anni sono passati dal banco della scuola al seggio dell’Accademia; uomini nei quali, prima dell’ esame dei metodi impiegati, regnava forse uno scetticismo pari a quello del deputato Moia. Ebbene, noi abbiamo fede in questo giudizio.

Finalmente lo dichiaro altamente, io ho fiducia negli ingegneri proponenti l’impresa, e l’ho perché conosco,  sia come ministro sia come privato,  la loro capacità e la loro onestà.
Io mi lusingo, o signori, che voi condividerete questa nostra fiducia. Io spero che darete un voto deciso. Se un dubbio vi tormenta che nelle viscere della montagna che si vuol squarciare si nasconda ogni maniera di difficoltà, di ostacoli e di pericoli, rigettate la legge; ma non ci condannate ad adottare una via di mezzo, che sarebbe in questa contingenza fatalissima.

Se voi ora adottaste la proposta di Moia, inaugurereste assolutamente un altro sistema; ed io ne sarei dolentissimo, non solo perché andrebbe perduta questa stupenda opera, ma perché un tale atto sarebbe un fatale augurio per il futuro sistema politico che sarà chiamato a seguire il Parlamento.

Noi avevamo la scelta della via; abbiamo preferito quella della risoluzione e dell’arditezza; non possiamo rimanere a metà; è per noi una condizione vitale, un’alternativa impreteribile : o progredire, o perire.

Noi non dubitiamo che, non solo la Camera e il paese nostro, ma l’Europa intiera condividerà la nostra fede nella riuscita dell’impresa.

Io nutro ferma fiducia che voi coronerete la vostra opera colla più grande di tutte le imprese moderne, deliberando il perforamento del Moncenisio. »

 

La Camera approvò il provvedimento con 98 voti favorevoli e 30 contrari. Alcune settimane dopo Cavour andò sul luogo dei lavori  «dove lo attendevano con le rappresentanze delle Camere e dell’ esercito gli ingegneri e i direttori dell’ impresa, il principe Napoleone ed una folla di popolo festante».

Cina e la libertà: una strada senza ritorno

Quando pensiamo alla Cina come Paese, due immagini subito ci vengono in mente: lo stato totalitario e la superpotenza economica. Ed è questa doppia dimensione che continua a sconcertare politici e intellettuali in tutto l’Occidente, abituati a vedere unite libertà e progresso economico. E ad inquietare molti di noi, davanti alla prospettiva di uno Stato ricco e autoritario come mai si è visto prima.

Quando 40 anni fa la Cina decise di aprirsi progressivamente al libero commercio e alla proprietà privata, molti analisti pensarono che fosse solo questione di tempo prima che l’Impero di Mezzo diventasse una democrazia. La repressione operata dopo le rivolte di piazza Tienanmen raffreddò gli animi, ma a lungo restò un ottimismo di fondo. Eppure, con il passare degli anni il controllo del Partito Comunista Cinese (PCC) restò saldissimo e l’entusiasmo si affievolì fino a spegnersi, anche tra i sinologi più esperti.

Cosa pensare dunque? La Cina sembra sfuggire alle nostre categorizzazioni e alle nostre idee preconcette; siamo di fronte a un nuovo modello politico, in grado di coniugare stabilmente autoritarismo politico e libertà economica? Nel mondo accademico molti ne sono oramai convinti; la Cina, dicono, non può essere analizzata con le nostre categorie “occidentali” e deve essere considerata un modello a parte. Si parla delle specificità cinesi, della sua cultura millenaria, per spiegare come mai non segua i comportamenti attesi; e ci si chiede se lo stesso valga per i Paesi arabi e africani. Siamo, insomma, di fronte alla relativizzazione della democrazia e della libertà. Il punto è che tutto questo è completamente errato. Oltre ad essere molto pericoloso.

La visione che in Occidente si ha della Cina è falsata da due pregiudizi: il primo è che in Cina non esista alcuna libertà personale, o comunque che sia molto limitata; il secondo è che il PCC abbia un controllo totale sul Paese. Entrambe queste idee sono infondate.

Partiamo dalla prima: nel 1976, alla morte di Mao, la Cina era uno stato totalitario, dove non esisteva neanche il concetto di libertà individuale o proprietà privata. Oggigiorno, è un Paese con una classe media in forte espansione, dove le persone possono vivere e lavorare in maniera del tutto analoga a quanto facciamo noi; per molti occidentali che vi si trasferiscono, la differenza con gli Stati Uniti o l’Europa è trascurabile. La ragione è che da molti anni a questa parte il Partito Comunista ha rinunciato all’idea di dominare ogni aspetto della vita dei propri cittadini, puntando invece a mantenere un saldo controllo sul potere politico. I cittadini cinesi sanno che non saranno disturbati in alcun modo fintanto che si terranno fuori dall’agone politico, ma che subiranno pesanti conseguenze se dovessero violare questo “patto[1].

Le stesse strategie di repressione si sono evolute e sono diventate molto più raffinate: i dissidenti affrontano esili, incarcerazioni, licenziamenti, ostracismo sociale, con l’obiettivo di isolarli e renderli inoffensivi; ma non sono più fucilati in massa, né vi sono stragi di piazza come nel 1989. Il regime permette e incoraggia anzi un certo livello di confronto sui media e nell’opinione pubblica, fintanto che non si mettono in discussione il sistema stesso o i massimi esponenti del Partito: in questo modo offre una valvola di sfogo ai critici e ottiene una migliore comprensione su dove intervenire nel Paese.

Passiamo ora al secondo punto. Come detto, il PCC ha affrontato una profonda trasformazione negli ultimi 40 anni e ha totalmente cambiato fisionomia, dimostrando la propria flessibilità. Non controlla più direttamente tutto il sistema economico, ma si accontenta di influenzarlo cooptando dirigenti e imprenditori e imponendo membri del partito in punti chiave delle grandi aziende. Il sistema giudiziario è teoricamente indipendente, ma i giudici possono essere rimossi o spostati a piacimento dal regime, che indirizza come vuole le sentenze. I media sono pesantemente censurati, un esteso sistema di sorveglianza fisico e digitale monitora la cittadinanza e tutti i membri del Partito stesso sono a loro volta controllati da un onnipotente organismo chiamato Dipartimento Organizzazione, che ne valuta la fedeltà e dispone ricompense e punizioni.

Agli occhi dell’Occidente, sembra spesso un moloch impossibile da abbattere, un mostro tentacolare capace di controllare e soffocare ogni possibile rivale politico… ma non è così.

Il PCC ha invece diverse grosse difficoltà: la corruzione continua a essere molto alta ed è ormai impossibile fermare la diffusione di notizie sugli scandali; coniugare gli interessi divergenti di industrie e province è sempre più complesso ed è causa di forti dissidi interni; ultimamente, poi, è diventato complesso tenere a bada il nazionalismo dell’opinione pubblica. Ma, soprattutto, il Partito affronta una “crisi di vocazione” senza precedenti: coloro che entrano a farne parte e raggiungono posizioni di vertice provengono da classi sociali elevate, poco rappresentative della popolazione, e hanno scarsa fede nella dottrina socialista; alcuni hanno un generico nazionalismo, altri sono puramente interessati al potere e alla ricchezza che l’adesione al PCC offre.

Sotto il suo aspetto minaccioso, il regime cinese è molto fragile e si tiene in piedi grazie a due fattori: il favore popolare dovuto al continuo progresso economico e la paura – sia della repressione che della libertà. E tutto questo non può durare in eterno. Ad un certo punto vi sarà una crisi economica importante e il regime sarà messo in discussione; o forse crollerà dall’interno, a causa di lotte intestine ormai fuori controllo. Il fatto è che il PCC non può più ignorare le forze economiche e sociali all’interno del Paese, che sono cresciute grazie alla svolta di Deng Xiaoping: la strada verso la libertà è senza ritorno.

[1] Fanno eccezione le comunità religiose, che in molti casi continuano ad essere perseguitate.

Chiara Ferragni, nuova icona capitalista?

Nell’aprile 2018, la più famosa fashion blogger del mondo Chiara Ferragni, era valutata come nome-brand con il valore di oltre 36 milioni di euro. Ma chi è Chiara Ferragni?

Se il popolino di stampo socialista, quel popolino invidioso della ricchezza e dei profitti altrui, preferisce deriderla o prenderla in giro costantemente, ritengo che stiamo parlando di una nuova e vera icona del capitalismo, italiano e mondiale.

Chiara Ferragni nasce il 7 maggio 1987 in Lombardia, esattamente a Cremona e dal 2009 è un’imprenditrice. Dopo essersi resa conto che postare le sue foto con abbigliamenti vari producevano un buon riscontro, decide nel 2009 di avviare, insieme a Riccardo Pozzoli, un progetto, quasi rivoluzionario. Nasce nel 2009 il blog The Blonde Salad, il primo e vero autentico sito di fashion influencer. Pozzoli e Ferragni riescono a coniugare le esigenze delle aziende di abbigliamento, il produttore, con chi acquista e sceglie cosa indossare, il consumatore.

Il risultato è sconvolgente. Nel giro di pochi anni, Chiara Ferragni ottiene risultati straordinari. Tutto ciò che tocca, diventa fantastico per i suoi follower, diventa magico per i suoi sponsor. Nel giro di pochi anni, diventa Global Ambassador di prestigiose aziende mondiali, come la Pantene, Amazon Moda, Swarovski, Intimissimi.

Oltre ad aver creato un nuovo lavoro, quello della fashion blogger, Chiara Ferragni è riuscita a creare un’azienda intorno alla sua immagine. Il numero delle persone che lavorano per lei è sempre più alto. Non si limita solo a sponsorizzare un’azienda, ma le sue trovate imprenditoriali sono sempre più originali . Con la Mattel raggiunge l’accordo di creare una Barbie con la sua immagine. Recentemente, la ragazza cremonese raggiunge l’accordo con l’azienda Evian, famosa azienda francese di acque minerali, di creare un’edizione speciale di bottiglie di acqua, con il certificato “Chiara Ferragni edition“, dal costo speciale di 8 euro.

Chiara Ferragni è una vera e propria capitalista, una vera e propria icona del capitalismo tanto odiato dai socialisti. Basta vedere nei luoghi socialisti, quanta invidia, quanto disprezzo verso una donna che è riuscita a creare un nuovo modo di fare business e arricchirsi con questo business. Ogni suo gesto, ogni suo accordo commerciale, riesce sempre a far discutere, nel bene e nel male. Il suo matrimonio con Fedez, l’acqua con il costo di 8 euro, la Barbie con le sue fattezze, sono solo una parte del genio di Chiara Ferragni.

Se i socialisti preferiscono parlare di cose tristi, facciano pure. Loro amano la povertà, noi amiamo la ricchezza e l’accumulo di essi. Non solo non siete in grado di capire che cosa voglia dire “fare profitto”, ma disprezzate chi riesce a farlo in modo straordinario.

Voi, popolino socialista, preferite denigrare chi si arricchisce, ma vi dimenticate che sono proprio le persone come Chiara Ferragni che, ingiustamente, vi permettono di vivere di assistenzialismo. Ogni cosa che tocca la Ferragni diventa oro per tutti, ogni cosa che toccate voi socialisti diventa debito e tasse per tutti gli altri.

In questo caso, desidero concludere con una citazione della nostra cara Margaret Thatcher:

“Non si può costruire una grande nazione spargendo invidia e odio verso il prossimo, come fanno i socialisti. Noi siamo per una politica sulla libertà del cittadino, cercando di incoraggiarlo e di incoraggiare l’energia e l’iniziativa. Ci appelliamo alla libertà e all’autodeterminazione”

Quante bugie sullo sfruttamento dei lavoratori

Si è detto e ridetto di tutto sul tema dello sfruttamento. Ieri come oggi si tende a parlare di numerose tematiche in riferimento al lavoratore sfruttato sul posto di lavoro. In particolare, viene associato il tema sullo sfruttamento alle politiche neoliberiste che sarebbero state attuate dai governanti, in Italia e in Europa. Ne parlò Marx rispetto alle condizioni in cui vivevano i lavoratori durante il boom della rivoluzione industriale, ne parlano oggi i socialisti e i collettivisti quando pensano a certe realtà, come Amazon.

Per il socialista, sfruttamento del lavoratore vuol dire che siamo in un’economia capitalista e liberista. Una sentenza del genere, ritengo sia una sentenza molto illusoria e molto ingenua. Ma andiamo per ordine.

Innanzitutto, in un’economia liberista e capitalista si presuppone che chiunque sia un lavoratore, a prescindere dal suo ruolo all’interno dell’azienda. Il capitalista o l’imprenditore di turno, non solo gestisce l’azienda, non solo è il proprietario dell’azienda, ma è anche un lavoratore. Non solo, ma in un’economia liberista e capitalista, si presuppone che chiunque sia un capitalista. Basti pensare a quante persone, nonostante non abbiano mai gestito un’azienda, si ritrovano in situazioni in cui si comportano come dei capitalisti, vedi Subito.It.

[…] lo sfruttamento quale “essenza” dell’economia borghese è un vuoto assoluto circondato di chiacchere
Sergio Ricossa

Diceva molto bene Sergio Ricossa. Alla sua citazione, aggiungerei, anche di ipocrisia. Nonostante l’Italia sia stata dominata, nel corso della sua storia repubblicana, dal pensiero socialcomunista e cattolico, chi si lamenta dello sfruttamento dei lavoratori in Italia, sono proprio i socialcomunisti e i cattolici.

Lo sfruttamento dei lavoratori è un fenomeno che esiste, ma che esisterebbe in qualsiasi sistema politico. Se non vi convince abbastanza saper che l’Italia non è un paese liberista e capitalista (lo dimostrano gli indici di libertà economica), vi consiglierei di leggere alcuni pensieri politici, prevalenti anche negli ambienti del governo. Mi riferisco al pensiero socialnazionalista, nel quale l’individuo si deve “sottomettere” per il bene della nazione. Più sfruttato di così. Allo stesso tempo, ritengo che sia fisiologico e normale che esistano dei capitalisti sfruttatori.

Quindi, se è un dato di fatto che lo sfruttamento del lavoratore è possibile in qualsiasi sistema politico, è opportuno capire come mai i socialcomunisti non abbiamo mai smesso di denunciare le fantomatiche politiche neo-liberiste. Non si dovrebbe mai fare di tutta l’erba un fascio, ma direi che i politici socialcomunisti siano delle persone pessimiste e diffidenti nei confronti del prossimo. Amano il collettivismo, ma diffidano del comportamento di uno dei membri del collettivo.

Lo sfruttamento dei lavoratori viene considerato un fenomeno figlio dell’iniziativa privata, della voglia di profitto, della voglia di fare imprenditoria, proponendo come soluzione finale, la fine della proprietà privata e l’intervento sempre più decisivo dello Stato sulle dinamiche di mercato. Non possiamo pensare di bloccare un processo naturale di progresso economico per un fenomeno che è sempre esistito e che sempre esisterà. Le politiche di flessibilità del lavoro non sono un apriporte allo sfruttamento del lavoratore. Non possiamo pensare di tutelare un lavoratore, indebolendo il processo decisionale del datore di lavoro.

Individuare il capitalismo e il libero mercato come responsabili dello sfruttamento presente in Italia oppure nel Terzo Mondo è davvero una perdita di tempo, oltreché pura ingenuità. Una volta, un socialista di nome Tinbergen, premio Nobel per l’economia, affermò:

” Una filosofia (quella socialista) fondata sull’invidia non è l’atteggiamento più saggio né più comprensivo da avere nella vita”

Inutile dire che questa frase calzi davvero “a pennello“.

Se il pensiero socialista si fonda soprattutto sull’invidia, il pensiero liberista si fonda sulla competizione, sulla meritocrazia, sul riconoscimento. Essere sfruttati non è obbligatoriamente un fenomeno negativo. Se io vengo sfruttato perché ho dei valori da esprimere, ritengo sia una cosa positiva. Se io lavoratore vengo sfruttato a dovere dal datore di lavoro perché quest’ultimo è convinto che io un potenziale da esprimere, perché dovrei provare invidia, odio per chi crede in me?

Ma chi propugna politiche socialiste non lo capirà mai. Forse, perché non ha mai lavorato in vita sua e non sopporterebbe di essere alle dipendenze di qualcuno, specie per lavorare.

Perché non possiamo (e non dobbiamo) essere “liberal”

Già decenni or sono uno dei padri del pensiero liberale, Friedrich Von Hayekdeprecava il furto del termine “liberal” da parte dei movimenti di sinistra americani. Non c’è da sorprendersi, dunque, se oggi a definirsi “liberal” siano figure come Bernie Sanders, Michael Moore e Alexandria Ocasio-Cortez, le quali nulla hanno da spartire con coloro che credono veramente nella libertà. Al di là della somiglianza fonetica, infatti, il liberalismo americano è quanto di più lontano vi sia dal Liberalismo.

Cominciamo quindi dalla base su cui si fonda tutta l’ideologia liberal, la giustizia socialeLa giustizia sociale è la scusa dietro la quale sono pronti a trincerarsi i socialisti per giustificare le loro misure più scellerate. L’idea di base è giusta: tutti gli individui devono essere messi in condizione di poter realizzare pienamente il proprio potenziale.

I liberali rispondono a questa esigenza con la meritocraziail che significa uguaglianza di opportunità: a chi possiede talento e spirito di sacrificio dev’essere offerta l’opportunità di elevarsi, ma solo l’opportunità. Non si possono e non si devono eliminare le disuguaglianze, dal momento che ogni individuo è diverso dall’altro, ma si può e si deve lavorare per “livellare il piano di gioco”.

La risposta dei liberal, invece, è per l’appunto la giustizia socialeuguaglianza di esiti. Non importa che per natura esistano persone più dotate ed altre meno, tutti devono ottenere gli stessi risultati, anche a costo di abbassare gli standard accademici o lavorativi, tutti devono guadagnare lo stesso stipendio, tutta la società dev’essere omologata.

A causa delle peculiarità della storia americana, poi, la giustizia sociale dei liberal si è tinta di razzismo. Da qui il “white privilege”, l’idea assurda che demonizza i bianchi (peggio se maschi, peggio se eterosessuali), e riduce a vittime le minoranze, rendendo di fatto impossibile qualsiasi vera emancipazione.

Se poi un individuo parte di una minoranza decide di non considerarsi una vittima, e di non aderire all’ideologia liberal, diventa oggetto di disprezzo, se non di odio. Lo sanno bene gli afroamericani che votano per il GOP.

A dispetto di quanto auspicato da Martin Luther King, ed in antitesi con qualsiasi principio liberaleil colore della pelle è tornato ad essere il criterio in base al quale assegnare un valore agli individui, tutto ciò con il plauso dei “Social Justice Warrior” affiliati ai liberal. E l’odio razziale fomentato dai SJW è solo l’inizio.

Il conflitto fra i bianchi e le minoranze, infatti, è secondario nella loro visione del mondo rispetto al conflitto storico, quello fra ricchi e poveri. L’idea marxista della lotta di classe si sta imponendo sempre di più negli ambienti liberal, soprattutto grazie al successo dei Socialisti Democratici.

Anche in America, tuttavia, l’amore per i poveri dei socialisti (cioè dei liberal) è superato dal loro odio per i ricchiQuel che è peggio, gran parte dei media è in mano loro, ed essi usano questo potente mezzo per diffondere le loro idee. Basta dare un’occhiata alla cinematografia degli ultimi anni.

Il cattivo per eccellenza, nei film che vediamo, è l’uomo d’affari, l’imprenditoreQuesta figura viene quasi sempre dipinta come un Gordon Gekko, una specie di sociopatico che rovina le vite della gente comune per il proprio tornaconto.

Anni di propaganda hanno dato i loro frutti. Oggi, proprio nel Paese che ha sconfitto l’Impero del Male, una fetta sempre più vasta della popolazione preferisce l’economia pianificata alla libera impresail marxismo al capitalismo. La cosa peggiore è che si tratta soprattutto di giovani, gli stessi che vanno ad ingrossare i ranghi dei Socialisti Democratici.

In conclusione, il rimprovero di Hayek ai liberali americani è oggi più valido che mai. Questi, permettendo ai socialisti di impadronirsi della propria terminologia, hanno dato loro gli strumenti per influenzare la coscienza popolare senza dare troppo nell’occhio. Potremmo dire infatti che solo recentemente i liberal sono usciti allo scoperto, ma ormai il danno è fatto.

Tuttavia, non è detta l’ultima parola. Se non altro, ora che l’inganno è stato svelato è possibile cominciare a combattere questa confusione ideologica, e forse arriverà il giorno in cui gli americani che credono veramente nella libertà potranno tornare a chiamarsi con il loro nome, liberali“liberal”.

Serena Williams e l’eguaglianza nel tennis

La finale femminile degli US Open di tennis vedeva contrapposte Serena Williams, americana di 36 anni, contro una ventenne giapponese (ma cresciuta negli States), Naomi Osaka. Per chi non seguisse il tennis, Serena Williams è unanimemente considerata fra le più grandi giocatrici della storia, se non la più grande. Era la ovvia favorita, nonostante fosse tornata a giocare solo da pochi mesi dopo aver portato a termine la sua prima gravidanza.

La partita ed il suo risultato sarebbero rimasti normalmente confinati nel mondo degli appassionati, se non fosse stato per il feroce litigio fra Williams e Carlos Ramos, arbitro della finale.

La campionessa americana ha ricevuto 3 warning durante il match, finendo penalizzata con un intero game[1], l’ultimo dei quali per aver accusato l’arbitro di essere un ladro. Da appassionato, l’episodio mi era sembrato sul momento poco rilevante: è successo molte volte che giocatori abbiano ricevuto warning e conseguenti sanzioni, e spesso i giocatori le ritengono ingiuste e protestano platealmente a riguardo.

La novità è stata l’accusa di sessismo rivolta all’arbitro, dopo il match, da Serena Williams; l’americana ha sostenuto che Ramos non avrebbe mai punito così severamente un uomo e che il trattamento ricevuto è stato ingiusto. L’accusa sembra francamente incredibile a chi segue lo sport: non solo i maschi vengono abitualmente sanzionati di più (solo in questo US Open, 23 warning a 9), ma lo stesso Ramos, noto per la sua rigidità, si era scontrato in passato anche con grandi campioni maschi come Nadal e Djokovic. In maniera interessante, però, Serena ha ricevuto  l’appoggio sia della USTA (federazione tennistica americana) che della WTA (associazione giocatrici) [2]; la sua querelle in campo è ora diventata una battaglia di equità fra i sessi.

Il tennis è sempre stato all’avanguardia nelle battaglie femministe, ma questo non vuol dire che alcune lotte non siano eccessive e fuori bersaglio. Intendiamoci, il sessismo nel tennis esiste: ad esempio, la giocatrice francese Alizé Cornet è stata sanzionata proprio durante gli US Open per essersi cambiata la maglietta in campo, nonostante i suoi colleghi maschi lo facciano tranquillamente (la sanzione è stata poi cancellata, con le scuse dell’organizzazione); ed anni fa il torneo di Montréal utilizzò manifesti parecchio infelici per promuovere il tennis femminile.

Il problema è che la lotta sotto la bandiera dell’eguaglianza copre ormai ogni cosa: dalle polemiche poco credibili di Serena Williams contro l’arbitro a una questione ben più importante come i montepremi dei principali tornei; su quest’ultimo tema vorrei in particolare concentrarmi.

Il tennis è l’unico grande sport al mondo che prevede un montepremi uguale fra uomini e donne nei grandi tornei, che sono quasi tutti “combined”, cioè ospitano sia una competizione maschile che una femminile. La battaglia per la divisione paritaria dei montepremi cominciò negli anni ’70 grazie alla lotta della celebre tennista Billie Jean King; nei decenni seguenti si è sostanzialmente conclusa con l’adeguamento generalizzato dei montepremi femminili a quelli maschili. La lotta di King è diventata nel tempo un simbolo del femminismo, e tuttavia dobbiamo chiederci: è giusta questa battaglia?

Partiamo con una premessa: i compensi che noi percepiamo non dipendono solo dal tipo di lavoro svolto o dall’impegno che vi profondiamo, ma anche e soprattutto da quanto il mercato è disposto a pagare per il nostro lavoro.

Non è facile avere dati precisi sulla popolarità del tennis maschile rispetto a quello femminile (anche per via dei tornei combined), ma quelli di cui disponiamo forniscono risposte chiare: nel 2014, i ricavi del tour[3] maschile erano più alti di quello femminile di quasi il 50%[4], e nel 2016 l’ATP Tour fu seguito da quasi un miliardo (968 milioni) di spettatori in TV[5], mentre un anno dopo, pur con un trend in crescita, la WTA era seguita da circa 500 milioni[6] (non ho trovato dati per il 2016, ma nel 2015 erano 395 milioni[7]). Gli uomini attirano più spettatori e generano dunque maggiori ricavi, e ci si aspetterebbe che i montepremi vengano divisi su questa base; e invece ciò non avviene.

La divisione equa dei montepremi va a svantaggio degli uomini ed è in effetti un unicum nei grandi sport professionistici: nel calcio, nel basket o nel golf non vi è parità, né vi sono lotte per ottenerla. La situazione oltretutto va a danneggiare principalmente i tennisti di medio-bassa classifica; per un grande giocatore intascare 1 milione di dollari per la vittoria di uno Slam invece che 1,5 o 2 non fa molta differenza, tanto più che i veri guadagni arrivano dagli sponsor.

Molto diversa è invece la situazione per i giocatori di livello minore, per i quali un aumento del 50% dei propri guadagni può fare la differenza fra poter continuare a competere o doversi ritirare: il tennis è uno sport molto costoso e si calcola che solo i primi 150 giocatori al mondo riescano a stare in positivo fra entrate e uscite; per tutti gli altri giocare significa perdere soldi, nella speranza di arrivare un giorno a un livello sufficiente da ripagare l’investimento.

Alcuni giocatori di seconda fascia hanno provato a lamentarsene (Gilles Simon e Sergiy Stakhovsky, per citarne due); il risultato è stato aspri rimproveri aspramente da colleghi/colleghe e opinionisti vari, e nessun seguito è stato dato alle loro proteste.

Al momento, non sembra probabile che vi sarà alcun cambiamento nel breve periodo. Perché le regole di suddivisione vengano cambiate, servirebbe una protesta complessiva di tutto il movimento tennistico maschile, che coinvolga anche e soprattutto i grandi nomi; tuttavia, giocatori come Djokovic, Federer o Nadal sono comprensibilmente restii a capitanare un movimento del genere, visti i potenziali danni d’immagine[8].

Eppure il problema resta e aiuta a comprendere meglio un concetto fondamentale: imporre l’uguaglianza sostanziale significa negare la giustizia.

 

Note:

[1] Per chi non conoscesse bene le regole, nel tennis l’arbitro può comminare dei “warning” ai giocatori che infrangono una norma del regolamento; i warning non portano a sanzioni di per sé, ma per effetto cumulativo: al primo warning non succede nulla, al secondo si perde un punto, al terzo un game, al quarto l’intera partita

[2] L’ITF, federazione internazionale di tennis, e gli stessi US Open hanno invece appoggiato l’arbitro

[3] Il tennis, sia maschile che femminile, è organizzato in tour di durata annuale, con una serie di tornei, in diverse città mondiali, da Gennaio a Ottobre-Novembre

[4] https://www.sportsbusinessdaily.com/Journal/Issues/2015/11/23/Leagues-and-Governing-Bodies/ATP-revenue.aspx

[5] https://www.atpworldtour.com/en/news/atp-world-tour-250-media-rights-2017

[6] http://www.wtatennis.com/ABOUT-WTA

[7] http://www.wtatennis.com/content/wta-global-interest-all-time-high-0

[8] Un paio di anni fa il serbo Novak Djokovic, all’epoca n°1 del mondo, aveva provato ad affrontare timidamente l’argomento, ma aveva fatto quasi subito marcia indietro, dopo le forti polemiche suscitate (https://www.gazzetta.it/Tennis/ATP/23-03-2016/tennis-djokovic-si-scusa-facebook-le-polemiche-sessiste-premi-1401125743847.shtml)