Giornalismo: il cane da guardia del potere

Siamo tutti cresciuti con la dicotomia destra e sinistra. L’estrema destra fascista contro l’estrema sinistra comunista. Che tu ti muova verso destra o verso sinistra sulla scala politica il punto di arrivo è lo stesso: uno stato enorme.
Non è un caso che la lotta politica rappresentata dai mainstream media interessi due entità che non mettono in dubbio l’istituzione statale ma bensì la rafforzano.
La lotta politica attuale è uno specchietto per le allodole. Lo stato ha usato il giornalismo (e l’istruzione) per far uscire di scena l’unico attore che ne minava l’esistenza: il liberalismo (e gli ha pure rubato il nome).

COME HA FATTO?

Prima dell’avvento delle tecnologie di informazione e comunicazione (ICT), l’offerta sul mercato dell’informazione era molto limitata. Ciò permetteva di tenere i prezzi relativamente alti.
Per leggere le ultime news su un quotidiano dovevi spendere 1500 lire. Per riceverle dalla tv o dalla radio pagavi le tasse. Gli introiti erano abbastanza non solo per retribuire i giornalisti ma anche per fare dell’informazione un business redditizio.

Perchè l’offerta era limitata? Perchè l’informazione è potere. Controllare il popolo senza limitare l’informazione è impossibile.
Lo stato ha sempre sfruttato i canali di informazione pubblici e anche quelli privati (attraverso scambi di favori con le lobby) per fare propaganda.

Essendo proprietario delle infrastrutture tecnologiche che ne permettono il funzionamento, ha sempre eretto e controllato le barriere all’entrata del mercato.
Ha sempre filtrato e bloccato le iniziative private scomode.

Tutti questi canali di informazione offrivano un, limitato e oculatamente selezionato, spettro di opinioni e punti di vista.

Il giornalismo non è mai stato il garante della democrazia bensì il cane da guardia del potere.

L’INFORMAZIONE OGGI

Le cose sono cambiate. Internet ha distrutto le barriere all’entrata, chiunque può creare un canale di informazione senza dover passare dai “custodi della verità”.
E’ arrivata la concorrenza e si è riaperto il mercato delle opinioni.
L’aumento di offerta sul mercato dell’informazione ne ha fatto crollare il prezzo costringendo i vecchi attori al quasi-fallimento.
Quasi, non perchè si siano svegliati ma perchè sono stati salvati dai politici prima che potessero tirare l’ultimo respiro.
Non potevano fare diversamente: lasciare morire il proprio cavallo voleva dire perdere la gara.

Oggi il mercato dell’informazione è spietato e ha margini minimi. In questo ambiente estremo, i mainstream media stanno provando diverse strategie di sopravvivenza:

  1. Essere alla mercè delle forze politiche.
    I politici gestiscono i miliardi delle tasse dei cittadini. Sono ben felici di aiutare i media che ne facilitano la carriera.
  2. Polarizzare il panorama ideologico.
    Possiamo anche definirla “Hooliganizzazione”. Un ultras che va sempre allo stadio, compra il pay per view in tv e ha pure le mutande coi colori della squadra fa incassare molti più soldi rispetto a un tifoso occasionale o moderato. L’ultras ama alla follia la propria squadra e odia quella nemica. Stessa cosa vale per le fazioni politiche. Più i media riescono a creare “ultras” irrazionali più incassano.
  3. Click bait professionale.
    Non solo titoli accattivanti per spingere gli utenti a cliccare in modo da ottenere ritorni pubblicitari, ma articoli sensazionalisti studiati per creare fobie, manie, ossessioni.
    Un cambiamento climatico catastrofico e imminente che crea ambientalisti fanatici e suscita forti emozioni fa incassare di più di un cambiamento climatico incerto.
  4. Fake news e hate speech. Questi ultimi due sono l’arma definitiva partorita dalla simbiosi tra mainstream media e politica per riprendere il controllo della narrativa dominante. Meritano un articolo a sè che verrà pubblicato prossimamente.

 

 

Privatizzazioni e monopoli: a sbagliare è sempre lo Stato

Nazionalizziamo!1!!111!

Il tragico avvenimento del crollo del ponte Morandi a Genova si è purtroppo trasformato nel pretesto ideale per la boriosa massa degli statalisti feroci per chiedere a gran voce la nazionalizzazione delle autostrade italiane.

Il presunto fallimento del gestore privato è dunque la riprova definitiva del fallimento del liberismo, del regime di concorrenza perfetta, delle privatizzazioni. Il mercato ha fallito e lo Stato deve tornare ad essere proprietario e gestore delle infrastrutture nazionali (cosa che detta dai fautori del NO categorico ad ogni investimento per le grandi opere fa già abbastanza ridere).

Inoltre, è di questi giorni la notizia che il Regno Unito, dopo le privatizzazioni “selvagge” operate dal governo Thatcher, sta riconsiderando la nazionalizzazione del sistema ferroviario britannico. Non è forse questa la prova definitiva del fallimento del privato? Non è forse questo il segno definitivo della necessità dell’intervento dello Stato nella gestione delle infrastrutture (prima) e dell’economia (dopo)?

Beh, no.

Il principale errore dello statalista (o del socialista/comunista) medio è credere questo: gli infami Liberali sono per la privatizzazione indiscriminata a prescindere. Tutto questo nel nome del guadagno indiscriminato, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che il povero cittadino dovrà subire (i.e. il crollo di un ponte). Se potessero infatti privatizzerebbero anche l’aria.

Niente di più sbagliato.

Cosa dice il Liberalismo classico

Ogni Liberale classico crede che lo Stato debba avere un ruolo minimo nell’economia. Deve infatti garantire che le infrastrutture fondamentali per lo sviluppo del tessuto economico nazionale siano costruite. Poi lo Stato deve delegarne la gestione a più privati (come non è stato fatto in Italia). Tutto questo all’interno di un regime di concorrenza perfetta (come non è successo in Italia) per garantire la possibilità di scelta e il miglior servizio possibile al cittadino (certamente non in Italia).

Basta guardare la concessione firmata nel 2007 dal governo Prodi, che ha dato ad Autostrade per l’Italia la gestione delle infrastrutture nazionali, per capire che di tutto si è trattato, tranne che di libero mercato. Il regime creato è stato un monopolio a gestore unico, senza concorrenza. La revisione del contratto è praticamente impossibile. Insomma, è stata l’ennesima porcata all’italiana che ha visto il trionfo di un capitalismo marcio di Stato, cosa che susciterebbe giustamente la più assoluta indignazione di ogni Liberale.

Per spostarci all’estero, andando a guardare all’iter di privatizzazione delle ferrovie britanniche negli anni ’80, si può riscontrare un fenomeno analogo. Si è privatizzato, ma non si è liberalizzato.

Ora, lo sciacallaggio di governo ha approfittato di questa tremenda tragedia per lanciare una proposta dal sapore di IRI 2.0 (tra l’altro proprio l’IRI costruì il ponte Morandi nel ’67). La risposta al fallimento del concordato Stato – industriali (che ripetiamo non ha niente a che vedere con un regime di libero mercato) non sta nel nazionalizzare. Riuscite ad immaginare l’intera rete autostradale nazionale gestita dall’ANAS come la Salerno-Reggio Calabria? Trent’anni di cantieri? Continui ritardi? Disagi inimmaginabili? Miliardi di euro dei contribuenti sacrificati sull’altare dell’inefficienza pubblica? Ma manco per sogno.

Liberalizzare per il bene del cittadino

La soluzione è unica ed evidente, ma questo paese la rifiuta categoricamente sin dall’era giolittiana. Deve finalmente cessare lo sporco connubio tra Stato e industria. Privatizzando un settore dell’economia senza liberalizzarlo si finisce semplicemente per passare dal monopolio statale a quello privato. Solo un regime di perfetta concorrenza, con lo Stato relegato alla giusta dimensione di arbitro, può garantire uno sviluppo efficiente delle infrastrutture nazionali. Vogliamo un sistema efficiente e che funzioni, al servizio del cittadino. Non vogliamo che il contribuente venga sfruttato come finanziatore né dello spreco statale né di accordi secretati e monopolistici.

 

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Emancipazione femminile: il perché di un’anomalia storica

Sin da quando ne ho memoria, sono stato abituato a vedere donne in posizioni di potere, di prestigio, di rispetto. Questo dovrebbe essere, in sé per sé, del tutto scontato, quasi insignificante, se non fosse per il fatto che non lo è. In ogni tempo e in ogni luogo, solo in Occidente, e solo negli ultimi tre secoli la condizione della donna si è evoluta in questo modo.

La domanda da porsi, quindi, è perché solo qui, e perché solo adesso? Forse il socialismo ha eliminato le disuguaglianze fra i sessi, o forse per generosità i governanti hanno concesso il suffragio femminile, il divorzio e l’aborto? Per comprendere questa anomalia storica, è necessario identificare i principali punti di rottura fra l’Occidente moderno e le altre civiltà, passate e contemporanee.

In primo luogo, l’industrializzazione. L’impatto storico di questo fenomeno sul nostro mondo non potrà mai essere sopravvalutato, e questo vale soprattutto per la condizione della donna. Senza elettricità, macchine e la medicina moderna, le donne nei Paesi sviluppati vivrebbero ancora come le loro antenate di secoli prima, quasi tutte analfabete, impegnate esclusivamente a lavorare nei campi, a svolgere le faccende domestiche ed a partorire numerosi figli, spesso a costo della vita.

Tuttavia, il vero contributo dell’industria all’emancipazione femminile consiste nell’aver aperto alle donne il mondo del lavoro. Prima della nascita delle industrie, la manodopera femminile era confinata in una ristretta cerchia di attività economiche, spesso legate in ogni caso alla dimensione domestica (come la tessitura dei vestiti). Con l’avvento dell’industria le donne lavorano insieme agli uomini, imparano a leggere e a scrivere, acquisendo in questo modo i mezzi materiali e la volontà per vivere autonomamente.

L’industrializzazione, a sua volta, è stata resa possibile dallo sviluppo, nel corso di secoli di storia europea, di un sistema economico e produttivo favorevole all’innovazione, il capitalismo. Infatti, senza il sostegno economico di Matthew Boulton, facoltoso imprenditore britannico, James Watt non avrebbe mai avuto i mezzi per sviluppare la sua macchina a vapore, simbolo stesso della prima rivoluzione industriale. Lo stesso Boulton si interessò alle scoperte di Watt per un solo motivo: il profitto. Egli infatti era alla ricerca di soluzioni tecniche per migliorare la produttività delle proprie fabbriche. Come già menzionato, lo sviluppo industriale seguente generò una crescente domanda di manodopera, che ebbe ripercussioni soprattutto sulle donne.

Il capitalismo, a sua volta, si basa su di un singolo punto centrale, dal quale deriva tutto il resto: lo scambio volontario di merci o servizi fra due soggetti, due individui. Non può esservi coercizione, in quanto entrambi gli individui devono essere soddisfatti della transazione. Ciò è possibile solo in un sistema che metta al primo posto l’individuo e la sua libertà. Per questo, in ultima analisi, è sull’individualismo che si basano le conquiste dell’Occidente, compresa l’emancipazione femminile.

Basta pensare ai diritti per cui hanno combattuto le prime femministe: l’individuo ha diritto a prendere parte alla vita pubblica dello Stato, e quindi il voto deve essere esteso anche alle donne; l’individuo ha diritto a decidere in autonomia sulla propria vita affettiva e sessuale, e quindi il divorzio; l’individuo ha diritto sul proprio corpo, e quindi l’aborto (anche se in questo caso, essendo per forza di cose coinvolti più individui, ritengo sia necessario che venga preso in considerazione l’interesse di tutte le parti).

Il movimento femminista delle origini, dunque, aveva un’importante componente individualista, e quindi liberale, e non è un caso che tra i suoi sostenitori ci siano stati grandi nomi liberali come quello di John Stuart Mill. Questa componente si è poi persa nel tempo, e oggi il movimento femminista, dominato dalla sua componente marxista, si batte contro il patriarcato, contro il “gender pay gap” e in generale contro le disuguaglianze (ma solo in Occidente ovviamente, per loro le donne degli altri Paesi non contano niente), proponendo misure collettiviste come le ridicole quote rosa.

L’involuzione subita dal movimento femminista, tuttavia, non ne cancella le vere origini, e sebbene oggi molte femministe siano contro l’industrializzazione, il capitalismo e l’individualismo, è proprio grazie alla combinazione di questi fattori nel corso di secoli se anche loro, così come tutte le altre donne che hanno la fortuna di vivere nei Paesi occidentali, sono libere di cercare la propria felicità, senza influenze esterne che non siano quelle dovute al caso.

8 principi liberali per condurre politiche sul lavoro in maniera ottimale

Dato che i liberisti sono sempre additati come quelli contro i poveri, i lavoratori e al soldo del gran capitale e dei poteri forti, esporrò brevemente quali sono solitamente i principi sul quale si dovrebbe basare una politica liberista per il mercato del lavoro:

1) Una persona accetta un lavoro perchè lo trova utile, conveniente e/o più piacevole che non accettarlo. Questo regola la Domanda di lavoro.

2) Un datore di lavoro (non padrone, i lavoratori non sono cose che si posseggono) assume un lavoratore se lo trova utile, conveniente e/o piacevole. Questo regola l’offerta di lavoro.

3) Una assunzione avviene solo se è vantaggiosa sia per l’aspirante lavoratore che per il datore di lavoro.

4) Se ad una persona vengono offerti sussidi che si perdono con l’accettazione di un lavoro, si disincentiva il lavoro regolare e si incentiva nullafacenza e lavoro nero.

5) Se ai datori di lavoro vengono imposti degli oneri extra per l’assunzione di carattere salariale (es. salario minimo e 13sima) e/o contrattuale (es. Art. 18) l’offerta di posti di lavoro regolari cala, soprattutto per le categorie che beneficiano di queste tutele a carico del datore di lavoro (lavoratori dipendenti di solito). Questo calo colpirà soprattutto le categorie meno produttive che smetteranno di essere convenienti per il datore di lavoro.

6) Più si limitano le possibilità di lavoro (lavori domenicale, licenze, ordini professionali) e più si irrigidiscono il mercato del lavoro (con la centralizzazione a livello nazionale dei contratti) più aumentano i disoccupati e meno servizi potranno essere offerti ai consumatori.

7) Molta offerta di lavoro non trova corrispondenza nella domanda di lavoro perchè non ci sono le competenze richieste. Questo è dovuto principalmente ad un articolo della nostra Costituzione che impone il “valore legale del titolo di studio” e limita pesantemente l’offerta formativa e che questa si adatti velocemente alle richieste del mondo del lavoro.

8) Per migliorare le condizioni contrattuali e salariali la via del liberismo, come sempre, è quella di una sana (e lecita) concorrenza. La concorrenza, oltre ad essere fondamentale per la meritocrazia, spinge le imprese a contendersi i lavoratori più appetibili che otterranno stipendi più elevati e spingeranno anche altri volenterosi a migliorare per ottenere un simile trattamento, innescando un circolo virtuoso di cui beneficeranno lavoratori, imprenditori e consumatori.

Per ottenere ciò è necessaria una minore centralizzazione dei contratti ( che limita le condizione ad personam a favore del benessere del lavoratore) e zero leggi che favoriscono la concentrazione di settori dell’economia nelle mani di pochi soggetti (pubblici e privati). Un altro fattore fondamentale per la concorrenza è la mobilità del lavoratore, che è l’esatto opposto di voler fissare una persona al proprio lavoro.

La mobilità è essenziale per potergli permettere di vagliare diverse offerte operative, di rendersi conto del suo effettivo valore di mercato e per poterlo sfruttare nei momenti di contrattazione. La mobilità, oltre ad essere una grandissima libertà, è fondamentale anche per incentivare il lavoratore a migliorarsi per sfruttare le possibilità del mercato del lavoro e ad accumulare nuove esperienze e competenze.

Questi sono i principi liberisti (chi vuole ne metta altri o ne tolga alcuni) per un sano mercato del lavoro. Questo è molto diverso da quello di un governo che non accetta i numeri ottimisti forniti dall’INPS, afferma che Confindustria faccia terrorismo psicologico e che le banche abbiano atteggiamenti mafiosi; e che soprattutto si arroga il diritto di definire che tipi di contratti e lavori siano degni e quali no.

Le Olimpiadi? Un successo solo se private

Nell’organizzare le Olimpiadi si pongono due problemi: quello del rapporto costi benefici e quello della provenienza degli investimenti.

Per offrire una panoramica della prima questione, prendiamo a modello l’ultima manifestazione a cinque cerchi svoltasi in Italia, le olimpiadi di Torino 2006. Per anni si è ripetuto, specie nel capoluogo sabaudo, che l’evento fu occasione di rilancio turistico sulla scena nazionale e internazionale per la città. Ed è vero: Torino ha senza dubbio beneficiato dei giochi, in termini di immagine. Il problema risiede nel fatto che per conseguire tali benefici, si è dovuta investire una non indifferente quota di denaro pubblico.

Circa 1.200, i milioni di euro destinati alla gestione dell’evento (si va dalla gestione degli impianti, alla tecnologia necessaria, alle trasmissioni TV e altro ancora). La quota maggioritaria dei costi riguarda però gli investimenti indirizzati al territorio, 2.119 milioni così ripartiti: 376 per gli impianti di gara, 260 per gli impianti di risalita, l’innevamento artificiale, la manutenzione delle piste, 316 per interventi destinati allo sviluppo turistico, 419 per villaggi olimpici, sale conferenza, alloggi per giornalisti, 643 per la costruzione o revisione di strade e parcheggi, 63 per sistemi fognari e acquedotti, 42 destinati infine a mezzi di soccorso e controllo pubblico.

Del secondo blocco di costi analizzato, è il contributo del Governo a essere predominante: il 75,7% degli investimenti ha infatti origine nazionale (circa 1.600 milioni). Seguono gli enti locali, contribuenti per il 18,0% (400 milioni), e infine soggetti privati hanno immesso nel circuito il restante 6,3% (cento milioni).

Non altrettanto imponenti i ricavi del comitato organizzatore, che vede gli incassi fermarsi a 974 milioni (420 provenienti da sponsor, 470 da diritti TV, 15 da licenze e 69 dalla vendita di biglietti). Condizione che ha reso necessario un secondo intervento statale per un valore di 200 milioni, denaro che ha permesso di non mandare in negativo il bilancio dei costi di gestione dell’evento.

Per quanto concerne gli investimenti sul territorio, studi della Confesercenti e dell’Osservatorio Turistico della Regione Piemonte stimano in 1.528 milioni di euro i benefici derivati dal riutilizzo dei villaggi olimpici, maggiori flussi turistici e impiego delle nuove infrastrutture pubbliche. Tutto denaro che, tuttavia, è andato a beneficio quasi esclusivamente di Torino e parte della provincia (le due valli interessate dai giochi), con il resto del Piemonte che ha beneficiato ben poco dell’effetto olimpico.

L’analisi costi-benefici ci conduce quindi al secondo problema posto: chi si fa carico dei giochi? Nel caso di Torino 2006, si è visto come la percentuale maggiore di finanziamento sia stata erogata dal governo, che ha provveduto a recuperare il denaro tramite un aumento della pressione fiscale. Ma, pur avendo tutti gli italiani pagato una media di 35 euro a testa per lo svolgimento dei giochi, l’85% dei finanziamenti è stato dirottato nella provincia di Torino (il restante 15% in altre aree del Piemonte, al fine di ammodernare le strutture di ricettività turistica).

È utile ricordare come, trent’anni prima, in occasione dei giochi di Montreal 1976, il Governo del Canada diede l’avallo allo svolgimento dei giochi solo dopo aver firmato con la città e la relativa regione un contratto che impegnava gli enti locali a farsi carico interamente dei costi. Contratto che portò le amministrazioni di Montreal e del Quebec a indebitarsi per una cifra prossima a 2.500 milioni di dollari. Debito ripianato solo trent’anni dopo.

Secondo questo modello, ripartendo i costi della manifestazione torinese ai soli cittadini della provincia sabauda, i 35 euro pro capite diverrebbero 1.000. I costi previsti per i giochi 2026 non sono ancora delineati: ma, se si interpellassero i cittadini delle comunità interessate alla candidatura, chiedendo loro se siano disposti a tollerare un aumento del carico fiscale tanto ingente (senza contributi statali), difficilmente vi sarebbero città pronte a presentarsi di fronte al CIO. Motivo, peraltro, che ha portato ad affossare quest’anno le due candidature austriache, entrambe bocciate da referendum consultivi.

Per trovare l’unico modello di gestione olimpica efficiente bisogna risalire a Los Angeles 1984. Proprio sulla scia di Montreal otto anni prima, la metropoli statunitense approvò una risoluzione in base alla quale nessun contributo pubblico avrebbe potuto essere utilizzato per il finanziamento delle olimpiadi. Si trattò allora di reperire ingenti risorse private.

Finanziatori che ebbero tutto l’interesse a ricavare profitto dall’evento, vincolando così il comitato direttivo a un impiego oculato delle risorse, scartando l’approccio del “valore aggiunto” (tanto caro alle nostre amministrazioni) che avrebbe condotto a stime improbabili riguardo il rapporto costi-benefici. Il bilancio? Profitti per 225 milioni di dollari, ripartiti tra soggetti privati e comitato organizzatore, in larga parte reinvestiti in progetti sul territorio, che ebbe così modo di beneficiare a lungo termine dell’effetto olimpico.

L’assenza di finanziamenti pubblici permette di escludere che vi siano stati soggetti danneggiati coercitivamente per via della tassazione, al contrario l’impiego di capitale privato ha fatto coincidere la ricerca del profitto del singolo con una serie di vantaggi per la collettività.

Un dibattito si potrebbe aprire per definire la candidatura migliore tra Torino, Milano e Cortina, con la prima già in possesso della quasi totalità delle strutture necessarie ai giochi. Ma, qualsiasi sia l’esito delle riunioni del CONI, la storia insegna che l’unico modello vincente è rappresentato dalla gestione privata.

Su Marchionne – C’è un pezzo di paese che ogni giorno si getta nella mischia e che per sempre lo ringrazierà

Ho letto molto su Marchionne e ho letto parole confuse e confusamente gettate sui fogli dai suoi detrattori. E poi mi chiedevo, “ma che cavolo si deve avere nel cervello per affermare che lui ha fatto del male all’azienda o all’Italia o ai famigerati operai?”. Una risposta tecnica non esiste, perché l’unico motivo di tanto astio e di tante parole al vento riguarda la genialità di Marchionne: personaggi come lui, unici nel suo genere, attirano per forza di cose critiche insensate e rancori ideologici.

Un quotidiano che riporta sulla sua testata la scritta “quotidiano comunista” non potrà che detestare uomini come lui, i quali hanno fatto dell’esaltazione dell’individualismo e dell’economia di mercato i propri caratteri distintivi. Raggiungendo obiettivi insperati, ottenendo successo, vincendo su larga scala, evidenziando ancora una volta come questa sia l’unica strada che conduca al benessere collettivo.

In pratica, si deve partire dagli individui e dalla tutela riconosciuta alla loro libertà per tentare di raggiungere il benessere della collettività. Il processo contrario, il voler porre l’accento sui così detti diritti sociali, porta soltanto miseria e povertà poiché non tiene conto del fatto che il mucchio è composto da singoli. Ed è questa una realtà innegabile.

Chi la nega annaspa nella burrasca della faziosità ideologica. Chi la nega vorrebbe negare la possibilità delle azienda di spostare le proprie sedi in paesi meno avversi all’imprenditoria, sostenendo al contempo che una tassazione progressiva (non proporzionale eh) e un bastonamento continuo della ricchezza debbano essere i tratti distintivi di un paese ove “la forbice della disuguaglianza di allarga sempre più”. Ed è evidente che in un paese intrappolato in questa giungla di pregiudizi e corporativismi un’azienda non possa sperare di prosperare.

La tassazione progressiva non si limita a far pagare più tasse a chi guadagna di più, ma lo punisce imponendogli di pagare in modo sempre maggiore fino a togliere la voglia a chicchessia di impegnarsi in un’attività che generi ricchezza. La burocrazia, assieme alle tasse, rende la vita tecnicamente difficile e in salita per gli adempimenti e le scadenze da rispettare. Il modello è quello secondo cui è lo Stato a fare un favore all’imprenditore, concedendogli il permesso di lavorare sul proprio territorio, e non il contrario.

E i diritti richiesti ogni giorno a gran voce renderanno sempre più angusto lo spazio concesso alla libertà, perché i diritti di cui cianciano sindacati e sinistri non sono quelli di cui parla la dichiarazione d’indipendenza americana, ovvero quelli che vivono in noi sin dalla nostra nascita, bensì quelli che verrebbero creati artificialmente dallo Stato tramite decretino.

Oggi, come abbiamo letto tutti, viene richiesto a gran voce anche il diritto di togliere a Cristiano Ronaldo la possibilità di guadagnare quanto il mercato gli offre. Hanno scioperato gli operai Fiat per i 30 milioni di euro che Ronaldo percepirà dalla Juventus, ritenendo che anche loro abbiano diritto ad un trattamento migliore e non si spiega su quale base. La verità è che questo è un paese ove il messaggio sottile veicolato dice che siccome non si può esser tutti ricchi, allora è meglio esser tutti poveri, ignorando le caratteristiche di ognuno di noi, degli individui, che comporteranno retribuzioni e riconoscimenti diversi ottenuti tramite la libera pattuizione tra le parti in gioco.

È chiaro perché il concetto di diritti non va di pari passo con quello di libertà? La rigidità dietro a questa mentalità era sconosciuta a Sergio Marchionne il quale, laureato in filosofia, affermava che “non so se la filosofia mi abbia reso un avvocato migliore o un amministratore delegato migliore, ma mi ha aperto gli occhi. Ha aperto la mia mente ad altro”. La flessibilità non è solo quella del dipendente licenziabile, ma anche della mente di tutti noi e riguarda la nostra capacità di movimento all’interno del paese e del mondo, delle aspirazioni e delle inclinazioni personali.

La flessibilità che ha portato il laureato in filosofia Marchionne a divenire uno dei più grandi manager della storia è la medesima per la quale ognuno di noi, in Occidente e in Occidente soltanto, può svegliarsi la mattina, rinfrescarsi la faccia e guardare il tizio allo specchio per comprendere quali siano i suoi sogni nel cassetto. Lavorare, adoperarsi, ascoltare testa e anima per rincorrere quell’entità astratta di cui sentiamo parlare sin da bambini che si chiama “sogni”. 

La sfida, l’impronta personale lasciata, la responsabilità per ciò che si fa, dirigere gli eventi anziché lasciare che si producano e sfuggano dalle nostre mani. E poi la mischia, la concorrenza, creare ogni mattina qualcosa di nuovo o migliorare ciò che precedentemente era stato fatto. Non vivere mai due giorni allo stesso modo perché è sempre possibile innovare quel che era stato creato il giorno prima. Marchionne era un manager innovatore, che è una rarità.

Marchionne non dirigeva alcunché: Marchionne distruggeva per ricreare qualcosa di nuovo e di accattivante, e difatti affermava sempre che la caratteristica del suo modo di lavorare era sempre e immancabilmente una: rispondere alle esigenze del mercato, e produrre le Ferrari per gli emiri e la Panda per il ceto medio. Vi è qualcosa di eroico e di grandioso in questa predisposizione dell’uomo di azienda di capire quali siano le esigenze e le necessità della clientela, elaborando proposte nuove, mettendo in gioco quanto già fatto in passato, col dubbio che i bisogni mutino e che quindi anche le sue proposte debbano seguire quel tracciato. 

Marchionne non sarebbe mai sceso in politica perché diceva che il suo mestiere era il metalmeccanico. Mi domando cos’abbia pensato negli ultimi mesi dell’impronta assistenzialistica che il Movimento 5 stelle vuol dare alle politiche del governo in carica. Penso alle sue esortazioni a crearsi le opportunità, a partecipare alla rissa, partecipando attivamente al gioco senza sostare in panchina. Un pezzo di questo paese, quel pezzo che ha voluto garantirsi la paghetta mensile denominata reddito di cittadinanza, non cambierà mai.

Per troppo tempo sono mancate al governo persone come lui capaci di pronunciare quelle parole. Per troppo tempo è stata utilizzata la pubblica amministrazione come ammortizzatore sociale, creando la famosa situazione paradossale dei forestali calabresi che raddoppiano i ranger di tutto il Canada. Quel Canada di Marchionne, appunto.

Ma vivrà anche una fetta d’Italia che per istinto, prima che per sopravvivenza, rimarrà aggrappata al ricordo dei grandi capitani d’industria di questo secolo e del secolo scorso, garantendo col proprio lavoro e le notti insonni all’altra parte sfaccendata di proseguire nella sua indolenza improduttiva. 

Si finisce per fare del bene quando non si ha intenzione di farne. In un paese in cui la ricchezza e gli utili sono visti come furti, questo è un doveroso elogio della cattiveria e un abbattimento della bontà imposta. Forse questa è una delle lezioni più importanti. La beneficenza coattiva genera mostri. Perseguire il proprio interesse, al contrario, genera benessere. Sergio Marchionne è stato uno dei nostri più cari amici, ed è per questo che dobbiamo dirgli “grazie mille”!

La lezione di Marchionne per l’Italia

Su Repubblica di domenica 22 giugno Ezio Mauro ha raccontato un aneddoto su Sergio Marchionne, ricoverato da fine giugno all’Universitätsspital di Zurigo. Il giorno in cui prese servizio al Lingotto, scrive Ezio Mauro, Marchionne trovò un’azienda disastrata e tecnicamente in default. “Perdiamo 2 milioni al giorno”, disse al suo collaboratore.

La FIAT nel 2004 era fallita, non poteva rimborsare i creditori, aveva un’elevatissima percentuale di assenteismo tra gli operai. Fino al 2003 produceva un’automobile, la Panda, tecnologicamente indietro di vent’anni.

Nel 2008 FIAT vendeva appena 2 milioni di veicoli, tra automobili e veicoli commerciali. È l’anno in cui il marchio torinese acquistò Chrysler, altra azienda fallita. Il genio di Marchionne è stato quello di sollevare un’azienda figlia del corporativismo nazionale, la quale, grazie ad un patto Roma-Torino, ha dato lavoro a migliaia di operai nelle fabbriche del capoluogo piemontese ricevendo in cambio trattamenti di favore.

Marchionne ha rotto questa logica: è arrivato allo scontro frontale con i sindacati, da decenni impegnati a fare politica più che a difendere gli interessi dei lavoratori, è uscito dalla contrattazione nazionale collettiva, in breve ha trasformato il secondo “carrozzone” pubblico dopo Alitalia in un’azienda multinazionale.

Una strategia di management vincente con l’obiettivo di fare profitti ed accrescere la soddisfazione del cliente che ha portato FCA ad essere l’ottavo costruttore automobilistico mondiale, un’impresa sana, solida e robusta che vende 7 milioni di veicoli l’anno, il quintuplo di quindici anni fa.

Ora, vorrei cogliere l’occasione per infondere nei lettori un po’ di ottimismo. Quando arrivò Marchionne sembrava impossibile che la FIAT potesse salvarsi, 2 milioni al giorno di perdite, 730 l’anno, sembravano un macigno insostenibile. Eppure uscendo dalle vecchie logiche dell’assistenzialismo, della sindacalizzazione, ha riportato FCA in alto.

L’Italia ha bisogno di un timoniere come lui. Ha bisogno di qualcuno che che dica la verità ai cittadini: l’Italia perde 180 milioni al giorno, 65 miliardi l’anno che appartengono ai contribuenti e vengono letteralmente buttati al vento, in un debito pubblico complessivo di 2300 miliardi. La causa? Una spesa pubblica fuori controllo e uno stato troppo ingombrante.

L’Italia ha bisogno di pragmatismo, di scelte impopolari, di fare dei torti a qualcuno: ai sindacati, alle alte burocrazie di Stato, a buona parte dei dipendenti e dirigenti pubblici, alle corporazioni varie. Ha bisogno sia di ridurre le uscite (Stato meno ingombrante) sia di ingrandire la torta della ricchezza senza suddividerla ulteriormente.

L’Italia ha bisogno di un altro Marchionne…o di una Thatcher.

Come il Presidente americano NON viene eletto dal popolo

Ancora una volta un presidente non eletto dal popolo”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole? E perché ultimamente anche gli Stati Uniti d’America, la nazione del presidenzialismo per eccellenza, hanno cominciato a mettere in dubbio l’ordine costituzionale ereditato dalla lungimiranza dei padri fondatori?

In Italia, negli ultimi sette anni, quello del “presidente non eletto dal popolo” è stato uno dei principali cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle nella loro critica al sistema politico del Belpaese. Negli USA invece, dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2016, i Democratici hanno sostenuto con forza la necessità di abolire una volta per tutte i collegi elettorali e il sistema dei grandi elettori.

In Italia, Silvio Berlusconi fu il primo nel 2006 a tentare di riformare la Costituzione in senso federalista per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per aumentare i poteri del premier (il famoso premierato), ma fallì: il popolo respinse il progetto con il referendum costituzionale del 2006. Caduto il governo Berlusconi nel 2011, il governo Monti fu da subito additato come l’incarnazione del male assoluto, il tecnico non eletto dal popolo, servo dell’Europa e dei tanto famosi, quanto misteriosi, “poteri forti”.

Vent’anni di berlusconismo avevano riproposto al paese quell’immagine nostalgica dell’uomo forte, capace di governare da solo e senza dover scendere a compromessi, che mancava da decenni. L’Italia infatti, salvo il fascismo e la DC delle elezioni del 1948, non aveva mai visto un solo partito conquistare la maggioranza assoluta di voti e seggi. Siamo sempre stati il paese delle coalizioni, del Pentapartito. Caduto Berlusconi, la possibilità di un governo di larghe intese sembrava dunque un sacrilegio. Ed è proprio in questi anni che la cantilena del “premier non eletto dal popolo” cominciò a diffondersi.

Le ultime elezioni poi hanno visto la formazione dell’ennesima legislatura senza maggioranza assoluta, e con un gesto di coerenza stoica, l’accordo di governo tra due forze politiche che si erano presentate in liste diverse ci ha consegnato l’ennesimo premier non eletto dal popolo. Ma il popolo non elegge il premier, come molti, troppi si ostinano a credere. Per la nostra Costituzione, l’elettore è chiamato a rinnovare il Parlamento ogni 5 anni. Poi, il presidente della Repubblica indica un premier incaricato che deve formare un governo e presentarsi davanti alle Camere per ottenerne la fiducia.

Negli Stati Uniti invece, dopo le elezioni del 2016 è iniziato un acceso dibattito circa il superamento del sistema elettorale corrente basato sul collegio elettorale, l’Electoral College. Infatti, l’elettore americano, quando si reca ogni quattro anni alle urne, non elegge direttamente il presidente (come molti erroneamente credono), ma vota per eleggere i grandi elettori, 538 rappresentanti divisi tra i vari Stati, che “promettono” di votare un determinato candidato alla presidenza (ma non sono legalmente obbligati a votare per un determinato candidato).

Questo peculiare sistema elettorale winner-takes-all (per cui il partito vincitore in un determinato Stato ottiene tutti i grandi elettori dello Stato) non è puramente proporzionale, e presenta degli innegabili vantaggi, poiché da un lato concede anche agli Stati più piccoli di avere un certo peso politico, e dall’altro permette un maggiore controllo sull’elezione del presidente da parte dei grandi elettori.

Infatti, nelle intenzioni dei padri fondatori, il presidente non doveva essere eletto direttamente dalla popolazione. Essa invece avrebbe dovuto eleggere come rappresentanti uomini validi, “grandi” elettori appunto, i quali avrebbero poi scelto il presidente della nazione, e se necessario, avrebbero potuto sovvertire il risultato dell’elezione popolare nel caso in cui il candidato vincente si fosse dimostrato incapace di svolgere il ruolo di presidente.

Le elezioni presidenziali del 2016 hanno visto il trionfo di Donald Trump, che è riuscito a conquistare 304 grandi elettori, strappando a Hillary Clinton e al Partito Democratico alcuni Stati chiave (Michigan, Pennsylvania, e Wisconsin) storicamente blue.

 

                                                        

 

A livello nazionale i risultati furono i seguenti:

  Donald Trump Hillary Clinton
Partito repubblicano democratico
Voti 62.984.825

46,1 %

65.853.516

48,2 %

Grandi Elettori 304

56,5%

227

42,2%

 

In un sistema proporzionale puro Hillary, che ottenne circa 2.800.000 voti (il 2%) in più di Trump, avrebbe vinto. Tuttavia, occorre considerare due dati:

  • La distribuzione dei voti per contea
  • La distribuzione dei voti per Hillary Clinton

Hillary (come più o meno ogni candidato democratico) vinse soprattutto nelle grandi città e nelle storiche roccaforti democratiche (California, East Coast, Oregon, New Mexico). La stragrande maggioranza delle contee americane votò repubblicano.

Il motivo per cui Hillary Clinton conquistò il voto popolare, ma perse le elezioni, è da ricercare proprio nel sistema elettorale americano. Dove vinse Hillary (soprattutto nelle città) vinse di molto, distaccando notevolmente il proprio avversario. Tuttavia, per questo sistema elettorale, è meglio vincere due Stati con il 51%, piuttosto che un solo Stato con il 90%.

E qui si scopre l’errore principale dei Democratici, che costò loro la vittoria: la decisione di non fare campagna elettorale nelle roccaforti storiche del midwest (Michigan, Winsconsin) o in Pennsylvania (che da quasi vent’anni votava blue). La vittoria di Trump in questi Stati, con margini di vantaggio relativamente modesti rispetto allo scarto tra Democratici e Repubblicani in California, gli fruttò 46 grandi elettori, che gli permisero di sconfiggere agevolmente l’avversaria.

 

                                      

 

L’anno dopo la sua sconfitta, Hillary Clinton cominciò a sostenere la necessità di abolire il sistema dei grandi elettori e dei collegi elettorali. Tuttavia, questo sistema (certamente imperfetto, perché la perfezione non è di questo mondo) è senza dubbio la soluzione migliore per gli US, perché tiene conto della partecipazione dei singoli Stati all’unione perfetta, cosa che verrebbe meno con un sistema proporzionale puro, e non permette alle grandi metropoli delle due coste e dei laghi (che comunque mantengono un peso politico enorme) di monopolizzare completamente il panorama politico statunitense.

Il presidente dunque non è direttamente eletto dal popolo perché così vollero, con un atto di grande lungimiranza, i padri fondatori, e il sistema elettorale non è un proporzionale puro per garantire una minima difesa degli interessi degli Stati meno popolosi, e tuttavia, come l’elezione di Obama nel 2008 e nel 2012 ci hanno mostrato, questo non è di alcun impedimento per l’elezione di un presidente democratico. Forse il Partito Democratico dovrebbe concentrarsi sui veri problemi che lo affliggono: la scelta di candidati pessimi e la pericolosa svolta a sinistra che il partito sta subendo.

Libertà individuale. Quanto viene sottovalutata?

“L’indipendenza individuale è il primo bisogno dei moderni (…) la vera libertà moderna. La libertà politica che ne è garante, è perciò indispensabile. Ma chiedere ai popoli di oggi di sacrificare come facevano quelli di una volta, la totalità della libertà individuale alla libertà politica è il mezzo più sicuro per staccarli dalla prima, per poi, raggiunto questo risultato, privarli anche dell’altra.”

Così affermava un grande promotore del pensiero liberale, Henri-B. Constant de Rebecque, in una sua celebre conferenza a Parigi. Constant, in questo suo breve pensiero, concentra tutta la sua attenzione su una questione che forse, oggi, si dà per scontata o ancor più, si tende a sottovalutare; la libertà individuale.

L’uomo “moderno”, può infatti definirsi tale, proprio perché titolare di una serie di diritti individuali che gli “antichi” certamente non vantavano.

Per diritto individuale si intende una insieme di prerogative, “innate” ma garantite anche costituzionalmente, di cui nessuno, astrattamente, potrebbe o dovrebbe essere privato. Il presupposto indispensabile per poter godere di queste prerogative risiede nel concetto di indipendenza, sinonimo a sua volta di auotodeterminazione.

Può definirsi moderno l’individuo italiano?

Considerando che attualmente, vige una visione secondo cui lo Stato, e non l’individuo, debba essere al centro della libertà politica, la risposta non può che essere negativa.

Legittimando lo Stato alla totale disciplina dei diritti individuali non si fa che aumentare il suo potere di regolamentazione e dunque, di “disposizione” degli stessi, lasciando all’individuo un esiguo margine di libertà.
Lo Stato si fa, così, garante delle masse ma nemico del singolo.

Constant, riaffermava ancora,

Il dispotismo statale non ha alcun diritto su ciò che è individuale, che non dovrebbe essere sottomesso al potere sociale”

Un chiaro esempio di quanto detto si raffronta nella questione dei diritti individuali concernenti la c.d. comunità LGBT, soggetta alla continua “demonizzazione” di una determinata espressione sessuale umana, considerata non su base volontaria e individualista ma su base collettivista.

Ancora una volta, collegandoci alle normativa sulle unioni civili, centro di molteplici discussioni e probabili rivisitazioni, le masse, e dunque lo Stato che se ne fa rappresentate, tendono ad imporre un dettame sociale dato per unico su una libertà individuale, limitando di fatto il potere del singolo sul proprio io e sulla propria vita privata. Si viola, cioè, l’essenza dell’intimità umana.

La libertà politica, in poche parole, nel contesto sopracitato, e in generale nel più ampio contesto italiano, non tutela più quella individuale ma la sacrifica e la assorbe piegandola a proprio piacimento.

Ma il diritto individuale non può per sua stessa natura discendere da una decisione autoritaria e, il più delle volte, anche arbitraria, non può essere alla mercé della maggioranza, della quale bisogna certo tenere conto ma senza assurde assolutizzazioni.

L’uomo moderno deve, in conclusione, riappropriarsi della propria “modernità” ossia, della propria indipendenza e ciò può farlo solo ponendo il diritto all’individualità come perno principale su cui basare il sostrato sociale, perché così facendo, non solo non si annienta il singolo ma si preserva anche l’idea stessa di collettività, rielaborata, appunto, come insieme di singoli differenti tra loro e non semplicemente come insieme omogeneo e standardizzato.

La libertà, dunque, di scegliere per sé piuttosto che quella di scegliere per gli altri.

La libertà di essere “io” tra gli “altri” piuttosto che la libertà di essere “io, come gli altri.”

 

Anna Faiola

L’individualismo di genere

Il femminismo è un’arma per mantenere vivo il fantasma comunista: dal genericidio del voler rendere uomini e donne -due universi opposti e complementari- uguali è stata creata una lobby che crea una solidarietà volta al guadagno e al mantenimento dello status quo del politicamente corretto tra chi di questa lobby fa parte e ci guadagna e tra chi, tramite il lavaggio del cervello proposto dalla stessa, crede di fare una cosa giusta sentendovisi appartenente, così tanto da arrivare a straziare il proprio corpo de-generizzandolo pur di perpetrare il suo linguaggio.

Che il femminismo della quarta ondata sia cominciato e sia esploso con il #metoo a fini strumentali, come arma per nuocere ad un presidente che sta ottenendo consensi sempre maggiori, pare ovvio; sono i risvolti dello stesso a fare paura a chi del proprio pene o della propria vagina ne va fiero. Che sesso, soldi e politica vadano a braccetto è un’altra ovvietà, ma dirlo è una sconcezza. Da questo paradigma così ovvio ma così altamente politicamente scorretto ho fatto partire un’intera ideologia volta a difendere il maschio in un mondo dove le femmine sono scorrette a definirsi tali se non aggiungono quell’-ista finale che accompagna ogni aggettivo volto a definire una presa di campo.

Essere individualista comporta un -ista minore nella sua portata rispetto all’essere un’altra forma di -ista o un collettivista: l’individualista deve usare questa desinenza per aggettivarsi, ma è per definizione sé stesso.

Noi donne possiamo essere femministe, oppure si può pensare con la propria testa e con la propria vagina ed essere femmine individualiste accanto a maschi altrettanto fieri di esprimere la propria natura senza essere etichettati per forza come maschilisti.

I maschilisti prima, e le femministe poi, commettono terrorismo di genere escludendo il genere avversario da alcune forme della società civile. Se le donne erano prima escluse dalla vita politica e hanno ottenuto i diritti politici millenni dopo gli uomini, adesso si assiste alla versione opposta, o almeno al suo albore, con strumenti assurdi come le quote rosa, paragonabili ai gradi di invalidità civile.

Promuovendole come strumenti democratici e conquiste femminili, le femministe si sono auto-discriminate; praticamente ammettono di essere inferiori agli uomini e di non riuscire ad ottenere un posto di lavoro nel settore pubblico o una poltrona in parlamento per merito personale. Perfino l’Organizzazione delle Nazioni Unite in ogni offerta di lavoro ha bisogno di chiarire che in caso di parità di requisiti la donna è preferita; sia mai infatti che l’ONU risulti politicamente scorretta!

Pur di rientrare nell’ambito della legalità si scaglia infatti contro qualsiasi reale ingiustizia, o almeno non è capace di mettersi nei panni di chi realmente ha bisogno di difendersi: vengono create convenzioni per le donne ma intanto in alcuni paesi mussulmani queste vengono ancora lapidate per adulterio; Hamas spende i pochi soldi dei palestinesi per creare armi fai-da-te e li manda a morte sicura, ma gli assassini sono gli israeliani che non possono dire di difendersi davanti ai media in quanto si parlava di manifestazioni pacifiche, nonostante ci fossero telecamere a dimostrare il contrario.

La versione dell’ONU è una e l’aggettivo pacifista nasconde forse quel comunista che racchiude il femminismo stesso. Del resto se l’ONU fosse così pacifica e democratica un contraltare per gli uomini vittime di violenza domestica sarebbe già stato creato, o almeno nella CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) sarebbe stata aggiunta una clausola per scrutare la realtà dei fatti. Per non parlare di oggi, un tempo in cui gli uomini meritano una convenzione per il loro genere che li protegga da accuse di violenza non dimostrabili ed assurde per il fatto che spesso tali accuse piovono su relazioni comprovate nel tempo.

Queste accuse, raccolte sotto l’hashtag #metoo, fanno passare la donna come perenne vittima abusata in un momento di fragilità psichica. Queste femministe saranno contente di aver trovato un modo di guadagnare ulteriore una volta finito di beneficiare dagli uomini che prima di denunciare amavano, ma devono solamente vergognarsi di non ammettere fieramente di essersi prostituite allora e di persistere in tale nobile lavoro castrando il genere maschile. (La prostituta è la più antica lavoratrice del mondo, è una professionista del sesso e viene pagata per dare piacere e non problemi. È notorio che andare a puttane salva tanti matrimoni e dovremmo incentivare questo costume anche legalizzando il settore, piuttosto che giustificare il divorzio.)

In sostanza il mondo non è mai stato così polarizzato su due estremi, e non è mai stato così evidente il contrasto tra ipocrisia e sincerità.

La Natura è varia nelle sue manifestazioni, ma per quanto riguarda il genere dovremmo essere grati di come siamo nati, e ricordarci che siamo anatomicamente fatti per ricevere un solo altro. Siamo individualisti amandoci, perché solo amando sé stessi possiamo amare ed accogliere dentro di noi l’altro. Questa forma di collettività non può essere aggettivata con la desinenza  -ista perché può essere chiamata solamente Amore.

L’individualismo di genere è amore: vi sono coinvolte più persone, ma ne deriva un nucleo unico, chiamato famiglia. E del resto parliamo di due pianeti diversi a comporla, Marte e Venere, azione e compassione (da cum e patior, capacità di sentire insieme); questi restano tali anche nelle coppie omosessuali per i ruoli che vengono presi nella dinamica della coppia. L’amore è tale, trascende, non ha connotazioni etero/omosessuali, rimanendo innegabile che la vita biologicamente nasca da uno spermatozoo e un ovulo.