Sistemi sanitari a confronto: Bismarck vs Beveridge

Il sistema Bismarck ed il sistema Beveridge sono sistemi sanitari che garantiscono a tutti l’accesso alla sanità e sono i due principali sistemi sanitari d’Europa.

Il primo venne creato, come dice il nome, durante il governo di Bismarck e prevede delle assicurazioni sociali obbligatorie. Lo Stato ha un ruolo di controllo della concorrenza, nella legiferazione in materia e nel sussidiare il sistema, solitamente per i meno abbienti o le persone con condizioni preesistenti. E, di solito, le assicurazioni sono delle mutue no profit.

Questo modello è basato praticamente tutto sulla competizione: Tra pubblico e privato, tra assicurazioni e assicurazioni, tra medici e medici, tra cliniche e cliniche. Il sistema Bismarck è stato coniugato in più modi: In questo articolo trovate una spiegazione del sistema adoperato in Germania, che non solo prevede una competizione tra assicurazioni in generale ma anche tra assicurazioni “di Stato”, mutualistiche e pagate in base al reddito, e private, che coprono di più ma si pagano in base al proprio stato di salute e sono dunque accessibili solo a chi ha un determinato livello di reddito.

Un modello derivato da Bismarck spesso citato come esempio di eccellenza è il modello israeliano, descritto qui, inoltre è ritenuto molto interessante, specie per la rapidità con il quale si è sviluppato dopo la fine del comunismo, il modello ceco, descritto qui. Comunque, ogni Stato che usa un sistema Bismarck ha delle proprie peculiarità che lo caratterizzano e che possono portare vantaggi o svantaggi. Sarebbe impossibile trattare estensivamente ogni variante, quindi in questo articolo mi ispirerò al modello Bismarck in generale e non ad una particolare implementazione nazionale.

Il secondo nacque invece ad opera di William Beveridge, economista social-keynesiano, che nel 1942 pubblicò un rapporto che fu, a furor di popolo, la base del futuro stato sociale inglese.

In questo sistema, che tutti ben conosciamo, la gran parte del settore sanitario è portata avanti dallo Stato o da un ente pubblico: molti medici sono dipendenti pubblici, chi ha bisogno di una visita deve iscriversi in una lista e, quando ci sarà un medico disponibile, potrà farla.

Chiaramente non esiste un modello giusto, né esistono solo sistemi Beveridge puri contro Bismarck puri, tant’è che tra i dieci sistemi sanitari migliori d’Europa si contano sia Bismarck sia Beveridge in quantità simili.

Si può dire che, in uno Stato normale e serio, avere un sistema Bismarck o un Beveridge è una scelta più politica che sanitaria.

Per quale motivo è, a mio parere, preferibile un sistema ispirato a quello Bismarck rispetto a uno puramente statale?

Responsabilità

Nessuno verrebbe lasciato a morire per strada in un Paese occidentale, è chiaro. Però trasformare la sanità da un deus ex machina ad un qualcosa che esiste, si paga e dove esiste una certa libertà di scelta rende l’individuo più partecipe nelle scelte relative alla propria vita e meno succube di un sistema che, più che sanitario, sembra burocratico.

Premiare i comportamenti salubri

Mi capita spesso di leggere di proposte di tagliare i contributi del Servizio Sanitario a chi assume comportamenti autodistruttivi, definizione che varia molto da persona a persona e che spazia dal “chi si fa di cocaina mentre partecipa ad un baccanale senza preservativo” a “chi mangia al fast food”: un sistema Bismarck può risolvere la questione senza lasciare nessuno con spese mediche insostenibili.

Infatti un’assicurazione può avere un prezzo iniziale alto ma che si riduce per chi mantiene comportamenti sani. Soprattutto, l’assicurazione ha un beneficio nel far restare sane le persone, quindi potrebbe offrire attività sane a prezzi convenzionati.

Scegliete di mandare vostro figlio alla scuola bilingue? Ciò può ridurre l’evenienza di malattie neurodegenerative, quindi l’assicurazione potrebbe contribuire ai costi. Andate al lavoro coi mezzi camminando invece che in auto? L’assicurazione ha convenienza a ridurvi la tariffa o a pagare una parte di abbonamento.

Volete mangiare sano e fare esercizio? Potrebbe esserci un menù convenzionato in alcuni ristoranti o una palestra convenzionata dove restare in forma a prezzo ridotto.

L’assicurazione ha più beneficio a mantenervi sani rispetto ad una sanità completamente statale per una semplice ragione: i soldi. Se vi ammalate costate all’assicurazione, mentre in una sanità statale si guarda solo al bilancio corrente, che tanto è tutto nel calderone statale.

Ovviamente nulla vieta di tassare un po’ alcuni beni particolarmente dannosi, come tabacco, alcol o droghe, per finanziare il supporto statale al sistema sanitario e fare ricadere i costi sugli assuntori e non su tutti gli utilizzatori.

Concorrenza

In Italia quando si parla di concorrenza in sanità molti danno di matto. Non a caso una delle ragioni spesso citate contro l’autonomia regionale è che “creerebbe una sanità di serie A e di serie B”. Come se non fosse mai esistita la differenza sanitaria tra Regioni o tra ospedali della stessa città.

La concorrenza in sanità, se regolamentata, è potenzialmente vantaggiosa. Non si può, solitamente, avere una concorrenza totale per il semplice fatto che il fallimento di un’assicurazione può essere un problema grave per i suoi assicurati, come accadde nei primi anni nella Cechia democratica post-comunismo.

Pensate ad una cosa assurda: In Italia abbiamo la ricetta elettronica e il fascicolo elettronico: in sostanza se hai lo SPID accedi un po’ a tutti i tuoi documenti sanitari.

Ma la ricetta te la devi stampare. Perché? Perché in farmacia devono attaccarci le fustelle. Sarà sicuramente un sistema che ha ridotto le truffe ai danni del SSN ma non ha creato utilità al cittadino: anzi, può creargli un disservizio.

In Israele, dove le mutue devono competere per i clienti, la ricetta elettronica è veramente tale e non devi stampare alcun promemoria. Un’assicurazione sanitaria che impone tale procedura senza un significativo altro incentivo perderebbe clienti. Qui non potete andare dalla Regione e dire “non ho voglia di stamparmi le ricette, cambio operatore”.

Concorrenza nel campo sanitario vuol dire, in sostanza, lasciare più libertà all’individuo nello scegliere come essere seguito a seconda delle proprie esigenze.

Progresso (e sempre concorrenza)

Non parliamo ovviamente di progresso scientifico ma nelle tecnologie per rapportarsi col paziente. In Italia, da anni, usiamo essenzialmente lo stesso modello: Medico di Medicina Generale (ex medico di base, termine forse più noto ma formalmente scorretto) e in caso Medico Specialista, per emergenze non gravi e non previste Guardia Medica.

Ci sono ovviamente eccezioni: Il sistema sanitario dell’Emilia-Romagna sta lavorando molto sulle cosiddette “Case della Salute”, ossia dei luoghi dove sono presenti più medici, alcuni specialisti, pediatri e operatori sociali, la Lombardia, invece, punta ad un sistema diverso per i malati cronici, dove per le visite legate alla malattia cronica c’è un “gestore”, che può essere un medico, una struttura pubblica o una privata, che si occupa di assistere e guidare il paziente negli esami e nelle cure.

In altri paesi bismarckiani invece è diffuso il modello dell’ambulatorio di fiducia: Non si ha il proprio medico, bensì un ambulatorio dove si può andare per visite e consulti. E questi ambulatori solitamente non hanno solo medici generali ma anche alcuni specialisti, il che permette di effettuare alcuni approfondimenti nell’immediato, e anche la possibilità di fare immediatamente alcuni esami, solitamente esami del sangue o radiografici.

Se avete un animale domestico probabilmente siete abituati: Andate dal veterinario perché ha la zampina dolorante, gli fa la radiografia per vedere se è rotta, scopre che è solo distorta e gli mette una fasciatura. Ecco, in un sistema Bismarck funziona così, solo che invece di pagare voi paga la vostra assicurazione.

Potremmo anche parlare di come alcune assicurazioni israeliane trattano i malati cronici: Con la telemedicina, riducendo dunque il numero di visite inutili e permettendo di controllare l’assunzione dei farmaci.

Ancora, non c’è un sistema migliore. Ma con l’attuale sistema non potete scegliere: Un burocrate sceglie al posto vostro. Se vivete a Caorso e preferite il sistema lombardo dovete cambiare casa, in un sistema Bismarck se la vostra assicurazione non vi soddisfa potete cambiarla.

Lombardia: Un esempio da cui partire?

La sanità lombarda è ritenuta una delle eccellenze italiane, assieme alla sanità emiliano-romagnola. Solo che, a differenza di quest’ultima, non prova a svantaggiare il privato ma a collaborarci. I risultati si vedono: I lombardi possono andare a fare visite con il SSR presso strutture private quasi senza accorgersene e, spesso, fare visite “private agevolate” che costano poco più del ticket ordinario con tempi decisamente minori.

Ironia della sorte, il pubblico qui tende a creare disparità, perché il lombardo disoccupato che ha l’esenzione per reddito – quindi pagherebbe zero – se vuole la visita agevolata deve pagare, putacaso, 45€, mentre il lombardo che ha i soldi paga 45€ invece di 35€. In sostanza la salute del disoccupato vale 45€ interi mentre quella del lombardo che lavora vale solo 10€. Per la cronaca, esisterebbe una scappatoia, se non vi trovano l’esame entro 60 giorni.

Pensiamo se la Lombardia decidesse, improvvisamente, di bismarckizzare una parte dei propri servizi sanitari. La Regione, in competizione con i privati, continuerebbe a gestire ospedali e cliniche, ma rinuncerebbe ad esempio al monopolio della medicina generale.

I medici generali diventerebbero dei liberi professionisti – liberi dunque di associarsi tra di loro e di convenzionarsi con delle assicurazioni, che li pagherebbero le pazienti, oppure dipendenti del sistema assicurativo nel complesso, a seconda del modello scelto.

La Regione fornirebbe una parte di ciò che oggi spende in sanità – o meglio nella sanità che sarebbe bismarckizzata – direttamente ai cittadini, con un voucher per acquistare l’assicurazione. Nel mentre, possono scegliere opzioni ulteriori a pagamento (ad esempio assicurazioni di viaggio, no ticket, per sport pericolosi, per liberi professionisti in caso di malattia).

La Regione, dunque, gestirebbe i servizi d’emergenza come il pronto soccorso o la guardia medica (che potrebbe essere affiancata da un servizio di consulto digitale dell’assicurazione) mentre le assicurazioni gestirebbero la medicina generale. Ci sarebbe una competizione sana, invece, in altri settori quali le visite specialistiche, le degenze o gli interventi: Il pagamento sarebbe effettuato dalle assicurazioni (che sono comunque finanziate e garantite dal servizio pubblico) e, secondo la scelta del paziente, andrà verso una struttura pubblica, privata caritatevole o privata per profitto.

I tempi delle visite calerebbero: non ci sarebbe più una lista a cui iscriversi ma una moltitudine di medici, cliniche ed ambulatori che concorrono per avere i soldi della vostra visita: in sostanza la celerità del privato unita al pagamento nullo o ridotto del pubblico. Idem in campi come la fornitura di farmaci o gli interventi d’emergenza, che sarebbero cofinanziati dall’ente pubblico e dall’assicurazione dell’individuo.

Sarebbe, in sostanza, un Bismarck coperto dal pubblico, uno dei vari sistemi ibridi, dove l’assicurazione d’emergenza è pubblica mentre l’assicurazione generale è privata ma viene garantita nella forma base.

La concorrenza fiscale fa bene

È una proposta ormai ricorrente, da parte della sinistra europea, quella di limitare la concorrenza fiscale tra Stati.

Per chi non lo sapesse, per concorrenza fiscale sì intende la possibilità per gli Stati che partecipano a uno stesso mercato di farsi concorrenza sulle tasse e le imposte in modo da attrarre più contribuenti. È un modello applicato, tra l’altro, in Stati prosperi come la Svizzera o addirittura il piccolo Liechtenstein.

Voler imporre un’aliquota minima obbligatoria per le imprese, nel caso della proposta del PD il 18%, è un’idea sbagliata per due principali motivi:

Il primo è che premia gli Stati spendaccioni e che non sanno curare i conti pubblici. In sostanza stiamo andando a dire agli Stati che sanno gestirsi che devono alzare le tasse perché ci sono Stati che amano fare spesa pubblica inutile. È una totale deresponsabilizzazione di Stati ed elettori, che non avranno alcuna convenienza a comportarsi responsabilmente dato che Mamma Europa sarà sempre pronta a rendere gli Stati spendaccioni concorrenziali a forza. Una cosa che ricorda molto l’idea sovranista per cui gli Stati sono liberi di fare tutto il debito che vogliono e la colpa dei fallimenti è dell’Europa e dei mercati.

Il secondo è che una mossa del genere rischia di aumentare l’euroscetticismo e la concorrenza extra UE.

I cittadini degli Stati dell’UE più virtuosi inizierebbero a vedere l’UE come un mezzo al servizio degli Stati più spendaccioni dando il via libera ai locali partiti euroscettici. E, valutando che l’UE spesso bacchetta gli Stati meno virtuosi per il debito, non ci sarebbe nemmeno un guadagno d’immagine presso gli Stati meno virtuosi.

Ma, soprattutto, esistono Stati extra-UE ma nel mercato unico. Questi Stati hanno una buona discrezionalità nell’applicare i regolamenti UE. Con Stati UE come il Lussemburgo, i Paesi Bassi o l’Irlanda fuori gioco sarebbe possibile per gli Stati dell’EFTA/SEE rifiutare quella normativa e accaparrarsi il mercato, magari con qualche norma ad hoc.

La concorrenza sleale può, però, esistere

Esiste un caso in cui la concorrenza fiscale può essere sleale. È infatti possibile fare patti fiscali tra aziende e Stati. La ratio della norma è chiaro: Semplificare l’imposizione fiscale per aziende molto articolate e dove il calcolo effettivo sarebbe oneroso.

Tuttavia in certi casi gli accordi sono estremamente vantaggiosi per le aziende, arrivando ad aliquote molto più basse rispetto a quelle applicate di solito.

In tal caso la concorrenza è sleale soprattutto verso i propri cittadini: Immaginate di pagare un’imposta aziendale del 15% ma sapere che Google paga il 3%.

L’aliquota minima europea, comunque, non è la soluzione a tale problema dato che limita principalmente le imprese oneste e non queste situazioni borderline.

Intervista a un rider Deliveroo

Il governo vuole un decreto con “le tutele” per i rider: da anni leggiamo di persone sfruttate, pagate 3€ l’ora, sotto costante minaccia di licenziamento, che devono lavorare sotto pioggia, neve e grandine e dove il minimo ritardo è punito col licenziamento.

Al contempo, i sindacati – interni o esterni – chiedono che tutto ciò finisca e che i rider abbiano di più: ferie pagate, contributi per la pensione, rimborso dei costi di connessione a Internet e della manutenzione del mezzo e simili.

Ma è davvero così? Ho realizzato una piccola intervista a un rider di Deliveroo che lavora in una città del Nord Italia, per sentire la sua.

Secondo molti, i rider sono sfruttati, tu ti senti sfruttato?

I media analizzano il lavoro dei rider con una scarsa conoscenza delle modalità di lavoro applicate dalle varie società. Nella situazione attuale, considero poco vantaggioso solo il contratto dei collaboratori di Glovo, ai quali non viene riconosciuto un minimo orario per la presenza. Deliveroo invece offre un minimo orario di 7.50€ lordi ed un’assicurazione sugli infortuni che copre ogni rider o sostituto per qualsiasi tipo di infortunio, fino ad un’ora dopo la fine delle sessioni prenotate.

Mentre su Deliveroo ci occupiamo solo della consegna in altre piattaforme i rider possono o devono accettare pagamenti in contanti e quindi tenere un fondo cassa, però senza indennità di maneggio denaro o assicurazione su furti. Poche settimane, ad esempio, fa un Glover – un collaboratore di Glovo – è stato derubato del suo incasso e l’azienda gli ha inizialmente detratto la somma sottratta, salvo tornare indietro dopo la sollevazione mediatica.

Personalmente non mi ritengo uno sfruttato, le tariffe proposte da Deliveroo, ovvero un minimo di 4€ ad ordine al quale va aggiunto un importo variabile in base a km da percorrere e rider disponibili, sono il giusto per un lavoro che non richiede particolari competenze, ma ovviamente nessuno si lamenterebbe di un aumento.

Probabilmente i media si sono dimenticati dei fattorini che lavorano in nero per le pizzerie e che guadagnano in una giornata quello che io guadagno in un’ora.

Come hai fatto a diventare rider? Hai sostenuto qualche spesa?

Per diventare rider ho inviato una candidatura sul sito di Deliveroo.
Basta semplicemente fornire i propri dati anagrafici e scegliere il mezzo con il quale si vuole lavorare, ed in seguito inviare una scansione della propria carta di identità e della propria tessera sanitaria (permesso di soggiorno nel caso di lavoratori stranieri, assicurazione e patente nel caso si scelga di lavorare con veicoli a motore).

Se si viene scelti – è molto facile per alcune città, ma molto difficile per altre – arriva via mail un contratto da firmare elettronicamente e una volta firmato il contratto (del quale non si può rivelare il contenuto), si diventa collaboratori dell’azienda e viene inviato un link per ordinare gratuitamente il kit legato al veicolo con il quale ci si è iscritti.

Nel caso ci si iscrivesse in bicicletta, il kit include uno zaino termico, una borsa termica, un casco con luce posteriore, una giacca impermeabile ed un supporto per telefono da installare sulla bicicletta.
Una volta ordinato il kit, viene fornito l’accesso all’app per rider, praticamente lo strumento di lavoro. Con questa si possono prenotare turni, ricevere o rifiutare ordini e tenere sotto controllo i propri guadagni.

Non ho sostenuto nessuna spesa se non quella di connessione ad internet, però sono a conoscenza del fatto che altre aziende facciano pagare il kit per lavorare.

Come funziona il tuo lavoro? Hai un tot obbligatorio o sei libero?

È un lavoro molto particolare, ma se si fa con serietà e gentilezza è un lavoro abbastanza tranquillo.
Quando ho un turno prenotato, mi reco nella zona e mi rendo disponibile a ricevere ordini.
Al contrario di quanto sempre dichiarato dai media, si può rifiutare qualsiasi ordine e non c’è nemmeno un limite ai rifiuti.

Un algoritmo chiamato Frank mi geolocalizza e decide se inviarmi una proposta di ordine in base alla mia posizione ed al mio veicolo e posso decidere se accettare o meno una consegna.

Una volta accettata mi reco al ristorante e comunico al personale il numero d’ordine visualizzato sull’app, metto il cibo nello zaino, vado verso il cliente e consegno. Una volta conclusa una consegna viene chiesto un feedback ed in seguito si torna disponibili per la prossima consegna. Non è vero che si viene “bannati” se si è lenti.

La scelta delle ore in realtà è un concetto un po’ complesso da spiegare perché varia da città a città, ma comunque si possono prenotare al massimo circa 50 ore a settimana.

Nel mio caso è importante lavorare nell’orario serale/notturno del weekend in quanto posso ottenere accesso prioritario alla prenotazione delle ore solamente lavorando in quelle giornate.

Se non volessi lavorare durante un turno prenotato? Bastano semplicemente 2 click, o magari se non me la sento (già successo in una giornata troppo calda), basta mettersi offline, ovvero rendersi non più disponibili a ricevere proposte di ordini. Ma anche fare questo, non influisce in alcun modo sulle possibilità lavorative o sui guadagni.

In ogni caso, da poco è possibile non lavorare anche per lunghi periodi di tempo senza che le proprie statistiche vengano modificate.
Con altre piattaforme non è nemmeno possibile cancellarsi da alcuni turni se al loro inizio mancano meno di 24 ore.

Devo dire che però, in merito ai turni, la più flessibile è Uber Eats, che consente di lavorare in qualsiasi momento e senza necessità di prenotarsi prima.

Il governo ritiene prioritario tutelare la tua professione, sei d’accordo?

Il governo, che per definizione è composto da burocrati, rischia di creare solamente disastri. Dovrebbe al massimo inserire alcune norme a tutela dei rider di quelle piattaforme più rigide che fanno maneggiare loro denaro senza alcuna indennità, ma non ingessare tutto il settore.

Purtroppo il governo non riconosce che questo è un lavoro atipico, un misto tra lavoro dipendente e lavoro da libero professionista.

Personalmente creerei un nuovo contratto specifico per questo tipo di lavoro, magari con parti derivate dal CCNL Logistica, con i principi esposti precedentemente.

Il governo non sa nemmeno di che cosa sta parlando: come si possono calcolare ferie e malattie se la gestione dell’orario di lavoro è totalmente a discrezione del singolo rider? O ancora, nel caso di Uber Eats come andrebbero calcolate, visto che un rider può decidere di lavorare in qualsiasi momento?

Prima di diventare rider credevi anche tu fosse una categoria sfruttata?

Se devo essere sincero sì, in passato pensavo veramente che i rider venissero pagati poco più di 2€ l’ora, ma mi è venuto il dubbio sulla veridicità del tutto vedendo sempre dei rider per strada.

Dopo un po’ di tempo mi iscrissi ad un gruppo del settore su Facebook, ed infatti notai, “parlando” con altri, che la paga oraria media era molto diversa da quella mostrata dai media.

Posso dire che, a livello personale, con un minimo sforzo si riesce tranquillamente ad arrivare a 12€ lordi l’ora. Se capitano consegne doppie o particolarmente lunghe, si riesce anche ad arrivare ai 15-17€ lordi l’ora, senza contare le mance via app o in contanti. Questo per Deliveroo, con altre piattaforme non saprei ma leggendo i loro gruppi su Facebook pare che le paghe siano minori.

C’è qualcosa del settore che cambieresti?

Non è detto che quel che va bene a me vada bene a tutti. Io proporrei la rimozione del limite di 5000€ per le prestazioni occasionali (contratto della maggior parte delle piattaforme, superato il limite serve aprire la Partita IVA) ed anche la rimozione della tassazione al 20% delle mance. Il cliente viene ingannato, pensa di star facendo un favore al rider, ma in realtà sta dando parte della sua mancia ad un’entità che non conosce nemmeno i lavori sui quali pretende di legiferare.

 

Il proibizionismo è criminale

Negli ultimi anni la cronaca nera italiana è stata più volte scossa da delitti legati al mondo della droga. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato l’omicidio del carabiniere Mario Rega, ma potremmo anche parlare dei casi di Pamela e Desirée.

Ciò ha portato vari esponenti politici a concordare sull’esistenza di un’emergenza nazionale riguardante la droga, da combattere assolutamente: Qualche mese fa Matteo Salvini, che la paragonava alla a detta sua inesistente emergenza fascismo, qualche giorno fa Matteo Renzi, che ha parlato di questa emergenza e di come il già menzionato ministro dell’interno non voglia risolverla.

A mio parere la vera emergenza è che ci siano ancora politici che urlano alla guerra alla droga. Nessuno nega che vi sia stata un’emergenza droghe negli anni ’70 e ’80, quando periferie oggi rispettabili e vivibili di varie città italiane avevano alcune strade che al posto dell’asfalto avevano i drogati, ma se oggi sentiamo di crimini legati al mondo della droga la colpa è del proibizionismo. Brutto a dirsi ma lo Stato è complice morale di tanti delitti.

Se oggi sentiamo di crimini legati alla droga è in larga parte dovuto al fatto che il commercio di certe sostanze, invece di essere alla luce del sole, legale e regolamentato, è in mano alla criminalità. Se si parla tanto di un’ipotetica possibilità di passare dalle droghe leggere a quelle pesanti, il cosiddetto effetto gateway, come scusa per vietare anche la cannabis non si parla a sufficienza dell’ovvio effetto gateway della droga verso la criminalità, essendo l’unica che può soddisfare la domanda.

E di chi è la colpa? Dello Stato. Che, in un delirio d’onnipotenza, crede che sia sufficiente vietare un mercato per farlo scomparire. Ma così non è e, infatti, si va a favorire chi la legge non la rispetta: la criminalità. Danneggiando i consumatori, togliendo loro ogni garanzia su ciò che consumano e obbligandoli ad esporsi a situazioni pericolose e criminogene per procurarsi ciò che desiderano.

“Ben gli sta perché si drogano”? Beh, legittima opinione, ma spesso portata avanti, con netta incoerenza, da chi ha capitalizzato consenso sulla morte di Pamela Mastropietro o Desirée Mariottini.

Ebbene, se non mi espongo sul caso di Mario Rega, in fin dei conti sono indagini in corso e non ha senso parlare con dati parziali, mi permetto di dire che, molto probabilmente, i casi di Pamela e Desirée sarebbero potuti non essere così drammatici – drammatici in generale lo sono poiché un consumo così precoce di droghe unito a difficili situazioni familiari non è una bella cosa – se lo Stato non le avesse consegnate direttamente tra le braccia della criminalità. Non serve essere Milton Friedman per comprendere la differenza tra un negozio regolare, una farmacia e uno spacciatore parte di una gang.

Porre fine al proibizionismo non vuol dire porre fine ad ogni crimine legato alle droghe. In fin dei conti esistono anche crimini dovuti all’alcol: C’è chi ruba per comprare il vino, è abbastanza folle pensare che nessuno rubi per comperare la droga, ad esempio. Così come c’è chi potrebbe prostituirsi e finire male per ottenere i soldi necessari a comperare la droga.

Tuttavia, come hanno mostrato l‘esempio americano del proibizionismo sull’alcol e la depenalizzazione portoghese, la riduzione del danno dev’essere la via maestra, a beneficio dei consumatori e dei cittadini tutti.

Ma oggi lo Stato, che sono i politici che abbiamo votato noi, preferisce favorire la criminalità facendo pagare il prezzo a noi e, soprattutto, agli assuntori di sostanze, che invece dovrebbero essere aiutati, non messi in pericolo. Per questo dobbiamo dire no al proibizionismo, per non essere complici di questo schifo ed essere veramente dalla parte dei più deboli e vulnerabili.

Davvero la sanità italiana è la quarta migliore al mondo?

La sanità PUBBLICA italiana è la quarta migliore al mondo. Scacco matto neoliberisti!

Se avete mai discusso di sanità avrete sicuramente letto un commento del genere. Ma è vero?

Effettivamente esiste una classifica di efficienza stilata da Bloomberg che afferma che la nostra sia la quarta sanità più efficiente del mondo.

Ma si basa su un criterio fallace. Infatti è un semplice rapporto tra l’aspettativa di vita e i costi sanitari. Ma l’aspettativa di vita varia in base a numerosi fattori, dall’alimentazione alla genetica, e l’Italia gioca in casa: Sardi e lombardi, curiosamente anche quelli ticinesi, sono tra le popolazioni più longeve d’Europa.

Bisognerebbe trovare una classifica basata su criteri sanitari, come l’accessibilità, l’informazione, i risultati effettivi, la prevenzione e la capillarità dei servizi offerti. Ah, già, esiste, è l’Euro Health Consumer Index, nella sua versione più recente del 2018.

E l’Italia perde improvvisamente il suo primato: Si posiziona ventesima, appena dietro la Spagna e prima della Slovenia, e mostra una scarsa capillarità e accessibilità.

Le prime dieci posizioni sono occupate da Stati che adottano il cosiddetto sistema Bismarck o un sistema universale e poi, undicesima, c’è la Francia, che usa un sistema intermedio tra i due.

È chiaro che da questi dati non si possa decretare un sistema migliore. Ciò dipende da vari fattori, primo tra tutti l’efficienza nell’uso del denaro dei contribuenti, una cosa affermata nei paesi scandinavi ma completamente estranea all’amministrazione italiana che vede la sanità più come un poltronificio.

Ma nel momento in cui la sanità italiana in Europa è percepita al livello di quella della Serbia, che è comunque uno Stato in crescita, dovremmo interrogarci su come possiamo migliorare. Perché, sia chiaro, in Italia abbiamo tante eccellenze, specialmente in Lombardia, ed è vero che ci sono persone che vengono dall’altro capo del mondo a curarsi a Milano.

Ma se a dover intraprendere certi viaggi della speranza sono anche cittadini italiani (perché i loro ospedali locali sono in condizioni disperate) è evidente come la sanità italiana non funzioni. E la soluzione proposta nel referendum costituzionale del 2016, ossia centralizzare tutto, è una non-soluzione, poiché è la mala-amministrazione a rendere certi ospedali problematici; raramente un’amministrazione centralizzata non eccezionale è maggiormente performante in tal senso rispetto un’amministrazione locale. Soprattutto in Lombardia.

Non a caso i sistemi sanitari scandinavi citati precedentemente agiscono a livello fortemente decentrato.

C’è euroscetticismo ed euroscetticismo

Non può esistere né deve esiste un’unica posizione liberale in materia di integrazione europea. La ragione è semplice: in base al restante bagaglio culturale si svilupperà, partendo da un’ideologia liberale, l’opinione sull’Europa.

Alcune categorie liberali hanno una posizione caratteristica sull’argomento: i liberal-popolari sono di solito europeisti, i liberali per la democrazia diretta euroscettici e gli indipendentisti liberali sono federalisti europei.

A tal proposito ci tengo a sottolineare come esistano valide ragioni per essere liberali e contrari all’Unione europea. Potremmo parlare del fatto che l’UE agisca come mercato unico e non come libero mercato, dello spiccato protezionismo della PAC o del fatto che, essendo governata dagli Stati, alla fine si comporta come un semplice delegato degli interessi che, nel 1900, hanno permesso al collettivismo di prevalere.

Di solito chi ha queste opinioni sostiene, appunto, un’Europa diversa, aperta al libero mercato e dove il potere sia ad un livello più basso, statale o regionale, per permettere un diffuso ricorso alla democrazia diretta.

Si può certamente obiettare come questi obiettivi siano raggiungibili anche all’interno dell’Unione, però è anche certamente più facile convincere un Paese che l’unione intera.

Tuttavia questo euroscetticismo, in Italia, esiste solo in alcuni ambienti libertari e, come frangia estremamente minoritaria, in alcuni partiti conservatori.

Il resto degli euroscettici lo sono, semplicemente, per il motivo sbagliato, ossia per un progetto sovranista e protezionista.

Il sovranismo, in Italia, è quell’ideologia per cui la politica economica va acclamata a furor di popolo e quando chi presta i soldi ne chiede conto o chiede a un’agenzia privata di farsi fare un rating si urla al complotto e alla speculazione. Si tratta di una delle tante ideologie che condividono il problema del socialismo, ossia che prima o poi i soldi altrui finiscono.

Sia chiaro, non ho nulla contro del sano conservatorismo fiscale in stile Kurz, che ha come obiettivo ridurre la dipendenza dello Stato da prestiti raggiungendo il pareggio di bilancio, ma il sovranismo italiano semplicemente vorrebbe fare debito per attuare politiche socialiste e keynesiane e quando l’Europa fa notare che non è una buona idea, invece di prendersela con la realtà, se la prendono con Bruxelles.

Il secondo problema è quello del protezionismo: nonostante l’UE sia fortemente protezionista con il mercato estero, soprattutto in materia agricola, ai protezionisti italiani non basta: vogliono più protezioni, meno mercato libero tra nazioni UE e più sussidi.

Ciò soddisfa due importanti bacini elettorali: quello degli agricoltori, ben desiderosi di non aver concorrenza e di scaricare parte dei propri costi sui contribuenti, e quello degli sciovinisti alimentari, per ciò tutto ciò che si mangia in Italia dev’essere prodotto entro i sacri confini della Patria, ignorando il fatto che l’Italia mangia più di quanto produca, e sfottono gli avventori di Starbucks per poi comperare prodotti 100% italiani che costano, senza contare i sussidi, il triplo degli omologhi prodotti.

Tutto ciò rende molto arduo un serio dibattito sull’integrazione europea, su tutto ciò che spazia tra “Patria e avtarchia” e l’Unione europea e possibili sviluppi, ad esempio con enti come l’Area Europea di Libero Scambio o lo Spazio Economico Europeo come l’Area Schengen o accordi bilaterali.

Liberalismo e leva obbligatoria

È ultimamente tornata in auge nel dibattito politico europeo la questione della coscrizione dei giovani, ed è una proposta che tocca tutto lo spettro politico: cavallo di battaglia della Lega e di AfD, implementata da Macron e proposta, seppur nella forma soft del servizio civile, dal PD italiano.

Negli ultimi decenni grandi pensatori liberali si sono opposti, spesso con successo, alla naja: Nota la campagna contro la coscrizione di Milton Friedman negli Stati Uniti, meno nota la legge Martino, firmata da un liberale di ferro, che sospese la leva obbligatoria in Italia.

Tuttavia basta guardare vicino all’Italia per notare come due degli Stati più liberali che confinano con l’Italia, Svizzera e Austria, hanno la leva obbligatoria.

Come mai?

Bisogna considerare che il liberalismo difende la libertà individuale ed economica ma riconosce l’esistenza dello Stato con limitate funzioni da implementare con una moderata tassazione, il meno coercitivamente possibile.

In un certo senso, nel momento in cui lavoriamo per pagare le tasse, stiamo di fatto lavorando non per noi ma per lo Stato, esattamente come nel caso della leva.

Chiaramente c’è la differenza che nel caso delle tasse stiamo scegliendo noi come lavorare per pagarle, mentre nel caso della leva il lavoro da fare viene imposto dallo Stato, ma il principio coercitivo alla base resta.

Quindi, in linea di massima, uno Stato liberale può avere la leva obbligatoria, se è l’unica alternativa possibile per formare le Forze Armate.

Non a caso la Svizzera e l’Austria sono Stati di piccole dimensioni neutrali, quindi non possono contare su alleati internazionali ma solo sulle proprie forze. L’esercito di milizia, in tal caso, è una scelta quasi naturale.

Ma se esiste un’alternativa lo Stato dovrebbe seguirla, com’è stato fatto oggi nella gran parte degli Stati europei.

Argomenti pro leva

Ma i sostenitori della leva portano argomenti legati alla sicurezza nazionale?

Purtroppo, no. In tal caso sarebbe semplice analizzare questi argomenti e dare una risposta secondo le idee liberali.

I sostenitori di questa misura portano solo argomenti tratti dal peggiore paternalismo di Stato:

Ci vuole la leva per educare i nostri ragazzi, ci vuole la leva per insegnare ai nostri ragazzi la generosità e il sacro amor di Patria.

Un palese tentativo, per dirla alla Thatcher, di “assegnare i propri problemi alla società”. Ma, per continuare la provocazione tory, questa società non esiste: chi parla di educare i ragazzi tramite la leva, oltre a non aver mai aperto un libro di storia, sta ammettendo il proprio fallimento come educatore e tenta di scaricare i suoi fallimenti sulla società.

La milizia di popolo, però, sarebbe un bene

Per uno Stato moderno che voglia contare a livello internazionale è necessario avere un esercito professionale e permanente. Non sarebbe sbagliato, però, aprire la possibilità di armarsi in modo organizzato e controllato ai comuni cittadini, magari in collaborazione con gli enti locali, per poter veramente permettere a chiunque di difendere la Patria, anche senza entrare nell’esercito, e al contempo migliorando le possibilità per l’Italia di resistere ad un eventuale governo dittatoriale, non a caso una delle poche ragioni sensate pro-leva che ho letto è stata che un esercito democratico ha una minore tendenza a partecipare a colpi di Stato.

Avere cittadini addestrati all’uso delle armi vuol dire ricordarsi da dove nasce l’attuale Italia, ossia dall’uso delle armi per liberarci dal nazifascismo. Non possiamo sapere cosa ci riserverà il futuro, speriamo tutti una florida democrazia liberale, ma se così non fosse dev’essere dovere dello Stato dare ai propri cittadini la possibilità di resistere ad un governo tirannico o ad un’invasione straniera.

Liechtenstein, uno Stato liberale retto da un monarca miniarchico

Lassù, sul giovane Reno, sporge dalle alture alpine il Liechtenstein. Queste sono le prime parole dell’inno di uno dei Paesi più particolari del mondo, il Liechtenstein.

Frutto della necessità della famiglia austriaca Von Liechtenstein di avere un territorio sotto il governo diretto dell’Imperatore per partecipare alla Dieta, solo nel 1938, dopo più di 200 anni, i principi del Liechtenstein vanno a viverci.

Da una prima occhiata, pare uno Stato poco interessante per un progetto liberale: monarchia costituzionale con un forte potere del Principe regnante che può nominare giudici, sciogliere il governo e porre veto su ogni legge. Inoltre è uno Stato fortemente cattolico: la fede cattolica è ufficiale e, ad esempio, l’aborto è vietato quasi in ogni caso.

Basta tuttavia un’analisi più approfondita per convincersi dell’utilità di analizzare il caso del Principato del Liechtenstein: è uno dei Paesi con il PIL pro capite più alto al mondo; la pressione fiscale è di poco superiore al 15% e c’è un forte uso della democrazia diretta. Ma, soprattutto, c’è uno Stato leggero che lascia ai propri cittadini un’enorme libertà di scelta. Libertà solo nella propria scelta economica ma anche su questioni che in Italia sarebbero impensabili, come rovesciare la monarchia, cambiare regnante o secedere.

Abituati culturalmente a considerare la monarchia come un retaggio del passato che vuole conservare l’antichità, potremmo immaginare che il popolo del Liechtenstein abbia conquistato queste libertà in una costante lotta contro un tradizionalismo monarchico.

Ma il vero catalizzatore di queste riforme, alle volte così estreme da venir rigettate dal popolo, è stato il Principe del Liechtenstein Giovanni Adamo II. Questo, incaricato dal padre negli anni ’70 di riordinare il patrimonio di famiglia, si convinse di come per uno Stato fosse necessaria un’ampia decentralizzazione, la possibilità di cambiare Stato o di fondarne uno nuovo per le comunità locali. Ciò visto anche come incentivo allo Stato a rimanere concorrenziale e utile e, in generale, invertendo il paradigma che quindi vede lo Stato al servizio del cittadino.

Il Principe si dimostra essere fermamente contrario al protezionismo, che considera come una misura che rallenta il progresso e favorisce la povertà, ed anche al proibizionismo sulle droghe, a supporto della lotta alla malavita. Ha sottolineato come l’inventore della guerra alla droga sarebbe un buon candidato ad un ipotetico premio Nobel per la stupidità. In questo, comunque, il popolo non l’ha seguito e le droghe sono tuttora illegali nel Principato.

Pur avendo ampi poteri, non ne ha mai abusato e non ha mai usato il suo diritto di veto. Il padre lo usò solo una volta, per porre veto su una legge sulle riserve di caccia; il figlio, reggente, l’ha minacciato due volte: sull’aborto e sul potere di veto stesso.

Nel 2003, Giovanni Adamo vince un referendum che permette alla Costituzione da lui emendata di entrare in vigore e inserire questi principi nel suo Stato. Ma già da prima si impegnò per essi: nel 1993, poco dopo l’ingresso del Liechtenstein nelle Nazioni Unite, fece all’Assemblea Generale un discorso difendendo il diritto di autodeterminazione e chiedendone una reale applicazione e garanzia a livello internazionale. Gli Stati nazionali, ovviamente, hanno rigettato la proposta.

Ma l’obiettivo del principe era ben più libertario: avrebbe voluto stabilire persino il diritto di secedere dallo Stato per il singolo individuo. A impedirlo è stata semplicemente l’impossibilità di coniugare tale norma con il diritto internazionale, che difficilmente prevede la fattispecie di Stati-individuo.

Nel 2009 viene pubblicato il suo volume “Lo Stato nel Terzo Millennio” in cui, dopo un’attenta analisi storica, ipotizza un nuovo modello di Stato applicabile sia a grandi Stati come l’Italia sia agli Stati piccoli come il Principato. Un modello basato sullo Stato come impresa pacifica al servizio dell’umanità e dei propri cittadini, che decentri fortemente spese e amministrazioni e garantendo i diritti fondamentali delegando le infrastrutture alle autonomie ed ai comuni.

È chiaro come il successo del Liechtenstein sia dovuto anche al non aver dovuto affrontare spese militari e diplomatiche, essendo il tutto demandato alla vicina Confederazione Svizzera. Ma se gli Stati europei agissero in tal modo, riducendo il peso dello Stato nella vita dei cittadini, riconoscendo il loro diritto di scegliere nel libero mercato e riconoscendo decentramento e autodeterminazione delegando la difesa ad un’entità unica (magari lasciando il diritto di essere armati ai cittadini) non sarebbe già un inizio?

Concorrenza federale e secessione

Non serve indossare un elmo verde con le corna o bere l’acqua del Po per parlare di federalismo e secessione.

Anzi, basta un bagno di realtà e guardarci attorno per avere dubbi sul paradigma dello Stato sovrano nazionale, messo in dubbio sia in zone ricche e produttive (si veda la crisi catalana) sia in zone povere (come in Corsica), sia in zone grossomodo normali come la Scozia.

Ci si può arroccare in parole scritte su carta, facendo finta di credere alla nazione “una e indivisibile”, oppure si può pensare a come riformare lo Stato, guardando ad esempi funzionanti, come in Europa abbiamo la Svizzera e il Liechtenstein.

Svizzera: Federalismo concorrenziale

Seguendo una discussione sull’autonomia lombardo-veneta, mi è capitato di leggere che “grande è meglio”.

Il bello è che stavo leggendo questa discussione mentre ero seduto su una panchina a Chiasso. Ero appena uscito dalla Regione più ricca del “grande Stato” per approdare in un Cantone povero del “piccolo Stato”… e il cantone era superiore praticamente in tutto. Si tratta di aneddoto, ma basta controllare qualsiasi statistica per vedere la Confederazione battere l’Italia, una e unitaria.

La ragione è semplice: i Cantoni sono in concorrenza tra di loro. Quando il Direttorio, il Parlamento o il Popolo decidono qualcosa devono aspettarsi che ciò abbia delle conseguenze.

Quindi, in sostanza, se Zugo decide di finanziare un Reddito di Cittadinanza tassando chi produce non può lamentarsi se qualcuno sposta la sede legale a Zurigo, a pochi chilometri di distanza. Questo è un “voto con i piedi“.

In Italia, invece, sappiamo bene come funziona: con la logica assistenzialista e con una centralizzazione tale che tutte le scelte politico-economiche vengono prese a Roma, c’è una grande distanza (o, perlomeno, molta confusione) fra chi paga i servizi assistenziali e chi li riceve.

Cosa sarebbe successo in un’Italia “svizzera“, ad esempio, col Reddito di Cittadinanza?

Per prima cosa, sarebbe stata una misura adottata a livello regionale/provinciale. Magari anche in modo coordinato tra varie Regioni, ma sta di fatto che ogni Regione avrebbe pagato il proprio Reddito e che qualche Regione nemmeno l’avrebbe adottato.

Consideriamo il fatto che ogni Regione avrebbe pagato il suo reddito: sarebbe dunque necessario per tale Regione tassare di più cittadini e imprese. Ma ricordiamoci che le imprese possono rapidamente spostare la sede legale in un’altra Regione, più libera economicamente. Quindi il governo di una Regione deve pensarci non una, non due ma cento volte prima di chiedere soldi per misure che non generano benessere.

Liechtenstein: Secessione legale

Abbiamo visto scene vergognose in Catalogna, roba che avrebbe fatto vergognare persino Josef Radetzky, che non voleva processare Cattaneo e ordinò ai propri soldati di non nuocere ai bambini.

Altri Stati, con governi più maturi, hanno provato a rispondere a queste istanze: in Italia, ad esempio, dopo il referendum indipendentista della Lega Nord vi fu una riforma autonomista voluta dal centrosinistra.

Ma un piccolo fazzoletto di terra tra Austria e Svizzera è andato oltre: il Liechtenstein, infatti, permette ai propri comuni di secedere per via referendaria, un’azione seguita poi da un trattato o da una legge e da un referendum conservativo.

Qualcuno obietterebbe che in Italia tale sistema sarebbe impossibile dato che, con tutta probabilità, giungerebbe alla Corte Costituzionale una richiesta dalla Lombardia il giorno stesso dell’approvazione della legge.

Non voglio aprire uno spinoso dibattito se la libertà valga più dell’unità, ma se penso a tutti i vantaggi che ha la Lombardia a non essere uno Stato sovrano, come ad esempio il poter contare sulla forte diplomazia italiana o il non dover mantenere un esercito, evidentemente c’è un problema in Italia, ossia la mancanza di federalismo concorrenziale.

Il diritto di secessione, in tal caso, si costituirebbe come ultima difesa contro il parassitismo di Stato che non potrebbe sviluppare misure impopolari solo in una parte del Paese, in quanto tali parti potrebbero secedere.

Cosa dobbiamo imparare

All’Italia serve al più presto un federalismo ad ogni livello, per avvicinarsi il più possibile all’individuo e renderlo più cosciente di come avvengono le spese vicino a lui.

Ciò non vuol dire solo federalismo regionale ma anche provinciale e comunale: giacché alcuni servizi dovrebbero per forza essere esercitati da Roma,  è altrettanto ovvio che molti più servizi, se fossero di competenza locale, sarebbero notevolmente migliori e rischierebbero molto meno gli effetti del clientelismo e della burocrazia.

A livello costituzionale, comunque, è a mio parere storicamente e logicamente sensato, in un contesto di sussidiarietà già descritto, definire le Regioni come federate a formare la Repubblica italiana, che poi potranno, nelle loro Costituzioni e a seconda delle loro necessità, decidere se agire come semplici strutture decentrate o anch’esse come federazioni.

Riguardo alle secessioni dovrebbe essere l’Europa a muoversi e a impedirci di rivedere scene come quelle catalane: definire un quadro unico europeo che coniughi principi come la legalità di una dichiarazione d’indipendenza secondo il diritto internazionale, come definito nell’advisory della Corte Internazionale di Giustizia nel caso Kosovo, con le necessità degli Stati e delle loro spese fatte nelle Regioni è, oltre che un modo per fornire garanzie ad entrambi, un enorme passo verso un’unità europea che non si limiti a controfirmare le velleità protezionistiche dei propri membri ma che provi a portare concordia ove vi è discordia.

Riformiamo il sistema detentivo guardando a San Marino

La vicina Repubblica di San Marino è uno Stato all’avanguardia in materia di sistema penale.

Sarà per contingenza, dato che l’unico carcere della Repubblica ha sei celle, sarà perché è noto che gli Stati piccoli curano di più gli individui che ci vivono rispetto a quelli grossi, che tendono a punirli e basta.

Cosa possiamo imparare dalla piccola Repubblica del Titano?

Riforma della giustizia

Ha poco senso parlare di riforma del sistema detentivo finché il codice penale italiano resta quello fascista, che come scopo aveva quello di instillare nei cittadini il Sacro Timor di Stato.

Dobbiamo abolire i reati senza vittima, iniziare un ampio piano di legalizzazione della droga e introdurre, come già accade in altri Stati, l’azione penale facoltativa, la giustizia bagatellare e i danni punitivi, che vanno ad escludere l’azione penale creando, però, l’effetto deterrente.

In tal modo si alleggerirà di netto il sistema penale e carcerario: Non vi verranno immessi spacciatori e taccheggiatori, affidati alla giustizia bagatellare, né piccoli criminali, che potrebbero cavarsela con un danno punitivo pagato alla vittima.

Niente cautele

In Italia si fa ampio uso della custodia cautelare, col risultato che chi viene assolto dovrà essere risarcito, a spese dei contribuenti  e non del giudice. Se, intanto, l’ingiustamente detenuto è membro di qualche categoria “cattiva”, come ad esempio un imprenditore maschio e donnaiolo, non si può escludere che il giudice che l’ha mandato in galera sia stato mandato in Parlamento.

A San Marino le misure cautelari sono scarsamente utilizzate. Oltre a far pagare ai giudici le spese per l’ingiusta detenzione l’Italia dovrebbe adottare altre misure cautelari come il divieto di avvicinamento ad una persona specifica o ad un luogo ed, eventualmente, il concetto di cauzione.

Misure alternative

Ma la vera vittoria della Serenissima Repubblica sta nella riabilitazione: Invece di rinchiudere chi sbaglia, come se fosse un’onta da nascondere, esiste una commissione nazionale che si occupa di riabilitazione ed ogni condannato ha un tutor che deve reinserirlo, consigliandolo come un amico, nella società e nel mondo del lavoro.

Se indubbiamente alcune persone, come mafiosi e assassini gravi, è meglio tenerle chiuse e separate, almeno temporaneamente, dalla società è innegabile che tanti reati oggi puniti col carcere potrebbero essere  gestiti in modo migliore per tutti tramite un sistema di riparazione, compensazione e, per lievi reati dovuti alla povertà, al reinserimento nel mondo del lavoro, con una cesura minima tra l’individuo che ha sbagliato e la società, riducendo anche il rischio di reiterazione.