Scuola libertaria, e dopo il voucher?

Ho pubblicato articoli sul tema istruzione dal mio punto di vista liberale classico, e mi è sempre dispiaciuto non potervi offrire anche la visione dei libertari. Fortunatamente ora, grazie a Mises.org, posso proporvi la traduzione di un articolo libertario del 2000 a cura di William Anderson sul lasciare l’istruzione al mercato. Pur non condividendone totalmente i contenuti l’ho trovata una lettura interessante che vi lascio volentieri.

I voucher scuola sono un punto caldo dell’attuale campagna elettorale e mettono contro democratici e repubblicani, con i primi che sostengono che danneggerebbero la scuola pubblica e i secondi che credono siano necessari per migliorare l’istruzione, specie per i più poveri. Come normale nel nostro panorama politico, sbagliano entrambi i lati.

I contrari ai voucher cadono quasi sempre in due categorie: i primi temono che siano una minaccia allo status quo della pubblica istruzione, visto che sempre più genitori iscriverebbero i propri figli nelle scuole private avendo i fondi per farlo, i secondi vedono invece nei voucher un cavallo di Troia che permetterebbe al governo di regolare le scuole private.

Essendo convinto che le scuole pubbliche siano viziate ogni oltre possibile sistemazione, per me è benvenuto ogni cambiamento che possa favorire la fine di questo mostro che danneggia le nostre libertà mentre svuota i nostri portafogli. Quindi, se credessi che i voucher fossero effettivamente capaci di danneggiare l’establishment delle scuole pubbliche, li sosterrei nonostante i miei timori.

In ogni caso, chi vede i voucher come un cavallo di Troia ha ragione, ma si perde un punto importante: i voucher non sono altro che una forma di “socialismo di mercato”. Vogliono giocare al mercato usando hardware socialista, una cosa che però in URSS ha mostrato di non funzionare e che quindi fallirebbe anche qui.

Il primo campione dei voucher fu Milton Friedman che li propose nel suo libro del 1962 “Capitalismo e Libertà” come maniera per migliorare l’istruzione per i giovani. Li ha poi riproposti nel suo “Liberi di Scegliere”, un best-seller, divenuto poi una serie di successo sulla televisione pubblica americana. I voucher, argomentava, creerebbero un mercato competititvo in un settore oggi dominato dal governo.

Le sue critiche della scuola pubblica sono fondamentalmente accurate. Le scuole pubbliche sono un monopolio intrusivo e ingombrante, come tutti i monopoli statali, e dunque falliscono quando si tratta di istruire bambini e ragazzi. Contro il monopolio Friedman e altri, soprattutto vari editorialisti neoconservatori del Wall Street Journal, propongono il già citato modello a voucher. A detta loro permettere ad ogni famiglia di usare il voucher per pagare la retta di una scuola privata darebbe ai figli l’opportunità di frequentare una scuola di qualità al posto di una decadente scuola pubblica.

L’idea sembra essere meritoria a prima vista, ma in verità ha vari problemi. Prima di tutto, come fatto notare da molti critici conservatori e libertari, i voucher – essendo finanziati dalle tasse – permetterebbero allo Stato di regolare le scuole private nella stessa maniera in cui regola gli istituti che, già oggi, ricevono sussidi statali. Dunque, il settore potrebbe trovarsi paralizzato e schiacciato molto presto dal governo. 

Ma passiamo alla seconda obiezione: l’obiettivo del voucher è quello di “creare un mercato” dove tale mercato non esiste. Purtroppo, come fatto notare molte volte da Murray Rothbard e da Ludwig von Mises, un mercato è impossibile senza veri diritti di proprietà. I voucher sono finanziati dallo Stato, coi soldi dei contribuenti. Non sono più privati di un’autostrada o del Ponte di Brooklyn.

Il problema della proprietà privata è importante: senza tali diritti il programma a voucher opererebbe a volontà degli enti statali, che potrebbero cambiarne i termini a loro piacimento. Un governo potrebbe dare un voucher senza farsi troppe domande, quello dopo potrebbe chiedere “responsabilità” o abolire direttamente il programma, se così chiedesse il sindacato dei docenti.

In sostanza, a differenza dell’apparato attuale, dove il governo fa pagare delle tasse per l’istruzione ma lascia comunque liberi di utilizzare quanto risparmiato per un’istruzione privata (d’altronde, miei soldi = mia proprietà), in un sistema del genere sarebbe lo Stato a pagare. Uno Stato che potrebbe limitarne l’uso su pressione di gruppi di interesse che non sono certamente interessati ai diritti delle famiglie.

Come fatto presente sempre da Rothbard e Mises, senza diritti di proprietà, il calcolo economico è una simpatica commedia degli errori. Ciò porterebbe a tre probabili scenari:

  1. La nuova domanda nel settore delle scuole private porterebbe ad un aumento delle rette, impedendo comunque a molte famiglie di mandare i figli nella scuola preferita e con politici che possono usare gli eventi per parlare di speculazione e proporre nuove regolamentazioni, spesso non necessarie e non sagge
  2. La nuova domanda porterebbe a varie start-up dell’istruzione: alcune assolutamente legittime, altre losche, i cui crimini porterebbero i politici a colpire duro sul settore privato, anche quello legittimo
  3. L’oligopolio: come mostrato da vari economisti le aziende già presenti sul mercato sono in grado di prendere in mano rapidamente il processo regolatorio, lasciando fuori i piccoli concorrenti. 

L’ultimo scenario è molto probabile in caso di adozione massiccia dei voucher: in principio scuole pubbliche e sindacati resisterebbero all’introduzione, ma prima o poi si renderebbero conto che i flussi di danaro permettono loro di avere più potere sulle operazioni delle scuole private.

Così, sorgerebbero alleanze tra questi ultimi e le scuole private più importanti, che non desiderano competere con piccole istituzioni, portando a regolamentazioni in grado di danneggiarle o portarle al fallimento.

In altre parole, il voucher sembra un’ottima idea ed è proposto in buona fede da chi vuole davvero mettere in discussione il monopolio statale sull’istruzione, ma i programmi a voucher hanno troppi problemi intrinseci. Non creano vere condizioni di mercato perché non sono proprietà privata. Esattamente come il socialismo di mercato di Lange sono misure a metà che, alla fine, metterebbero in trappola le scuole private più di quanto lo siano oggi.

La legalizzazione della cocaina spiegata dal Principe del Liechtenstein

Nella politica ordinaria, quando si parla di legalizzazione delle droghe leggere, la risposta tipica dei contrari è “ah sì, dopo la marijuana cosa legalizzeremo, la cocaina?”.

Solitamente, a tal punto, si parte su un dibattito sul danno fattuale degli stupefacenti, sul fatto che le droghe leggere facciano questo e quello mentre le droghe pesanti siano peggiori, che vi sia una differenza e così via.

Eppure la risposta alla domanda iniziale dovrebbe tranquillamente essere “sì”. Esistono vari motivi per cui certe sostanze siano molto meno dannose dentro la legge e non fuori.

Per esempio la Svizzera ha portato l’eroina dentro la legge, offrendola gratuitamente ai dipendenti. Ciò da un lato ha enormemente ridotto i tassi di infezioni e morti e dall’altro ha anche mandato fuori mercato lo spaccio: nessuno creerebbe un mercato per quelle decine di persone che magari vorrebbero provare.

Ma tra l’eroina, che è tristemente nota per i suoi effetti, e la marijuana, che è ormai socialmente paragonabile all’alcol e tollerata e legalizzata in vari paesi, c’è tutto un mondo di droghe chiamate pesanti ma che sono meno dannose dell’eroina, tra cui la cocaina.

Questa droga è infatti poco spesso analizzata nelle proposte di legalizzazione: non ha particolari usi medici, chi la usa non è sempre un derelitto come con l’eroina e spesso è anche considerata una droga altolocata.

Perché legalizzare la cocaina?

Eppure esistono ottime ragioni per legalizzarla. La ragione è semplice: il proibizionismo ha fallito e le persone continuano a drogarsi allegramente, portando i politici a chiedere più guerra alla droga, che fallirà, portando i politici a fare più guerra alla droga. Ok.

L’illegalizzazione delle droghe porta a pessime situazioni sociali quali:

  • La possibilità di accedere al mercato solo per grandi organizzazioni criminali, che spesso usano i proventi per azioni terroristiche o per infiltrarsi nei governi
  • Nessuna garanzia sul contenuto e sulla qualità delle sostanze, portando a pericoli sanitari ben maggiori rispetto a quelli che darebbe la sostanza di qualità
  • Creazione di aree sotto il controllo dello spaccio dove le forze dell’ordine e i comuni cittadini non possono accedere senza correre grandi rischi
  • Aumento delle dipendenze e favorire, nei fatti, un legame spacciatore- dipendente

Come legalizzare la cocaina?

Nel suo “lo Stato nel Terzo Millennio” il Principe del Liechtenstein parte dal presupposto che lo Stato, con le sue politiche completamente slegate dalle logiche di mercato, abbia fatto più danni che altro sulle droghe, addirittura favorendo le dipendenze e il malessere della comunità.

Il Principe, da buon cattolico, ritiene un fenomeno negativo la dipendenza da stupefacenti. Ma, anche se non ci piace, esiste e va affrontato secondo le regole che regolano quasi tutta la nostra vita: quelle del mercato.

Ed ecco come Giovanni Adamo II legalizzerebbe la cocaina.

Coltivazione e Stati in via di sviluppo

Nei Paesi dove si coltiva la coca esistono moltissimi coltivatori ma solo un acquirente: il cartello della zona, che è libero di fare il prezzo che vuole. Con gli enormi profitti della vendita poi si infiltrano nel governo e aumentano il proprio controllo territoriale.

Ma se noi pagassimo di più questi coltivatori? Il Principe fa l’esempio dicendo “il doppio”, ma ovviamente ci sarebbe un naturale processo di mercato sul prezzo. La possibilità di acquistare legalmente la coca indebolirebbe molto il ruolo territoriale del cartello e aiuterebbe migliaia di persone a divenire indipendenti dalla criminalità. Chiaramente non eliminerebbe totalmente il cartello e tale misura andrebbe affiancata da aiuti per rafforzare lo Stato di Diritto in questi Paesi, ma iniziare a togliere il finanziamento e l’armata di schiavi di tale sistema è il primo passo per sconfiggerlo.

Prezzi e produzione

Tanti dicono che è impossibile legalizzare la cocaina perché “se costa 50€ al grammo e ci metti le tasse e tutto nessuno la comprerebbe a 100€ al grammo”. Peccato che il prezzo della cocaina non sia di certo un prezzo di mercato: i cartelli sono anche venditori unici e possono fissare i prezzi come desiderano per avere i profitti che vogliono: Pablo Escobar non girava con una Lada.

Inoltre l’illegalità della sostanza aumenta i suoi costi: bisogna trasportare tutto in segreto, con significative perdite, e ungere le persone giuste ai giusti livelli. Un business legale non ha bisogno di sottomarini o Cessna né di regalare un’auto al capo della Polizia di Frontiera per far passare il carico, detta semplice.

Un business legale semplicemente acquisterebbe le foglie di coca, le porterebbe da qualche parte dove vengono elaborate, magari in Paesi in via di sviluppo così da strappare altra manovalanza al cartello, e legalmente e senza sotterfugi lo porterebbe nel Paese di vendita.

Vendita ed effetti sulla popolazione

La vendita di cocaina può essere regolamentata, ovviamente, ad esempio vendendola solo in determinati locali che forniscono informazioni e assistenza a chi ne ha bisogno.

Inoltre, se si vuole mantenere una sanità base per tutti può essere una misura di buonsenso far pagare i costi della dipendenza a chi fa uso delle droghe. Non amo i discorsi del tipo “legalizzare le droghe per dare più soldi allo Stato”: lo Stato stesso ha bisogno di una cura al SERT contro la sua dipendenza dalla spesa pubblica, ma esiste ampio spazio per restare concorrenziali col nero e avere una tassa sugli stupefacenti che vada a finanziare la sanità, magari direttamente il fondo malati adottando un sistema ispirato a Bismarck.

Riguardo gli utenti è ben chiaro che avrebbero benefici tutte le categorie.

Chi ha veramente una dipendenza può procurarsi la sostanza in modo controllato e chiedere aiuto e informazioni a professionisti.

Chi è un utilizzatore occasionale ha la certezza di procurarsi una sostanza sicura, con dosi certe e che non pone rischi ulteriori rispetto alla sostanza per se.

Chi magari vuole provare la prima volta, invece di trovare uno spacciatore che dalla vendita di quella dose potrebbe potenzialmente guadagnarci molto, troverà professionisti che lo consiglieranno e potranno digli di evitare e, se proprio vuole, di farlo in sicurezza.

Qualcuno argomenterebbe che nemmeno dovrebbero comprarle queste sostanze. Ma tanto lo fanno, ed è preferibile che il profitto vada nell’economia legale e non alla mafia che sta comperando il tritolo per far saltare qualche magistrato.

Ma il beneficio è anche sociale: ridurremmo nettamente i detenuti per reati di droga, con ogni detenuto ci costa 150 Euro al giorno. Ci riprenderemmo zone della città che oggi sono chiuse e in mano allo spaccio.

Non c’è, in sostanza, una ragione che sia una per mantenere il proibizionismo.

Ma sconfiggerebbe la mafia?

Certo che no, non per questo non va fatto. Così come la mafia si infiltra nei ristoranti, nell’edilizia e in qualunque settore si infiltrerà anche nella vendita di droga.

Semplicemente, è completamente idiota non fare un qualcosa che lascerebbe, per esempio, il 20% del mercato alla mafia quando con l’attuale sistema… la mafia ha il 100% del mercato.

Anche la mafia dovrebbe competere nel mercato e dovrebbe quindi ridurre i propri profitti, alle volte azzerandoli o andando addirittura in perdita. Unito ad un controllo adeguato sulle imprese, beh, non avrà la vita semplice che ha oggi.

Poi, sicuramente, potrebbero esistere fenomeni di contrabbando, visto che la malavita ha già oggi una sua rete. Ma se lo Stato non vedrà la droga come l’ennesima vacca da mungere ma come un settore strategico per ridurre la malavita e il suo potere e terrà i prezzi bassi, beh, sarà un mercato molto, molto piccolo.

Scuole pubbliche: rendiamole private

Il nostro sistema di istruzione primaria e secondaria dev’essere radicalmente cambiato. Tale necessità deriva soprattutto dai problemi che l’odierno sistema ha, ma è stata rafforzata dalle conseguenze delle rivoluzioni tecnologiche e politiche degli ultimi anni. Rivoluzioni che promettono un futuro migliore per il mondo ma anche un aumento dei conflitti sociali derivanti dall’allargamento della differenza stipendiale tra i più abili e i meno abili.

Una ricostruzione del sistema istruzione ha il potenziale di ridurre nettamente i conflitti sociali e, al contempo, rafforzare la crescita e il miglioramento della qualità di vita reso possibile dalle nuove tecnologie e dall’allargamento del mercato globale.

A mio parere tale cambiamento si può ottenere solo privatizzando larga parte del sistema educativo, ossia permettendo ad un’industria privata e for-profit di svilupparsi e di permetterle di offrire i propri servizi educativi in competizione con i servizi pubblici.

Sicuramente questa transizione non può avvenire dal giorno alla notte, dovrà essere graduale. Il migliore modo per permetterla è instaurare un sistema a voucher che permetta ai genitori di scegliere liberamente la scuola per i propri figli.

Vari tentativi sono stati fatti per introdurre dei voucher, ma nessuno di questi è arrivato ad un sistema voucher universale, soprattutto grazie al potere di lobbying dei sindacati dei docenti, tra i più potenti del Paese.

Il deterioramento dell’istruzione

La qualità dell’istruzione è in netto calo rispetto a qualche decennio fa. Non esiste ambito nel quale gli abitanti delle zone più povere siano svantaggiati quanto quella dell’istruzione. Tra le ragioni, oltre al declino di certi quartieri, il progressivo accentramento delle competenze sull’istruzione che ha permesso ai sindacati di aumentare il proprio potere.

Più è passato il tempo più il sistema è peggiorato accentrandosi. La competenza per le scuole è passata dagli enti locali allo Stato. Ad oggi più del 90% dei nostri ragazzi va in una cosiddetta “scuola pubblica”, che più che pubblica è un feudo privato di burocrati e sindacalisti. I risultati li conosciamo tutti: alcune scuole pubbliche di buona qualità nelle zone ricche, scuole scadenti nelle zone povere, con una crescita di violenza, studenti e docenti demoralizzati e performance in calo.

Questi cambiamenti nel sistema scolastico hanno reso più chiara la necessità di una riforma, ma hanno anche aumentato gli ostacoli verso di essa. I sindacati sono assolutamente contrati a qualunque misura che riduca i loro poteri e sono disposti a moblitare tutte le loro forze contro di esse.

La nuova Rivoluzione Industriale

La ricostruzione del sistema scolastico è resa più urgente dalle ultime due rivoluzioni avvenute nelle passate decadi, quella tecnologica – in particolare di metodi di trasmissione di dati molto più efficienti – e quella politica che ha aumentato la portata di quella tecnologica.

La caduta del Muro di Berlino è stato l’evento più simbolico di questi avvenimenti, ma non è stato il più importante. Per esempio in Cina il comunismo non è né morto né collassato ma dal 1976 il premier Deng Xiaoping avviò delle riforme di mercato che aprirono la Repubblica Popolare al mercato internazionale. Simili accadimenti hanno portato molte più persone nel Sud America a vivere in Paesi definibili come democrazie liberali e non come autocrazie militari. Democrazie che vogliono a tutti i costi entrare nei mercati internazionali.

La rivoluzione tecnologica permette ad una compagnia in una qualsiasi parte del mondo di usare risorse da tutt’altra parte, producendo in un’altra parte ancora e vendendo ancora da un’altra parte. Ormai è impossibile parlare di un’auto americana o di un’auto giapponese, ad esempio, e ciò vale per tantissimi prodotti.

La possibilità di lavoro e capitale di un posto di collaborare con lavoro e capitale di tutt’altro posto ha avuto un enorme effetto anche prima della rivoluzione politica. Ha significato una quantità enorme di capitale di Paesi ricchi disposta a collaborare col lavoro di Paesi più poveri, portando ad una collaborazione non solo economica ma di formazione, di condivisione di conoscenze e anche di tecniche.

Prima della rivoluzione politica il collegamento tra lavoro e capitale in tutto il mondo ha avviato una forte espansione del mercato internazionale, la nascita di nuove multinazionali e una crescita prima inimmaginabile nelle cosiddette Quattro Tigri dell’Asia, mentre in America il primo a beneficiarne fu il Cile, seguito rapidamente da altri paesi.

La rivoluzione politica, però, ha rafforzato quella tecnologica in vari modi. Per prima cosa ha allargato nettamente il lavoro a basso costo – non necessariamente di bassa qualità – che può collaborare con capitale e lavoro dei Paesi più avanzati. La caduta della Cortina di Ferro ha aggiunto a tale mercato mezzo miliardo di persone, la Cina un miliardo, tutte persone ora libere, almeno parzialmente, di intraprendere azioni capitaliste con altri individui in tutto il mondo.

Per seconda cosa questa rivoluzione politica ha squalificato l’idea di pianificazione centrale e ha aumentato la fiducia per i mercati, rafforzando scambi e collaborazione internazionale.

Queste due rivoluzioni hanno portato ad una “seconda rivoluzione industriale” paragonabile a quella avvenuta circa 200 anni fa, avvenuta anch’essa grazie all’avanzamento tecnologico e alla libertà di scambio. In questi 200 anni il mondo è cresciuto più dei precedenti duemila. E il record potrà essere battuto nei prossimi secoli se useremo al massimo le nuove opportunità.

Differenze di stipendi

Queste due rivoluzioni gemelle hanno portato a stipendi maggiori per tutte le classi sociali nei Paesi in via di sviluppo mentre i risultati sono più controversi nei Paesi ricchi. Infatti, per varie ragioni, gli stipendi dei più abili crescono mentre quelli dei meno abili tendono ad avere una pressione sugli stipendi verso il basso. E siamo dunque arrivati ad avere grandi differenze tra gli stipendi di chi guadagna di più e di chi guadagna di meno.

Se lasciamo procedere tutto ciò senza controllo rischiamo di avere gravi conseguenze sociali, con parti del Paese in condizioni da Terzo Mondo e altre in estrema ricchezza. In sostanza è la ricetta per un disastro sociale e le pressioni per impedirlo con mezzi protezionistici e simili saranno sempre più forti.

Istruzione

Ad oggi il nostro sistema scolastico è complice di tale possibile disastro sociale. Eppure è potenzialmente la più grande forza che abbiamo a disposizione per evitarlo.

Sia chiaro: la predisposizione individuale gioca un ruolo importantissimo nel definire le opportunità aperte per ogni individuo. Ma non è nemmeno l’unica cosa che conta, come dimostrano numerosi esempi. Sfortunatamente, però, il nostro sistema scolastico fa poco per permettere sia ad individui predisposti che non predisposti, favorendo dunque i primi per le loro abilità innate e contribuendo a una “stratificazione sociale”.

C’è grande spazio di manovra per migliorare il nostro sistema scolastico, che probabilmente è tra le attività più arretrate in questo Paese. Insegniamo ai ragazzi come lo facevamo 200 anni fa: un docente davanti a un mucchio di studenti in una stanza chiusa. L’arrivo dei computer ha migliorato la situazione, ma molto poco. Non sono praticamente mai usati in modi nuovi e visionari.

Credo che l’unico modo per avere un gran miglioramento del sistema sia quello di privatizzarlo finché una considerevole parte dei servizi di istruzione sia fornita agli individui da imprese private. Solo una mossa del genere indebolirebbe a sufficienza l’attuale establishment educativo in maniera da poter apportare i necessari cambi sostanziali. E nulla costringerebbe le scuole pubbliche a mettersi in ordine più del dover trattenere la propria clientela. Nessuno può predire la direzione che un vero libero mercato educativo prenderà.

Sappiamo però dall’esperienza quanto possa essere creativa la libera impresa, quanti nuovi servizi e prodotti possa introdurre e come abbia come supremo obiettivo la soddisfazione del cliente, ed è ciò che serve nell’istruzione. Ben conosciamo la rivoluzione che ha avuto l’industria telefonica aprendosi alla concorrenza oppure, tornando un po’ indietro nel tempo, come il fax abbia minato così tanto il monopolio della posta di prima classe portando poi alla nascita dei corrieri privati.

Le scuole private frequentate oggi dal 10% sono spesso scuole di élite molto costose che rappresentano una minima porzione della popolazione ma esistono anche molte scuole cattoliche che fanno concorrenza al governo con costi bassi, spesso grazie anche a personale volontario e donazioni di mecenati. Queste scuole danno un’istruzione migliore ad una certa parte della popolazione, ma non sono ancora in grado di portare a cambiamenti innovativi. Per quello serve un sistema privato molto più forte. Il problema è come arrivarci.

I voucher non sono di per sé un fine, sono un mezzo per favorire la transizione dallo Stato al Mercato. E la situazione descritta più volte nell’articolo ne rende l’applicazione urgente.

I voucher, però, possono promuovere una rapida privatizzazione solo se costituiscono un reale incentivo per gli imprenditori ad entrare nel settore. Ciò richiede che il sistema a voucher sia universale, ossia aperto a chiunque oggi abbia diritto a frequentare una scuola statale, e che il costo – seppur potenzialmente minore rispetto a ciò che lo Stato spende oggi – sia sufficiente a coprire le spese di una buona istruzione. Se il voucher è costituito in questo modo ci saranno anche numerose famiglie disposte ad aggiungere qualcosa per avere un’istruzione ancora migliore. Ma, come accade in tutte le industrie, presto l’innovazione del prodotto “premium” arriverà anche al prodotto base.

Perché ciò accada, però, è essenziale che la libertà di impresa non sia minata, che non vi siano limiti alla capacità delle scuole di sperimentare, esplorare e innovare. Se ciò accade tutti, eccetto una piccola percentuale di persone con privilegi acquisiti, vinceranno: studenti, genitori, insegnanti, contribuenti, specie coloro che vivono in grandi città dove l’istruzione privata avrebbe costi esorbitanti mentre quella pubblica è scadente.

La comunità del business ha grande interesse nell’allargare la platea di cittadini ben istruiti e mantenere una società libera con mercati aperti e in espansione in tutto il mondo. Entrambi gli obiettivi verrebbero favoriti da un sistema a voucher.

Per concludere, come in ogni ambito dove vi sia stata una massiccia privatizzazione, la privatizzazione della scuola produrrebbe una nuova impresa capace di tratte profitto e di essere molto attiva dando a molte persone talentuose una vera opportunità di entrare nel mondo dell’insegnamento, persone che oggi sono disincentivate dallo stato pietoso di molte delle nostre scuole.

Questa non dovrebbe essere una questione in mano allo Stato centrale. L’istruzione dovrebbe restare un affare primariamente locale. Il sostegno alla libertà di scelta crescerà e non potrà essere tenuta a bada per sempre dagli interessi dei sindacati e dei burocrati. Penso che prima o poi si arriverà, da qualche parte, a un punto di rottura che porterà ad un percorso generale di voucherizzazione per quanto si dimostrerà efficiente.

Per fare in modo che una maggioranza del pubblico sostenga tali misure dobbiamo strutture la proposta in questo modo:

  • Sia semplice da comprendere per un elettore
  • Garantisca che non aumenti la tassazione ma che, possibilmente, la riduca

Questo articolo è una traduzione di un saggio del 1995 di Milton Friedman a cura di Brian Sciretti. Se ti è sembrato relativo alla situazione italiana non c’è da sorprendersi. Il sistema descritto da Milton Friedman funzionerebbe altrettanto bene anche in Italia.

N.B. Per praticità i nomi delle autonomie americane sono stati tradotti in modo generico.

Pim Fortuyn, martire gay per la libertà coerente

Si può morire per aver chiesto una società tollerante, che dia pari opportunità a uomini e donne e che riconosca le libertà delle persone in campo civile, come per le unioni omosessuali, ed economiche? E soprattutto, può ciò accadere in Europa e non a un politico progressista ma ad un politico di destra?

Quello che vi ho appena descritto è stato Pim Fortuyn, un politico olandese assassinato il 6 maggio 2002. Cresciuto come marxista negli ambienti accademici olandesi, fece coming out della sua omosessualità quando era ancora un atto di coraggio ma crescendo cambiò idea e si avvicinò a idee più liberali.

Egli vedeva le aree a prevalenza islamica del Paese, tipicamente abitate da persone scarsamente acculturate e povere, e vedeva come in esse vi fosse uno stile di vita incompatibile con la cultura umanista ed europea che egli amava.

I tre punti che per lui creavano un abisso tra le due culture erano principalmente tre:

  • Separazione Stato-Chiesa
  • Rapporti familiari
  • Diritti omosessuali

Tali concetti, diciamocelo, sono radicalmente differenti tra le due culture: nel mondo islamico, escludendo alcune lodevoli eccezioni, la condizione di donne ed omosessuali è nettamente peggiore e la separazione tra legge e religione quasi inesistente.

Fortuyn, però, a differenza dei politici anti immigrazione dell’epoca, era per l’integrazione: per lui chi veniva in Olanda doveva integrarsi nel tessuto sociale olandese, accettare la separazione tra religione e stato e l’uguaglianza tra uomo e donna.

Si distanziò ripetutamente da politici razzisti che chiedevano l’espulsione degli stranieri, ritenendolo un atto divisivo e dunque contrario alle sue idee. Chiedeva invece una moratoria da quel momento, per poter lavorare sull’integrazione di chi era già presente e una garanzia economica per i ricongiungimenti familiari, pratica che esiste anche in altri Paesi per evitare che il coniuge, in caso di separazione, andasse a pesare sui contribuenti.

E, in quanto gay, rifiutava anche dichiaratamente i partiti che si rifacevano ai valori della famiglia tradizionale. E si rifiutava anche di essere paragonato a politici di estrema destra come Jean Marie Le Pen. Preferiva paragonarsi alla Thatcher o a Berlusconi, seppur in generale non amando il doversi definire.

Economicamente era invece un classico liberale europeo: sosteneva un taglio della burocrazia e delle imposte per fornire servizi pubblici di qualità e vedeva l’Europa in modo blandamente scettico, al pari della Thatcher.

Non siamo chiaramente davanti ad un estremista di destra o ad un fascista: siamo davanti ad una persona che voleva conservare l’ampia libertà di cui godeva, e faceva uso in quanto gay, da una minaccia religiosa.

E bisogna dire che il tema Islam è molto caldo. E’ difficile ammettere che la cultura islamica sia spesso molto più restrittiva e arretrata di quella occidentale su molte libertà che noi diamo per scontato e che quindi sia, in un’ottica di mantenimento delle libertà, un’ottima idea integrare le persone di religione islamica nella nostra cultura in modo che l’Islam subisca i medesimi procedimenti che ha subito il cristianesimo e non sia più una minaccia alla società libera.

Accettare che invece le idee estremiste prosperino e non possano essere nemmeno contestate nel nome della tolleranza è una ricetta suicida che favorisce solo la violenza. Pensate solo se la stessa logica di incontestabilità fosse applicata al fascismo, ad esempio.

E infatti, come accennato, Fortuyn fu assassinato. Ma non da un fondamentalista islamico ma da un estremista verde che lo riteneva una minaccia per i deboli. Ma l’onda di violenza non si fermò: un estremista islamico uccise pochi anni dopo Theo Van Gogh per aver osato fare un cortometraggio sul tema della violenza sulle donne nel mondo islamico. E l’anno dopo vi fu un’ondata di violenza dopo che un giornale danese pubblicò delle vignette su Maometto. E nel 2015 dei barbari uccisero dei vignettisti francesi perché pubblicarono delle vignette, con il Papa cattolico che tutto sommato non pareva molto contrariato dalla cosa.

Ma non ha alcun senso combattere i tentativi della Chiesa di limitare le nostre libertà e poi lasciare una porta sul retro aperta nel nome della libertà.

E questa è la grande lezione di Pim Fortuyn.

Perché Bismarck Batte Beveridge?

“Bismarck batte Beveridge” è un testo che accompagna ormai ogni edizione dell’Euro Health Consumer Index e nelle ultime edizioni viene definito addirittura una “caratteristica permanente”. Chi parla di sanità ha ormai un acronimo a tre lettere per parlarne: “BBB”. Com’è noto, quando qualcosa ha un TLA allora si tratta di una cosa importante.

Abbiamo già scritto un articolo che spiega la differenza tra Bismarck e Beveridge, vi consiglio la lettura, comunque riassumendo:

  • Bismarck: prevede una separazione tra il pagatore delle prestazioni (quasi sempre con mutue sociali a vari livelli di concorrenza) e il pagato che effettua le prestazioni;
  • Beveridge: prevede un vero e proprio sistema sanitario dove l’ente pubblico si preoccupa di finanziare gli ospedali e di gestirli.

Solitamente chi vive nei Paesi Beveridge è molto dogmatico sul tema. Per esempio nel Regno Unito, nonostante la soddisfazione per la sanità sia in calo costante, il NHS è una delle cose che più rende orgogliosi i britannici. Del resto, penso che sia capitato a tutti noi sentire una persona lamentarsi della sanità italiana, dei suoi tempi d’attesa inaccettabili e poi lodarla comunque perché “è gratis per tutti”.

La realtà, tuttavia, dà una sonora svegliata: i sistemi Bismarck tendono a funzionare meglio. Certo, alcuni sono in Paesi ricchi, altri sono in Paesi in crescita come la Cechia, ciononostante si ritiene che il sistema ceco funzioni meglio di quello inglese. Non si può sintetizzare il tutto in una questione di ricchezza o povertà.

Naturalmente, però, esistono anche sistemi Beveridge con una qualità buona. Non risolvono la questione dei tempi d’attesa, che tendono ad essere lunghi in tutti i sistemi del genere, ma funzionano abbastanza bene per molte cose. Degli esempi sono i sistemi scandinavi oppure, in Italia, il modello lombardo.

Di fatto tali modelli tendono ad emulare il modello Bismarck o la sua versione soft della mutua nazionale, che prevede un’unica mutua nazionale invece di varie mutue in più o meno concorrenza. Per esempio in Scandinavia esistono franchigie sulle spese e la gestione è fortemente decentrata, in Lombardia la regione dovrebbe limitarsi a pagare le prestazioni presso gli enti convenzionati, privati e pubblici (che dovrebbero essere parificati, ma ciò non accade per svariate ragioni, sintetizzabili in interessi politici e ospedali pubblici che non riescono a restare in budget e necessitano di interventi di ristrutturazione).

Per chi fosse interessato alle implicazioni del sistema lombardo e del decentramento in sanità consiglio questo mio articolo pubblicato poche settimane fa.

Ma andiamo a indagare sulle cause: perché Bismarck batte Beveridge? Le ragioni sono varie e di ordine amministrativo oltre che sanitario e politico.

Gestire un sistema unico è difficile

Un sistema Bismarck prevede una certa divisione dei poteri: una mutua cercherà personale esperto di gestione finanziaria e programmazione sanitaria, un ospedale personale sanitario ed amministrativo e il governo esperti di salute pubblica.

Nei sistemi Beveridge, invece, il governo cerca di assumersi tutte queste funzioni. Anche in un Paese dove la politica è onesta è semplicemente difficile trovare manager in grado di gestire così bene un sistema sanitario.

Per capirci il NHS inglese, il più grande sistema centralizzato del mondo, è un’enorme macchina con 1 milione e mezzo di dipendenti e un bilancio di 134 miliardi di sterline. Con un livello minimo di decentramento gestire tutto questo sistema richiede amministratori capacissimi capaci di organizzare finanziamenti, assunzioni, sviluppo, programmazione e numerosi altri campi. Se questi manager nel privato sono difficili da trovare e vanno pagati molto, nel pubblico è quasi impossibile trovarli e la gestione va ad ordinari amministratori.

Bismarck, semplicemente, non ha bisogno di trovare questi mega-CEO perché divide le competenze in modo più efficiente. La stessa cosa si applica ai sistemi decentrati: gestire un sistema su base locale e regionale è meno complesso e richiede competenze minori che gestire una delle più grandi aziende del globo.

Pensate molto semplicemente ad una cosa: se affidaste Walmart o McDonald’s, paragonabili in dimensioni al NHS, ad un normale amministratore pubblico, quanto durerebbero? Potrà essere anche la persona più onesta ed integerrima del mondo, ma semplicemente non avrà le competenze per gestire un’impresa così grande senza farla fallire. Nel caso dei sistemi sanitari, poiché sussidiati, questi non falliscono, ma cala la qualità per l’utente.

La politica si infiltra troppo facilmente

Ancor peggio, in un sistema del genere la politica ha molto più potere, in un senso o nell’altro. Il potere politico non è sempre disonesto ma è quasi sempre inefficiente a gestire le cose, come vedremo nei prossimi capitoli.

Allocazione inefficiente delle risorse

I politici ragionano da programmatori economici ma sappiamo che la programmazione economica semplicemente non funziona bene quanto il libero mercato.

Un politico, diciamocelo, non saprà davvero come e quando aprire un ospedale. Molto probabilmente guarderà a criteri numerici o a qualche stima dell’ufficio tecnico per decidere come organizzare il sistema ospedaliero. In sostanza sta allocando risorse senza sapere chi dovrebbe usarle.

In Lombardia, ad esempio, si parla da tempo di unire ospedali (ad esempio Busto e Gallarate o San Carlo e San Paolo a Milano) ponendoli in zone che la popolazione considera difficili da raggiungere e scomode. Nel mentre i posti letto del privato aumentano e spesso essi aprono in zone scarsamente servite dal pubblico (un nome su tutti Humanitas, aperta in una Rozzano che necessitava di un ospedale da tempo). Non è un caso che la Lombardia, col suo modello aperto al privato, abbia l’aumento di posti letto più grande d’Italia.

Se la scelta di aprire ospedali è lasciata ad enti ospedalieri, invece, il declino rallenta o può addirittura invertirsi, come succede in Corea del Sud.

Clientele e partitocrazie

Ancor peggio, i sistemi pubblici tendono rapidamente a perdere il proprio focus sul fornire il servizio. Come fa proprio notare il rapporto EHCI:

Nelle organizzazioni Beveridge, responsabili sia del finanziamento che dell’assistenza sanitaria, sembrerebbe esserci il rischio che la lealtà dei politici e degli altri principali decisori possa passare dall’essere principalmente verso il paziente all’essere a favore dell’organizzazione che questi decisori, con giustificabile orgoglio, hanno costruito nel corso di decenni, (o forse verso aspetti come il potenziale di creazione di posti di lavoro nelle città d’origine).

In sostanza in un sistema pubblico i politici decidono ed essi hanno il principale interesse di essere rieletti. Centinaia di migliaia di potenziali elettori fanno gola a tutti e il loro principale focus è avere più benefici dal lavoro che fanno mentre il resto della popolazione vota su migliaia di variabili (e molti hanno anche i soldi per andare dal privato per la maggior parte delle cose). Diventa chiaro che l’investimento dei politici sarà sulla propria rielezione e non sulla nostra salute.

Come vi raccontavo nell’articolo sul decentramento sanitario, a dimostrazione di come in pochi anni il portantino conti più di voi una volta una persona mi disse che la sanità privata è inefficiente e da stigmatizzare perché… hanno messo delle persone in cassa integrazione.

Io, se stessi parlando di salute delle persone, mi vergognerei come un cane a parlare di cassa integrazione. Può essere un argomento secondario da trattare ma il punto principale dovrebbe essere “come cura” e, appena dopo, “quanto costa”. Mentre invece per il socialista medio è normalissimo preoccuparsi prima di tutto dei lavoratori e poi, forse, dopo, della salute dei cittadini.

Pensate che il sistema Beveridge nacque proprio perché si voleva spostare il diritto alla salute da una cosa collegata all’essere lavoratori all’essere cittadini. Invece ha messo prima il benessere degli operatori rispetto a quello della popolazione.

L’esempio della scuola

Un esempio più palese di tale sistema è la scuola italiana. Qui, addirittura, gli studenti non votano, quindi ai politici che gestiscono la scuola non interessa il loro benessere.

In effetti, quando si parla di riforme della scuola, non sentiamo quasi mai parlare degli alunni e dei (pessimi) risultati del sistema. Si parla sempre di regolarizzare i precari, di fare qualche concorsone, di aumentare i salari e sempre cose a favore elettorale dei docenti.

Alla fine, ai politici, conviene così: avere quasi un milione di dipendenti nella scuola pronti a vendersi il voto è bellissimo. I risultati, poi, si vedono. Ma, fortunatamente, la sanità è meno soggetta alla distruzione totale: la collaborazione del privato è necessaria e, soprattutto, i medici sono più professionalizzati dei docenti e quindi lavorerebbero con qualunque sistema e lo sanno bene, mentre ciò non vale per forza per i docenti.

Tempi d’attesa

L’accessibilità dei sistemi sanitari secondo l’indice EHCI 2017

I sistemi Bismarck sono noti per avere bassi tempi d’attesa nelle cure e tempi che in Italia (e nei Paesi Beverige) sembrano buoni probabilmente in un sistema Bismarck porterebbero a titoli scandalizzati sui giornali.

Infatti, guardando ai dati EHCI, vediamo che tutti i sistemi Bismarck hanno ottimi tempi d’attesa mentre i Beveridge e i misti spaziano largamente dal buono al pessimo.

Soprattutto, ed il rapporto lo fa notare, non è questione di ricchezza: la Repubblica Ceca ha ottimi tempi ma una spesa bassa, così come anche la Serbia, con un sistema particolare dove la gran parte della popolazione ha assicurazioni private per andare dalla sanità privata.

La questione è meramente organizzativa: in un sistema Beveridge c’è una lista d’attesa e ogni persona in più, di fatto, appesantisce il sistema mentre in un Bismarck no, anzi, il fornitore viene pagato a prestazione e ha convenienza a vedervi velocemente e a vedere più persone possibile. Alla fine, è pagato per farlo.

Ma, ovviamente, un sistema sanitario è un po’ come una catena di montaggio e l’ingorgo di dover aspettare mesi prima di una visita fa più male che bene, si pensi solo ad eventuali peggioramenti nell’attesa.

Ma come mai?

Immaginate una cosa semplice come andare dal parrucchiere. Ad oggi egli ha tutta la convenienza a servire più persone possibile e offrire a chi deve attendere un’attesa divertente e piacevole.

Ma se un domani un politico decidesse che tagliarsi i capelli è un diritto umano e fondasse il Servizio Acconciatori Nazionali?

Probabilmente i parrucchieri verrebbero pagati in base al proprio pubblico potenziale e l’apertura di nuovi parrucchieri verrebbe ristretta. A tal punto il parrucchiere non avrebbe più grande incentivo a lavorare tanto e il Centro Unico Parrucchieri, da chiamare per un appuntamento, darebbe un numero ridotto di appuntamenti rispetto a prima.

Se magari il parrucchiere di base riesce ancora a fornire un servizio decente sappiamo bene come sia ben più facile sindacalizzarsi nei grandi saloni che si occupano delle cose più pregiate e ottenere quindi ancor più benefici e minori tempi di lavoro.

Alla fine, semplicemente, passando dal modello di pagamento per prestazione al modello sistemico si è ottenuto un considerevole calo dell’incentivo a lavorare e quindi dei posti disponibili.

La stessa cosa, ovviamente in modo più complesso, accade nei sistemi Beveridge ed è la ragione per cui alcuni di essi, con l’oppisizione degli statalisti, hanno iniziato ad abbandonare il pagamento sistemico in favore di quello a prestazione.

Conclusioni

In sostanza Bismarck Batte Beveridge per queste ragioni:

  • Gode di una gestione intrinsecamente più semplice;
  • Riduce il peso politico del sistema favorendo l’obiettivo cura e non l’uso clientelare del sistema;
  • Lascia più spazio alle necessità dei cittadini, espresse tramite le proprie scelte libere, rispetto a un sistema a forte guida politica;
  • Allegando al paziente dei soldi e non mettendolo meramente in una lista favorisce tempi d’attesa molto più bassi rispetto al Beveridge, che ha come vero ventre molle l’accessibilità.

Riferimenti

Davvero il socialismo fallisce per i boicottaggi?

Una cosa che si dice comunemente delle economie socialiste, specie in Africa e in Sud America, è che falliscano per colpa dei boicottaggi. Non è il sistema economico a non funzionare, ovviamente, ma è colpa degli Stati Uniti che bloccano i commerci!

Eppure in Africa ci fu uno Stato che venne boicottato per praticamente tutta la sua esistenza, la Rhodesia.

La Rhodesia non era un Paese liberale, era infatti governato in larga parte dalla minoranza bianca ed i neri erano perlopiù esclusi dalla vita politica. Il leader del paese, Ian Smith, credeva che i bianchi avessero il dovere di governare poiché fuori dalle lotte tribali che caratterizzavano la popolazione nera.

Il suo era, per chi fosse interessato, un regime meno duro rispetto a quello del Sudafrica: i neri avevano la cittadinanza, spesso il diritto di voto – seppur limitato in base all’istruzione – e lavoravano a fianco dei bianchi frequentemente. Esistevano anche scuole private dove bambini bianchi e neri andavano nelle stesse classi senza problemi, ma l’istruzione pubblica era segregata.

Dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza nel 1965 alla rinuncia alla monarchia nel 1970, fino alla fine del Paese nel 1979, fu tutto un susseguirsi di sanzioni. L’economia rhodesiana, a differenza di quelle socialiste, ha retto. Non senza conseguenze, sia chiaro: l’economia del Paese rallentò, ma non drammaticamente.

Bisogna considerare, inoltre, come gli alleati della Rhodesia non fossero superpotenze: aveva dalla propria parte Sudafrica e Portogallo. Stati che hanno sicuramente, violando le sanzioni, aiutato il Paese, ma non al livello degli alleati dei Paesi socialisti come l’URSS!

Durante il boicottaggio il PIL rhodesiano rimase quasi stabile: l’agricoltura si spostò da produzioni esportabili in Europa a produzioni consumabili in loco o esportabili in Sudafrica, certe industrie si specializzarono a tal punto da arrivare a fare concorrenza a quelle sudafricane.

Solo dal 1975 vi fu una limitata contrazione dell’economia, dovuta soprattutto all’aumento delle spese militari e ad una certa “limitazione” del liberalismo economico per poter fronteggiare meglio la guerra, con l’obiettivo idealizzato di tornare ad esso dopo la fine del conflitto.

Ma secondo gli economisti, l’economia della Rhodesia fu in grado di reggere alle sanzioni senza gravi danni solo grazie alle politiche liberiste applicate prima della dichiarazione di indipendenza, che permisero lo sviluppo di un settore industriale e agricolo malleabile e sufficiente a soddisfare le richieste nazionali.

Come vediamo dal grafico del PIL, che trovate qui sul sito della Banca Mondiale, al termine del boicottaggio, nel 1979, l’economia vide inizialmente una netta crescita. Tuttavia, poco dopo il governo di Robert Mugabe iniziò ad applicare le proprie ricette corporativiste e socialiste. Tutti gli indici economici iniziarono a calare portando anche ad effetti a lungo termine: nel 2008 il PIL dello Zimbabwe era pari a quello medio della Rhodesia indipendente.

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Successi del socialismo di Mugabe

Le politiche di Mugabe portarono ad un’iperinflazione – ossia alle famose banconote da miliardi di dollari che non valevano niente – ma anche alla fuga di persone molto qualificate, specie quando Mugabe ordinò la confisca dei beni dei bianchi.

La differenza tra il governo di Smith e quello di Mugabe era essenzialmente una: il modello economico di Smith funzionava, quello di Mugabe no.

La Rhodesia, grazie ad un’economia solida e libera, fu in grado di reggere anche ad una comunità internazionale quasi completamente ostile. Lo Zimbabwe, con la sue politiche economiche socialiste, non ha retto nemmeno al normale corso degli eventi.

Viene da chiedersi quindi: com’è possibile che l’economia socialista sia migliore di quella capitalista, se la prima andrebbe in totale crisi e povertà per un boicottaggio che la seconda supera con qualche noiosa difficoltà?

Fonti

Dati vs socialismo: la sanità privata non è il problema

Quante volte in questi giorni avrete letto commenti del tipo: “La Lombardia è l’esempio del fallimento della sanità privata e del problema dei tagli alla sanità pubblica”. Sarei pronto a scommettere €100 che almeno uno di questi criticoni una visita in un ospedale privato lombardo se l’è fatta: centri d’eccellenza come l’Humanitas, i vari ospedali del Gruppo San Donato, la Columbus, l’Auxologico, il Monzino e lo IEO sono privati e vedono un ampio via vai anche dalle altre Regioni quando non dall’estero.

Si imputa al privato la scarsità di terapie intensive in Lombardia. Ma, in realtà, i posti letto in Lombardia sono in linea con quelli italiane e sono di più di quelli di certe regioni del Meridione. Solo il Friuli Venezia Giulia si allontana significativamente, in meglio, dalla media italiana.

Parlando di terapie intensive, se è vero che esistono regioni con più terapie intensive per abitante della Lombardia (ma spesso nelle piccole regioni meridionali è relativamente più facile vista la scarsa densità di abitanti, bastano due ospedali, come in Molise), è anche vero che anche i privati hanno le terapie intensive e che alcune sono ampiamente specialistiche. Ma, come ben spiega Elisa Serafini, di media il servizio privato costa meno di quello pubblico. Quindi, paradossalmente, se avessimo voluto quei posti nel pubblico con la stessa spesa, beh, ne avremmo di meno.

Ma concentriamoci a guardare le altre sanità con più letti in terapia intensiva delle nostre. Potremmo parlare anche di mondo, consiglio l’articolo, qui tradotto, di Mises.org sulla sanità Sudcoreana, ma parliamo di Europa. Questo studio ci offre una statistica interessante.

Fig. 1

I campioni sono Germania, Lussemburgo e Austria. Germania e Austria hanno una sanità modello Bismarck con molti ospedali privati, la sanità del Lussemburgo è in stile Bismarck, ma ha quasi solo ospedali pubblici, in Romania c’è il Beveridge come in Italia ma, va detto, il sistema soffre di enormi diseguaglianze – a Bucarest ci sono ospedali di enorme qualità mentre nella provincia sono substandard – in Belgio c’è un Bismarck con ospedali come enti no profit, in Lituania c’è una sanità largamente pubblica, la Croazia ha un modello similfrancese con assicurazione minima statale più assicurazione opzionale e simile è il modello ungherese, mentre l’Estonia ha un sistema Beveridge come il nostro.

Se non vedete una correlazione, tranquilli, è semplicemente perché non c’è. Nel contesto europeo avere un sistema Bismarck o un sistema Beveridge di per sé è completamente indifferente rispetto al numero di posti letto o dei posti in terapia intensiva. Contano altri fattori quali l’investimento specifico nel campo della terapia intensiva o nella gestione delle pandemie parainfluenzali.

Il dato specifico non premia, in sostanza, né Beveridge né Bismarck, né la sanità centralizzata né quella decentralizzata. Non esiste evidenza che tornando al caro SSN centralizzato tutto pubblico si possano aumentare i posti in terapia intensiva, seppur ciò farebbe quasi sicuramente calare la qualità generale visto che in termini qualitativi i sistemi Beveridge più sono accentrati più perdono in qualità e, inoltre, eliminerebbe gran parte delle eccellenze che effettivamente ci rendono concorrenziali nel mondo.

Perché si vive meglio negli Stati piccoli?

Dei dieci Paesi europei economicamente più liberi ben nove sono classificabili come Stati piccoli, per territorio o popolazione. L’unica eccezione è il Regno Unito. Lo stesso per le libertà civili: nove su dieci sono Stati piccoli, l’unica eccezione è il Portogallo. Per il PIL pro capite? Nove sono Stati piccoli, la Germania è l’unica eccezione. Sanità? Tutti e dieci Stati piccoli. Felicità? Ancora nove con l’eccezione dello UK. Inoltre, quasi nessuna di queste classifiche tende a classificare microstati come il Liechtenstein, che sappiamo avere un’economia molto libera.

Per quale ragione gli Stati piccoli primeggiano? Tanti direbbero – ti consiglio di leggere l’articolo linkato! – “perché sono paradisi fiscali che rubano agli stati sociali europei”, ignorando il fatto che spesso gli Stati che primeggiano sono quelli scandinavi: piccoli in popolazione – e a volte la popolazione nel determinare la “grandezza” in senso socioeconomico conta più della superficie – ma con forti Welfare State.

Le ragioni si possono desumere conoscendo il liberalismo. Già nell’Ottocento Alexis de Tocqueville faceva notare:

Nulla è più contrario dei grandi stati al benessere generale e alla libertà individuale […], se non vi fossero che i piccoli Stati e non i grandi, l’umanità sarebbe senza dubbio più libera e felice.

Alexis de Tocqueville

Sicuramente era un bastian contrario della sua epoca: un francese – cittadino del Paese che ha dato i natali allo Stato nazionale – che nell’epoca in cui si anelava l’unità d’Italia e di Germania criticava i grandi Stati. Ma la storia gli ha dato ragione.

Quali sono, in pratica, le motivazioni che rendono i piccoli Stati migliori di quelli grandi? Vediamolo assieme.

Meno autarchia e più libero commercio

I piccoli Stati tendono ad avere meno risorse sul proprio territorio rispetto a quelli grandi per ovvie ragioni. Quindi possono dipendere meno da sé stessi e devono per forza puntare sul commercio internazionale.

I grandi Stati, invece, possono in larga parte usare proprie risorse. Se ciò ad una prima analisi può sembrare una cosa positiva, in realtà non lo è: porta gli Stati a favorire il proprio anche quando è economicamente sconveniente, come nell’esempio dei minatori e della Thatcher.

La ragione è banale: a livello politico è impopolare far estinguere settori solo perché economicamente sconvenienti. Più uno Stato è grande più avrà settori da proteggere e quindi rallenterà la propria economia.

Più uno Stato è piccolo, invece, più questo Stato dipenderà dal libero commercio con Paesi lontani e vicini e dal mantenere buoni rapporti con loro. Questo Paese sarà più legato alle leggi del mercato e sarà in grado di creare più ricchezza in tal modo. Infatti secondo il Global Enabling Trade Report, in Europa, dei dieci Paesi più liberoscambisti otto sono piccoli.

Concorrenza (fiscale) più semplice

Secondo la narrazione mainstream la concorrenza fiscale è un male da limitare ma in realtà è un bene da incentivare. La ragione per cui negli ambienti europeisti di sinistra la si critica è che avvantaggia gli Stati efficienti, che sono praticamente sempre quelli piccoli. Voler risolvere i problemi dei grandi Stati vietando a quelli piccoli di funzionare bene è come avere una perdita in cucina e smettere di mangiare invece che ripararla: non ha alcun senso. Bisognerebbe invece chiedersi “perché il piccolo funziona?” e trarne lezioni anche per i grandi, come suggerisce il buon Giovanni Adamo II del Liechtenstein.

Se le unità statali sono piccole è più facile accedere a questa concorrenza. Basta spostarsi di pochi chilometri per avere condizioni fiscali più adatte alle proprie esigenze. Con Stati grandi ciò è molto più difficile, quindi hanno un minore incentivo a mettersi al servizio dei contribuenti e delle aziende e a efficientarsi in modo da avere un livello di servizi adeguato alla tassazione.

Ma concorrenza non vuol dire averla solo sulle tasse. Piccole unità territoriali – statali o sottostatali decentrate – possono concorrere anche nel tipo e nella quantità di servizi che forniscono. Si tratta del concetto espresso nel libro “Lo Stato nel Terzo Millennio” del già citato Principe del Liechtenstein e che provo a spiegare meglio qui.

Più decentramento

Una spiegazione sul sistema svizzero fatta dalle autorità svizzere

Sembra assurdo pensare che gli Stati piccoli decentrino di più di quelli grandi, in fin dei conti a trarre beneficio dal decentramento dovrebbe essere il grande, non il piccolo.

Eppure, dati alla mano, spesso sono i Paesi piccoli a decentrare meglio. Pensate al federalismo svizzero o al decentramento comunale del Liechtenstein. Oppure, come non citare il fatto che nei Paesi scandinavi il welfare sia, in larga parte, in mano a entità locali (quando non è in mano a privati come alcune scuole in Svezia)?

Sulla ragione sono giunto ad una teoria: gli Stati grandi hanno molte situazioni socioeconomiche sul proprio territorio e molte di esse hanno problemi. Viene spontanea la creazione di un “nazionalismo sociale” che chiede che “non esistano cittadini di serie A e di serie B” e propone un marcato intervento dello Stato, quasi sempre fallimentare, negli affari locali per “dare a tutti gli stessi servizi”.

Gli Stati piccoli tendono ad essere per loro natura più uniformi e quindi possono mettere l’efficienza prima di questa forma di nazionalismo sociale, dunque decentrando e avendo, alla fine, servizi migliori e una struttura più funzionale.

Democrazia migliore

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Landesgemeinde, un’antica forma di democrazia diretta ancora praticata in parte della Svizzera. Fonte Wikimedia Commons

Nove delle dieci democrazie migliori d’Europa sono piccoli Stati secondo il Democracy Index. Non è chiaramente un fatto a sé: se come abbiamo già mostrato in questi Paesi lo Stato è leggero e decentrato è abbastanza ovvio che la qualità della democrazia sarà maggiore rispetto ai Paesi dove lo Stato deve affrontare mille questioni e vince chi urla di più inventandosi la crisi del momento.

Comunque, in generale, gli Stati piccoli hanno una democrazia migliore anche per le proprie dimensioni: è più semplice che i rappresentanti siano vicini al cittadino – come ad esempio accade in Svizzera – e l’esercizio della democrazia diretta non ha i costi proibitivi che ha nei Paesi grandi.

Molti direbbero che la democrazia diretta è meglio non averla, ma così non è: sono i nostri Stati elefantiaci e mastodontici a non avere una struttura adatta ad essa. Nei due Paesi europei dove c’è la democrazia diretta ha prodotto ottimi risultati e ha responsabilizzato i cittadini nell’uso dei propri soldi.

Unioni migliori

Quando ho osato criticare l’Unione europea è arrivato uno stuolo di nazionalisti che avevano barattato il loro tricolore con una bandiera a dodici stelle a lamentarsi animatamente – in un comportamento che una persona, che per di più non condivideva il contenuto originale, ha saggiamente definito “grillismo europeista” – perché, per loro, dire che ci sono Stati che possono stare bene senza Bruxelles è una brutta bestemmia.

Un giorno scriverò un articolo sulle critiche all’attuale integrazione europea da un punto di vista liberale, ma proviamo un attimo a immaginare un’Europa composta da piccoli Stati.

Per gli Stati piccoli è parecchio difficile avere una forza militare degna di tal nome. Sarebbe quasi spontanea un’unione ai fini militari di questi Stati, come già spiegavo nell’articolo linkato nell’introduzione.

Anche a livello diplomatico gli Stati piccoli, con le dovute eccezioni, tendono a pesare poco. Un’unione sarebbe spontanea anche qui e, tra l’altro, Stati piccoli tendono a favorire la stabilità per poter commerciare liberamente rispetto a interessi partigiani.

Anche un mercato comune di beni, persone, capitali e servizi, con il limitato governo che esso richiede, verrebbe spontaneo: infatti Stati piccoli possono affidarsi molto meno ad una “autarchia interna”, anche per quanto riguarda i lavoratori, come mostrato nei punti precedenti.

Fin qui basta. Non c’è bisogno di accentrare la democrazia – cosa che rende i politici meno responsabili – né di limitarsi la concorrenza come provano a fare gli Stati oggi usando l’UE come un mezzo per dire agli altri dove comperare, arrivando agli assurdi della Francia e dell’Italia che sostengono posizioni diplomatiche diverse in Libia ma guai a loro se commerciano con Paesi diversi.

Essendo il libero scambio per gli Stati piccoli un bene questa Unione cercherebbe trattati vantaggiosi per tutti ma non avrebbe nulla da contestare se uno degli Stati commerciasse liberamente con altri Paesi ancora, finché coerente con la linea diplomatica comune.

Ecco, io preferirei mille volte un’unione come quella descritta rispetto all’UE che, nei fatti, per favorire alcuni Stati membri è molto unita dove potrebbe non esserlo e disunita dove un’unione sarebbe benefica per tutti.

Fonti e documenti utili

Mercato vs. Stato: perché la sanità sudcoreana sta surclassando quella italiana?

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Mises Institute.

Ormai tutti conosciamo la diffusione del COVID-19 in tutto il globo. Restrizioni al movimento sono in ogni dove, le persone vengono testate e si preparano alla possibile quarantena, preoccupandosi per il proprio lavoro e la famiglia. I grandi eventi sono cancellati e interi Paesi messi in quarantena.

In tutto questo si può comunque intravedere un esperimento naturale sul funzionamento delle sanità socializzate in queste situazioni. E pare che stia andando abbastanza male per loro: possiamo vedere l’esempio dell’Italia e della Corea del Sud. Al momento, 12/3/2020, l’Italia ha 15’113 casi mentre la Corea del Sud 7’869 (i dati sono riferiti al giorno in cui l’articolo originale è stato pubblicato su Mises – ndr) e i dati sudcoreani stanno crescendo con calma – circa 100 casi al giorno contro le migliaia dell’Italia. Corea del Sud e Italia hanno popolazioni simili ma la parte della Penisola Coreana sotto la sovranità di Seoul è circa 1/3 della Penisola Italiana.

Nonostante la chiusura quasi totale del Paese l’Italia sta vedendo un aumento vertiginoso di casi mentre la Corea, con un culto che diffonde volutamente la malattia, no, e sta guadagnando il ruolo di guida nella lotta contro COVID-19. Ci sono varie ragioni e non poche sono legate ai differenti sistemi sanitari.

Sanità sudcoreana

Anche se il governo sudcoreano ha un proprio sistema assicurativo in monopolio di Stato ciò non ha impedito lo sviluppo del mercato: ospedali e cliniche chiedono abitualmente ai pazienti più di quanto copra l’assicurazione statale e per questa ragione più di 8 coreani su 10 hanno un’assicurazione supplementare, che pagano circa 120$ al mese.

Il 94% degli ospedali sono privati con un modello a pagamento, senza sussidi diretti del governo. Tanti sono posseduti da università o da enti caritatevoli. Il numero di ospedali è cresciuto nettamente dal 2002, quando erano 1’185, al 2012, quando erano 3’048. Il risultato è che in Corea del Sud ci sono 10 posti letto ogni 1’000 abitanti, più del doppio della media dell’OECD e quasi tre volte di quelli che ha l’Italia, che ne ha 3,4. Questi ospedali, tra l’altro, fanno pagare significativamente meno di quelli americani, che per la cronaca richiedono un “certificato di necessità” del governo in molti Stati.

Sanità italiana

In Italia, invece, il Servizio Sanitario Nazionale copre praticamente tutto ed esistono solo copagamenti simbolici. I tempi d’attesa possono essere anche di qualche mese, specie per le grandi strutture pubbliche, mentre nelle piccole cliniche convenzionate possono essere più brevi.

Vari ospedali offrono delle opzioni di mercato dove il paziente paga a sue spese, ma pochi ne fanno uso. I servizi d’emergenza sono sempre gratis.

Tempi d’attesa e qualità sono decisamente peggiori nel Meridione del Paese, dove spesso gli abitanti vanno al Nord a curarsi. Sono alti i tassi di medici laureati in Italia che vanno a lavorare all’estero, con l’istruzione italiana che vorrebbe rispondere riducendo i posti in medicina nelle università. In Italia vi era carenza di personale sanitario ben prima dell’epidemia di COVID-19. Il numero di ospedali è inoltre in calo: dai 1’321 del 2000 ai 1’063 del 2017. I prezzi del SSN sono stati messi sotto quelli di mercato con l’obiettivo di risparmiare denaro, e i risultati si vedono.

Conclusione

Attualmente il sistema sanitario italiano è sotto enorme pressione a causa dell’epidemia di COVID-19 che sta gestendo, tant’è che in alcuni ospedali si è già scelto di curare prima i giovani e i sani. Molti parlano solo del pericolo dell’epidemia ignorando l’evidenza che racconta una storia diversa: sotto le sanità che si affidano al governo la situazione è peggiore che sotto le sanità che si affidano al libero mercato. La sanità sudcoreana ha una rete di sicurezza, ma è molto simile ad un sistema di puro libero mercato, sicuramente di del sistema attualmente vigente negli Stati Uniti d’America dove gli ospedali sono sottoposti a stretta regolamentazione del governo, spesso imponendo strette restrizioni sulle forniture che non fanno altro che aumentare i costi e diminuirne la disponibilità. Come risultato la Corea del Sud ha fatto ciò che l’Italia non è stata in grado di fare: gestire efficacemente un’epidemia senza chiudere il Paese.

Se gli Stati Uniti vogliono gestire effettivamente un gran numero di casi nelle grandi città dovrebbero seguire l’esempio sudcoreano e liberalizzare il mercato, non costruire un sistema monopolizzato di test sanitario che impedisce alle persone di essere testate. Ciò non risolverebbe subito il problema delle scelte passate, ma aumenterebbe sicuramente la capacità di risposta del sistema sanitario.

Fascismo ed antifascismo sono la stessa cosa?

Spesso, parlando di politica, si dice che “fascisti ed antifascisti sono la stessa cosa”. Fra chi abbraccia questo pensiero come fosse verità rivelata e chi lo rifugge vi è un dibattito interessante, ma che alla prova dei fatti dimostra come entrambi gli schieramenti abbiano torto.

In teoria sembra un ossimoro…

Ovviamente, verrebbe da dire, se si chiama “antifascismo” è ovvio che sia opposto al fascismo. Ma questo ragionamento aveva valore durante il regime, quando il fascismo era il male al governo e bisognava, uniti, sconfiggerlo.

Oggi le cose sono più complesse. Il fascismo è diviso in varie correnti e vi sono anche numerosi movimenti borderline, non chiaramente attribuibili ad esso.

Da ciò deriva una certa difficoltà a definire obiettivamente cosa sia il fascismo: ci sono fascismi che hanno accettato di buon grado la democrazia, fascismi dichiaratamente antirazzisti e pro-Islam e addirittura fascismi autonomisti!

Ovviamente sussistono alcuni elementi comuni quali la tendenza a volere un’economia socializzata, una proprietà privata che rispetti la funzione sociale e un certo nazionalismo.

…ma alla prova pratica è diverso

Piccolo problema: l’economia socializzata e la proprietà privata dalla funzione sociale mica la vogliono solo i fascisti, ma anche gran parte della sinistra. Quello del rossobrunismo, ossia superare le differenze tra rossi e neri per lottare assieme contro capitalismo e simili, non è di certo un fenomeno nuovo: Togliatti nel 1936 lodò la Rivoluzione Fascista e parlò di Mussolini come un traditore di tali ideali, Bombacci, un gran comunista che creò la propria edizione della Pravda dedicata a Mussolini, venne fucilato addirittura assieme a lui.

In sostanza definire un fascismo a cui opporsi è spesso difficile. Il modo migliore di farlo è sostenere un’ideologia che si opponga ai fondamenti del fascismo. Se si ritiene il fascismo fondamentalmente antidemocratico – quindi un metodo – è sufficiente sostenere qualsiasi ideologia democratica, mentre se si ritiene possibile un fascismo esistente in democrazia la cosa diviene più complessa.

Confusione tra antifascismo e antifa

Fin qui abbiamo, al massimo, mostrato come sia difficile essere antifascisti oggi, ma qualcosa deve aver originato l’equivoco di cui parliamo nel titolo. Questo qualcosa, naturalmente, è il movimento Antifa.

Trattasi di un movimento spontaneo composto principalmente da estremisti di sinistra, e questo movimento spesso adotta metodi e idee fasciste. Violenza – spesso associata a quella dei black bloc -, antisemitismo, rifiuto del capitalismo e della globalizzazione, minacce, distruzione di proprietà e anche peggio.

Non è certo strano che una persona normale e non troppo informata, quando sente per la decima volta in TV che gli Antifa hanno fatto squadrismo per distruggere qualche negozio random per diffondere le loro idee, pensi “sì ma certo, fascisti e antifascisti sono la stessa cosa”.

Ma, come abbiamo mostrato nel capitolo precedente, l’antifascismo non è un’ideologia a sé bensì l’adesione ad un’ideologia incompatibile col fascismo.

Per concludere

Naturalmente l’opposizione al fascismo non è rappresentata solo da qualche esagitato che si sarebbe trovato molto bene con le squadracce sansepolcriste. Affermare come l’antifascismo sia equivalente al fascismo, senza specificazione alcuna, è quantomeno ingenuo, se non addirittura in malafede.

Viene tuttavia da chiedersi, a più di settant’anni dalla fine del ventennio, se sia così importante la semplice etichetta di antifascismo. Onestamente credo che ormai sia più importante fare opposizione con la proprie idee ai residuati del fascismo piuttosto che opporsi ad un regime ormai morto e sepolto.

Perché sono tutti buoni a dire di voler togliere qualche fascio littorio in giro, ma quanti sarebbero disposti a rimuovere – o quantomeno a modificare radicalmente – i decreti fascisti ancora in vigore? Giusto per citarne alcune:

  • Il TULPS, sviluppato per far funzionare l’apparato di polizia fascista e in larga parte ancora in vigore
  • I vari reati di vilipendio
  • La regolamentazione della professione giornalistica
  • Vari altri decreti, leggi, enti e simili che servono solo a limitare la libertà economica e personale.