Capire il Libero Mercato: 10 aforismi di personaggi famosi

Immagina di essere con i tuoi amici e, ad un certo punto, come sempre, inizia il dibattito politico. Nessuno sa cosa sia il libero mercato, ma lo criticano tutti. Per te loro sono tutti socialisti, tu per loro sei uno strano egoista turbocapitalista che vuole la disumanizzazione totale.

Ecco 10 piccoli passi per capire e far capire il Libero Mercato ai profani:

  1. Condannare il libero mercato a causa di ciò che accade oggi non ha senso. Non ci sono prove che il libero mercato esista oggi. Siamo profondamente coinvolti in un’economia pianificata dall’interventismo, che consente ai partiti di ottenere importanti benefici dal punto di vista elettorale. Si può condannare la frode e il sistema attuale, ma devono essere chiamati con i loro nomi propri: inflazione keynesiana, interventismo e corporativismo. [Ron Paul]
  2. La generazione di oggi è cresciuta in un mondo in cui, sia tramite la scuola che nella stampa, l’imprenditorialità è stata rappresentata come attività disonesta e cercare il profitto è stato definito un atto immorale, e dare un lavoro a centinaia di persone è considerato sfruttamento, ma è considerato onorevole far dare ordini allo Stato ad altrettante persone. [Friedrich Von Hayek]
  3. La nostra libertà di scelta in una società competitiva si basa sul fatto che, se una persona rifiuta di soddisfare i nostri desideri, possiamo rivolgerci a qualcun altro. E non può avvenire con un monopolio statale. [Friedrich Von Hayek]
  4. La grande virtù di un sistema di libero mercato è che non importa di che colore siano le persone; non importa quale sia la loro religione; importa solo se possono produrre qualcosa che vuoi comprare. È il sistema più efficace che abbiamo scoperto per consentire alle persone che si odiano l’un l’altra di confrontarsi e aiutarsi a vicenda. [Milton Friedman]
  5. Tutti i sistemi sono capitalisti. È solo una questione di chi possiede e controlla il capitale – che sia un re, un dittatore o un privato. Dovremmo concentrarci sul contrasto tra un sistema di libero mercato, in cui gli individui hanno il diritto di vivere come re se hanno la possibilità di guadagnare quel diritto, e un sistema in cui l’economia è controllata dallo Stato, come nelle nazioni socialiste. [Ronald Reagan]
  6. Ci son 4 modi per spendere i soldi. Puoi spendere i tuoi soldi per te stesso: in tal caso, sarai davvero attento a cosa starai facendo e cercherai di avere la massima resa per la tua spesa. Oppure, puoi spendere i tuoi soldi per qualcun altro: per esempio, io ho comprato un regalo di compleanno per una persona; in realtà non ho grande interesse per il contenuto del dono, ma sono stato molto attento al costo. Altra possibilità, tu puoi spendere i soldi di qualcun altro per te: e allora se puoi spendere i soldi di qualcun altro per te stai sicuro che ci scapperà una bella mangiata al ristorante! Infine, io posso spendere i soldi di qualcuno per un’altra persona ancora; e se io dovrò spendere i soldi di uno per un altro, non sarò preoccupato a quanto ammontino, né sarò preoccupato su come li spendo. E questo è quel che fa lo Stato. [Milton Friedman]
  7. Il libero mercato è una rete di scambi volontari e gratuiti in cui i produttori lavorano, producono e scambiano i loro prodotti per i prodotti degli altri attraverso prezzi volontariamente raggiunti. [Murray Rothbard]
  8. Il benessere degli Stati Uniti non fu creato dai sacrifici pubblici per il bene comune, ma dal genio produttivo degli uomini liberi che perseguivano i propri interessi personali e la realizzazione del proprio destino. [Ayn Rand]
  9. Il fatto centrale più importante su un mercato libero è che nessuno scambio avvenga a meno che entrambe le parti non ne traggano vantaggio. [Milton Friedman]
  10. Più lo stato pianifica, più l’individuo si trova in difficoltà nell’organizzare la propria vita. [Friedrich Von Hayek]

Senza lo Stato, chi costruirebbe le strade? Domino’s Pizza.

Molti libertari ci seguono, dunque è giunta l’ora di trattare un tema a loro molto caro: chi costruirebbe le strade se non lo facesse lo Stato?  Se sei un libertario da oggi in poi potrai argomentare alla perfezione la tua tesi, perché a quanto pare in America la seconda catena di pizzerie al mondo ha deciso di aggiustare le strade per evitare che ai clienti arrivino pizze tartassate durante il viaggio a causa delle buche.

La campagna si chiama “Paving for Pizza” ed è stata ampiamente condivisa in tutto il web negli ultimi giorni, probabilmente perché è molto sentita la frustrazione di quando la pizza arriva a casa maciullata, con il formaggio spiaccicato ovunque sulla scatola di cartone e assente nella pizza.

Prima di questa campagna, Domino’s aveva lanciato un’assicurazione che proteggesse la pizza del consumatore dalle strade dissestate, tuttavia bisognava comunque inviarne un’altra e non era poi così redditizio, né si risolveva il problema alla fonte.

In un solo giorno hanno riparato 50 buche fra Texas, Delaware e California. In Italia probabilmente sarebbero stati fermati e multati, e la buca riportata nelle condizioni iniziali. O, forse, per ogni buca avrebbero dovuto aspettare qualche mese prima che un burocrate comunale desse una risposta, dopo minuziosi studi di fattibilità compiuti senza neanche aver guardato il luogo indicato.

Tornando alla domanda iniziale, con cui i socialisti di tutto il mondo tartassano i libertari, fino ad oggi era difficile fare un esempio importante in cui un’azienda del XXI secolo si fosse fatta carico della costruzione o riparazione di strade (in realtà accade tutti i giorni che delle aziende costruiscano strade di vari generi, ma questo caso ha dell’eccezionale), anche perché è difficile che qualcuno si curi di un bene pubblico da cui non avrebbe alcun ritorno economico.

E, invece, siamo tutti testimoni di una grandissima vittoria del profitto, del libero mercato, del capitalismo.  Domino’s Pizza ha un buon motivo per riparare le strade: soddisfare i clienti e far sì che preferiscano il loro servizio a quello della concorrenza. Quali buoni motivi ha lo Stato per riparare le strade? Nessuno. E si vede, siccome vengono dimenticate al loro destino per anni.

Lo Stato non ha alcun buon motivo né incentivo per soddisfare chi paga le tasse con ottimi servizi, perché il cittadino dovrà pagare lo stesso sia quando il servizio è buono sia quando è cattivo. Dunque, per quale motivo rendere un buon servizio se il cliente non può sottrarsi al pagamento? E non passiamo a frasi come “se però le cose fossero così e colà” perché è giusto rammentare che siamo in Italia e, forse un po’ qualunquisticamente, siamo un popolo di furbi.

Io, però, non sono libertario ma liberale classico, dunque partendo dal presupposto che non saprei cosa accadrebbe se le strade venissero lasciate in balia dei privati, prendo un pochettino le distanze da questa linea di pensiero e guardo con simpatia tutto l’accaduto.

Per lo meno, i libertari ora possono stare tranquilli sapendo che la prossima volta che ci avvicineremo alla famigerata domanda sulle strade, potranno guardare a Domino come un faro di innovazione del libero mercato.

Caro lettore, se abiti a Roma o in un comune con delle strade che sembrano appena uscite da un bombardamento, chiedi agli amministratori comunali di aprire le porte a queste grandi aziende. Potrebbero fare il lavoro che loro non fanno (e per cui sono pagati).

Intervista a Daniele Priori di GayLib

Ho avuto una piacevole conversazione telefonica con Daniele Priori, referente per l’associazione GayLib Italia per discutere di quanto accaduto al RomaPride 2018 del nove giugno scorso e per riflettere sulla situazione italiana concernente i diritti individuali.

Daniele, volevo farti qualche domanda sull’accaduto perché ritengo che siate stati ingiustamente allontanati dal corteo in una maniera così becera e vi ribadisco la vicinanza della nostra associazione sia in quanto liberali sia in quanto attenti ai diritti individuali. Molto spesso pensano che i liberali parlino solo di economia quando invece i diritti dell’individuo sono fondamentali…

Sai, purtroppo questo è un errore figlio della storia del pensiero liberale italiano. Si sono un poco abbandonate certe tematiche e questo è uno dei motivi per cui se ne è appropriata la sinistra, anche in una maniera indegna, perché se si va a vedere la storia del Partito Comunista insomma… dai regimi di sinistra gli omosessuali hanno subito le peggiori cose.

Innanzitutto, volevo chiedervi cosa sia successo al Pride e perché siate stati allontanati, ma soprattutto perché vi hanno tacciato di fascismo cantandovi “Bella Ciao” come la cantavano i partigiani ai nazifascisti.

Per essere precisi la mia associazione non aveva aderito a questo Pride, avevamo aderito ad altre manifestazioni in passato come l’Europride 2011 ma dal 2012 non siamo più riusciti ad aderire a nessun Pride romano; in altre parti di Italia il la situazione è più distesa e c’è più confronto, ma Roma è divenuta una piazza infrequentabile anche perché il movimento è stato cannibalizzato da quelle aree “antagoniste”, da non intendere come un insulto. Un’ area molto organizzata che si appoggia al Circolo Mario Mieli, il quale organizza eventi di cui alcuni molto belli e interessanti, ma che definisco antagoniste perché si rifanno alla sinistra extra-parlamentare. Considera che insieme a noi sono stati allontanati anche esponenti moderati del PD perché credevano che facessero parte della nostra associazione… Quello che è successo a noi è stupido, non riesco a trovare altre parole. Eravamo presenti solo con una bandiera per essere solidali con l’evento e siamo andati senza nessuna volontà di provocazione. Pensa che il 17 maggio scorso abbiamo organizzato un incontro alla Camera dei Deputati grazie alla Vicepresidente della Camera Mara Carfagna invitando tutte le associazioni per la giornata contro l’omo-transfobia e tutte le associazioni si sono presentate, tranne chi mi ha poi allontanato, e mi hanno ringraziato in quanto organizzatore dell’evento. Tutto pensavo tranne che a questo finale… non avevamo striscioni, solo una bandiera. Credo che un uomo con una bandiera possa muoversi liberamente all’interno del corteo, quando invece mi hanno detto che io volevo provocare…

Capisco l’amarezza, una manifestazione che dovrebbe essere inclusiva…

Esatto, una manifestazione contro la discriminazione in cui accade il contrario.

Coloro che manifestano contro la discriminazione divengono i discriminatori solo per l’appartenenza politica.

Figurati che quest’anno ricorre, per così dire, il decimo anniversario da un fatto simile, quando non ci hanno permesso di partecipare al Pride di Lubiana del 2008. Eravamo in Friuli a commemorare Pim Fortuyn, leader della destra olandese, omosessuale dichiarato e assassinato nel 2002 che per le sue posizioni sull’Islam e l’integrazione dei musulmani fu tacciato erroneamente di essere xenofobo, quando invece proponeva un modello di integrazione nuovo per l’Olanda anche alla luce di alcuni episodi a Rotterdam in cui le coppie omosessuali non potevano andare in giro per mano perché venivano aggrediti. Per questa nostra partecipazione non ci permisero di partecipare al Pride di Lubiana perché eravamo persona sgradite. Dieci anni dopo a Roma succede quasi la stessa cosa.

Quasi un marchio che vi hanno lanciato addosso da tempo.

Sì, assolutamente. Anche se poi pensi sempre che il tempo faccia pulizia di queste “perversioni mentali”.

Riguardo l’associazione, dato il fatto che siete una realtà particolare all’interno del panorama delle associazioni per i diritti degli omosessuali per il vostro ascendente liberale, volevo chiedervi perché avete sentito il bisogno di proporvi, anche nel nome, come alternativa liberale sia migliore e in cosa si differenzia un approccio di questo tipo al tema dei diritti individuali rispetto a quello proposto dalle altre associazioni?

In maniere molto semplice potrei dirti perché “il mondo è bello perché è vario”. Noi crediamo che l’essere liberale non sia assolutamente antitetico all’avere un orientamento omosessuale né a qualsiasi altra battaglia per i diritti civili. Anzi la battaglia per i diritti civili è un caposaldo del liberalismo. I diritti civili sono i diritti dell’individuo ma soprattutto i diritti della persona. Io non riesco a fare tanta distinzione tra i diritti civili, i diritti umani e anche alcuni di quei diritti sociali che fanno parte ad esempio della dignità del lavoro e te lo dico da liberale, anche se qualcuno mi dice che sia una cosa socialista. Per esempio, un grande tema che GayLib ha portato nel dibattito è quello sulla diversity nel mondo del lavoro che all’estero c’è ed è rispettata. In Italia non sanno nemmeno cosa sia e forse non lo sanno anche i militanti di queste associazioni di sinistra. Ma in Italia purtroppo molti pensano a fare gli antagonisti… anche se per fortuna ne sto conoscendo molti che si approcciano seriamente alla dignità dell’individuo e alla libertà dello stesso… Mentre a sinistra continuano a fare tante ed infinite distinzioni in cui di mezzo ci vanno sempre le libertà e gli individui.

Per quanto riguarda il vostro programma come associazione, che posizioni avete?

Alcune delle tesi che puoi trovare oramai sono vecchie di vent’anni e stiamo ragionando e cercando di elaborarne di nuove per portare nuovi ingredienti all’interno del dibattito. Basti pensare al fatto che vent’anni fa non si parlava di step-child adoption o di maternità surrogata e avere una posizione seria e concreta su questi temi ha bisogno di discussione. Stiamo cercando di elaborare una nuova linea. Ma ci siamo mossi su altri fronti: grazie al mio contributo e a quello di Mara Carfagna e di Francesca Pascale, nel 2014 abbiamo fatto sì che Forza Italia, che rimane un partito di ispirazione liberale, si dotasse del Dipartimento di Libertà civili e diritti umani.

In conclusione, cosa manca secondo te nel panorama italiano per fare il salto di qualità nella questione dei diritti individuali?

Oggi ti potrei dire che, paradossalmente, la situazione è peggiore dell’altro ieri molto peggiore di ieri. Ci troviamo in un passaggio della storia in cui concetti e temi che sembravano archiviati come il razzismo sono tornati di attualità. E la cosa che mi inorridisce è il fatto che se non fai la “faccia brutta” davanti ad una persona di colore sei un “buonista”. Penso il mio impegno come militante per i diritti civili non possa prescindere dal tendere la mano ad un fratello africano, ad esempio. È un individuo che lotta per la sua libertà e il suo futuro e chi siamo noi per negarglielo… Poi, sul tema dei diritti individuali, chi è che nel 2018 pensa di poter fermare quei movimenti naturali che esistono da sempre? Penso che il processo di liberazione degli individui e di pacificazione dei paesi avrebbe dovuto portare a superare questa situazione e invece non è così. Ciò che manca in Italia è una tutela vera e propria a livello legislativo per quanto riguarda l’omofobia e la transfobia: c’è la legge Mancino che riguarda l’odio razziale e una soluzione potrebbe essere quella di allargarla. Ad esempio, grazie a noi di GayLib e all’Arcigay dal 2010 esiste l’OSCAT, un osservatorio della polizia e dei carabinieri contro gli atti discriminatori che grazie alla collaborazione di Manganelli e a Maroni, allora ministro degli interni del governo di centrodestra dell’epoca, si occupa di monitorare le varie denunce e di formare anche i corpi di polizia sul tema. Altra cosa importante è il fatto che nel luglio 2015 la Corte Europea dei Diritti Umani abbia emesso una sentenza contro l’Italia, in relazione al diritto di contrarre un’unione sanzionata e riconosciuta dallo Stato per persone dello stesso sesso, in seguito a dei ricorsi di alcune coppie gay italiane. La prima coppia italiana che ha portato avanti questi ricorsi è una coppia formata dal presidente della nostra associazione Enrico Oliari e dal suo compagno. Grazie a questa sentenza il Parlamento italiano si è poi smosso per pronunciarsi sulle unioni civili nella scorsa legislatura.

Il paradosso dei discriminati discriminanti

Il nove giugno 2018 è andata in scena la parata del RomaPride. Ormai una consuetudine consolidata, seppure è successo qualcosa di inusuale. Il corteo dei manifestanti Lgbtqi ha sfilato lungo le vie del centro della Capitale per cercare di far sentire la propria voce ad un’Italia leggermente sorda e immobile, per usare un eufemismo, ai diritti individuali, in questo caso riguardanti la sessualità con tutti i suoi corollari sociali, e alla loro tutela (con l’eccezione tanto agognata delle unioni civili su cui il Parlamento si è espresso nella scorsa legislatura).

Come ormai è tradizione, la parata è stata un momento di festa per i manifestanti i quali, con carri, maschere e molti colori hanno animato le vie capitoline. Fin qui tutto bene. Un momento di festa, non fine a sé stesso, che cerca di colpire non solo visivamente gli occhi di coloro che assistono ma cerca di smuovere anche le loro coscienze e di sensibilizzarle.

Ripeto: fin qui tutto bene; se non fosse che ad un certo punto l’associazione GayLib Italia, la quale aveva preso parte al Pride, viene cacciata dalla parata con delle motivazioni politiche ingiustificate (come riportato nel comunicato stampa dell’associazione https://goo.gl/fDmdSi). Un fatto piccolo e insignificante ai più, come si può notare dal fatto che la notizia non è stata riportata da nessuna testata giornalistica, ma che non deve passare inosservato e che vorrei fosse un punto di inizio per una riflessione sul tema dei diritti individuali, del ruolo dello Stato in questo rispetto e del ruolo e dei fini che le associazioni dovrebbero avere.

Innanzitutto, diamoci un po’ di coordinate: cos’è l’associazione GayLib Italia? La descrizione presente sulla pagina Facebook recita: “GayLib. Gay liberali e di centrodestra. Dal 1997 in prima linea per l’emancipazione e i diritti civili delle persone omoaffettive”. Fondata nel 1997 da Enrico Oliari, Alessandro Gobbetti e Marco Volante, in poche parole, GayLib nasce come alternativa politicamente liberale ai movimenti e alle associazioni Lgbtqi che, tradizionalmente, nello scacchiere politico si collocano a sinistra non solo in quanto “progressisti” ma anche e soprattutto come appartenenza politica. GayLib si presenta come alternativa non solo per il colore politico ma anche nell’approccio al tema dei diritti individuali.

Forse avete già intuito il motivo politico che ha portato alla “cacciata” di GayLib. Il comunicato stampa per mezzo delle parole di Daniele Priori, è chiaro: “Mi trovavo con una bandiera di GayLib alla testa del RomaPride. Un gruppo di attivisti del coordinamento organizzatore ha iniziato ad intonare Bella Ciao e ‘meglio froci che fascisti’ intimandomi di lasciare il corteo”.

Questa è la cronaca; permettetemi ora di riflettere politicamente sull’accaduto.

In primo luogo, vorrei soffermarmi su un problema che secondo me affligge il discorso intorno alle associazioni per i diritti individuali e in special modo quelli legati alla sessualità ovvero il fatto che siano associazioni politicizzate. È normale che le associazioni prendano un colore politico ben distinto ma ciò non le favorisce ed anzi è deleterio nonché sbagliato. Infatti, nel momento in cui le associazioni che si battono per i diritti individuali prendono una posizione politica ben precisa, avvicinandosi ai partiti o a loro esponenti, esse creano una spaccatura profonda e insanabile, come nel caso del RomaPride, con tutti coloro i quali non si identificano in quel partito o casacca politica.

Ciò sfavorisce il dialogo costruttivo e la mobilitazione delle persone ed inoltre, proprio per il fatto che le richieste e le lamentele giungano da uno schieramento politico piuttosto che da un altro (la distinzione associazione-schieramento politico è divenuta molto labile), coloro che devono prendere decisioni in merito, se sono dell’altro schieramento, saranno più restii ad avallare queste istanze. Questa nota è rivolta non solo alle tradizionali associazioni Lgbtqi di sinistra ma anche alla stessa GayLib (capisco la loro esigenza di essere un punto di riferimento per chi non si riconosce nella Sinistra, seppure la soluzione non sia delle migliori).

In secondo luogo, prendiamo in esame il ruolo che lo Stato dovrebbe avere riguardo queste questioni. Ormai, purtroppo, da lungo tempo lo Stato ha trovato terreno fertile nel campo dell’etica e anzi ci sono sostenitori di un vero e proprio “Stato Etico” alla Hegel. Come un “buon padre”, lo Stato si impegna a dirci cosa è possibile fare, cosa è sbagliato, con chi è giusto andare a letto e con chi è possibile sposarsi; per di più lo Stato si fa garante delle minoranze, cosa che gli riesce in maniera pessima, ignorando una delle più grandi verità che Ayn Rand ci ha donato: “la più piccola minoranza al mondo è l’individuo. Chiunque neghi i diritti dell’individuo non può sostenere di essere un difensore delle minoranze”.

Questa è una delle aberrazioni più fastidiose e nocive del sistema stato; uno Stato che si permette di regolare la vita dell’individuo fino al dettaglio è la morte dell’individuo stesso. Invece, esso dovrebbe ritirarsi da questa sfera, lasciare che gli individui possano esprimersi al meglio delle loro possibilità in tutti i campi e che possano decidere come e cosa fare della loro sessualità, del loro denaro e di tutti i loro averi. Purtroppo, lo Stato non gradisce questa soluzione, anzi la ignora completamente; per questo motivo, visto che non intende ridurre il suo perimetro, deve garantire a tutti la tutela della propria individualità: deve garantire a tutti gli individui di potersi sposare con chi vogliono e di poter decidere cosa è giusto per loro.

In questo momento esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B: alcuni possono fare determinate cose, altri sono impossibilitati. Ma qui si nasconde il pericolo: lo Stato non deve trattare le minoranze (sembra quasi inutile ricordare qual è la minoranza più piccola) come gruppi privilegiati e particolari accordando loro speciali diritti. Lo Stato deve avere come punto focale l’individuo e la sua salvaguardia. Oppure levarsi di torno.

Infine, dopo queste considerazioni, vorrei far notare agli amici del RomaPride il paradosso che hanno creato: una manifestazione di persone ingiustificatamente discriminate hanno ingiustificatamente discriminato (solo sulla base dell’appartenenza politica) altre persone che si sentono discriminate e che volevano far sentire la loro voce. Possono esserci solo “froci comunisti”? Come ciliegina sulla torta vi lascio alcuni dei punti del Romapride che in teoria facevano ben sperare ma che sono stati traditi in un battito di ciglia.

CHI SIAMO

Siamo un avamposto di opposizione e resistenza all’avanzata di vecchi e nuovi fascismi, l’incubo di chi vuole una società schiacciata nell’omologazione ed agisce soffocando chiunque non si voglia conformare.

Non vogliono omologazione, ma guai ad avere idee politiche diverse.

IN COSA CREDIAMO

In un lavoro socio-culturale per il superamento di schemi binari, stereotipi di genere e supremazia del modello di maschio, bianco, occidentale, abile, cattolico ed eterosessuale su cui è stata costruita la nostra società.

Vogliono superare gli schemi binari. Ma il binarismo fascista-comunista non gli interessa.

COSA RIVENDICHIAMO

Rivendichiamo la libertà di autodeterminazione delle persone perché tutti possano scegliere liberamente e consapevolmente per sé e per il proprio corpo senza l’ingerenza dello Stato, della Chiesa, delle religioni o di qualsivoglia moralismo.

Rivendicano la libertà di autodeterminazione ma non puoi autodeterminarti diversamente.

 

 

Perché non possiamo essere sia liberi sia uguali

Qualche tempo fa il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha detto che i valori di Libertà e Uguaglianza “sono il fondamento della nostra società ed i pilastri su cui poggia la costruzione dell’Europa“. Non starò a sindacare sullo stile del Capo dello Stato, che vuole unire in un centro d’idee tutti i valori, come si è fatto per decenni nel suo ex partito, la Democrazia Cristiana.

Non posso che iniziare citando la Dichiarazione Universale: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali [ma la frase non finisce mica qui!] in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. »

Partire da questa premessa vuol dire accettare i principi di pari opportunità, uguaglianza di fronte alla legge, giustizia nella legge, tutela dalla discriminazione.

Ecco il primo contrasto:

  • per essere uguali serve che le leggi siano diverse per ciascuno, in modo tale da appianare le differenze;
  • per essere liberi serve che le leggi siano uguali per tutti, così come in Natura così nella società.

Difatti, vediamo ogni giorno la differenziazione delle leggi a seconda della ricchezza che si possiede, del lavoro che si ha, della propria provenienza e così via, al fine di garantire la giustizia sociale. Quest’ultima, una chimera inesistente e irraggiungibile. Inutile dire che questi sono i principi che differenziano liberalismo e socialismo.

Cercare di raggiungere l’uguaglianza, e dunque di trattare gli individui in modo diseguale per far sì che tutti siano uguali, non può portare altro che alla prevaricazione di chi è diverso, dunque alla discriminazione. Come sempre, i socialisti pensano in primo luogo a cosa hai e non a chi sei, discriminando a seconda della ricchezza. Questo genere di discriminazioni le troviamo anche nel nazismo, in cui le vittime erano i diversi, gli ebrei, gli omosessuali, gli oppositori. [Ultimamente, negli States, è uscita la moda di discriminare i bianchi, etero, capitalisti… ]

Non bisogna ignorare il fatto che siano entrambe discriminazioni e, in quanto tali, pregiudizievoli, perché il confine fra le due è veramente sottile.

In una gran parte del mondo civilizzato ci sono state leggi volte ad aggiungere diritti per categorie o a punire discriminazioni nei confronti di gruppi. Leggi per consentire l’ingresso degli omosessuali nelle forze armate (davvero serviva una legge per consentire il loro ingresso?), aggravanti per le discriminazioni di carattere razziale, regolamentazioni diverse per le unioni a seconda del genere. Quando, alla fine, basterebbe ricordare che i diritti umani valgono per ogni singolo individuo senza che sia categorizzato e schedato come un prodotto su Amazon.

Come si equilibra una società basata sull’uguaglianza? E una basata sulla libertà?

  • Il primo passo per raggiungere l’uguaglianza sostanziale è la distribuzione della ricchezza, un metodo che permette di dare a ciascuno ciò che necessita e fargli fare ciò che desidera senza dover pensare se riuscirà a sbarcare il lunario;
  • Il primo passo per raggiungere la Libertà è la distribuzione del potere al fine di limitare la coercizione e i monopoli, ciò avviene già naturalmente attraverso i meccanismi di mercato che permettono di far avere a ciascuno ciò che merita e di cercare la felicità attraverso le sole proprie forze.

Sono entrambe utopie?

No, nessuna delle due è una utopia. Abbiamo potuto guardare, con ammirazione o disdegno, la realizzazione di società fondate sulle due diverse premesse. Il problema si pone sui risultati della realizzazione: le società basate sull’uguaglianza hanno appiattito i propri cittadini ad essere oggetti governati, i cui diritti sono mere concessioni, così come talvolta il cibo deve essere calato dall’alto, sempre che ci sia; le società fondate sulla libertà sono, invece, il luogo migliore in cui conquistare la felicità e il benessere tramite il merito e il talento.

In conclusione, auspicare una società basata su libertà e uguaglianza è un pensiero ossimorico, poiché la prima consente a ciascuno di trovare la felicità con le proprie forze, mentre dalla seconda deriva la schiavitù con il pretesto di una felicità collettiva.

Perché non possiamo essere comunisti (nè socialisti)

Pochi giorni fa è ricorso l’anniversario della nascita di Karl Marx, un evento che è stato ampiamente celebrato in tutto il mondo occidentale, con citazioni, nuovi saggi, film e approfondimenti di vario genere. Al di là dell’aspetto ironicamente consumistico che hanno assunto molte di queste iniziative, l’occasione è stata utile per mostrare quanto il comunismo eserciti tuttora un fascino notevole e attiri proseliti e sostenitori. Sembra quasi che i fallimenti delle esperienze del socialismo reale siano stati dimenticati ed è impossibile non esserne preoccupati.

Personalmente, comprendo benissimo il fascino del marxismo. Cresciuto in una tradizione politica e culturale di sinistra, il comunismo e il socialismo sono stati per anni un mio punto di riferimento ideale pur avendone una conoscenza, in fondo, piuttosto superficiale. A 14 o 15 anni già sapevo che il socialismo reale si era rivelato un fallimento costoso e sanguinoso, ma non riuscivo a confutarne i principi: come si può ritenere sbagliata un’ideologia che vuole mettere fine all’ingiustizia che si osserva tutti i giorni nella società? Che spiega di mirare a un mondo diverso, dove nessuno soffra il freddo o la fame e dove l’aspettativa e la speranza di una vita migliore non siano condizionate dal Paese e dal ceto sociale in cui si nasce?

Sono arrivato per gradi a capire cosa c’era che non funzionava. Tanto per cominciare, lo studio della storia mi insegnava che l’umanità non aveva mai vissuto lunghi periodi di pace e benessere, sotto qualunque tipo di regime; e che gli episodi più feroci di ingiustizia o di violenza non erano per forza legati a dinamiche economiche, ma anche a divisioni etniche, politiche, religiose, ecc. Guardando poi alla storia del Novecento, la brutalità dello stalinismo o del maoismo rendevano evidente che l’ingiustizia in quei regimi non era stato affatto eliminata, anzi! Ed anche i Paesi socialisti meno violenti avevano una lunga storia di corruzione e di repressione della libertà. Se il marxismo funzionava, perché i regimi socialisti erano teatro di violenze e prevaricazioni? Ci si sarebbe aspettato che eliminando le disuguaglianze economiche la società sarebbe stata più giusta e libera, ma non sembrava che così fosse.

Ci doveva quindi essere, alla base dell’ingiustizia, qualcosa che andava oltre le differenze economiche. E l’osservazione della realtà intorno a me (anche solo la scuola e le sue dinamiche) ha fornito l’ultimo tassello: l’ingiustizia deriva dalla disparità di potere. Basta concedere una goccia di autorità a un individuo per generare oppressione e violenza, fisica o verbale che sia. Le disuguaglianze economiche o sociali possono contribuire, ma non sono il cuore del problema.

Marx non era uno sciocco e comprendeva il dilemma che ponevano gerarchia e potere; secondo la sua dottrina, dopo una fase iniziale di dittatura del proletariato l’umanità sarebbe passata allo stadio finale di società comunista, dove non ci sarebbero state più classi sociali né disparità economiche e di potere, e dove sarebbero state cancellate tutte le forme di ingiustizia.

Ci sono un paio di cose che non tornano in tutto ciò: punto primo, perché una tale società non è mai esistita? E poi, perché mai si dovrebbe passare da una dittatura per raggiungere questo felice stadio? Alla prima domanda, Marx rispondeva parlando delle sovrastrutture ideologiche, create dalla classe dominante, che dividevano o assopivano gli individui (“la religione oppio dei popoli”, come da famosa citazione). Alla seconda, con la necessità di eliminare appunto tale classe dominante e tutti i suoi ideologi e difensori, per livellare la società e cancellare ogni sovrastruttura.

Il problema è che le due risposte sono in realtà in contraddizione fra loro: la prima presuppone che gli uomini siano essenzialmente buoni e pronti a vivere in perfetta armonia ed uguaglianza; la seconda insegna che una parte degli uomini è assolutamente malvagia e decisa ad opprimere i propri simili. Se la prima risposta fosse vera, come potrebbero esistere disuguaglianze e ingiustizia? Perché la società umana non vive già in perfetta pace e fratellanza? Se fosse vera la seconda, come si concilia con la prima? E, più pragmaticamente, come si impedisce a questa minoranza di “malvagi” di sfruttare il resto dell’umanità?

Per rispettare le premesse logiche del marxismo, l’umanità deve essere composta di una massa di uomini buoni ma stupidi e di una minoranza di uomini intelligenti, alcuni cattivi e altri buoni. Solo in questo modo si può spiegare l’oppressione delle classi popolari e le possibilità di successo di una rivoluzione comunista. Il marxismo propone una visione estremamente elitista del mondo, ed incompatibile con la democrazia (o con l’anarchia).

L’unico modo, in una visione simile, di evitare che i “malvagi” opprimano i buoni è tenere i primi sempre sotto controllo. La società dovrà dunque essere dominata da una élite di uomini intelligenti e buoni, che soli possono proteggere la massa dai malvagi e garantire che la loro stessa stupidità non li danneggi: non vi potrà essere libertà, né uguaglianza di potere; ma, come abbiamo visto, in questo caso non potrà esservi neanche giustizia. E infatti i socialismi reali sono sempre state dittature, oppressive e corrotte come tutte le dittature.

Marx è stato un ottimo storico, ed un critico acuto del sistema capitalistico. Ma la sua visione politica è piena di contraddizioni e fallacie logiche e pone le basi per ingiustizia e oppressione; ed è per questo che deve essere rigettata interamente, anche a sinistra.

Obiezione ai “genderfluid”, ossia chi non si considera né uomo né donna

Non mi si creda cattivo o insensibile, ma non capisco davvero per nulla il grande problema che i “liberals” hanno sollevato in America sul “Gender assuming”. Per chi non lo sapesse, alcune persone rifiutano di definirsi “uomo” o “donna” perché, a loro avviso, si tratta di categorie create dalla società, che ci classifica in generi per, secondo le teorie più radicali di alcuni, controllarci meglio. E dunque rifiutano di dichiarare il loro genere perché non vi si sentono rappresentati a pieno.

Ed io mi scervello e mi concentro ma continuo a non cogliere un passaggio logico che credo tuttavia fondamentale: per non riconoscersi in delle categorie bisogna per prima cosa riconoscere quelle categorie. Saperle definire e poi, eventualmente, rifiutarle. E i motivi per cui questa massa di apolidi sessuali rifiutano di definirsi altro che “persone” è che, a quanto dicono, i caratteri che definiscono i due generi non hanno nulla a che vedere con chi sono.

In breve, nella società un uomo si definisce socialmente perché è di atteggiamento più patriarcale, o fisicamente più forte. Magari è più appassionato di sport che di moda. E una donna è considerata più femminile se si mostra vicina alla sua funzione di procreatrice. Questo infastidisce molto i cosiddetti “genderfluid” che si trovano spesso ad essere “gender-assumed”. Ossia chi li incontra presume una loro appartenenza ad un genere perché riconosce in loro i caratteri sessuali secondari come capelli lunghi, trucco o atteggiamento. La critica ha senso, in chiave liberale, perché se un ragazza vuole avere i capelli corti o vestirsi con vestiti generalmente indossati da uomini, è libera di farlo.

Però la chiusura a riccio nei confronti del genere mi lascia un po’ confuso. Siccome la società mi definisce uomo perché ho atteggiamenti considerati maschili (e magari sbaglia), io rifiuto la definizione di uomo, come di donna, e me ne astraggo. Qual è però il problema? Il problema è che i generi servono. Hanno una funzione identificatrice e anche medica. Sarebbe assurdo se io andassi dal ginecologo ed a una sua obiezione lo accusassi di “gender-assuming”. Perché sono differenze biologiche che non si possono eliminare. Se anche ci si considererà un giorno tutti null’altro che persone, le donne continueranno a partorire bambini e noi a soffrire di un calcio tra le gambe più di quanto non ne soffrirebbe una donna.

Per cui, a mio modesto avviso, il rifiuto delle categorie sociali può anche andare bene, ma non deve eliminare i generi. Semmai eliminare i pregiudizi legati ad essi. Per cui non riesco a capire perchè un uomo “genderfluid” non può considerarsi uomo poiché biologicamente appartenente a questa inconfutabile categoria, e rifiutare dall’altra parte chi ha da obiettare sulla sua maschilità perché il suo modo di comportarsi non corrisponde con la generale idea di uomo.

La mia opinione è che se si vuole operare una vera e propria rivoluzione di genere per portare ad un’uguaglianza tra soggetti, si deve essere consapevoli, orgogliosi e magari anche contenti del genere in cui si è nati. E poi rifiutare i tratti che ci consegnano ad una categoria o ad un’altra. Ma senza abbandonarle o rifiutarle, quasi fossero un insulto o una mancanza di rispetto.

Altrimenti si incorre in due effetti collaterali: il primo, perdere credibilità proponendo una cosa assurda come una società senza distinzioni di genere. Consuetudine che in America ha portato quelli che, in teoria, si sarebbero dovuti convincere di una battaglia, anche giusta, a ridicolizzare un movimento per alcune posizioni inconcepibili, come quest’ultima. E in secondo luogo il fare il gioco di chi riconosce solo ad un genere alcune prerogative, astraendosi e non considerandosi nulla, perché qualcuno sbaglia i termini. Lasciando chi si considera uomo ad essere circondato da una massa di stereotipi dell’essere ”mascolino”. Viceversa con le donne.

In America si ha, in genere, un grande talento ad individuare problemi anche seri ma a trovare modi per ribellarvisi completamente anti-producenti e dannosi. Così da rendere la battaglia ridicola agli occhi di chi si dovrebbe convincere. Basti guardare come il problema delle violenze sugli afroamericani sia sfociato nel “Black lives matter” e come il problema del razzismo abbia assunto inspiegabilmente come baluardo la battaglia della “cultural appropriation”. In poche parole: se non sei nero e ti fai i dreadlocks ti stai appropriando indebitamente di aspetti di una cultura che non ti appartiene. Una battaglia ridicola che non è servita ad altro che a renderne poco dignitosa una invece importante, come quella dell’antirazzismo.

Ecco, il caso dei “genderfluid” credo possa fungere da esempio per spiegare come i liberals americani distruggono le buone battaglie che dovrebbero condurre, spinti dalla massa di seguaci sui social, pronti a fare scoppiare un caso (o un casino) ogni qual volta qualcuno dice qualche cosa anche lontanamente interpretabile come “politically uncorrect”.

Chi rifiuta di definirsi uomo o donna riconosce che i capelli lunghi sono aspetti femminili e che gli addominali sono maschili. E crede che per mantenerli, sebbene in contrasto con l’idea che si ha del suo genere, non possa rimanere uomo o donna. Per cui arriva a sostenere di non essere ciò che, suo malgrado, geneticamente è. E sostiene implicitamente che se ti consideri uomo allora non puoi avere capelli lunghi, unghie smaltate o gambe depilate.

La sostanza è questa: chi combatte contro le discriminazioni di genere e chi le fa dicono la stessa, terribile cosa. I primi per esasperazione di una protesta, i secondi per ignoranza. Ma contribuiscono entrambi allo stesso pregiudizio.

 

Alessandro Luna

Egoismo individuale e bene collettivo: la favola delle api

Qual è il segreto per costruire una società prospera? Una società in un cui la ricchezza sia capillarmente diffusa, in cui l’individuo sia libero di realizzare a pieno il proprio potenziale?

Per secoli, filosofi e scrittori hanno descritto società ideali, utopie, che in genere presentano sempre lo stesso denominatore comune: lo Stato-Leviatano e l’individuo ridotto a uomo-massa. Che si tratti della Repubblica di Platone o della Città del Sole di Campanella, ci viene proposto sempre lo stesso arcaico punto di vista: l’individuo è egoista, corrotto, e solo uno Stato potente può salvarlo da sé stesso.

Ma se invece non fosse così? Se invece fossero proprio i vizi dell’uomo, primo fra tutti l’esecrato egoismo, la chiave per costruire una società più prospera e più giusta?

Questa non è solo una mia radicata convinzione, ma anche quella di Bernard de Mandeville, autore de “La favola della api“, il cui sottotitolo è “Vizi privati e pubbliche virtù“.

In questo breve apologo, Mandeville presenta un florido alveare, palesemente ispirato all’Inghilterra dell’epoca, in cui ogni ape persegue indefessa il proprio tornaconto. La ricerca di lussi sempre più grandi domina l’alveare, stimolando così il commercio, l’industria, la produttività ed il progresso scientifico. Tutte le api si adoperano per elevare la propria condizione, e così facendo sono inconsapevolmente responsabili per il benessere generale dell’alveare.

Alla fine, tuttavia, la prosperità dell’alveare giunge al termine quando il suo “vizio”, per mezzo di Giove, viene rimpiazzato dalla “virtù”. Questa riforma dei costumi abolisce il lusso e l’egoismo, sostituendoli con la frugalità e l’onestà. Insieme al “vizio”, però, viene meno il motore stesso dietro al progresso della società: i traffici commerciali vengono abbandonati, le arti e i mestieri regrediscono, in quanto le nuovi api “virtuose” sono ora soddisfatte di quanto già posseggono, e non si industriano più a migliorare le loro condizioni di vita, paghe della propria  “virtù”.

Questo genera una grave crisi che impoverisce l’alveare, portando alla morte di gran parte della sua popolazione, mentre le api sopravvissute si ritrovano a vivere in condizioni miserevoli rispetto al passato.

Come si evince da questo apologo, Mandeville è giunto, precedendo Smith, alle stesse conclusioni dell’economista scozzese. Questo perché il suo oggetto di studio è lo stesso di Smith, vale a dire l’Inghilterra del Settecento, luogo di nascita del capitalismo, della rivoluzione industriale e del Liberalismo.

Proprio la combinazione fra questi 3 fattori ha trasformato in poco più di un secolo l’Inghilterra, da Stato ai margini dell’Europa a prima iperpotenza della storia. Ma l’Inghilterra non è un esempio isolato: in ogni tempo ed in ogni luogo, queste forze hanno cambiato il destino di intere nazioni, a prescindere dalla loro ricchezze naturali: quale altra risorsa ha un Paese come la Svizzera, se non il carattere dei suoi abitanti?

Ma affinché tutto questo avvenga, è necessario un catalizzatore, qualcosa che dia agli individui la forza di andare avanti, incuranti delle sconfitte, senza mai perdere di vista l’obbiettivo finale: quel catalizzatore è, secondo me, una sana dose di egoismo. Non esiste a mio parere religione o ideologia politica in grado di fornire una motivazione più grande dell’amore per sé stessi connaturato in ognuno di noi.

Anzi, non è un caso che dietro a molti dei crimini più orrendi mai compiuti in nome di un credo religioso o politico vi sia un’intenzione altruistica: i nazisti di ieri, così come i jihadisti di oggi, sono mossi dalla certezza di contribuire alla creazione di un mondo migliore, e per questo fine altruistico sono pronti a sacrificare tutto, in primis il loro ego. Il problema è, per dirla con Asimov, che mentre il bene individuale è facilmente osservabile e misurabile, quello collettivo o dell’intera umanità comprende semplicemente troppe variabili, che neanche il cervello positronico di un robot può risolvere, figurarsi quello di un semplice essere umano.

Per questo, penso che l’unico modo per fare il bene sia quello di partire dal livello più basso possibile, non dall’umanità intera, non da una nazione, bensì dalla più piccola e bistrattata delle minoranze, l’individuo, facendoci guidare dal nostro ego verso l’ autorealizzazione.

Gli orfani del Comunismo strizzano l’occhio all’Islam radicale

Mi resta da capire per quale motivo si debba mettere sul banco degli imputati un paese che fino a prova contraria è una dichiarata democrazia, posta nel nostro caro Occidente democratico e obbligata, di volta in volta, a rispondere delle proprie azioni di fronte ai trattati e alle convenzioni internazionali. Mi sto riferendo agli Stati Uniti d’America.

Non per pregiudizi, o forse anche per essi, ma io tenderei in data odierna ad inquisire maggiormente la Repubblica Islamica dell’Iran, il cui nome, senza l’aggiunta di ulteriori particolari, fa alternativamente pisciare addosso dalle risate e crepare di paura. Basta conoscerne un minimo la storia, consci quindi di come il popolo iraniano abbia, decenni or sono, salutato l’ayatollah Komeini che ritornava dall’esilio manco fosse un eroe: si trattava semplicemente di una guida spirituale suprema col potere di contare e di intervenire con maggior incisività rispetto alle autorità politiche. Alcuni esponenti politici nostrani dovrebbero rabbrividire di fronte ad una realtà simile, e invece preferiscono prostrarsi ai loro piedi col capo coperto. Questione di trasformismo.

Pare, a detta del premier israeliano Netanyahu, che la repubblica degli ayatollah ci abbia presi per i fondelli quando ci raccontava che stava rispettando l’accordo sul nucleare tanto voluto da Obama: in realtà, ne stavano continuando la produzione come meglio credeva. Obama, in quanto nobel per la pace, ha siglato un accordo mai rispettato dalla controparte e scatenato la così detta Primavera Araba, mentre Trump, in quanto uomo bianco brutto e cattivo, ha messo al suo posto a suon di minacce quel pupazzo vivente di Kim Jong Un e adesso si appresta a fare la medesima cosa con Rouhani e le rozzissime guardie della rivoluzione.

Eppure, anche nel caso del leader nord coreano, le domande che l’intellighenzia occidentale si poneva riguardavano tutte la condotta di Trump e la sua aggressività. Niente da dire, però, su un pazzoide che effettuava test nucleari nel Pacifico facendo tremare mezzo mondo. Sembra quasi che la bontà, dai nostri dirimpettai, non la si debba mai pretendere, mentre su noi stessi tranciamo giudizi duri e intransigenti. Capisco il pretendere sempre il meglio da sé stessi, ma a fronte di un parlamento iraniano che brucia in mondo visione la bandiera degli Stati Uniti in segno di odio e sdegno, non comprendo perché si debba reagire misurando ogni singola parola che esce dalla bocca di Donald Trump.

Il dubbio, che in realtà è una certezza, è che non sia più una questione di giusto e di sbagliato, di strategia politica e di astuzia, bensì il solito odio verso sé stessi, verso l’Occidente capitalistico, grosso modo liberale, laicizzato, secolarizzato e dunque agli antipodi rispetto al mondo arabo-islamico. Quest’ultimo rappresenta, per coloro che amo definire “orfani del comunismo”, una nuova terra promessa, una nuova frontiera culturale, una nuova fonte di pensiero cui abbeverarsi, una inestinguibile sorgente di odio e di disprezzo verso quel mondo (il nostro) che ha trionfato sul socialismo e sul comunismo, su Marx e sui quattro rimbecilliti che ancora oggi vanno dicendo che la proprietà privata è un furto e che i mezzi di produzione non devono appartenere ai padroni.

È cosa nota che le sinistre in tutta Europa stiano scomparendo come neve al sole. Il motivo è facilmente intuibile: sono fuori tempo massimo, barcollano nel buio leggendo il loro libretto rosso di Mao (love is love, l’immigrato è sempre una risorsa, redistribuiamo la ricchezza, i ricchi aumentano e i poveri anche, Berlusconi è un mafioso e Trump un mezzo stupratore) e non sono in grado di fornire risposte soddisfacenti perché il solo approccio costruttivo, realistico e mai ideologico è quello liberale.

Abbiamo i nostri autori, abbiamo i nostri testi, ma stiamo al passo coi tempi comprendendone il cambiamento perpetuo. A noi interessano i singoli individui, a loro quell’unico blocco chiamato “società”. Epperò, con la ferita che brucia perennemente, perché il socialismo nel mondo miete ancora vittime ogni giorno mentre il capitalismo produce inequivocabilmente benessere, l’islam e le sue istituzioni anti-occidentali divengono degli alleati naturali, ovvii e scontati. 

Insomma, basta che dalla Palestina, allo Yemen, all’Iran e all’Egitto la propaganda sia contro il cattivo Occidente dei visi pallidi per potersi stringere la mano in segno di fratellanza. Che poi da quelle parti i “froci” li impicchino e le donne le infibulino, poco importa: pedine sacrificabili.

Un approccio empirico e liberale alla corruzione (2 di 2)

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Abbiamo già mostrato come maggiori controlli e pene più severe non solo non siano un efficace strumento di lotta alla corruzione, ma anzi vadano a detrimento della stessa. A supporto di questa tesi è stata mostrata la forte correlazione tra la classifica Doing Business (che misura la facilità di fare impresa in un Paese) e il Corruption Perception Index (che rileva il livello di corruzione percepita).

Prima di tutto, un paio di precisazioni. La prima: la corruzione ha molte facce. Quando si parla di essa, non si deve immaginare solo il funzionario o il politico che pilotano gli appalti a favore di amici, ma anche i “contributi” richiesti per accelerare una pratica o al contrario per eliminare un ostacolo o la concessione di sovvenzioni improprie; e si potrebbero fare molti altri esempi. Chiaramente, diversi tipi di corruzione richiedono diversi strumenti di prevenzione e repressione. La seconda precisazione, forse più importante, è che correlazione non significa causalità.

Le più autorevoli ricerche in materia di corruzione ne legano la diffusione al grado di povertà in un Paese (misurato tramite il PIL pro capite), alla scarsa istruzione della popolazione, all’inefficienza delle istituzioni politiche presenti e a fattori storico-culturali; il ruolo della sovra-regolamentazione è al più marginale, inserito nel più ampio contesto politico-istituzionale. Il punto non è sostenere che l’unica causa della corruzione sia la proliferazione di leggi e regole, ma confutare il ragionamento opposto, fallace e molto pericoloso, più controlli = meno corruzione. Sia i dati empirici sia la logica indicano che non è così ed anzi una eccessiva regolamentazione, invece di contrastare il fenomeno, lo alimenta.

Partiamo dai dati (del 2015). Della forte correlazione tra gli indici Doing Business (sviluppato dalla World Bank) e Corruption Perception (elaborato da Transparency International) si è già detto, ma allargando l’analisi ad altri indicatori si può evidenziare meglio il rapporto tra corruzione e sovra-regolamentazione:

– L’indice Business Freedom elaborato dalla Heritage Foundation misura i tempi e i costi per aprire/chiudere un’attività o richiedere una licenza; la sua correlazione con il Corruption Perception Index è molto alta, pari a 0,77;

– Il Worldwide Governance Indicator, sviluppato dalla World Bank, analizza la qualità della governance negli Stati, facendo riferimento a 6 dimensioni (a loro volta costruite aggregando dati di vari indicatori e ricerche): Voice and AccountabilityPolitical Stability and Absence of ViolenceGovernment EffectivenessRegulatory QualityRule of LawControl of Corruption. Queste dimensioni sono tutte fortemente correlate tra loro e tra le due che più ci interessano, Control of Corruption e Regulatory Quality, l’indice di correlazione è molto elevato, essendo pari a 0,83;

– La dimensione Regulatory Quality aggrega vari indicatori, tra cui quello sul peso della regolamentazione governativa (Burden of Government Regulation) elaborato dal World Economic Forum; anche questo indice più specifico presenta una correlazione statistica positiva, seppure minore (0,34), con la dimensione Control of Corruption.

I dati concreti, insomma, non confermano affatto la tesi che servano maggiori regole, anzi sembrano suggerire la tesi opposta. Come spiegarlo? Vi sono fondamentalmente due ordini di cause: i maggiori incentivi alla corruzione e la maggiore difficoltà nell’individuare le responsabilità individuali.

La lunghezza e la complessità delle procedure burocratiche rappresentano infatti un costo ed un rischio per le imprese, che spesso sono costrette a operare “al buio” senza sapere se e quando il proprio progetto imprenditoriale avrà successo o meno; in questa situazione di incertezza sui tempi e sugli esiti, aumenta inevitabilmente la propensione a cercare di ottenere certezza sul ritorno dal proprio investimento tramite scorciatoie illegali. Questo per i corruttori. Per quanto riguarda i potenziali corrotti, la ragione è ancora più semplice: aumentando il numero di burocrati con poteri di controllo, aumenta la probabilità che qualcuno tra questi sfrutti il proprio ruolo per negoziare vantaggi privati con l’impresa o il cittadino coinvolti; ancor più se si è inseriti in un sistema che ricompensa poco il merito come l’amministrazione pubblica italiana.

Un numero eccessivo di regole e controlli rende inoltre più difficile individuare chi abbia preso una decisione. Il burocrate disonesto riesce a nascondersi alla vista molto più facilmente in mezzo a una folla di altri decisori e se poi riesce a far sanzionare una pratica illegittima da altri funzionari sarà al riparo da azioni giudiziarie.

L’Italia soffre ancora di un livello di corruzione inaccettabile per un Paese sviluppato e le solite ricette di repressione e regolamentazione non possono ottenere che risultati parziali, quando non sono controproducenti. Come si può affrontare invece il problema in un’ottica liberale? Riconoscendo che la corruzione non è una questione morale, ma bensì di costi/benefici; che più regole e restrizioni si mettono, più i cittadini e le imprese cercheranno di evaderle; e che la responsabilità individuale è fondamentale e deve essere chiaramente identificabile in ogni decisione pubblica.
Solo cambiando il nostro modo di vedere il fenomeno della corruzione, riusciremo a comprenderlo e combatterlo efficacemente.