Libertà personale e libertà economica

Nella nostra società diamo grande importanza alla nostra libertà personale e ai nostri diritti: dalla libertà di parola a quella di movimento, fino al poter esprimere la nostra sessualità liberamente. Molto più dura è la vita per la libertà economica. Ad ogni angolo, dai talk show alle interviste di politici e intellettuali ai discorsi da bar che si possono fare con i nostri amici, si sente invocare la necessità di difenderci dalla concorrenza straniera, di porre limiti all’avidità degli imprenditori, di combattere il “liberismo selvaggio” o la “finanziarizzazione dell’economia”. In sostanza: di limitare la libertà economica. Quello che non è chiaro a molti, però, è che la libertà personale e quella economica non sono separabili.

Partiamo dai dati: il Cato Institute, un istituto di ricerca americano, pubblica ogni anno un indice sulla libertà umana, che è a sua volta suddiviso nelle dimensioni di libertà personale ed economica (con scala da 1 a 10); anche da un’occhiata veloce si nota facilmente quanto le due dimensioni siano collegate fra loro[1]. Se si prendono ad esempio tutti i Paesi “sufficienti” (quindi con score dal 6 in su) sul piano della libertà economica, solo 16 su 122[2] sono insufficienti sul piano della libertà personale. E risultati analoghi si ottengono facendo la prova inversa[3].

Ovviamente ci sono Paesi riescono a scindere le due dimensioni, ma di solito non per lungo tempo. Nel 2008, ad esempio, vi erano 18 Stati che avevano libertà economica positiva e personale negativa: nel 2015 tutti quei Paesi tranne 4 avevano o incrementato il proprio score sulla libertà personale o diminuito la libertà economica[4].

Abbiamo dunque visto che una correlazione c’è, e molto forte, ma perché è così? Cosa lega il peso della burocrazia su un’attività imprenditoriale a, per esempio, la censura della libertà di parola? La prima ragione, più immediata, è che la libertà economica è il singolo fattore più importante per la crescita economica di una nazione.

Opprimerla significa mandare in crisi l’economia e in nessun posto i cittadini premiano i governanti che peggiorano le loro condizioni di vita. I potenti che vogliono mantenere il controllo su un Paese che si sta impoverendo devono necessariamente farlo con la forza: se si vuole un esempio recente, basti pensare al Venezuela.

Ma la libertà economica ha anche un valore meno astratto, più pratico. Pensiamo a una storia semplice, ma possibile. Un giorno, leggendo un articolo su un blog, un ragazzo si imbatte in una meravigliosa descrizione dell’antica arte della miniatura in legno; subito decide che gli piacerebbe saperne di più impararla e piano piano, a forza di tutorial su YouTube e di ore e ore di esercizi, diventa un maestro in questa difficile disciplina. Ormai ha scoperto che nulla gli darebbe più soddisfazione che fare solo questo lavoro tutto il giorno, e già alcuni suoi amici e conoscenti gli hanno chiesto di poter comprare una sua creazione.

A quel punto, l’idea: aprirà un piccolo negozietto e venderà lì quello che crea; vivrà della mia arte, facendo ciò che ama. Ora poniamo che il nostro povero artista viva in uno Stato in cui la libertà economica è calpestata. Appena comincia a mettere in pratica la sua idea, subito è travolto da mille regole e restrizioni, mentre fisco e burocrati continuano a chiedergli sempre più soldi in tasse e balzelli di vario genere; alla fine, scoraggiato, decide di abbandonare il suo sogno. Lavorerà per il resto della sua vita in un ufficio o fabbrica, dopo aver detto addio alle sue speranze.

Non è questa una privazione della libertà? Non si prova a leggere una storiella come questa una sensazione di ingiustizia fortissima? Certo, questa storiella è inventata, ma ha basi reali, è la realtà quotidiana in molti Paesi dove la libertà economica è repressa e dove chi vuole realizzare i propri sogni è spesso obbligato a corrompere e scendere a compromessi con burocrati e agenti del fisco.

Reprimere la libertà economica significa distruggere le nostre possibilità di realizzare ciò che sogniamo. Certo, non tutti vogliamo aprire un negozietto per vendere miniature di legno; ma tutti sogniamo di migliorare la nostra vita ed è questo che ci tolgono i governi oppressivi: la possibilità di costruirci un futuro migliore.

[1] Per gli amanti della statistica, l’indice di correlazione è 0,64 per gli indici del 2015

[2] Dati del 2015

[3] Per la precisione, 8 su 119

[4] Tutti i dati sono disponibili al sito https://www.cato.org/human-freedom-index

Sciopero 3 agosto 1981. I licenziamenti di massa di Reagan

«Non c’è diritto di sciopero contro la sicurezza pubblica per nessuno, in nessun luogo, in nessun momento»

Queste furono le parole dichiarate da Ronald Reagan (frase dell’ex presidente Calvin Coolidge, presidente degli Stati Uniti dal 1923 al 1929) il 3 agosto 1981, in risposta allo sciopero di massa di 13000 controllori di volo e membri della PATCO, sindacato ufficiale dei controllori di volo.

Motivo Sciopero? Retribuzioni basse, perciò si puntava ad un aumento con riadeguamento al ribasso delle ore lavorative settimanali. Inoltre, si richiedeva la possibilità di pensionamento dopo soli 20 anni di servizio.

Questi controllori di volo erano dipendenti federali, pertanto lo stesso presidente americano si mobilitò per ordinare agli scioperanti di rientrare al lavoro entro 48 ore, altrimenti ne avrebbe disposto il licenziamento. Reagan riteneva di essere dalla parte della ragione, appellandosi a due norme ben precise, che si riferivano non solo al fatto che occorressero almeno 60 giorni di preavviso, ma anche al fatto che lo sciopero era da vietare, qualora comportava gravi rischi per la salute o la sicurezza dei passeggeri o dei cittadini.

Ma se Reagan era convinto di essere dalla parte giusta, i sindacati erano convinti di aver messo “in trappola” il presidente americano. Minacciare il licenziamento di più di diecimila persone poteva essere un pretesto per considerare immorale il gesto del presidente. Pertanto lo stesso Robert Poli, presidente del sindacato PATCO, era abbastanza sicuro che Reagan, alla fine, avrebbe mollato la presa.

Reagan non si fermò e allo scadere dell’ultimatum, decise di proseguire con il licenziamento dei controllori coinvolti nello sciopero. Pertanto, con la collaborazione dei controllori che non scioperarono o che non erano coinvolti in alcun sindacato, si cercò di risolvere l’emergenza, ottenuta successivamente con risultati positivi.

In quel momento gli Stati Uniti, insieme all’Inghilterra ed Europa (Italia compresa), vivevano un momento di forte declino sociale ed economico. Dopo il boom economico del secondo dopoguerra, l’impianto di welfare state dominato dalla figura del sindacato iniziò a rallentare l’economia della superpotenza economica e del continente europeo. Negli Stati Uniti ebbero Ronald Reagan e in Inghilterra ebbero Margaret Thatcher, due figure straordinarie che furono in grado di creare una netta rottura con il passato, per porre le basi di una straordinaria ripresa economica.

Nel caso americano, Reagan dimostrò che era possibile andare controcorrente contro le logiche socialiste, come il sindacato. La PATCO abusò delle sue stesse funzioni, ritrovandosi a “chiudere baracca” qualche anno dopo. Il presidente americano, non solo ottenne l’appoggio popolare, ma con questo gesto riuscì a trasmettere un mix di ottimismo e di speranza ad un popolo che ormai si stava abituando alla mediocrità socialista.

L’Italia è oggi nelle stesse condizioni sociali ed economiche di Stati Uniti e Inghilterra degli anni settanta, con la differenza che questi due sono arrivati al 2018 grazie alle politiche, talvolta adottate con decisione e fermezza, da personaggi come Reagan e Thatcher. L’Italia no. Purtroppo siamo rimasti agli anni settanta, abbiamo perso quasi quattro decenni di rilancio economico. Per ripartire, bisogna considerare il fatto che gli avversari da affrontare sono figure come il sindacato, che anziché “proteggere” i lavoratori, riesce soltanto a far scappare l’imprenditore di turno. Proprio come nel caso dei controllori di volo, la PATCO fallì completamente la sua strategia. Invece, in Italia, gli imprenditori sono spesso costretti a ricorrere contratti interinali di scarsa qualità contrattuale o a far emigrare le proprie aziende all’estero. Reagan sapeva che darla vita al sindacato voleva dire, non solo compromettere la sua figura, ma compromettere sopratutto la figura della stessa nazione, che si sarebbe presto ritrovata a vivere secondo le logiche del sindacato.

Come disse perfettamente la stessa Maggie Thatcher:

“Ogni richiesta di sicurezza, che riguardi il posto di lavoro o il reddito, implicherebbe l’esclusione di tali vantaggi di quelli che non appartengono allo specifico gruppo privilegiato e provocherebbe richieste di privilegio compensativi da parte dei gruppi esclusi. Alla fine, tutti verrebbero a perdere”.

Miracolo economico anni ’60? Merito di Einaudi

L’anno scorso (si riferisce al 1959, aggiunta mia) il Daily Mail cominciò a lodare l’Italia parlando di “miracolo economico”. Quest’anno il “Financial Times” dà l’Oscar delle monete alla lira. Grazie a Fellini siamo diventati per il mondo intero il paese della Dolce Vita. Finirà che ci monteremo la testa. Anzi: si monteranno la testa i nostri politici, così pronti a convincersi che la ricchezza privata si produce perché essi possano metterci le mani sopra.

Il Miracolo Economico non è stato miracoloso, ma spontaneo. Non ha seguito lo Schema Vanoni, lo ha travolto.

Così Sergio Ricossa racconta e commenta il miracolo economico italiano degli anni cinquanta-sessanta. Nel titolo, se lo avete notato, ho scritto “grazie Einaudi”. Perché proprio Luigi Einaudi se lui è stato solo il governatore della Banca d’Italia e il Ministro delle Finanze fino al 1948, oltre ad essere stato presidente della repubblica fino al 1955? Perché durante il brevissimo periodo da ministro (con la collaborazione di Donato Menichella, successore di Einaudi al ruolo di governatore della Banca d’Italia), Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, adottando misure parsimoniose sia per quanto riguarda la spesa pubblica e sia per i cittadini, adottando misure anti-inflazionistiche.

I liberisti, guidati da Einaudi, riuscirono a bloccare l’offensiva socialcomunista che avevano un progetto finalizzato a produrre un livello di gettito elevato, utili per il risanamento dei conti pubblici e per porre le basi per una pianificazione economica, in stile Unione Sovietica. Questa pianificazione economica, esattamente, consisteva nell’affidare una parte importante della gestione della ricostruzione alla mano dello Stato per inserire il nostro paese all’interno di un tipo di sistema economico nel quale lo stato potesse esercitare una forma di intervento e controllo piuttosto incisiva.

La strada per la ripresa, secondo il PCI, era quella dell’imposta, attraverso una redistribuzione di ricchezza fra le classi più ricche e le classi più povere e più colpite dalla guerra. Per non parlare, inoltre, dell’idea di istituire una tassazione straordinaria a varie forme di liquidità e titoli di Stato che, solo dal pensiero, provocò talmente terrore alle persone che immediatamente andarono a ritirare i propri depositi bancari e postali.

Einaudi e i liberali erano fortemente contrari e volevano puntare a manovre politiche che riuscissero a tenere buoni i cittadini tenendo a bada l’inflazione e senza penalizzare chi era già stato penalizzato in precedenza (scusate il gioco di parole). Si puntava ad affrontare i problemi in cui si trovavano le finanze statali in gran parte con ordinari strumenti di politica economica e fiscale, e alle difficili condizioni economiche del sistema con strumenti tipici di una politica economica liberale: diminuzione della spesa pubblica, incentivazione del risparmio, libertà di iniziativa privata, aumento del reddito prodotto dalle imprese, innescando così il circolo virtuoso di maggior produzione, maggiori risorse risparmiate, maggiore accumulazione di capitali, maggiori investimenti, maggiore ricchezza, prestiti pubblici, assoluto divieto di emissione di nuova moneta e pressione fiscale non eccessiva.

Un carico fiscale più leggero avrebbe favorito maggiori risorse per la produzione di ricchezza che, una volta aumentata, avrebbe prodotto anche maggiori entrate fiscali ordinarie, contribuendo in tal modo ad una progressiva eliminazione del disavanzo di bilancio. L’obiettivo era anche la stabilizzazione della moneta che, una volta ottenuta, avrebbe permesso di rendere il settore pubblico sempre più minimo, permettendo ai privati di svolgere la parte preponderante nel processo ricostruttivo; quasi come se ci fosse una mano invisibile (come quella auspicata da Adam Smith) che avrebbe garantito l’equilibrio di mercato alle cui leggi anche lo Stato, seppure con compiti suoi propri di rimozione degli ostacoli alla libera iniziativa e di garanzia del suo libero sviluppo, avrebbe dovuto sottostare.

In quel brevissimo periodo, Einaudi non riuscì ad ottenere tutti gli suoi obiettivi (d’altronde non era nemmeno il presidente del consiglio), ma almeno evitò le forti pressioni dei socialcomunisti. Purtroppo anche la pressione e l’influenza liberale dello stesso Luigi Einaudi andò a calare con l’avvicinarsi della scadenza del suo mandato da presidente della repubblica.

In contemporanea, i governanti durante il periodo del miracolo economico italiano si presero i meriti; mi sto riferendo alla Democrazia Cristiana post-De Gasperi primeggiata da persone come Gronchi e Fanfani che sostenevano – rispettivamente – che “l’industria pubblica può sopravvivere senza profitti” e che “se qualcuno ha un problema, lo Stato glielo deve risolvere”. In particolare, vennero dati molti meriti allo Schema Vanoni che puntava alla piena occupazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro. Peccato però che il limite dello stesso schema fosse quello di preoccuparsi che la manodopera fosse abbondante dimenticando – però – che è il capitale favorisce l’occupazione. Pertanto si è preso dei meriti quasi per caso.

In realtà, il vero merito fu di Luigi Einaudi, grazie alla sua azione di stabilizzazione monetaria che attuò dall’estate 1947, salvando l’Italia e gli italiani da un’inflazione che avrebbe provocato dei seri problemi all’economia. Ottenendo questo risultato non provocò direttamente il miracolo economico, ma fu il punto di partenza per qualcosa di spontaneo e straordinario come quello accaduto alla fine degli anni cinquanta e inizio sessanta.

Peccato però che ingredienti come intervento statale in economia per controllare, con il sostegno sindacale e dei consigli di gestione, l’iniziativa privata (pianificazione); nazionalizzazioni; riforma agraria – tutte misure realizzate dal 1955 fino agli anni settanta – non solo resero la Lira sempre più debole, non solo la spesa pubblica sempre più alta, non solo meno ricchezza privata, ma anche un’Italia sempre più povera e mediocre. Ma come insegna, lo stesso Einaudi, se punti sulla spesa pubblica e alla stabilità della moneta, metti in condizione la tua nazione di poter puntare al meglio e alla crescita.

Come il Presidente americano NON viene eletto dal popolo

Ancora una volta un presidente non eletto dal popolo”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare queste parole? E perché ultimamente anche gli Stati Uniti d’America, la nazione del presidenzialismo per eccellenza, hanno cominciato a mettere in dubbio l’ordine costituzionale ereditato dalla lungimiranza dei padri fondatori?

In Italia, negli ultimi sette anni, quello del “presidente non eletto dal popolo” è stato uno dei principali cavalli di battaglia del Movimento 5 Stelle nella loro critica al sistema politico del Belpaese. Negli USA invece, dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali del 2016, i Democratici hanno sostenuto con forza la necessità di abolire una volta per tutte i collegi elettorali e il sistema dei grandi elettori.

In Italia, Silvio Berlusconi fu il primo nel 2006 a tentare di riformare la Costituzione in senso federalista per superare il bicameralismo perfetto e soprattutto per aumentare i poteri del premier (il famoso premierato), ma fallì: il popolo respinse il progetto con il referendum costituzionale del 2006. Caduto il governo Berlusconi nel 2011, il governo Monti fu da subito additato come l’incarnazione del male assoluto, il tecnico non eletto dal popolo, servo dell’Europa e dei tanto famosi, quanto misteriosi, “poteri forti”.

Vent’anni di berlusconismo avevano riproposto al paese quell’immagine nostalgica dell’uomo forte, capace di governare da solo e senza dover scendere a compromessi, che mancava da decenni. L’Italia infatti, salvo il fascismo e la DC delle elezioni del 1948, non aveva mai visto un solo partito conquistare la maggioranza assoluta di voti e seggi. Siamo sempre stati il paese delle coalizioni, del Pentapartito. Caduto Berlusconi, la possibilità di un governo di larghe intese sembrava dunque un sacrilegio. Ed è proprio in questi anni che la cantilena del “premier non eletto dal popolo” cominciò a diffondersi.

Le ultime elezioni poi hanno visto la formazione dell’ennesima legislatura senza maggioranza assoluta, e con un gesto di coerenza stoica, l’accordo di governo tra due forze politiche che si erano presentate in liste diverse ci ha consegnato l’ennesimo premier non eletto dal popolo. Ma il popolo non elegge il premier, come molti, troppi si ostinano a credere. Per la nostra Costituzione, l’elettore è chiamato a rinnovare il Parlamento ogni 5 anni. Poi, il presidente della Repubblica indica un premier incaricato che deve formare un governo e presentarsi davanti alle Camere per ottenerne la fiducia.

Negli Stati Uniti invece, dopo le elezioni del 2016 è iniziato un acceso dibattito circa il superamento del sistema elettorale corrente basato sul collegio elettorale, l’Electoral College. Infatti, l’elettore americano, quando si reca ogni quattro anni alle urne, non elegge direttamente il presidente (come molti erroneamente credono), ma vota per eleggere i grandi elettori, 538 rappresentanti divisi tra i vari Stati, che “promettono” di votare un determinato candidato alla presidenza (ma non sono legalmente obbligati a votare per un determinato candidato).

Questo peculiare sistema elettorale winner-takes-all (per cui il partito vincitore in un determinato Stato ottiene tutti i grandi elettori dello Stato) non è puramente proporzionale, e presenta degli innegabili vantaggi, poiché da un lato concede anche agli Stati più piccoli di avere un certo peso politico, e dall’altro permette un maggiore controllo sull’elezione del presidente da parte dei grandi elettori.

Infatti, nelle intenzioni dei padri fondatori, il presidente non doveva essere eletto direttamente dalla popolazione. Essa invece avrebbe dovuto eleggere come rappresentanti uomini validi, “grandi” elettori appunto, i quali avrebbero poi scelto il presidente della nazione, e se necessario, avrebbero potuto sovvertire il risultato dell’elezione popolare nel caso in cui il candidato vincente si fosse dimostrato incapace di svolgere il ruolo di presidente.

Le elezioni presidenziali del 2016 hanno visto il trionfo di Donald Trump, che è riuscito a conquistare 304 grandi elettori, strappando a Hillary Clinton e al Partito Democratico alcuni Stati chiave (Michigan, Pennsylvania, e Wisconsin) storicamente blue.

 

                                                        

 

A livello nazionale i risultati furono i seguenti:

  Donald Trump Hillary Clinton
Partito repubblicano democratico
Voti 62.984.825

46,1 %

65.853.516

48,2 %

Grandi Elettori 304

56,5%

227

42,2%

 

In un sistema proporzionale puro Hillary, che ottenne circa 2.800.000 voti (il 2%) in più di Trump, avrebbe vinto. Tuttavia, occorre considerare due dati:

  • La distribuzione dei voti per contea
  • La distribuzione dei voti per Hillary Clinton

Hillary (come più o meno ogni candidato democratico) vinse soprattutto nelle grandi città e nelle storiche roccaforti democratiche (California, East Coast, Oregon, New Mexico). La stragrande maggioranza delle contee americane votò repubblicano.

Il motivo per cui Hillary Clinton conquistò il voto popolare, ma perse le elezioni, è da ricercare proprio nel sistema elettorale americano. Dove vinse Hillary (soprattutto nelle città) vinse di molto, distaccando notevolmente il proprio avversario. Tuttavia, per questo sistema elettorale, è meglio vincere due Stati con il 51%, piuttosto che un solo Stato con il 90%.

E qui si scopre l’errore principale dei Democratici, che costò loro la vittoria: la decisione di non fare campagna elettorale nelle roccaforti storiche del midwest (Michigan, Winsconsin) o in Pennsylvania (che da quasi vent’anni votava blue). La vittoria di Trump in questi Stati, con margini di vantaggio relativamente modesti rispetto allo scarto tra Democratici e Repubblicani in California, gli fruttò 46 grandi elettori, che gli permisero di sconfiggere agevolmente l’avversaria.

 

                                      

 

L’anno dopo la sua sconfitta, Hillary Clinton cominciò a sostenere la necessità di abolire il sistema dei grandi elettori e dei collegi elettorali. Tuttavia, questo sistema (certamente imperfetto, perché la perfezione non è di questo mondo) è senza dubbio la soluzione migliore per gli US, perché tiene conto della partecipazione dei singoli Stati all’unione perfetta, cosa che verrebbe meno con un sistema proporzionale puro, e non permette alle grandi metropoli delle due coste e dei laghi (che comunque mantengono un peso politico enorme) di monopolizzare completamente il panorama politico statunitense.

Il presidente dunque non è direttamente eletto dal popolo perché così vollero, con un atto di grande lungimiranza, i padri fondatori, e il sistema elettorale non è un proporzionale puro per garantire una minima difesa degli interessi degli Stati meno popolosi, e tuttavia, come l’elezione di Obama nel 2008 e nel 2012 ci hanno mostrato, questo non è di alcun impedimento per l’elezione di un presidente democratico. Forse il Partito Democratico dovrebbe concentrarsi sui veri problemi che lo affliggono: la scelta di candidati pessimi e la pericolosa svolta a sinistra che il partito sta subendo.

L’individualismo di genere

Il femminismo è un’arma per mantenere vivo il fantasma comunista: dal genericidio del voler rendere uomini e donne -due universi opposti e complementari- uguali è stata creata una lobby che crea una solidarietà volta al guadagno e al mantenimento dello status quo del politicamente corretto tra chi di questa lobby fa parte e ci guadagna e tra chi, tramite il lavaggio del cervello proposto dalla stessa, crede di fare una cosa giusta sentendovisi appartenente, così tanto da arrivare a straziare il proprio corpo de-generizzandolo pur di perpetrare il suo linguaggio.

Che il femminismo della quarta ondata sia cominciato e sia esploso con il #metoo a fini strumentali, come arma per nuocere ad un presidente che sta ottenendo consensi sempre maggiori, pare ovvio; sono i risvolti dello stesso a fare paura a chi del proprio pene o della propria vagina ne va fiero. Che sesso, soldi e politica vadano a braccetto è un’altra ovvietà, ma dirlo è una sconcezza. Da questo paradigma così ovvio ma così altamente politicamente scorretto ho fatto partire un’intera ideologia volta a difendere il maschio in un mondo dove le femmine sono scorrette a definirsi tali se non aggiungono quell’-ista finale che accompagna ogni aggettivo volto a definire una presa di campo.

Essere individualista comporta un -ista minore nella sua portata rispetto all’essere un’altra forma di -ista o un collettivista: l’individualista deve usare questa desinenza per aggettivarsi, ma è per definizione sé stesso.

Noi donne possiamo essere femministe, oppure si può pensare con la propria testa e con la propria vagina ed essere femmine individualiste accanto a maschi altrettanto fieri di esprimere la propria natura senza essere etichettati per forza come maschilisti.

I maschilisti prima, e le femministe poi, commettono terrorismo di genere escludendo il genere avversario da alcune forme della società civile. Se le donne erano prima escluse dalla vita politica e hanno ottenuto i diritti politici millenni dopo gli uomini, adesso si assiste alla versione opposta, o almeno al suo albore, con strumenti assurdi come le quote rosa, paragonabili ai gradi di invalidità civile.

Promuovendole come strumenti democratici e conquiste femminili, le femministe si sono auto-discriminate; praticamente ammettono di essere inferiori agli uomini e di non riuscire ad ottenere un posto di lavoro nel settore pubblico o una poltrona in parlamento per merito personale. Perfino l’Organizzazione delle Nazioni Unite in ogni offerta di lavoro ha bisogno di chiarire che in caso di parità di requisiti la donna è preferita; sia mai infatti che l’ONU risulti politicamente scorretta!

Pur di rientrare nell’ambito della legalità si scaglia infatti contro qualsiasi reale ingiustizia, o almeno non è capace di mettersi nei panni di chi realmente ha bisogno di difendersi: vengono create convenzioni per le donne ma intanto in alcuni paesi mussulmani queste vengono ancora lapidate per adulterio; Hamas spende i pochi soldi dei palestinesi per creare armi fai-da-te e li manda a morte sicura, ma gli assassini sono gli israeliani che non possono dire di difendersi davanti ai media in quanto si parlava di manifestazioni pacifiche, nonostante ci fossero telecamere a dimostrare il contrario.

La versione dell’ONU è una e l’aggettivo pacifista nasconde forse quel comunista che racchiude il femminismo stesso. Del resto se l’ONU fosse così pacifica e democratica un contraltare per gli uomini vittime di violenza domestica sarebbe già stato creato, o almeno nella CEDAW (Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna) sarebbe stata aggiunta una clausola per scrutare la realtà dei fatti. Per non parlare di oggi, un tempo in cui gli uomini meritano una convenzione per il loro genere che li protegga da accuse di violenza non dimostrabili ed assurde per il fatto che spesso tali accuse piovono su relazioni comprovate nel tempo.

Queste accuse, raccolte sotto l’hashtag #metoo, fanno passare la donna come perenne vittima abusata in un momento di fragilità psichica. Queste femministe saranno contente di aver trovato un modo di guadagnare ulteriore una volta finito di beneficiare dagli uomini che prima di denunciare amavano, ma devono solamente vergognarsi di non ammettere fieramente di essersi prostituite allora e di persistere in tale nobile lavoro castrando il genere maschile. (La prostituta è la più antica lavoratrice del mondo, è una professionista del sesso e viene pagata per dare piacere e non problemi. È notorio che andare a puttane salva tanti matrimoni e dovremmo incentivare questo costume anche legalizzando il settore, piuttosto che giustificare il divorzio.)

In sostanza il mondo non è mai stato così polarizzato su due estremi, e non è mai stato così evidente il contrasto tra ipocrisia e sincerità.

La Natura è varia nelle sue manifestazioni, ma per quanto riguarda il genere dovremmo essere grati di come siamo nati, e ricordarci che siamo anatomicamente fatti per ricevere un solo altro. Siamo individualisti amandoci, perché solo amando sé stessi possiamo amare ed accogliere dentro di noi l’altro. Questa forma di collettività non può essere aggettivata con la desinenza  -ista perché può essere chiamata solamente Amore.

L’individualismo di genere è amore: vi sono coinvolte più persone, ma ne deriva un nucleo unico, chiamato famiglia. E del resto parliamo di due pianeti diversi a comporla, Marte e Venere, azione e compassione (da cum e patior, capacità di sentire insieme); questi restano tali anche nelle coppie omosessuali per i ruoli che vengono presi nella dinamica della coppia. L’amore è tale, trascende, non ha connotazioni etero/omosessuali, rimanendo innegabile che la vita biologicamente nasca da uno spermatozoo e un ovulo.

Come rendere sconveniente il lavoro nero

Vi è lavoro nero quando un datore di lavoro non versa i contributi pensionistici e assicurativi per suo dipendente e perciò quando non lo assume regolarmente. In questo articolo non si proporrà una soluzione per quel tipo di lavoro nero che non può non essere tale, cioè quando l’attività economica sottostante è di tipo criminale e perciò impossibile l’assunzione di personale in maniera regolare, ma solo di quando l’attività economica è lecita.

Per spiegarvi la mia idea, vi mostro le conseguenze economiche di quando un imprenditore sceglie di assumere regolarmente o irregolarmente un lavoratore dipendente:

  • Se assume un lavoratore dipendente in modo regolare (ipotizziamo il contratto standard e non stage, tirocinio, apprendistato ecc.), dovrà pagare oltre al salario lordo i contributi pensionistici e assicurativi, il TFR e la tredicesima e assumersi altri impegni di tipo contrattuale (tutele crescenti)
  • Se assume un lavoratore in modo irregolare, a lui dovrà corrispondere solo il salario lordo che in questo caso sarà pari a quello netto; dato che ovviamente il lavoratore non potrà pagarci le tasse e la parte di contributi a suo carico. Oltre a questo, l’imprenditore potrà prendere in considerazione il costo del rischio di essere trovato in flagrante e pagare multe o subire altri tipi di sanzioni non solo economiche.

Vi starete forse chiedendo: come si fa a rendere conveniente assumere un lavoratore se assumerlo in modo irregolare ha molti meno costi? Ottima domanda. L’imprenditore quando assume un lavoratore può detrarre dalla base imponibile (ciò che si moltiplica per le aliquote fiscali per calcolare le imposte da versare al fisco) i suoi costi. Perciò, la differenza fra le due opzioni in questo caso non è uguale ai costi precedentemente elencati, ma si deve prendere in considerazione anche l’aliquota a cui è assoggettata l’impresa. L’IRES in Italia è del 24%, perciò ora vediamo la tabella delle opzioni attuabili dall’imprenditore e dei suoi possibili risultati (Calcolo approssimativo):

Scelta

Salario lordo del lavoratore

Cuneo fiscale lato imprenditore

Tredicesima, TFR, ferie pagate

Risparmio fiscale sulla base imponibile (Totale*24%)

Totale costo

Assunzione regolare

1000

320

270

382

1208

Assunzione irregolare

1000

1000

La differenza è di 208€, pari al 20,8% del salario lordo. I calcoli sono approssimativi perché i costi sono diversi a seconda di tante variabili (costo indiretto in termini di burocrazia), ma comunque verosimili. Come si tutelano gli imprenditori che rispettano le regole? Le soluzioni sinteticamente sono 3: una vigorosa, una drastica e una soft (adatta per la politica) che non risolverebbe appieno il problema ma comunque aiuterebbe.

La prima soluzione vigorosa, semplice quanto impraticabile a livello politico, è il passaggio da un sistema in cui i costi dei contributi sono ripartiti fra imprenditore e lavoratore (in sostanza i soldi escono solo dalla tasca dell’imprenditore) a uno in cui sono tutti a carico del lavoratore, a cui ovviamente si accompagnerebbe un aumento dei salari di pari misura per quelli già in essere. Per gli imprenditori il costo rimarrebbe identico e i lavoratori si renderebbero conto del costo di tutti questi contributi e diventerebbe un’esigenza elettorale anche dei lavoratori la diminuzione del cuneo fiscale.

Oltre a questo, per fare diventare questa una proposta drastica bisognerebbe rendere TFR, 13sima e ferie non obbligatori per gli imprenditori ( assolutamente inverosimile ottenerlo a breve-medio termine). Con ciò, ci dovrebbe essere una cancellazione di tutte quelle forme che prevedono sconti fiscali o particolari condizioni di vantaggio per alcuni imprenditori che causano semplicemente distorsioni della concorrenza fra imprese e fra lavoratori e non creano sana occupazione. I contratti di lavoro così servirebbero solo per definire salario, benefits e responsabilità reciproche (pura illusione), e la burocrazia relativa ai contratti sarebbe praticamente azzerata.

Con queste due soluzioni il costo del lavoro regolare diventa minore di quello irregolare, perciò sarebbe economicamente stupido non assumere un lavoratore quando ce ne è bisogno.

La soluzione soft e non efficace economicamente quanto le altre due (fra poco vediamo perché) è la riduzione del cuneo fiscale. Dato che è soft, sarà ed è quella che viene perseguita politicamente per altre meritorie ragioni (dare più competitività alle imprese italiane). Il problema è che solo per ottenere la parità di costi fra lavoro nero e regolare (presupponendo la parità di salari lordi) bisogna abbassare “eccessivamente” il cuneo fiscale.

Hai detto fino ad ora  di azzerare il cuneo fiscale e adesso ti lamenti che si abbassi eccessivamente? Non esattamente. Il cuneo fiscale ha in buona parte la funzione di pagare assicurazioni e pensioni, per cui se le pensioni e le assicurazioni rimangono pubbliche come ora bisogna che qualcuno le paghi, ed è meglio che ognuno si paghi la sua quando ne ha la possibilità dato che rompere questo legame fra versamenti e pensioni e contributi versati potrebbe far cadere qualcuno nella tentazione di pensioni uguali per tutti o retributive. La parità di costo economico fra lavoratore regolare e irregolare con un IRES al 24% si otterrebbe con un cuneo fiscale più costi accessori (ferie, TFR e tredicesima) pari al 31,6% del salario nominale.

131,6 x (100-24) = 100

Dato che di quel 31,6% , 27 sono già occupati dai costi extra, significherebbe avere un cuneo fiscale del 4,6%, insostenibile per le casse dello Stato. Perciò, o si attua solo in parte questa terza misura, o si fa un mix fra questa misura e quelle precedenti, o il problema rimane.

Alla classe politica l’ardua scelta.

 

Articolo 41. L’iniziativa economica privata è davvero libera?

Articolo 41. L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.

 

Questo è l’articolo 41 della Costituzione Italiana. Notate qualcosa di strano o contraddittorio?

L’articolo, almeno per noi liberali, sembra essere promettente, almeno se ci limitiamo al primo comma.

Ma proprio quando iniziamo ad emozionarci, ecco che arriva la doccia gelata. Nel secondo comma, infatti, si parla di “(l’iniziativa economica privata) non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”. Che cosa vorrà dire? La Costituzione può contenere parti astratte considerati degli obiettivi programmatici e sia parti con contenuti rafforzati e ben precisi.

Giusto per fare qualche esempio.

Nel primo caso, rientra il secondo comma dell’articolo 3

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Nel secondo caso, rientra l’articolo 17

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.

Ebbene, l’articolo 41 è una via di mezzo che rende lo stesso articolo contraddittorio o confusionario. L’iniziativa privata è libera o è limitata? L’utilità sociale è un concetto collettivista, poiché punta al raggiungimento della maggior quantità di benessere per il maggior numero di individui. In realtà, a tal proposito, vorrei riportare due citazioni degni di nota.

L’unico motivo che determina il possessore di un capitale a investirlo nell’agricoltura o nell’industria […] è il proprio profitto.
Adam Smith

Non faccio film per guadagnare soldi. Guadagno soldi per fare film.
Walt Disney

Questo perché la società non esiste, ma esistono le persone, con i loro pregi e difetti, con i loro successi e fallimenti, che plasmano l’ambiente e le istituzioni e che determinano la ricchezza delle nazioni.

L’articolo 41 non è un articolo da sottovalutare, in quanto dietro lo Stato, specie se interventista e socialista, si nasconde sempre la forza politica che governa. Come dimostra il terzo comma, il fatto che spetti al legislatore di “determina(re) i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, vuol dire che in una Repubblica come quella italiana dominata dai partiti e dai sindacati di categoria, l’iniziativa privata libera, la vera iniziativa economica privata, è pura utopia.

A tal proposito, ritengo opportuno inserire una citazione di Sergio Ricossa

Il collettivista non è contro i consumi in generale: è solo contro i consumi privati, ma è per i consumi pubblici, quelli decisi da lui, dai politici collettivisti come lui

Questo vuol dire che, grazie a questo articolo, qualsiasi governo è legittimato costituzionalmente a “fotterci” l’iniziativa privata. Anzi, visto e considerato che la Costituzione Italiana, almeno per quanto riguarda l’organizzazione del sistema politico, va a braccetto con la Partitocrazia o con La Democrazia dei Partiti, vuol dire che l’iniziativa economica privata è sempre stato nelle mani del potere politico e della forza politica dominante. Considerando che in Italia, dagli anni cinquanta ad oggi (e con oggi intendo proprio oggi oggi), hanno dominato solo forze politiche socialiste, non stupisce il fatto che l’economia italiana, con il passare del tempo, è diventata sempre più lenta, sempre più ostacolata, sempre più maltrattata.

Eliminare quei due commi dall’articolo 41, non risolverebbe tutti i nostri problemi, anche perché sono davvero tante le riforme liberali di chi ha necessariamente bisogno l’Italia che probabilmente una legislatura non basterebbe. Almeno, potremo dire, che siamo riusciti a togliere una delle tante e troppe ipocrisie appartenenti al collettivismo e statalismo italiano.

Sanità Pubblica. Troppo costosa, poco efficiente

Per ogni cittadino la sanità pubblica costa circa 2300€, per una famiglia composta da tre persone costa circa 6900€ e per una famiglia composta da cinque persone costa circa 11500€.
Per ogni cittadino la sanità privata costa circa 666€, per una famiglia composta da tre persone costa circa 2000€ e per una famiglia composta da cinque persone costa circa 3300€.

Questi sono i costi enormi della sanità pubblica e privata per ciascun cittadino. Cifre molto alti se consideriamo che viviamo con un sistema sanitario pubblico e universale. Non solo, ma la spesa sanitaria è la seconda voce della spesa dello stato, dietro solo all’assistenzialismo e alla pensione.

Possiamo considerarci soddisfatti da questa sanità?
Facciamo un piccolo elenco
– Anarchia sulla gestione assunzioni e corruzione
– Attesa infinita liste d’attesa per una visita
– Impossibilità nel garantire il servizio sanitario nazionale

Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è organizzato e governato da un governo centrale, dai 20 governi regionali e dallele Aziende sanitarie locali (Asl). Uno dei principi fondanti del SSN è garantire gratuitamente un servizio di assistenza, soccorso e cure per tutti i cittadini del territorio nazionale. Tutto bello, tutto affascinante, peccato però che per far funzionare la sanità pubblica servono tre requisiti fondamentali:
– obbligare i medici al servizio pubblico a discapito di quello privato (come avviene nelle regioni particolarmente socialiste, come l’Emilia Romagna);
– più soldi pubblici;
– che non tutti vadano a curarsi.

Fateci caso, ma la sanità pubblica soffre particolarmente proprio quando si tratta di cure di basso rilievo (tempi lunghi d’attesa) e totale disorganizzazione (vedi pronto soccorso). Nei casi più gravi, la qualità migliora e il servizio è più veloce, ma questo dipende da regione a regione.
Insomma, per far funzionare la sanità pubblica bisogna evitare di fare i controlli di routine e bisogna sperare di non ritrovarci con una grave malattia o un brutto infortunio.

Cosa fare? Io non sono per il classico sistema americano, ma ritengo che l’Italia abbia bisogno di un sistema sanitario nuovo e che sostituisca quello vecchio, cercando di garantire il diritto di salute per tutti.

Prima Soluzione: Riformare il ruolo dello Stato

Lo Stato non è più in grado di gestire il servizio sanitario e la politiche del “servizio convenzionato ASL” presente nei studi clinici privati non bastano più. Riformare il ruolo dello Stato vuol dire istituire l’Autorità Indipendente del Privato Sociale. Il privato sociale è un’azienda autonoma, garantita pubblicamente e controllata nelle sue risorse e nei suoi esiti sociali secondo criteri stabiliti come bene comune nel momento pubblico universalistico. Tutte le aziende sanitarie private potranno ricostituirsi come società di privato sociale e, godendo di una tassazione particolarmente bassa, dovranno rispettare alcuni parametri di qualità. Ciascun cittadino potrà decidere, ogni anno, quale debba essere la sua organizzazione di privato sociale adatta per le sue esigenze.

Seconda Soluzione: Buono Salute per i più bisognosi

Se è fondamentale l’aspetto del ruolo dello Stato, non meno importante è la questione che riguarda il cittadino, specie se in difficoltà economiche. Questo perché bisogna garantire il servizio anche per coloro che non si possono permettere di curarsi. Pertanto, serve il Buono Salute, un ticket da sfruttare solo per visite, assicurazioni ed eventuali abbonamenti sanitari. Con il Buono Salute, lo Stato risparmierà moltissimi miliardi di euro. Perché? Secondo l’ISTAT, nel 2016 erano circa 4 milioni e mezzo gli italiani i poverissimi. Ebbene, proviamo ad immaginare un Buono Salute del valore di 2500€ annui: costerebbe allo Stato (e ai cittadini) solo 11 miliardi di euro, contro i 117 miliardi di euro spesi dalla sanità pubblica.

Terza Soluzione: Valorizzare il Welfare Aziendale

Fondamentale sarà anche lo smantellamento dell’attuale welfare state che contribuisce ad appesantire i cittadini che pagano le tasse. Una terza soluzione necessaria è quella di far scegliere agli imprenditori, insieme ai suoi lavoratori, quale welfare privato aziendale scegliere. Questo tipo di soluzione permetterebbe di ottimizzare i costi per l’azienda e per il lavoratore grazie ad un servizio sanitario che riguardano aspetti frequenti come le cure odontoiatriche; supporto in caso di patologie croniche; check up e prevenzione generale; servizi per la maternità; assistenza infermieristica domiciliare.

Un approccio empirico e liberale alla corruzione (2 di 2)

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Abbiamo già mostrato come maggiori controlli e pene più severe non solo non siano un efficace strumento di lotta alla corruzione, ma anzi vadano a detrimento della stessa. A supporto di questa tesi è stata mostrata la forte correlazione tra la classifica Doing Business (che misura la facilità di fare impresa in un Paese) e il Corruption Perception Index (che rileva il livello di corruzione percepita).

Prima di tutto, un paio di precisazioni. La prima: la corruzione ha molte facce. Quando si parla di essa, non si deve immaginare solo il funzionario o il politico che pilotano gli appalti a favore di amici, ma anche i “contributi” richiesti per accelerare una pratica o al contrario per eliminare un ostacolo o la concessione di sovvenzioni improprie; e si potrebbero fare molti altri esempi. Chiaramente, diversi tipi di corruzione richiedono diversi strumenti di prevenzione e repressione. La seconda precisazione, forse più importante, è che correlazione non significa causalità.

Le più autorevoli ricerche in materia di corruzione ne legano la diffusione al grado di povertà in un Paese (misurato tramite il PIL pro capite), alla scarsa istruzione della popolazione, all’inefficienza delle istituzioni politiche presenti e a fattori storico-culturali; il ruolo della sovra-regolamentazione è al più marginale, inserito nel più ampio contesto politico-istituzionale. Il punto non è sostenere che l’unica causa della corruzione sia la proliferazione di leggi e regole, ma confutare il ragionamento opposto, fallace e molto pericoloso, più controlli = meno corruzione. Sia i dati empirici sia la logica indicano che non è così ed anzi una eccessiva regolamentazione, invece di contrastare il fenomeno, lo alimenta.

Partiamo dai dati (del 2015). Della forte correlazione tra gli indici Doing Business (sviluppato dalla World Bank) e Corruption Perception (elaborato da Transparency International) si è già detto, ma allargando l’analisi ad altri indicatori si può evidenziare meglio il rapporto tra corruzione e sovra-regolamentazione:

– L’indice Business Freedom elaborato dalla Heritage Foundation misura i tempi e i costi per aprire/chiudere un’attività o richiedere una licenza; la sua correlazione con il Corruption Perception Index è molto alta, pari a 0,77;

– Il Worldwide Governance Indicator, sviluppato dalla World Bank, analizza la qualità della governance negli Stati, facendo riferimento a 6 dimensioni (a loro volta costruite aggregando dati di vari indicatori e ricerche): Voice and AccountabilityPolitical Stability and Absence of ViolenceGovernment EffectivenessRegulatory QualityRule of LawControl of Corruption. Queste dimensioni sono tutte fortemente correlate tra loro e tra le due che più ci interessano, Control of Corruption e Regulatory Quality, l’indice di correlazione è molto elevato, essendo pari a 0,83;

– La dimensione Regulatory Quality aggrega vari indicatori, tra cui quello sul peso della regolamentazione governativa (Burden of Government Regulation) elaborato dal World Economic Forum; anche questo indice più specifico presenta una correlazione statistica positiva, seppure minore (0,34), con la dimensione Control of Corruption.

I dati concreti, insomma, non confermano affatto la tesi che servano maggiori regole, anzi sembrano suggerire la tesi opposta. Come spiegarlo? Vi sono fondamentalmente due ordini di cause: i maggiori incentivi alla corruzione e la maggiore difficoltà nell’individuare le responsabilità individuali.

La lunghezza e la complessità delle procedure burocratiche rappresentano infatti un costo ed un rischio per le imprese, che spesso sono costrette a operare “al buio” senza sapere se e quando il proprio progetto imprenditoriale avrà successo o meno; in questa situazione di incertezza sui tempi e sugli esiti, aumenta inevitabilmente la propensione a cercare di ottenere certezza sul ritorno dal proprio investimento tramite scorciatoie illegali. Questo per i corruttori. Per quanto riguarda i potenziali corrotti, la ragione è ancora più semplice: aumentando il numero di burocrati con poteri di controllo, aumenta la probabilità che qualcuno tra questi sfrutti il proprio ruolo per negoziare vantaggi privati con l’impresa o il cittadino coinvolti; ancor più se si è inseriti in un sistema che ricompensa poco il merito come l’amministrazione pubblica italiana.

Un numero eccessivo di regole e controlli rende inoltre più difficile individuare chi abbia preso una decisione. Il burocrate disonesto riesce a nascondersi alla vista molto più facilmente in mezzo a una folla di altri decisori e se poi riesce a far sanzionare una pratica illegittima da altri funzionari sarà al riparo da azioni giudiziarie.

L’Italia soffre ancora di un livello di corruzione inaccettabile per un Paese sviluppato e le solite ricette di repressione e regolamentazione non possono ottenere che risultati parziali, quando non sono controproducenti. Come si può affrontare invece il problema in un’ottica liberale? Riconoscendo che la corruzione non è una questione morale, ma bensì di costi/benefici; che più regole e restrizioni si mettono, più i cittadini e le imprese cercheranno di evaderle; e che la responsabilità individuale è fondamentale e deve essere chiaramente identificabile in ogni decisione pubblica.
Solo cambiando il nostro modo di vedere il fenomeno della corruzione, riusciremo a comprenderlo e combatterlo efficacemente.

1945-1955: Quando Einaudi impediva le riforme socialiste

11 maggio 1955. Apparentemente una data normalissima, priva di significato. In realtà, questo fu l’ultimo giorno da Presidente della Repubblica di Luigi Einaudi (1874-1961). In questa data, morì quel poco di liberalismo che influenzava, o almeno tentava, le politiche, che tentava di influenzare i governi. Quel Liberalismo che aveva fondato l’Italia, morì. Morì naturalmente, che sia chiaro. Il problema era – come accadde anche all’indomani della morte di Cavour – l’assenza di eredi che potessero mantenere alta la bandiera del liberalismo anche dopo l’uscita di un grandissimo come Einaudi. Per usucapione, l’Italia venne prese dai cattolici e dai comunisti.

La presenza di Einaudi fu fondamentale nel decennio 1945-1955, sia prima come Governatore della Banca d’Italia, sia come ministro del Bilancio e sia dopo come presidente della Repubblica. Non si trovava nel’ambiente adatto. Era il periodo della convivenza tra liberali, cattolici e comunisti; in particolare, i comunisti chiedevano procedimenti di epurazione per chiunque, Agnelli, Valletta e Pirelli in primis; gli stessi comunisti scioperano e chiedevano a gran voce, occupando le prefetture, le dimissioni e l’allontanamento dello stesso Einaudi. Se vogliamo essere chiari e onesti, potremmo dire che Einaudi è stato protagonista attivo fino al 1948 e fino al 1955 è stato protagonista passivo. Se prima di diventare presidente della Repubblica riusciva ad adottare misure liberali, durante la presidenza, almeno in parte, riuscì ad evitare qualche misura statalista di troppo.

La situazione migliorò nel 1947. Alcide De Gasperi, (1881-1954) nel suo quarto governo, decise di scaricare i comunisti e di coinvolgere i liberali. Luigi Einaudi diventò Ministro del Bilancio e Giuseppe Grassi Ministro Grazia e Giustizia. In meno di dodici mesi, Luigi Einaudi riuscì a salvare la Lira, grazie anche a misure anti-inflazionistiche e anche alla fiducia dei risparmiatori. E’ un momento straordinario per il liberalismo: lo stesso Einaudi è il simbolo della parsimonia ed è amato dai cittadini. Il lavoro compiuto da Einaudi era sostenuto da Donato Menichella, governatore di fatto della Banca d’Italia, e da Mario Scelba, ministro dell’Interno, che ebbe il merito di mantenere l’ordine pubblico.

Il 18 aprile 1948 ci fu la storica sconfitta elettorale dei socialisti e dei comunisti.  Luigi Einaudi diventò il presidente della Repubblica, il primo eletto dal parlamento repubblicano. Da questo momento in poi, per il liberismo di Einaudi iniziò il declino. Il keynesismo americano, come dimostrato dal Progetto di Salvataggio Marshall, era dominante negli ambienti del governo De Gasperi V. Proprio Roberto Tremelloni, esponente del Partito Socialdemocratico Italiano, venne nominato ministro delegato alla presidenza del Comitato Interministeriale per la Ricostruzione, nato per gestire e per ottimizzare il Piano Marshall.

Alcide De Gasperi non era un liberale, ma nemmeno il classico statalista puro. Da denunciare, almeno da parte di noi liberali, l’istituzione del Piano Cassa del Mezzogiorno (1950). Con la Cassa del Mezzogiorno, lo stato italiano inizia con lo spreco di miliardi e miliardi di lire, ingrassando i notabili presenti nei territori meridionali. In ogni caso, l’inizio spropositato e inefficiente dello Stato inizierà proprio dopo la fine del Governo De Gasperi del 1953, ma soprattutto dopo la fine della presidenza di Einaudi del 1955. Chiuso il capitolo Einaudiano, iniziò il capitolo di Giovanni Gronchi, nuovo presidente della Repubblica. Questo nuovo capitolo è l’inizio del dominio delle politiche stataliste e socialiste, che prevede uno Stato super-interventista, dando massimo sviluppo e sfogo al Piano IRI, fregandosene di eventuali debiti. Con lui inizia il motto “Privatizzare gli utili, Socializzare le perdite“.

D’altronde, riferendosi all’Industria Pubblica, il presidente della Repubblica Gronchi ebbe il coraggio di dire:

L’industria privata non sopravvive senza profitti, l’industria pubblica sì

Più chiaro di così…